Messico, traffici di droga e di persone: la frontiera dell’Inferno

Mentre Trump continua la costruzione del muro per fermare uomini, donne e bambini in fuga dal Centro e Sud America, il commercio di sostanze stupefacenti e armi con gli Stati Uniti prospera e punta all’Europa

di Fausta Speranza

L’ultima vittima conosciuta è una cronista di razza, Norma Sarabia, 46 anni, uccisa davanti a casa nella serata di martedì 11 giugno da due uomini in moto. «Indagava su episodi di malcostume nella polizia e aveva ricevuto minacce anonime», ha fatto sapere il giornale per cui lavorava, Tabasco hoy. In Messico non esiste solo il muro contro i migranti pianificato da Donald Trump, c’è anche la toccante esperienza di chi “fa muro” contro il narcotraffico, la corruzione, l’omertà, la non considerazione del valore della vita umana. Chi ne è protagonista rischia di persona, ma sono in tanti a non arrendersi.

È la storia coraggiosissima di una parrocchia di Acapulco e di un murale. Nessuna analogia con l’atmosfera da bella vita e jet set internazionale degli anni Sessanta. Oggi è un epicentro delle violenze collegate al traffico di droga e di armi che determinano nel Paese il record di 80 omicidi e sei persone scomparse al giorno. La chiesa della Sacra Famiglia ha risposto con un grande, coloratissimo murale, che alterna immagini e nomi delle vittime della criminalità nella zona, grazie ai fondi della Onlus italiana “Amici di Santina Zucchinelli” di don Luigi Ginami, che ha assicurato a padre Octavio Gutiérrez Pantoja, direttore della pastorale ad Acapulco, 22 mila euro.

Il filo spezzato di tante vite resta intrecciato nella memoria collettiva e disegnato su questo muro che rappresenta una sfida al grigiore e all’oscurità delle logiche di morte dei narcos. Una donna ci ha detto: «Abbiamo cadaveri fatti a pezzi per le strade e c’è la consapevolezza che tanti militari sono corrotti. Questo murale ha ridato colore alla nostra speranza».

I dati sono agghiaccianti: dal 2006, anno di inizio della presidenza di Felipe Calderon che dichiarò “guerra al narcotraffico”, 200 mila vittime, tra cui 50 sacerdoti (di cui 7 assassinati l’anno scorso, stando ai dati del Centro Católico Multimedial), e 35 mila desaparecidos, tra cui i 43 studenti sequestrati ad Ayotzinapa il 26 settembre 2014 da uomini in divisa e finiti nel nulla. Dal 2017, l’escalation si è impennata. Nel 2019, con l’assassinio di Norma Sarabia sono dieci i giornalisti uccisi, undici se si conta dal 1° dicembre 2018, giorno dell’insediamento del presidente Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo.

Nel più meridionale Paese dell’America del Nord, dove scioccanti record di violenza convivono con l’irresistibile mix di natura, storia, cultura, arte, spiritualità, possedere un’arma è un diritto costituzionale, ma è diventato diritto di uccidere.

Dal Messico passano droga ed esseri umani in disperata fuga dal Centro America. E dagli Stati Uniti arrivano soldi e armi: per numerosi Stati non c’è un limite di transazioni. Quelle illegali in Messico vengono reperite con la formula dello straw purchase, l’acquisto di un bene o servizio per qualcuno e successivo trasferimento alla persona richiedente.

Da anni, la pressione dei migranti verso il Nord America comincia più a sud del Messico: da Guatemala, Honduras, San Salvador, che conoscono livelli di violenza ben peggiori ed estrema povertà. Circa 440 mila persone in media ogni anno. Ma di recente la novità è stata la mobilitazione di massa. Da ottobre ci sono state fino a ora sei grandi carovane di migranti: anche settemila persone, tra cui donne e bambini, in marcia tutte insieme, offrendo l’immagine di un “esodo biblico”. Una scelta dettata innanzitutto dal tentativo disperato di non cadere vittime dei trafficanti di esseri umani, di abusi, ruberie, e poi di richiamare l’attenzione del mondo.

Il presidente Trump ha risposto con un notevole dispiego di forze militari – 11 mila soldati – lungo il confine. Obrador sta cercando politiche di mediazione. Ha lanciato il piano Quédate en Mexico, rimanete in Messico, che prevede che tutti i richiedenti asilo agli Stati Uniti attendano la decisione in merito al loro caso in territorio messicano, secondo una sorta di esternalizzazione di servizi. E ha chiesto soldi a Trump per un piano di sviluppo da 20 miliardi di dollari per l’America Centrale. Tre quarti dei fondi dovrebbero servire alla creazione di posti di lavoro e alla lotta alla povertà, il resto al controllo delle frontiere.

Trump continua a parlare di muro, vecchia promessa della campagna elettorale. Ha cercato di imporre lo stanziamento di 18 miliardi di fondi al Congresso, arrivando al record di settimane di shutdown, cioè di bilancio federale bloccato dal braccio di ferro. Non l’ha spuntata e al momento ha ottenuto “solo” un miliardo dai fondi del Pentagono.

Dal 1994 Washington, sotto diverse amministrazioni, ha avviato e proseguito i lavori per una barriera e ha organizzato maggiori controlli, ma il muro pensato da Donald Trump è di cemento armato e non è solo fisico: i provvedimenti presi nell’autunno scorso hanno portato a separare bambini e genitori migranti, un “confine” che mai dovrebbe essere ammesso. Per fortuna la risposta della magistratura statunitense c’è stata, oltre all’indignazione mondiale, e almeno questo “muro” sembra sgretolato. Ma la particolarità di Trump sta anche nelle paventate politiche interne in tema di migranti, che fanno tremare i tanti messicani che si trovano già sul territorio: migliaia, per esempio, impegnati a lavorare nei campi in California temono l’espulsione. La frontiera ovviamente ha una storia. Dopo la fine della guerra tra Stati Uniti e Messico nel 1848, diventa una zona grigia del contrabbando, mai davvero combattuto. Poi sono arrivati i traffici di armi e di cocaina. Le sostanze stupefacenti rimbalzano dall’America Centrale in America del Nord, in Africa, in Europa e ormai anche in Cina, dove si “arricchiscono” di materie chimiche che a buon mercato aiutano a seminare morte.

Un esempio dei tentacoli che arrivano in Europa ci porta in Italia: rapporti Onu e procuratori locali attestano che nell’ultimo anno in Calabria i narcos messicani hanno sorpassato i colombiani per quantità di cocaina venduta, con una caratteristica: non si accontentano di esportare, ma contendono alla ’ndrangheta la gestione del territorio. È contro tutti questi traffici che andrebbero eretti muri, solidi, che invece non si vedono.

da Famiglia Cristiana del 1 luglio 2019

La Golden Coast, crocevia di interessi

Il Ghana, terra di antiche tratte di schiavitù, oggi è crocevia di interessi tra Africa, Usa, Europa, Cina. Tra mille contraddizioni e il rischio estremismo islamico. di Fausta Speranza

Gli articoli del dossier:

Donne, tutelate solo a parole
I cinesi e la corsa all’oro del Ghana
I piccoli schiavi che sostengono l’economia del Ghana
Ghana: Obloboshie, la discarica dell’Occidente
Ghana, quelle bare creative

Nell’Africa alle prese con l’emergenza Ebola, l’espandersi del fondamentalismo islamico e la nuova colonizzazione cinese, c’è un Paese che spicca per assenza di conflitti, sviluppo economico e legame con l’Occidente: è il Ghana, che, però, visitato da vicino si fa cartina tornasole di tragiche contraddizioni.

Il Ghana è diventato il centro logistico dell’Onu per portare avanti la battaglia contro l’epidemia di ebola in Africa occidentale. Accra è l’hub, il centro di smistamento, di tutte le forniture e gli aiuti alla regione subsahariana, in particolare quelli destinati ai paesi più colpiti come Liberia, Guinea, Nigeria e Sierra Leone.  Si sa bene che Accra ha ristretto di molto le misure sulle migrazioni, volendo evitare l’espandersi dell’epidemia, ma non si sa abbastanza sul numero di contagiati al suo interno. E soprattutto sui possibili effetti di questo isolamento.

Il Ghana mette in atto le più moderne policy dell’Onu sul genere femminile, ma perpetua forme vecchie e nuove di schiavitù. Segna una crescita del PIL del 7,5%, ma tollera un pericoloso livello di povertà nel nord musulmano. Vanta i media più indipendenti del continente, ma non racconta al mondo che si fa discarica dei materiali elettronici di Usa e Europa. Si gloria di non avere conflitti interetnici ma non combatte l’espandersi inquietante di sette protestanti che sfruttano l’ignoranza delle persone per fare soldi, come denuncia a Famiglia Cristiana il segretario generale della Conferenza Episcopale locale.

Nel cuore dell’Africa nera, sul Golfo di Guinea, il Ghana è stato il primo paese del continente che si è reso indipendente dopo secoli di colonizzazione del continente. Nel 1957 ha scelto l’autonomia rispetto alla Gran Bretagna e da allora ha attraversato decenni di pace. C’è stato nei primi anni il controllo stretto da parte della classe militare, un colpo di Stato, ma mai episodi cruenti. E piano piano il Paese dell’Africa occidentale si è incamminato in un percorso verso una forma sempre più compiuta di democrazia. Oggi al Ghana si riconosce un meccanismo di governo democratico, libere elezioni, e grande attenzione alle linee guida delle Nazioni Unite. Non meraviglia, considerato che dal 1 gennaio 1997 al 31 dicembre 2006, il ghanese Kofi Annan è stato segretario generale del Palazzo di Vetro.

C’è poi il legame stretto con gli Stati Uniti. Nel 2009, il presidente Obama ha scelto il Ghana per la sua prima visita nel Continente nero. Non a caso. Il Ghana è stato il principale crocevia della schiavitù. Nella famigerata fortezza di Cape Coast, tra il XVII e il XIX secolo, sono passati in catene tra i 12 e i 20 milioni di persone. Uomini schiavi di altri uomini. Da lì il primo presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti d’America ha lanciato il suo grido di dolore per un passato tanto pesante. Ma basti dire che tra i meandri più corrotti dell’amministrazione di Accra passano i passaporti falsi ghanesi con cui tante prostitute nigeriane arrivano, non su barconi ma in aereo, fino in Europa. Il toccante discorso di Obama da Cape Coast sul cammino di un’umanità dolente che prende coscienza di abissi di disumanità non può essere tutto quello che gli Usa e l’Occidente possono fare.

E poi c’è l’Europa, che figura come primo donatore tra quanti sostengono economicamente il Ghana, che, nonostante la recente scoperta del petrolio, continua a dipendere dall’assistenza internazionale. Proprio dalla delegazione dell’Unione Europea ad Accra arriva l’allarme. Lo sviluppo dell’area sul Golfo, dove si trova la capitale, e il boom di scambi commerciali non deve ingannare: non c’è solo la faccia del sud in via di progressi economici e sociali, c’è anche l’altra faccia del nord povero e musulmano. Incontriamo il consigliere politico Ue nel suo ufficio ad Accra. Si chiama Judikael Regnaut ed è chiarissimo: “C’è il forte rischio che il dilagare dell’estremismo islamico si nutra dell’arretratezza del nord e attecchisca anche nel pacifico e avanzato Ghana”.

Onu, Usa e Ue non possono accontentarsi della faccia più presentabile per cantare vittoria. In Ghana, simbolo dell’Africa in sviluppo, ci si muove in realtà sul terreno ormai obbligato della globalizzazione. Si avverte di viaggiare sì nel cuore dell’Africa nera ma anche su piani intersecanti tra Africa, Europa, Stati Uniti, Cina. In questo senso parliamo di un paese simbolo.

da Famiglia Cristiana del 16 ottobre 2014

TTIP, più politica che economia

Il Trattato commerciale tra Usa e Ue, oggetto di serrate trattative, è un progetto politico assai più che economico. Abbattere le barriere transatlantiche per arginare Russia e Cina. Le incognite.

 

Gli articoli del dossier
di Fausta Speranza
“TTIP, più politica che economia”

 

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Ttip, l’Europa in difficoltà per eccesso di regole

Ttip, le critiche di chi non lo vuole

Agroalimentare e tessile, dove il Ttip può convenire all’Italia

 

Il Trattato commerciale in discussione tra Unione Europea e Stati Uniti, che insieme rappresentano il 46% del PIL mondiale,  non è solo questione di business ma di geopolitica. Con il Trattato si riscriverebbero regole e standard validi, in qualche modo, anche per il resto del mondo.

Si chiama Transatlantic Trade and Investment Partnership, è noto con la sigla TTIP ed è arrivato all’undicesimo round di negoziati, a quasi un anno e mezzo dal mandato a trattare, approvato dai 28 governi Ue a giugno 2013. E’ il Trattato che dovrebbe riscrivere le regole del commercio transatlantico, che rappresenta il 30% degli scambi mondiali ed è  quantificabile in almeno 700 miliardi l’anno. Si tratta, innanzitutto di assicurare accesso a mercati ancora chiusi, ma anche di dar vita a una cooperazione regolamentare che annullerebbe i costi dovuti alle differenze tra normative.

Un solo esempio: oggi un’automobile prodotta in Europa non può essere venduta così com’è negli Stati Uniti, perchè le norme sui paraurti sono diverse. Il costo del necessario adeguamento, anche se si tratta apparentemente di dettagli, può essere più elevato del dazio da pagare. Ecco perchè l’eliminazione dei dazi non è il vero punto forte del Trattato. A ben guardare, lo è, piuttosto, l’omologazione di norme di produzione e di certificazione.

Visto dall’Europa, secondo gli studi di settore, il Trattato dovrebbe incrementare il PIL continentale dello 0,50%. Non è da buttar via, ma non è granché. L’intenzione propositiva di Bruxelles, e l’impegno dei vertici Ue sembrano andare ben oltre tale guadagno. Visto dagli Stati Uniti, non si tratta dell’area di scambi più redditizia: non c’è paragone, infatti, con il volume di affari con il Pacifico, con il quale Washington ha appena firmato l’accordo che porta l’analoga sigla di TTP. Manca l’ok finale del Congresso e si aspetta la pubblicazione dei dettagli a novembre, ma di fatto l’accordo c’è.

A ben guardare, il TTP riguarda più le tariffe che gli standard di regolamentazione e non gli investimenti, ma apre comunque a nuovi affari e guadagni per Washington, tanto da far commentare ad alcuni analisti che l’interesse a chiudere il TTIP con Bruxelles si relativizza. Eppure, tutto fa pensare che l’amministrazione Obama stia, invece, tentando di portare a casa il risultato, pur avendo a disposizione di fatto solo i mesi fino a giugno 2016, prima delle elezioni presidenziali. Si capisce allora che l’importanza è geostrategica.

Di fatto, le nuove regole tra Vecchio e Nuovo Continente per dazi,  barriere non tariffarie e investimenti, rappresenterebbero un punto di vista non più trascurabile per l’altra area del mondo sempre più protagonista: l’Asia, con in testa la Cina. Come dire: nel mondo globalizzato in cui le vecchie regole non valgono più perchè inadeguate, Europa e Usa hanno l’occasione di scriverne di nuove. Il primo obiettivo sarebbe quello di evitare  che prevalgano standard altrui. E parliamo di standard frutto, per esempio, del deregolamentato passaggio da economie di Stato a forme di capitalismo di Stato, come quelle asiatiche che stanno per esplodere sul mercato mondiale.

Basti ricordare che la Cina, dopo il suo ingresso nel 2001 nel WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, attende con ansia, e non senza fare pressione, un pronunciamento a dicembre sulla sua richiesta di riconoscimento del Market Economic Status, lo status di economia di mercato.Significherebbe far avanzare il gigante cinese con assoluta libertà di movimenti. Senza regole.

C’è anche l’esempio della Russia, dove di fatto vige un monopolio energetico con cui soltanto politiche commerciali nuove potrebbero fare i conti in modo adeguato. Hendrik Bourgeois, vice presidente del dipartimento affari europei della General Electrics, assicura a Famiglia Cristiana che il TTIP muoverebbe qualcosa anche in termini di energia. Eliminerebbe alcuni impedimenti all’esportazione di gas dagli Usa, a partire dal particolare permesso per un’azienda Usa che volesse esportarlo, richiesto ora in base al Gas Act. Inoltre, si fisserebbero dei paletti chiari e utili anche per paesi terzi, che volessero esportare nel Vecchio Continente. Questo, secondo Bourgeois,  potrebbe contribuire a liberare l’Europa dal ricatto energetico di Mosca. Difficile risolvere il fabbisogno europeo, ma si può minare la dipendenza dalla Russia, che attualmente copre almeno il 25% del fabbisogno di gas dell’Ue. E’ evidente che il piano del business si intreccia pesantemente con il piano della geopolitica.

da Famiglia Cristiana del 31 gennaio 2016

Paura e speranza: in Ungheria tra i profughi

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Siriani, iracheni, afghani… Le storie dei disperati arrivati con ogni mezzo fin nel cuore dell’Europa. di Fausta Speranza

PAURA E SPERANZA: IN UNGHERIA TRA I PROFUGHI

Gli articoli del dossier

– Orban e gli ungheresi “traditi dalla storia”
– Il braccio di ferro tra Orban e la UE
– Anche nei Balcani, Italia in prima linea
– Wifi più che cibo e coperte

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Sair l’iracheno (sinistra) con padre e figlia incontrati lunga la strada (foto F. Speranza)

Sair è un ragazzo sui 25 anni. Cammina accanto al suo amico e si gira spesso a controllare che l’anziano dietro, sottobraccio a una ragazza, lo segua. Gli chiediamo se sono familiari, esita un attimo e poi ci dice: “Speriamo ci considerino tali e ci facciano salire sullo stesso autobus ma in realtà non lo siamo”. Sair ci racconta di provenire da Baghdad, capitale dell’Iraq infiammato ormai da oltre 20 anni di guerra e terrorismo e ci spiega che ha deciso di scappare quando uomini del sedicente Stato islamico lo hanno contattato chiedendogli di arruolarsi tra loro. “Uccidono innocenti – taglia corto –  non vorrei mai essere con loro, ma so che se rifiuti ti ammazzano e mio padre ha venduto qualcosa per darmi i soldi necessari al viaggio”. Sulla via – ci racconta – ha incontrato questo anziano e sua figlia, che invece vengono dalla Siria e, chiedendoci di non parlare a voce alta,  aggiunge che ormai non vorrebbero separarsi.

“Per gli ungheresi, noi parliamo la stessa lingua – sostiene – e dunque possono credere che siamo familiari”.  Sair sorride. E’ ben vestito e ci confida con fiducia che finora non ha speso tanti soldi, solo 2500 euro per la traversata dalla Turchia alla Grecia. Sorride soprattutto al pensiero di ritrovare suo fratello, partito dopo di lui, per la stessa tratta. “Appena potrò acquistare una sim telefonica che funziona in Europa – afferma – potrò parlarci e sapere che sta bene”.  “Sono sicuro che sta bene, e che non gli è successo come quelli partiti tre giorni prima di noi: affogati in 33”. “No, a mio fratello non è successo, sono sicuro”.  Ci saluta dicendo nel suo buon inglese: “Sai, la situazione a Baghdad è peggio di quanto raccontano tutte le news, non farti mai venire in mente di andarci”.
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Ragazzo che non parla inglese (foto F. Speranza).

Ha i capelli tinti di biondo e una maglietta un po’ attillata. Mentre ripete che avrà una nuova vita, ostenta un sorriso che definiremmo sfacciato se non fosse palese la reazione eccitata che segue una grande paura. Ha circa 40 anni e non vuole dirci il suo nome né farsi fotografare. Ci dice che vuole fare il parrucchiere e poi,  dopo qualche minuto di conversazione,  si para dietro un sorriso diverso, pacato e ci dice: “Sono afghano, per quelli come me non c’è proprio posto in Afghanistan”. Tamas Lederer di Migraion Aid ci spiega: “Dall’Afghanistan sono tanti gli uomini soli, senza famiglia, anche perchè sono tanti gli omosessuali che scappano”.

Una donna, al cenno di un poliziotto, fa un passo avanti ma il marito vicino reagisce in modo quasi scomposto e la trattiene. Lui ha capito che il poliziotto in inglese ha accompagnato il gesto di via con l’indicazione precisa che su quell’autobus c’è posto ancora solo per due persone. Loro sono quattro: ci sono le due figlie piccole. Abbiamo osservato la scena e l’uomo si gira a spiegarci che sono partiti dalla Siria in venti, tutti familiari. In Turchia si sono persi: sono rimasti loro quattro e mai – ci dice – potrebbe separarsi dalla moglie e dalle figlie. Tira un sorriso di sollievo quando il poliziotto capisce e  lascia tornare indietro la moglie che sembra persa.

Un altro uomo sui trent’anni ci passa davanti a testa bassa per accedere agli autobus. Gli sorridiamo e gli chiediamo in inglese se ha qualcosa da raccontarci perchè i cittadini europei conoscano di più le storie di chi chiede di essere accolto. Ci dice con un’espressione sofferente: “no English”. Riabbassa la testa. Poi la rialza e inizia a parlare nella sua lingua, che non conosciamo. Ci fermiamo ad ascoltarlo, con un auspicio nel cuore: che l’Europa sappia comprendere quello che c’è da capire al di là delle parole.

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Una mamma, troppo stanca per farsi intervistare (foto F. Speranza).

Una donna cammina accanto al marito con un bambino in braccio ma poi si avvicina a noi lasciando il marito un po’ indietro, con un gesto che si distingue dal modo di fare delle altre donne che non fanno un passo se non accanto ad un uomo. Ha capito che stiamo facendo interviste e in inglese ci dice: “Peccato che sono troppo stanca per parlare”. Un attimo dopo è di nuovo vicino al marito, avvolta nella coperta e – ci sembra – in una nuvola di dolore

Dalla fila si stacca un ragazzino di dieci anni suscitando la reazione immediata ma molto composta di un poliziotto austriaco. Il ragazzino raccoglie un marsupio da terra. Il poliziotto non lo perde di vista un attimo ma lo lascia esultare con un compagno di giochi.

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Una ragazza siriana in attesa di salire sull’autobus per un’altra destinazione europea (foto F. Speranza).

da Famiglia Cristiana del 29 settembre 2015

Libertà di fede contro il terrorismo

Al Consiglio d’Europa, dialogo tra monsignor Gallagher e Heiner Bielefeldt, relatore speciale dell’Onu sulle questioni di credo. Ecco perché la libertà di culto aiuta la politica. di Fausta Speranza

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Da sinistra: mons. Gallagher, Gabriella Battaini Dragoni e Heiner Bielefeldt (foto F.Speranza).

“Il contrario dell’estremismo non è la moderazione ma la libertà del più autentico spirito  religioso”:  è la convinzione del Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulle questioni di credo, Heiner Bielefeldt. Incontriamo Bielefeldt a colloquio, a Strasburgo, con il segretario degli Affari esteri della Santa Sede, monsignor Paul Gallagher, che della libertà religiosa dice: “Non è solo diritto umano basilare ma è fondamento politico di convivenza”.

Si parla della dimensione religiosa del dialogo interculturale. Padrone di casa è il Consiglio d’Europa. Si tratta di una tappa di riflessione in vista del Seminario che la presidenza di turno della Bosnia Erzegovina sta preparando a Sarajevo per l’8 e il 9 settembre. Il tema è: “Costruire societa’ inclusive”.

A dettare l’agenda è quella che Bielefeldt definisce “l’urgenza esistenziale del mondo di oggi”, cioè il terrorismo legato a radicalismo e  fondamentalismo. Colpisce la raccomandazione del laico rappresentante Onu: “Guai a pensare che la religione sia questione da etnografi”. Guai a tornare a pensare, come a volte si è fatto, che la laicità possa o debba fare a meno delle religioni nel dialogo tra culture.  Dimensione religiosa, dunque, imprescindibile: su questo concordano Chiesa e Onu e Consiglio d’Europa che, ci ricorda la vicesegretario generale Gabriella Battaini Dragoni, dal 2008 organizza incontri annuali dedicati proprio a questi temi e che ammette che prima non c’era la stessa sensibilità ma piuttosto una certa pretesa di neutralità in tema di convinzioni religiose.

Dunque, emerge l’importanza di difendere la libertà di religione e di credo.  Ma il punto più interessante è sul perché vada difesa. Lo spiega mons. Gallagher: “Va difesa perché ha un importante valore politico”. Non è tolleranza, aggiunge, ma rispetto e condivisione di una piattaforma comune di valori.  La liberta’ religiosa è fondamento di convivenza.

Forte il richiamo di mons. Gallagher:  “Nessuno ha il monopolio dei diritti umani”. “Nelle attuali società pluralistiche e multiculturali, bisogna saper riconoscere i valori e dialogare”. Dunque, la raccomandazione:  “Lo Stato deve essere laico ma non indifferente ai valori religiosi”. Ma poi c’e’ un richiamo forte anche alle religioni stesse: “Se le religioni non si fanno parte della soluzione contro il terrorismo, diventano parte del problema.”

Guardando all’obiettivo finale di avere società inclusive, il Relatore speciale dell’Onu ammette: “La comunità internazionale ha molto ancora da fare”. Parlando con Famiglia Cristiana, tiene però a sottolineare un esempio positivo: la Sierra Leone, appena visitata. Un Paese, dice, dove la pacifica convivenza tra cristiani e musulmani è esemplare. Dispiace sentirla citare come una felice eccezione di fronte alle violenze che imperversano dal Centrafrica al Sud Sudan, per non parlare del Nord Africa. Ci piacerebbe che ad essere un’eccezione fossero le violenze.

In ogni caso, Bielefeldt spiega che quello che lo ha colpito in Sierra Leone è che “l’armonia non è convivenza alla Voltaire ma è frutto di impegno”. Li’,  dice,  si percepisce quello che in troppi posti del mondo si e’ perso: “La voglia di lottare per il bene, l’impegno a pensare ai diritti umani come a un progetto di pace e non come a rivendicazioni personali”.  E’ proprio nella spinta verso i valori piu’ alti del bene comune che risiede a suo avviso il contributo più alto delle religioni.

Da parte sua, mons. Gallagher chiede agli organismi internazionali una visione alta della dignità dell’uomo, che sia aperta al contributo di tutte le parti delle società multiculturali ma nella ricerca della verità.

da Famiglia Cristiana del 10 giugno 2015

La fede che aiuta

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Le associazioni a carattere religioso garantiscono oggi aiuti a 80 milioni di persone coinvolte da guerre e catastrofi. L’incontro, organizzato da Onu e Ordine di Malta, per riflettere sul ruolo delle religioni nelle emergenze.
di Fausta Speranza

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La platea dell’incontro di Ginevra.
“Siamo tutti in un grande reality di guerra, con 180 milioni di persone vittime di sofferenze in scenari senza precedenti di violenze, di cui 9 su 10 sono civili”. Sono parole della persona che il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, ha scelto per guidare il team internazionale che prepara il primo summit umanitario mondiale, che si terra’ a maggio 2016  a Istanbul.

Parliamo di Jemilah Mahmoud, per anni medico in prima fila in vari conflitti, sfuggita alla morte in un agguato in Afghanistan. Incontriamo la signora Mahmoud a Ginevra, al Simposio che vuole preparare quello che lei definisce uno dei dossier piu’ importanti del World Humanitarian Summit: il dossier sul ruolo delle religioni. L’84% della popolazione mondiale segue un credo religioso, ricorda Mahmoud, sottolineando che organizzazioni a carattere religioso assicurano la maggior parte dell’assistenza umanitaria da cui dipendono attualmente nel mondo 80 milioni di persone. Lo dice raccomandando di non parlare solo delle distorsioni politiche degli estremismi. Bisogna ricordare il lavoro silenzioso e essenziale che fanno, in contesti di guerra, persone ispirate a quei principi di solidarieta’, bene comune, pace che le religioni custodiscono.

Il Simposio del 27 maggio 2015 a Ginevra, che riunisce leader di quattro confessioni, cristiana, ebrea, musulmana e buddista, e’ frutto della collaborazione tra le Nazioni Unite, padrone di casa, e il sovrano Ordine di Malta, tra i protagonisti sulla scena mondiale e in particolare in Medio Oriente dei piu’ importanti progetti di assistenza umanitaria, come sottolineato dal direttore della sede a Ginevra dell’Onu, Michael Moller.

E’ molto concreto il Gran Cancelliere e ministro degli Esteri dell’Ordine, H. E. Albrecht Freiherr von Boeselager, a chiarire che le organizzazioni religiose sono le prime a portare aiuto anche perche’ hanno istituzionalmente  infrastrutture di assistenza nei vari paesi e perche’  hanno esperienza di cooperazione tra varie confessioni. Questo dunque il segreto, oltre allo spessore etico e allo spirito di sacrificio, del ruolo delle religioni. Un ruolo pero’ che va studiato, ripensato e accompagnato, come va ripensato tutto l’impegno umanitario su terreni dove i conflitti sono cosi’ diversi dal passato. Le guerre sono asimmetriche, ci ricorda von Boeselager, sottolineando che troppo spesso non c’e’ rispetto dei piu’ basilari principi dei regolamenti internazionali. E questo perche’ – avverte – ci sono forze terroristiche che travalicano qualunque principio ma anche perche’ la tecnologia stessa contribuisce a cambiare i termini della questione. Ci fa un esempio pesante: i droni, aerei senza piloti che  allontanano per vari motivi dalla dimensione umana. Tutto contribuisce a rendere piu’ difficile lo sforzo di salvare vite umane e diminuire le sofferenze. Un paradosso nel mondo sempre piu’ globalizzato.

Da sempre le organizzazioni ispirate a valori religiosi, se non sono gia’ presenti,  sono le prime ad arrivare e le ultime a partire in caso di grandi emergenze umanitarie.  Un’altra caratteristica fondamentale e’ che il loro arrivo non e’ legato a interessi politici.
Ma c’e’ altro su cui lavorare. Ed e’ il ruolo che i leader religiosi possono giocare nella battaglia contro i fondamentalismi. Al Simposio a Ginevra si dicono tutti d’accordo su questo, a partire dal Gran Rabbino Marc Raphael Guedj, presidente della Fondazione Radici e fonti. E’ d’accordo anche il dottor Hani El-Banna, co-fondatore di Islamic Relief e fondatore del Muslim Charities Forum. El-Banna pero’ sottolinea anche insistentemente il rischio di islamofobia.

In ogni caso, il ruolo delle religioni non finisce qui. C’e’ il rapporto con il mondo della politica, dai governi alle istituzioni internazionali. E’ l’Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Onu a Ginevra, l’arcivescovo Silvano Tomasi, ad affermare che i leader religiosi devono interpellare i politici a vari livelli. Mons.Tomasi dice: “Dobbiamo fare una domanda importante sul ruolo delle organizzazioni internazionali, che in questo momento sembrano paralizzate e non in grado di dare una risposta alle crisi gia’ avvenute e incapaci, o non all’altezza, di prevenire le esplosioni di violenza”.

E monsignor Tomasi ci porta al cuore del problema affermando: “Gli Stati che compongono queste organizzazioni hanno interessi piu’ forti della solidarieta’ e degli impegni che hanno preso quando si sono associati in queste organizzazioni”. L’ambasciatore di Papa Francesco chiede  “coraggio di dialogare nonostante le crisi sempre piu’ complesse e la violenza sempre piu’ efferata dei terroristi”.

Dunque, le religioni protagoniste  di assistenza umanitaria, cooperazione e riconciliazione, ma anche doverose spine nel fianco del mondo della politica.

da Famiglia Cristiana del 1° giugno 2015

Ambiente, la Cina s’ispira a Venezia

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Un museo internazionale dell’acqua a Venezia, diretto dal cinese Zheng Xiao Yun. Che dice: “La Cina deve ispirarsi a voi per una politica dell’ambiente”. di Fausta Speranza
zheng    Zheng Xiao Yun

Entro un anno Venezia ospiterà il primo museo internazionale dell’acqua grazie a un cinese. Ma non si tratta di un finanziamento economico.  Parliamo del prezioso contributo del presidente della International Water History Association,  Zheng Xiao Yun, che,  in Cina, è a capo della nazionale Accademia delle Scienze Sociali. A chiamarlo a Venezia è il Centro internazionale della civiltà dell’acqua, guidato dall’italiano Eriberto Eulisse. Il Centro promuove, da oltre dieci anni,  una concezione alta dell’acqua non solo in quanto essenziale risorsa naturale ma come elemento costitutivo di culture e civiltà.

In particolare,  con l’incontro voluto in questi giorni dal 13 al 15 maggio a Venezia, il direttore Eulisse ha aperto il dibattito sulla valorizzazione del patrimonio rappresentato dalle antiche vie dell’acqua europee. Ha richiamato studiosi non solo d’Europa ma di Egitto,  Australia, Canada, Cina perchè il dibattito fosse arricchito dal punto di vista esterno al Vecchio Continente. Ma la Carta che viene sottoscritta a conclusione è una Carta della Storia dei canali europei.  Vuole essere un punto di riferimento per il mondo politico per la promozione dell’identità europea legata al patrimonio della rete idrica creata dall’uomo a partire dal Medio Evo. Una rete che ha favorito relazioni commerciali e espansione di centri urbani.

In sostanza si tratta di attivare una collaborazione internazionale su temi di civiltà, senza trascurare le specificità europee. E il Centro Internazionale dell’acqua,  promuovendo questo forum 2015,  ha creato il bacino giusto perchè prendesse il largo l’iniziativa del Museo dell’acqua. Nell’intervista a Famiglia Cristiana, il prof. Zheng Xiao Yun, che è un nome a livello internazionale per la promozione del valore di eredità culturale rappresentato dall’acqua, tiene a sottolineare che la sua organizzazione ha pagato le spese della sua partecipazione al convegno sui fiumi e canali europei, perchè – dice – “la Cina ha molto da imparare dallo spessore culturale europeo e dalle politiche di tutela dell’ambiente dell’Unione Europea”.

Zheng Xiao ci dichiara senza mezzi termini, in perfetto inglese, che “la Cina deve mettere in moto una politica ambientale seria”. Ci spiega con un sorriso cordialissimo: “Nel mio Paese mi batto perchè si capisca che l’acqua non ha bisogno solo di ingegneri ma di intellettuali e poeti che ne capiscano il respiro culturale. E’ il respiro che trovo in Europa”.

Dunque, constatiamo che l’Europa stanca e depressa, che chiama un cinese a guidare il Museo dell’acqua,  resta leader culturale. Con la responsabilità grande di non dimenticarlo, presa da vicende finanziario-economiche, e  in preda a paure identitarie. Intanto, il Museo dell’acqua si farà entro un anno, massimo due, ci assicura Zheng.

E sarà un prodotto culturale della buona globalizzazione. Quella che ha portato, in questi giorni a Venezia gioiello artistico unico al mondo, esponenti di diverse nazioni e continenti ma di affine sensibilità sull’urgenza di un approccio nuovo  all’ambiente. Non come territorio da depredare ma come humus per un nuovo umanesimo. L’acqua, dunque, come paradigma di risorse e bisogni  primordiali dell’uomo.

Resta da dire che, ascoltando interventi di francesi, britannici, spagnoli e italiani colpisce come gli interventi appassionati di questi ultimi fossero per la realizzazione di progetti pensati e faticosamente abbozzati,  mentre le altre testimonianze portavano la documentazione di progetti realizzati. Un solo esempio: dalla Spagna la valorizzazione delle rive urbane del fiume  Manzaranes che taglia Madrid. Fino a pochi anni fa correva una strada a doppia corsia laddove fino al 1955 si poteva fare il bagno, e oggi si è recuperato un lungo spazio di verde e pista ciclabile.

Esempio italiano: il veneto Francesco Calzolaio, presidente dell’associazione Venti di cultura, ha difeso con convinzione il bel progetto di Lagunalonga che faticosamente cerca di valorizzare tutta la ricca laguna veneta. Un progetto che trova per la prima volta la complicità del Comune di Venezia che dal 21 maggio inaugura il suo spazio con marchio Expo ospitato però a Venezia. Uno spazio che intende proprio presentare al mondo l’intero spaccato lagunare per una valorizzazione più ampia e – si spera – più consapevole dei bisogni. Una valorizzazione tutta da fare. Anche in base ai bisogni di Venezia, al di la’ delle polemiche politiche sul Mose e dell’attesa del nuovo sindaco che uscirà dal voto del 31 maggio, dopo un anno di commissariamento.

In definitiva,  si spera di veder fiorire il nuovo umanesimo di cui abbiamo sentito parlare e di veder presentare al prossimo Forum del Centro internazionale dell’acqua, che sceglie ogni anno una citta’ diversa, sempre più progetti italiani realizzati e non solo ideati. Insieme al Museo dell’acqua pensato con pensiero internazionale su territorio italiano.

da Famiglia Cristiana del 16 maggio 2015

Mettiamo umanesimo nell’Islam

Hassem Chalghoumi, presidente degli imam di Francia, lancia un appello. Ed ebrei, musulmani e cristiani si incontrano presso il Parlamento europeo.   Fausta Speranza

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L’imam Chalghoumi (a destra) con il rabbino Di Segni (foto P. Naj-Oleari).

“Formare a un Islam dei lumi, un Islam dell’umanesimo”: non è un professore di filosofia occidentale a chiederlo ma è l’appello che l’imam Hassen Chalghoumi, presidente degli Imam di Francia, affida a Famiglia Cristiana. L’occasione è un’intervista a margine della Conferenza che ha riunito cristiani, ebrei, musulmani, al Parlamento Europeo. Sul tema: “La crescita del radicalismo religioso e del fondamentalismo e il ruolo del dialogo interreligioso nella promozione della tolleranza e del rispetto per la dignità umana”.

L’Imam Chalghoumi chiede collaborazione. Sottolinea “l’importanza della formazione dei giovani, l’urgenza di dare un futuro a quanti sono facile preda su web del messaggio delirante del sedicente Stato islamico o delle diverse forme di terrorismo”. Definisce “cruciale” il dialogo interreligioso e chiede che “si ascolti l’Islam vero che non racchiude l’invito a uccidere”. E poi pronuncia termini non consueti per la sua religione: parla di orizzonti di formazione da percorrere da parte del mondo musulmano e cita esplicitamente la ricchezza del secolo dei lumi e il patrimonio dell’umanesimo, eredità del continente europeo.

“Collaborare alla costruzione dell’Islam europeo” è la raccomandazione del rabbino Albert Guigui, rappresentante permanente della Conferenza dei rabbini europei presso l’Unione Europea. Guigui sembra alzare il livello dell’obiettivo: non si deve tendere a dialogare per vivere insieme – spiega – ma bisogna tendere a costruire insieme una società in cui le religioni sappiano ascoltarsi ma abbiano anche voce nello spazio pubblico, non siano solo fatto privato.

Un pensiero condiviso dai vari esponenti partecipanti, della Conferenza delle chiese europee CEC, della Commissione delle Conferenze dei vescovi europei COMECE, della Chiesa anglicana. Un pensiero ripreso in particolare dal rabbino Riccardo di Segni, che parla di “regole fondamentali di convivenza alle quali le religioni devono attenersi per la convivenza civile” ma anche di “veri e propri diritti religiosi che la società civile è tenuta a rispettare”.

Il primo pensiero condiviso è che, di fronte alla crescita del radicalismo e alle atrocità commesse in nome del fondamentalismo religioso fuori e dentro l’Europa, è decisivo che tutte le persone di fede, che rifiutano intolleranza e violenza, si ritrovino in una casa comune. Ma, condivisa la consapevolezza della gravità del momento, in qualche modo si avverte che condivisa deve essere anche la speranza di una risposta forte comune.

In particolare è padre Patrick Daly, Segretario generale della Commissione delle conferenza episcopali europee, COMECE, a parlare di speranza, a raccomandare speranza. In  qualche modo, – ci conferma – l’incontro promosso dall’europarlamento rappresenta un appello alle religioni. Qualche anno fa – dice – non c’era la stessa attenzione per la voce delle chiese e poi aggiunge: in particolare posso dirlo nei confronti della Chiesa cattolica.

Il vicepresidente dell’Europarlamento Antonio Tajani, ricorda in apertura il messaggio forte lasciato da Papa Francesco alle istituzioni europee, nella visita a dicembre scorso a Strasburgo, in tema di identità europea, di difesa dei valori fondanti della costruzione europea, primo fra tutti la dignità della vita umana. Tajani sottolinea che il dialogo tra le religioni è voluto perchè l’Europa, almeno quella rappresentata dall’assemblea dei rappresentanti dei cittadini, è consapevole che “non si può rispondere solo militarmente al terrorismo”.

All’incontro, non pubblico ma aperto ad alcuni giornalisti, si parla e si discute delle sfide dell’integrazione e dell’inclusione con la raccomandazione a non ipotizzare la mera assimilazione. E qualcuno chiede di non dimenticare i disperati che sbarcano sulle coste europee del Mediterraneo: la signora Hilde Kieboom, vicepresidente della Comunità di Sant’Egidio a livello europeo, sottolinea che “mentre si uccide in nome del radicalismo, l’Europa che difende la dignità umana non può non cominciare da quella dei poveri che bussano”.

da Famiglia Cristiana del 25 marzo 2015

Il medico eroe del Congo

Denis Mukwege lavora come ginecologo in un Paese in cui “lo stupro è l’arma più economica per fare la guerra”. L’attività di difesa delle donne e e gli attentati. di Fausta Speranza

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Denis Mukwege (foto F. Speranza)

“In un mondo di inversione di valori, rifiutare la violenza significa esser dissidente”: sono le parole di Denis Mukwege, medico congolese insignito del Premio Sacharov appena scampato a un attentato nella sua Repubblica Democratica del Congo.  “Cercano di colpirmi – spiega – “perché cerco di dare lo statuto di vittime alle donne violentate: in Congo non sono tali”.

Mukwage da 15 anni opera nell’ospedale Panzi a Bukavu, in quella che definisce “una situazione formale né di guerra né di pace, ma di autentica impunità”, in cui  lo “stupro è usato come l’arma più economica di guerra”. Il ginecologo ribadisce che “l’uso di massa dello stupro viene ordinato dall’alto dai criminali di guerra”.  E ci spiega: “A violare le donne sono anche tutti gli uomini che di fronte a tutto ciò tacciono”. Il punto è che il ginecologo cura anche i diritti sistematicamente altrettanto violati di queste donne, adulte o bambine, denunciando con grandissimo coraggio nel Paese africano della Regione dei Grandi Laghi, dove i diamanti muovono interessi e armi.

Con voce ferma spiega che spesso la violenza viene in qualche modo “firmata”. Sui corpi straziati di donne, ma anche di bambine e perfino neonate, il medico ritrova, infatti, segni particolari che distinguono il clan che si è macchiato del crimine. Nell’intervista a Famiglia Cristiana, il medico mai indugia nei particolari ma sottolinea di sentire il dovere, come uomo e come credente, di denunciare tutto ciò anche raccontando frammenti dell’orrore che vede. Si trova di fronte ogni giorno decine e decine di donne violate nella maggior parte dei casi brutalmente, in alcuni casi, anche con oggetti o con acido. Fa un altro esempio. Racconta dei 6 neonati mutilati che ha visto provenienti dalla regione del Kivu: sono stati strappati dal ventre squarciato di donne agli ultimi giorni di gravidanza e mutilati negli arti e nei genitali.

Mukwage racconta che, oltre allo strazio letto nei corpi, si sente sempre più fragile di fronte alla disperazione delle donne che vengono stuprate e alle quali poi viene imposta la presenza ogni giorno degli uomini che le hanno “violate nell’intimità e nell’anima”. O donne alle quali viene imposto di obbedire agli uomini che hanno violato le loro figlie. Di fronte a tutto ciò – ci dice – “come si può avere paura per se stessi?”. “La paura c’è ma non si sente: si sente più forte l’orrore da combattere”.

Ringrazia l’Ue che, con il Premio Sacharov per quanti si distinguono nella difesa dei diritti umani che ha ricevuto a dicembre 2014, “ha acceso i riflettori sul dramma del popolo congolese”. Ringrazia anche delle continue sollecitazioni da parte delle autorità europee al governo del Congo perché sia protetto dalle forze dell’ordine. Sollecitazioni rinnovate anche in queste ore dopo l’ultimo attentato. Ma poi Mukwage chiede al mondo di “andare oltre la denuncia e l’orrore e occuparsi delle cause”.

In particolare, Mukwage chiede regole sulle risorse minerarie. Affida a Famiglia cristiana un chiaro appello: suggerisce, oltre la solidarietà e i finanziamenti, che l’Europa metta nero su bianco vincoli adeguati per il rispetto dei diritti umani nelle regolazioni, attualmente allo studio, che riguardano a diverso titolo le risorse minerarie e i prodotti che ne derivano. Ci dice: “Per tutto ciò che avviene in Africa e per i prodotti commerciati in Europa”.

Il ginecologo congolese ricorda che “in Congo l’economia ampiamente militarizzata trasforma il Paese da un territorio tra i più ricchi al mondo nel territorio dove avviene “la negazione della semplice umanità”. E sottolinea che il commercio di oro, diamanti, rame, coltan, cobalto è globale. Nessun paese si senta escluso.
da Famiglia Cristiana del 20 febbraio 2015

Cipro: Nicosia, l’ultima capitale col Muro

Viaggio nell’isola divisa: da un lato, Stato, dall’altro, “entità” riconosciuta solo dalla Turchia. di Fausta Speranza

Gli articoli del dossier

Cipro, la partita del gas naturale
Cipro, il Paese islamico che non esiste
Cipro, la cultura non si arrende
Cipro, anche qui il dramma dei migranti

“2030”, ma, se forse un’Odissea c’è, lo spazio non è quello dell’universo ma di un’isola. Si tratta, però, di un film, che si fa beffa della divisione politica dell’isola di Cipro e che raccoglie ogni giorno su Internet centinaia di click e consensi in più tra i giovani di tutte e due le comunità formalmente ancora in guerra: turco-ciprioti e greco-ciprioti.

Non è un film prodotto a titolo artistico-culturale ma è una sorta di documentario che, insieme con un altro film intitolato “What if”, chiarisce ai ragazzi quante opportunità si infrangono per tutti loro sull’ultimo Muro che resta in piedi in Europa. A produrli sono le Camere di Commercio della Repubblica di Cipro, che è membro dell’Ue, e della cosiddetta Repubblica del Nord di Cipro, riconosciuta formalmente solo dalla Turchia. Il primo è per il mondo uno Stato, il secondo è un’entità illegale e pertanto non vede riconosciuto nessuno dei suoi organismi istituzionali. Politici o studiosi, se vengono ricevuti o incontrati da qualche personalità internazionale, è sempre e solo a titolo personale e senza documentazione dei media. Va spiegato allora il ruolo di eccezione della Camera di Commercio di Cipro Nord, che riceve direttamente finanziamenti dall’Ue attraverso la sua Banca e trova patente di riconoscimento dall’omologa Camera nel Sud e da altre nel mondo. Può fare tutto ciò in virtù di una data: è stata istituita e registrata a livello internazionale nel 1958 prima degli scontri e della divisione. In virtù di ciò, ha potuto sottoscrivere l’Accordo formale con la Camera di Commercio greco-cipriota che – a metà tra l’ironia e la giusta provocazione – è stato registrato come ‘Green Line Agreement’.

Da sempre il Muro si chiama Green Line, in riferimento alla linea segnata con pennarello verde sulla mappa di Cipro dai vertici della missione Onu, intervenuta nel 1964 per sedare le violenze tra le due comunità scoppiate dopo la fine del dominio britannico un anno prima. Linea alla quale si è attenuta la Turchia quando ha mandato truppe nella parte nord in quella che, per i greci, è stata un’invasione, per i turchi, un intervento di protezione della comunità turca che allora rappresentava il 18% della popolazione.

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Ragazzi alla Casa della cooperazione (foto di F. Speranza)

Nel Green Line Agreement ci sono progetti che entusiasmano gli uomini di affari ma anche i giovani, di entrambe le comunità, e che aspettano – qui è il punto centrale – una risposta dalla politica. Da sette mesi, infatti, i progetti sono sul tavolo dei leader politici, controfirmati dalle due parti. Aspettano di diventare operativi. Di questi progetti si occupa il film in questione e di questi progetti discutono i giovani che si ritrovano nel caffè preferito per parlare di futuro comune: si chiama “Casa della cooperazione”. FOTO E’ un simpatico locale con zona biblioteca e zona ristorazione, con originali tavoli di legno dove sono incastonate al centro delle piccole piantine, verdi.

E’ sorto nella zona demilitarizzata tra un check point e l’altro. Offre, su qualche discreto scaffale, un DVD con immagini di campi estivi con ragazzi delle due comunità, e altri provenienti da altri paesi. Immagini e dichiarazioni di comunione di intenti che colpiscono, se si pensa che alcuni di quei ragazzi per l’atlante mondiale non esistono. Dei progetti lanciati dalle Camere di Commercio e sognati dai giovani, abbiamo parlato con il presidente della Camera di Commercio turco-cipriota, Fikri Toros.

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Fikri Toros, presidente della Camera di Commercio turco-cipriota (foto di F. Speranza)
In un inglese impeccabile e in perfetto stile british, ci ha illustrato in breve i punti salienti: creare una zona di libero scambio tra Sud e Nord; permettere il roaming alle rispettive compagnie telefoniche; autorizzare ufficialmente una piattaforma digitale per lo scambio di informazioni che avrebbe già un nome, Business Directorate; promuovere programmi educativi su materie scientifico-tecnologiche in entrambe le lingue; offrire una card turistica per la visita di Nicosia valida su entrambe le parti della città. Anticipando la domanda, a Famiglia Cristiana Toros dichiara: “Tutti i progetti sarebbero supportati e finanziati dall’Unione Europea che assicura fondi per attività di riconciliazione sociale”. I soldi, dunque, non sono un problema.

E poi aggiunge: “Dal 2003, anno in cui si sono aperti varchi nel Muro, non ci sono mai stati episodi di tensione o di scontro tra le due comunità, dunque i progetti della Camere di Commercio riflettono la società civile”. Dai tanti commenti che si ritrovano intorno al film su web, si capisce che i ragazzi si sentono uguali di fronte alla stessa incognita: trovare un lavoro. E di fronte alla stessa esigenza: usare il cellulare dall’altra parte del Muro, che, a dispetto delle partite a scacchi internazionali che si giocano su quel Muro, loro attraversano ormai facilmente.

L’assurdo attuale è che entrambi gli operatori telefonici di rete mobile, della parte Sud e della parte Nord, consentono il roaming con qualunque altra compagnia del mondo, tranne che tra loro. Si capisce l’importanza che questo ha per i giovani, oltre che per gli uomini di affari. Se il lavoro è il loro obiettivo principale sotto ogni latitudine, la comunicazione è ormai bisogno primario. C’è da pensare che la risposta che la politica dovrà dare a questi e altri progetti, in ogni caso, positiva o negativa, provocherà un certo terremoto su quella linea divisoria.

da Famiglia Cristiana del 6 febbraio 2015