Per il Giornalismo Roberto Rossi, Manuela Biancospino, Fausta Speranza, Manuela Lucchini e Margerita Romaniello in qualità di Presidente della Lucana …
di Fausta Speranza sul sito www.meridianoitalia.tv:
Negli ultimi quattro decenni le istanze pacifiste hanno dato vita a molte iniziative, ma in tanti si sono rassegnati all’ineluttabilità della guerra, vista come l’unica via per risolvere, pur dolorosamente, situazioni di ingiustizia. Eppure non solo le guerre mondiali della prima metà del Novecento, ma tutti i conflitti succedutisi dagli anni Ottanta ad oggi hanno dimostrato che la logica della violenza produce solo altra violenza, che la dinamica del riarmo innesca un meccanismo ad orologeria in cui la variabile riguarda solo il momento in cui scoppierà un’altra guerra e non la possibilità che ci sia o meno. Serve ragionare di pace. Pubblichiamo di seguito la prefazione di Fausta Speranza al libro di Alberto Zorloni «Pacifismo – Storia e analisi del caso italiano» (Infinito Edizioni)
«L’esasperazione dell’individualità è il primo degli atti di guerra». Questa considerazione del filosofo francese Emmanuel Mounier offre il migliore snodo concettuale per comprendere quanto possa essere fragile una pace pensata o propagandata in un mondo che svilendo il diritto internazionale perde il desiderio di difendere i diritti fondamentali; che assiste alla polarizzazione tra ricchissimi e poverissimi; che arretra di fronte alla necessità di una governance globale di beni materiali e immateriali essenziali per la vita. In una modalità tecnologicamente aggiornata, anche oggi «quasi tutte le nazioni si affannano nella gara febbrile degli armamenti», come denunciato nel 1902 da Leone XIII, nella Lettera apostolica Principibus populisque universi in cui parlava di «stato di pace armata divenuto intollerabile».
Nel proseguo della storia ci sono i due devastanti conflitti mondiali del secolo scorso e gli appelli per la pace di altri dodici papi, tra cui Francesco che, ben prima dell’invasione dell’Ucraina a febbraio 2022, ha cominciato a parlare di «guerra mondiale a pezzi» (o «a capitoli»), denunciando la gravità del fenomeno delle cosiddette proxy war, guerre per “procura”. Si tratta di combattimenti all’interno di Paesi ma per interessi esterni di attori che spesso riescono ad avere un controllo, proprio all’interno di quei Paesi o quelle aree, attraverso milizie locali: senza riferimento agli eserciti regolari. E’ la modalità che maggiormente accresce la mancanza di sicurezza a livello internazionale: una sorta di pace che è di fatto guerra senza veri interlocutori e senza regole.
Non si possono tralasciare i passi avanti fatti da parte della società globale negli ultimi sessant’anni, ma questa vera e propria architettura di pace va difesa. Si è solidificato un ampio consenso attorno ai diritti umani e alla difesa delle libertà personali; sono stati istituiti a livello internazionale diversi organismi per cooperare su tematiche come le pari opportunità, il rispetto delle minoranze, la tutela dei rifugiati. Torna in mente la considerazione sulla Grande guerra del protagonista de La coscienza di Zeno, il romanzo di Italo Svevo pubblicato nel 1923: «Io avevo vissuto in piena calma in un fabbricato di cui il pianoterra bruciava e non avevo previsto che prima o poi tutto il fabbricato con me si sarebbe sprofondato nelle fiamme». Lo scrittore è scomparso nel 1928, poco prima che il mondo riproponesse un copione di guerra perfino peggiore.
Dopo decenni di processi di disarmo, dal 2014 è corsa al riarmo. La spesa militare mondiale, secondo le stime del Sipra di Stoccolma, ha raggiunto nel 2022 la somma di 2.240 miliardi di dollari complessivi, che corrisponde ad una crescita del 3,7 per cento in termini reali rispetto all’anno precedente. Intanto si esaspera il gap economico: negli ultimi 10 anni l’1 per cento più ricco ha accumulato, in termini reali, un ammontare di ricchezza 74 volte superiore a quella del 50 per cento più povero. Inoltre dal 2020 la ricchezza dei miliardari è cresciuta al ritmo di 2,7 miliardi di dollari al giorno, in termini reali. Una situazione che si palesa come un investimento planetario sulla conflittualità, come polvere da sparo rilasciata nell’aria che aspetta l’innesco per deflagrare. Nel 1965 Paolo VI all’Onu lanciava il grido «mai più la guerra» chiarendo che «non c’è pace senza giustizia». Per tutte queste argomentazioni è davvero significativo, oltre che coraggioso, un libro dedicato al pacifismo. Nel testo si argomenta sui significati e sulle implicazioni di questa definizione con il pregio di offrire una chiave di lettura che storicizza. Indubbiamente si fa focus sulla situazione in Italia, ma sono tanti gli opportuni richiami impliciti o espliciti a contesti più larghi. L’autore invita a pensare – «oltre alle giuste scelte personali» – di organizzare «un’azione comune, incisiva e macroscopica, relativa a un argomento di importanza capitale nel quale si è tutti coinvolti». E’ di tutto rilievo l’invito contenuto nel libro a «superare la parcellizzazione delle associazioni competenti in materia di pacifismo». Con la consapevolezza che «ben difficilmente se ne libereranno», l’autore ribadisce l’importanza di «poter correre tutti insieme verso un obiettivo più grande». Ci permettiamo di allargare idealmente l’orizzonte dell’invito auspicando che qualunque leadership al mondo – che siano politici al potere o multinazionali che fatturano introiti superiori al Pil di alcune nazioni – comprendano che tutte le parcellizzazioni frutto di interessi particolaristici contribuiscono a disgregare il tessuto sociale e a incrinare la pace. Il mondo ha bisogno di multilateralismo che non è affatto scontato.
Approccio multilaterale significa bilanciamento degli equilibri di potere tra potenze attraverso il diritto internazionale, che è sempre più messo in discussione nei fatti. Inoltre significa saper guardare in modo sinergico ai sistemi naturali e ai sistemi sociali: non c’è cura dell’ambiente che possa pacificare la relazione tra esseri umani e risorse del pianeta senza un’adeguata cura delle sperequazioni che colpiscono le fasce più deboli delle popolazioni. Il primo esempio dovrebbe essere uno sguardo d’insieme a cambiamenti climatici e migrazioni. Concretamente dovrebbe significare concepire una politica in grado di cogliere la dimensione umana planetaria delle questioni.
Osiamo parlare di una sorta di costituzionalismo mondiale che metta l’umanità al centro, in cui l’umanità diventi soggetto di diritto al riparo da ottuse logiche nazionalistiche e statualistiche e in grado di contrastare dinamiche come quelle che permettono che l’acqua sia venduta da privati in terre aride a prezzi esponenziali: tra il 2021 e il 2022, secondo l’Oxfam, nel sud dell’Etiopia, nel nord del Kenya e in Somalia sono lievitati del 400 per cento.
Uscire a tanti livelli dai binari degli interessi particolaristici è l’obiettivo principale al quale si deve lavorare. In parallelo, vanno sostenute e incoraggiate tutte quelle dinamiche locali di pacificazione che possono fare la differenza nel “piccolo”. Si devono tenere a bada estremismi, estremizzazioni, esasperazioni relativistiche di tanti generi, che generano conflittualità, anche grazie al fenomeno, ancora troppo poco discusso rispetto all’entità, delle fake news.
Le nostre democrazie devono ancora imparare a fare i conti davvero con l’impatto della disintermediazione informativa sui processi di formazione dell’opinione pubblica, che tanti scherzi può giocare alla pace. Basti ricordare l’episodio alimentato dai social dell’assalto a Capitol Hill negli Stati Uniti d’America, impensabile prima del 6 gennaio 2021.
Il fenomeno della disinformazione non è nato oggi e non è orfano: è figlio della bramosia di manipolare le masse, evidente mutatis mutandis in tutte le epoche della storia umana. Ai nostri tempi si nutre dell’automatizzazione e delle sue «magnifiche sorti e progressive» – per dirla con Leopardi — che stanno sotto gli occhi di tutti: algoritmi che ci raggiungono in base a studi di mercato, notizie scritte da pc, sistemi di software che offrono pseudo relazioni con persone scomparse. Si parla di human enhancement, di “gemello digitale” dell’essere umano, di esternalizzazione delle nostre facoltà cognitive: non solo memoria e giudizio ma anche la coscienza fonte di auto-determinazione. Facile immaginare le conseguenze di un consenso “prodotto” a partire da conclusioni tratte da Big Data e Data Analytics.
Se multilateralismo si traduce con un’ottica di bene comune, in quest’ottica deve innanzitutto restare centrale la persona, con la sua interiorità da difendere, con il suo consenso da esprimere o da negare. C’è il rischio che guerre e conflitti, che da sempre vengono decisi dai pochi e vissuti dai tanti, siano sempre meno messi in discussione.
C’è il rischio di dimenticare la verità sulla differenza di punti di vista tra potenti e popoli che nell’interiorità di Bertolt Brecht ha preso la forma dei versi della poesia Chi sta in alto dice: pace e guerra.
«Sono di essenza diversa. La loro pace e la loro guerra son come vento e tempesta.0La guerra cresce dalla loro pace come il figlio dalla madre.
Ha in faccia i suoi lineamenti orridi. La loro guerra uccide quel che alla loro pace è sopravvissuto.»
Il video reportage “La discarica della vergogna”, firmato da Fausta Speranza con la regia di Stefano Gabriele e pubblicato sul sito www.MeridianoItalia.tv il 22 febbraio 2022, e’ tra i 10 finalisti del Premio Daphne Caruana Galizia 2022 del Parlamento europeo. Il 19 ottobre prossimo a Strasburgo si svolge la cerimonia di premiazione, in ricordo della giornalista maltese uccisa nel 2017 per le sue denunce di delitti ambientali e corruzione.
Questo il link per rivedere il reportage “La discarica della vergogna”:
Dopo anni di Trattati internazionali per il disarmo, si torna a parlare di aumento delle spese militari in ambito Nato. Al di là del dibattito parlamentare all’interno di ogni singolo Paese dell’Ue, è importante fare riflessioni di carattere globale. Il primo pensiero va alle spese mondiali per gli armamenti degli ultimi anni, al progressivo e significativo aumento: è stato registrato dai dati ma forse non dalla percezione generale in Occidente. Una distrazione da non ripetere.
E poi c’è la febbre del pianeta, quel surriscaldamento che già presenta il conto in termini di disastri ambientali e umanitari, da non dimenticare. Su questo piano rischiamo oggi – nessun Paese è escluso – un’altra colpevolissima distrazione.
Come dice Papa Francesco “la vita umana indifesa viene prima di qualunque strategia”. Certamente la priorità assoluta è salvare le persone facendo cessare il conflitto in Ucraina. Ma è importante e doveroso anche non perdere di vista alcuni orizzonti di riflessione importanti per la vita stessa sul pianeta. L’Unione europea, finora compatta come solo nel caso della pandemia avevamo visto, nell’ambito delle strategie di reazione all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia – oltre all’impegno straordinario per i profughi – ha stabilito che tutti i Paesi europei dovranno, nei prossimi anni, aumentare le spese militari fino al 2 per cento del Pil, secondo quanto già previsto a livello di Alleanza Atlantica. Per l’Italia si tratta di passare da 25 a 38 miliardi di euro e il dibattito è in corso.
Dobbiamo ricordarci dell’aumento che non abbiamo voluto vedere. E’ come se la percezione generale si fosse fermata a dopo il 2001 quando in Occidente, nonostante l’11 settembre e la guerra in Iraq e altri fatti molto gravi, il trend delle spese militari mondiali era in diminuzione anche se leggera. Ma già negli anni successivi se diminuivano le spese dei Paesi occidentali – Stati Uniti in testa in particolare con la presidenza Obama – aumentavano quelle in Asia in generale, e nell’Asia orientale in particolare, come anche nel Medio Oriente. Quello che è successo poi, nel 2014, è che, per la prima volta da molti anni, c’è stata una inversione di tendenza: il complesso delle spese militari mondiali seppure di “qualche” decina di miliardi di dollari ha progressivamente registrato rialzi, anche di quasi un punto percentuale in un anno. Da quel momento i Paesi impegnati a ridurre la spesa non sono stati più in grado di compensare quelli impegnati ad aumentarla. Da allora lo stesso trend si è esasperato fino al 2021 quando nel mondo le spese militari sono aumentate di 50 miliardi di dollari, superando i 2000 miliardi di dollari. E fino al conflitto in Ucraina che porta ad un aumento di spesa in armamenti anche nei Paesi europei. Il discorso è complesso ma in ogni caso va considerato nella sua intera parabola.
“Un obiettivo che consentirà di creare una vera e propria difesa europea”: così, in sede di Consiglio europeo che si è tenuto il 24 e 25 marzo, il presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi ha definito l’aumento della spesa militare. Si spera davvero che possa essere il momento di svolta per il processo che manca alla costruzione europea: la formazione di una difesa comune per una reale politica estera comune. E’ uno degli indispensabili anelli mancanti insieme con la fiscalità. Non si tratta, dunque, solo di raggiungere un’intesa per l’Ucraina. Dobbiamo ricordarci che sono tante e significative le vie da percorrere per scongiurare le sabbie mobili della conflittualità su diversi fronti, sotto diverse latitudini. Serve un’Europa compatta e unita sul fronte della pace che non è fatto solo da trincee vere e proprie. Non dimentichiamo tutta la questione delle cosiddette “guerre per procura” che in questo momento rappresentano il punto cruciale di tanti conflitti in singoli Paesi o in aree geografiche. Ci si combatte all’interno ma per interessi esterni di attori che riescono ad avere, proprio all’interno di questi Paesi o di queste aree, un controllo, magari attraverso milizie locali e cioè senza far riferimento agli eserciti regolari. Si tratta di modalità che contribuiscono ad accrescere la mancanza di sicurezza a livello internazionale. Anche per questo serve la Difesa europea.
Fa effetto parlarne nel giorno in cui è venuta a mancare Maria Romana De Gasperi che sempre ricordava il forte rammarico del padre nel presagire il fallimento della Comunità Europea di Difesa. Lo statista tra i padri fondatori della casa comune europea morì due giorni prima della bocciatura fondamentale da parte della Francia, ma purtroppo aveva intravisto l’esito.
Ci sono poi altre spese da non dimenticare. Nel 2021 le Nazioni Unite hanno chiesto di triplicare la cifra prevista a livello mondiale per far fronte alle conseguenze dei cambiamenti climatici e per assicurare una transizione ecologica. In ballo c’è il ripristino dell’ecosistema degradato e del suolo compromesso. Nel 2020 la spesa è stata di 120 miliardi. Tra le promesse emerse nel G20 di Roma e rimbalzate alla Conferenza di Glasgow COP26, tra fine ottobre e inizio novembre scorsi, c’è quella di assicurare una spesa di 350 miliardi di dollari l’anno entro il 2030. Per arrivare a 536 miliardi di dollari l’anno entro il 2050. Sono obiettivi che aspettano una prima verifica alla prossima Conferenza delle Parti della Convenzione quadrosul cambiamento climatico voluta dall’Onu, COP27, fissata a novembre prossimo in Egitto, tra soltanto otto mesi.Ma ci si chiede con quale consesso internazionale ci si arriverà.
Oltre all’urgenza assoluta di far cessare “la selvaggia crudeltà della guerra” in Ucraina – come l’ha definita Papa Francesco nella quarta udienza generale dall’inizio dell’invasione russa il 24 febbraio scorso – c’è la “battaglia” sul clima da portare avanti, che l’Unione europea per prima al mondo ha lanciato. Lo ha fatto da anni, in considerazione della gravità delle conseguenze per tutti ma anche nella consapevolezza che è necessario adottare misure efficaci ma anche costruire un consenso globale niente affatto scontato e “inventare” nuove forme di governance per problematiche globali e interconnesse.
Tematiche scottanti come le guerre, le emergenze climatiche, migrazioni, la povertà, la crisi sanitaria sono tremendamente interconnesse. La posta in gioco va ben oltre le doverose misure di contenimento dei rischi e dei danni. La sfida – ora è più palese che mai – non consiste solo nel raggiungere accordi per contrastare il surriscaldamento globale, ma nel ritrovare, dopo lo strappo della guerra in Ucraina che segue gli scossoni della globalizzazione e della pandemia, un nuovo equilibrio di collaborazione a livello internazionale. In sostanza, si tratta di recuperare la prospettiva che ha portato in precedenza a concepire le Nazioni Unite. Mettere a punto una Difesa europea può significare mettere insieme le forze su diversi fronti compreso quello di difendere propositi fondamentali e assicurare strumenti giuridici sempre nuovi per poter garantire modalità all’altezza delle sfide più attuali.
I drammatici fatti in Ucraina hanno messo bruscamente in discussione, dopo altri evidenti vacillamenti, il presupposto di un consesso internazionale all’interno del quale far sviluppare confronti e accordi che permettano di superare le logiche di equilibri di potenza. Già si sentiva parlare di fallimento o di riforma dell’Onu, ora in realtà si deve puntare l’attenzione sulla volontà politica dei vari Paesi di far funzionare il meccanismo delle Nazioni Unite, perché bisogna recuperare il presupposto di base: trovare accordi e modalità di collaborazione seppure nel rispetto delle peculiarità di ogni Paese. Serve un’Europa sempre più forte dei suoi valori migliori. L’alternativa è lasciare il campo alle armi.
Provvedere ai bisogni militari, creare un’Europa della Difesa deve significare tenere ben presente tutto l’orizzonte di necessità.
“Guerra ripugnante”: Papa Francesco, dopo altri accorati appelli dall’attacco del 24 febbraio, torna a dare un nome al “massacro insensato” che avviene in Ucraina. E’ la voce del Pastore di anime, e tradisce tutta l’intensità della preghiera fatta all’Angelus della terza domenica di Quaresima, ma è anche la voce dell’uomo di Dio che tuona potente come la condanna: “Tutto questo è disumano, anzi è anche sacrilego perché va contro la sacralità della vita umana indifesa”. C’è tanto in comune con i Papi che lo hanno preceduto, ma c’è anche qualcosa di nuovo in quello che resterà anche come uno dei più significativi moniti all’umanità e uno dei più importanti contributi alla pace. A patto che venga ascoltato – e non solo da chi lancia ora sull’Ucraina missili e bombe – quando sottolinea che “la vita umana indifesa viene prima di qualunque strategia”.
Tanti, nell’ultimo secolo, gli appelli e le condanne da parte di Papi di fronte a guerre e conflitti, ma queste parole di Francesco arrivano come un vento in grado di spazzare via la definizione di “operazione militare” di Putin e quella di “guerra giusta” del Patriarca di Mosca Kirill. C’è qualcosa che accomuna tutti i pronunciamenti e qualcosa, come sempre, che distingue. Come i suoi predecessori, Papa Francesco non nomina mai l’aggressore, in questo caso palesemente la Russia di Putin. Al di là di tutte le possibili responsabilità immaginabili di ogni parte in causa sul territorio e altrove, è chiaro chi ha fatto la scelta scellerata e anacronistica dei missili e delle bombe su case e ospedali. Ma Papa Francesco – non solo a questo Angelus ma in tutti gli interventi in varie occasioni – non chiama l’aggressore per nome. Il motivo è preciso ed è in perfetta continuazione con l’attività diplomatica della Santa Sede dal secolo scorso: non nominare l’interlocutore per lasciare aperta la porta del dialogo. Suggerisce nella sua formalità un’importante sostanza: la verità della condanna non può significare mettere all’angolo l’altro, perché equivarrebbe a chiudere la porta di un dialogo vero. Vale per tutti, potenti e politici della terra, e per tutti i conflitti che purtroppo, al di là della concentrazione mediatica sul caso ucraino, continuano a portare lo stesso “massacro insensato” in altre parti del mondo, a partire dallo Yemen ma non solo.
In comune con i predecessori anche il tentativo di smantellare alle radici qualunque giustificazione della violenza e della sopraffazione. Di particolare, però, c’è il contesto che non è rappresentato solo dalle bombe. L’intervento ai primi di marzo del Patriarca ortodosso di Mosca Kirill, in cui ha parlato di “giusta guerra come lotta contro la promozione di modelli di vita anti cristiani come i gay pride”, resta come un’inquietante pietra miliare, anche se è stato poi accompagnato da un appello alla pace dopo il colloquio il 16 marzo con Papa Francesco.
Anche lo scenario di cui parliamo va chiamato per nome: si chiama fondamentalismo religioso etno-filetico, di carattere totalitario. Si tratta in sostanza dell’incontro tra nazionalismo e religione presa a pretesto come copertura ideologica. Di etno-filetismo si parla dal Concilio di Costantinopoli del 1872 come di “moderna eresia” ma torna come tornano i nazionalismi. In Russia oggi si parla di Russkii mir: significa semplicemente mondo russo, ma rappresenta proprio il fenomeno di identificazione tra chiesa e nazione che affascina tanti estremisti e fondamentalisti tra gli ortodossi. Ma non mancano proseliti anche altrove tra cattolici e protestanti.
Per tutti Francesco ribadisce che non si può fare male in nome di Dio: Da Dio – dice nello stesso Angelus – non può mai venire il male o l’ispirazione del male, perché “non ci tratta secondo i nostri peccati, ma secondo la sua misericordia”. Piuttosto – aggiunge – “sono i nostri egoismi a lacerare le relazioni; sono le nostre scelte sbagliate e violente a scatenare il male”. Secondo Francesco, la soluzione è chiaramente solo una: “Convertiamoci dal male, rinunciamo a quel peccato che ci seduce, apriamoci alla logica del Vangelo: perché, dove regnano amore e fraternità, il male non ha più potere!”.
Si fa presto a dire transizione ecologica: senza meccanismi di welfare ad hoc e senza una rivoluzione dei sistemi educativi, si rischia di dare la parola solo alla tecnoscienza che già pervade anche troppo la vita dell’uomo contemporaneo. A lanciare l’avvertimento è una personalità di spicco del mondo dell’innovazione tecnologica, Francesco Profumo, già presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr). Non bastano i buoni propositi di recupero dell’ambiente naturalistico, sottolinea.
Incontriamo Francesco Profumo a Milano, oggi presidente della Fondazione Compagnia di San Paolo. E’ stato, oltre che ai vertici del Cnr, anche ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. La sua storia personale esprime l’opposto rispetto a quello che potremmo definire scetticismo o diffidenza nei confronti delle scoperte tecnologiche.
Lo sguardo si illumina quando ci fa un esempio di innovazione: il prototipo messo a punto da giovani per ottenere acqua dall’aria. In sostanza si tratta di raffreddare l’aria disponibile nell’atmosfera convertendo l’acqua dallo stato gassoso, cioè dall’umidità, allo stato liquido, grazie alla condensa. Profumo ci spiega con entusiasmo che il prototipo è in grado di estrarre al giorno 13 litri di acqua, risorsa essenziale per definizione, in zone desertiche.
Il tono si fa grave quando, di fronte alle emergenze ambientali, chiediamo in che direzione stiamo andando. “Non c’è prototipo che tenga se non si recupera una visione olistica”, risponde subito. E poi ci consegna questa consapevolezza: “La tecnologia è solo uno degli strumenti possibili ma da sola non risolve i problemi, forse li accentua”.
“Non ci sono più le condizioni per dire che la sola tecnologia possa interagire con il tema dell’ambiente e della transizione ecologica”, afferma Profumo, sottolineando che non si può non parlare di transizione sociale. Spiega: “I piani da considerare sono tre: quello della transizione ecologica, quello della digitalizzazione, quello della resilienza sociale”.
C’è un “allineamento da fare” – sostiene – tra i sistemi di produttività e i sistemi di relazioni”. A livello teorico le basi ci sarebbero, sembra dire Profumo quando cita il discorso della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, al momento del suo insediamento a novembre 2019 che “conteneva precisamente l’indicazione di questi tre piani, da cui non si deve prescindere”. Ricorda la cosiddetta Agenda 2030 dell’Onu che prevede misure cheFrancesco Profumo considerano l’ambiente naturalistico e l’ambiente sociale, per affermare che, tra tanti passi avanti e passi indietro, in particolare l’Obiettivo 17 dell’Agenda rischia di essere il primo disatteso: è l’ultimo della lista, quello che invoca il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile.
“Si rischia di considerare solo l’urgenza di salvare il pianeta mentre l’essere umano continua a perseguire logiche autodistruttive e pensa di contare solo sui nuovi strumenti dell’era della digitalizzazione”. L’esperto di innovazione tecnologica avverte che “non si può perdere la centralità dell’uomo” e ricorda la chiarezza con cui viene spiegato nell’Enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco: l’ecologia o è integrale nel senso che si occupa di riequilibrare sistemi naturali e sistemi sociali o non è.
Profumo ne sottolinea l’importanza spiegando che “serve tenere insieme cose diverse, tutto è integrato”.
Viene subito in mente che la famosa transizione verso un nuovo sistema di produzione più ecologico non avrà lo stesso costo per tutti. Ci sono Paesi meno ricchi e sviluppati che rischiano di pagarne il prezzo più alto, ci sono fasce di popolazione in Paesi con economie agiate che potrebbero non reggere l’urto. Ma Profumo annuisce ma chiarisce che non è solo questo il punto: “Ci sono scenari problematici per tutti”.
“Servirà un welfare ad hoc, di accompagnamento, per la transizione ecologica che richiederà tempi molto lunghi”, avverte Profumo. I tradizionali sistemi di welfare sono in crisi. Il punto di vista non è negativo: “L’obiettivo finale è corretto e soprattutto ne verranno grandi opportunità”. Ma “servono forte consapevolezza e tanta ricerca”. Per la messa a punto dei modelli di welfare così come li conosciamo c’è voluto un processo di formazione e evoluzione. “Oggi non reggono più il confronto con i processi del futuro”. Serve quella che Profumo definisce “ibridazione da saperi diversi”, attenzione a indirizzi pro-profit o no-profit, a piani diversi tra Stato, settore secondario, settore terziario.
Se si guarda a singole tematiche come quella delle sorgenti energetiche, si capisce subito la profonda complessità della questione. Ma Profumo invita a riflettere sul fatto che la complessità non sta solo nelle revisioni tecniche da considerare ma in alcuni “rapporti chiave da rivedere, a partire dal rapporto tra domanda e disponibilità”. Ricorda che alcune fonti come quella solare sono segnate dalla variabilità della disponibilità. Dunque, “bisognerà disaccoppiare la domanda e l’offerta”, afferma, spiegando che “serve sempre più ricerca per assicurare bacini intermedi, bacini ‘cuscinetto’ che consentano il disaccoppiamento”. L’esempio è quello delle batterie che consentono di immagazzinare energia per quando ce n’è bisogno. Si capisce che la soluzione non è semplice su larga scala. Rispetto ai ritmi delle centrali termoelettriche “cambia l’equilibrio tra tempi di produzione e utilizzo”.
La proverbialità della rivoluzione copernicana sembra impallidire. Dal colloquio con Profumo usciamo con due parole d’ordine: ricerca e educazione, invocando innovazione e creatività. Non possono essere all’altezza dei tempi neanche i modelli educativi in atto, che sono figli dei modelli industriali in cui si sono sviluppati. Il punto è che finora i tempi di ogni rivoluzione industriale sono stati abbastanza lunghi da permettere che la conoscenza “prodotta” reggesse alle richieste e alle esigenze. Ma, nell’orizzonte che ci schiarisce Profumo, la quarta rivoluzione industriale che stiamo vivendo durerà massimo altri dieci anni per lasciare il passo alla prossima, che dovrà essere figlia delle tre transizioni indicate: ecologica, digitale, sociale, che portano con sé cambiamenti e accelerazioni impensabili fino a poco tempo fa. Per tenere il passo servono nuovi sistemi educativi.
Ci si deve abituare all’idea che “la conoscenza che l’uomo impara invecchi sempre più velocemente”. La priorità dunque sarà “imparare ad imparare accettando che si tornerà a scuola nella vita sei o sette volte in un meccanismo continuo di re-apprendimento”. Ma se “le competenze saranno sempre più temporanee, sarà fondamentale aver coltivato nello zainetto della vita una serie di conoscenze di tipo soft, come creatività, capacità di lavorare in squadra, attitudine al pensiero critico”. In qualche caso, argomenta Profumo, bisognerà anche “tornare a scuola per disimparare e reimparare perché il contenitore della mente non è infinito”. I dettagli della visione sono tutti da disegnare, ma è precisa la riflessione di Profumo: “Sarà una vita molto più interessante ma anche più faticosa”.
La velocità si sposa con l’incertezza, che flirta con “tentazioni autocratiche”. Profumo cita lo scenario di nuove povertà ma anche di nuove “debolezze”. Le crisi economiche e l’automazione hanno bruciato fette di lavoro e di impiego tradizionali; la pandemia ci ha bruscamente gettato nell’emergenza sanitaria globale; la digitalizzazione ha aperto scenari di cyber attacchi. Profumo non ha dubbi: “Sono tutti terreni che possono indurre a invocare interventi dall’alto, produrre scivolamenti verso forme di autoritarismo”. Il punto è che “la moderna tecnologia può ben sposarsi con un crescente controllo, può intercettare e bloccare mobilitazioni dal basso”.
Nessuno si senta escluso: il rischio è planetario e i sistemi democratici non sono di per sé inattaccabili. Tentazioni e derive da scientismo e culto della potenza a diversi livelli sono sotto gli occhi di tutti. Nell’era della tecnoscienza, serve una nuova antropologia all’altezza delle sfide per difendere umanesimo e democrazia.
“C’è la necessità di riscrivere una parte della storia dell’uomo”, dice Profumo, e “la più grave debolezza su tutti i fronti sarebbe la mancanza di consapevolezza che rende impreparati”.
La lezione di giornalismo a un anno dalla scomparsa. Fausta Speranza, giornalista inviata dei media vaticani esperta di politica internazionale, nel ricordare lo scrittore riminese, parte da una sua sentenza: “La comunicazione deve avere le stesse remore dell’agire”.
Nella Rassegna di varia Umanità che completa la Terza parte del fascicolo troviamo una rievocazione della lezione di una grande giornalista del servizio pubblico ad un anno dalla morte. Fausta Speranza, giornalista inviata dei media vaticani esperta di politica internazionale, e già collaboratrice dello scrittore riminese, nel suo pezzo “Ricordare Sergio Zavoli tra ubriacature social e sete di inchieste” parte da una sua sentenza: “La comunicazione deve avere le stesse remore dell’agire”. Per la Speranza “Non è solo una bella frase da ricordare, magari rievocando i tempi d’oro dell’inchiesta che fu, ma deve essere il principio con il quale analizzare, da cronisti che antepongono i fatti alle considerazioni, quanto accade oggi, a partire dal proliferare di notizie e dalla sparizione delle inchieste […] Nel caso di Zavoli, si andava oltre la cronaca raccontata correttamente che è già buon giornalismo. Si aggiungeva lo slancio di scavare, andare oltre la descrizione e la ricostruzione di un fatto, per indagare su di esso, ricercarne cause e spiegazioni, e spesso svelare ciò che è nascosto, portando alla luce aspetti e circostanze ignote ai più, o – peggio – che qualcuno vuole occultare”. Per Zavoli – chiarisce – “L’inchiesta deve rimbalzare”. “Ho sempre pensato – aggiunge la Speranza – che significasse che doveva essere come una palla lanciata non per andare a segno su un obiettivo predestinato ma per raggiungere spazi inattesi. Non si può concepire, come purtroppo spesso accade, che si raccolgano prove per una tesi precostituita. Non è questo – pensava Zavoli – il valore dell’inchiesta, che piuttosto deve servire a scavare e a scoprire quello che è ignoto anche a chi decide di andare a fondo e che poi deve fare i conti con la “verità” che gli si palesa. Non è una considerazione scontata. Ci vuole onestà intellettuale e dobbiamo riconoscere che non è merce che si trova facilmente di questi tempi”.
di Fausta Speranza
“La comunicazione deve avere le stesse remore dell’agire”
Una delle figure chiave del giornalismo italiano, Sergio Zavoli, scomparso il 4 agosto 2020, ne era convinto, e amava ripeterlo. Non è solo una bella frase da ricordare, magari rievocando i tempi d’oro dell’inchiesta che fu, ma deve essere il principio con il quale analizzare, da cronisti che antepongono i fatti alle considerazioni, quanto accade oggi, a partire dal proliferare di notizie e dalla sparizione delle inchieste. Tra i dati più rilevanti da considerare c’è un fenomeno tanto sottaciuto quanto grave: oggi la disinformazione è più pagata del corretto giornalismo. Sul web è spesso involontariamente finanziata anche dai maggiori inserzionisti pubblicitari perché prevalgono meccanismi di automazione. Significa sacrificare il senso critico di una cittadinanza alla dittatura dell’algoritmo. Da tutto ciò dobbiamo partire per ragionare sul valore dell’inchiesta ai tempi dei social, tra tagli alle redazioni giustificati dalle crisi economiche, dimenticanza delle fonti accertabili camuffata da post verità, superficialità spacciata per velocità.
Del giornalismo appassionato e accuratissimo di Zavoli restano produzioni da manuale, ma forse l’eredità più preziosa sta proprio nella tensione morale, alla quale, come tutti gli umani, non sarà stato sempre perfettamente all’altezza nei suoi 96 anni di vita, ma che senza dubbio lo ha chiaramente contraddistinto non abbandonandolo mai e permeando profondamente i suoi oltre settant’anni di attività da giornalista, politico, scrittore.
Stiamo parlando della tensione a rispettare valori come la verità, la libertà, la giustizia, il senso del bene comune.
Stiamo parlando di giornalismo serio e di qualità, il solo possibile nella convinzione che Alexis De Toqueville ha ben sintetizzato avvertendo che “la democrazia è il potere del popolo informato”. Altrimenti, è potere manipolabile e manipolato.
Nel caso di Zavoli, si andava oltre la cronaca raccontata correttamente che è già buon giornalismo. Si aggiungeva lo slancio di scavare, andare oltre la descrizione e la ricostruzione di un fatto, per indagare su di esso, ricercarne cause e spiegazioni, e spesso svelare ciò che è nascosto, portando alla luce aspetti e circostanze ignote ai più, o – peggio – che qualcuno vuole occultare. Zavoli, che è stato anche presidente Rai e, una volta senatore, è stato nominato presidente della Commissione di Vigilanza Rai, ha firmato reportage che hanno aperto orizzonti di comprensione su temi come il terrorismo, il fascismo, la democrazia, la malattia mentale, la scuola. “La notte della Repubblica” o “Nascita di una dittatura” sono solo i titoli più noti, fino a “Diario di un cronista”.
“L’inchiesta deve rimbalzare”
E’ essenziale in ogni caso il rispetto della verità. Si può argomentare per secoli sui criteri di valutazione: possiamo parlare di verità oggettiva, storica o contingente, eccetera eccetera. Al di là delle possibili elucubrazioni al proposito, c’è qualcosa di profondamente “pragmatico” che Zavoli insegnava a chi ha avuto, come chi scrive, il privilegio di lavorare con lui. Ed è racchiuso in una simpatica espressione che ripeteva con convinzione: “L’inchiesta deve rimbalzare”. Ho sempre pensato che significasse che doveva essere come una palla lanciata non per andare a segno su un obiettivo predestinato ma per raggiungere spazi inattesi. Non si può concepire, come purtroppo spesso accade, che si raccolgano prove per una tesi precostituita. Non è questo – pensava Zavoli – il valore dell’inchiesta, che piuttosto deve servire a scavare e a scoprire quello che è ignoto anche a chi decide di andare a fondo e che poi deve fare i conti con la “verità” che gli si palesa. Non è una considerazione scontata. Ci vuole onestà intellettuale e dobbiamo riconoscere che non è merce che si trova facilmente di questi tempi. Ma dobbiamo anche riconoscere che, al di là della “qualità” dei giornalisti, ci vogliono anche tempo e risorse che purtroppo le testate giornalistiche non sono più disposte a concedere, se non eccezionalmente.
Futuro dell’inchiesta, post-verità e social network
Ma se pensiamo allo stato di salute attuale e al futuro dell’inchiesta, non possiamo non parlare delle implicazioni della cosiddetta post verità. E’ un termine ormai entrato nel gergo del mondo occidentale e forse ancora di più nell’attitudine mentale. Il primo a chiarirci le idee è stato il filosofo polacco Zygmunt Bauman che ha parlato di “modernità liquida” in cui tutto – compresa la verità – è individualizzato, privatizzato, incerto, flessibile, vulnerabile.
Poi abbiamo riconosciuto il concetto di post verità, che individua in sostanza le tante situazioni in cui deliberatamente, facendo leva sulle emozioni, sulle personali credenze, sui pregiudizi cognitivi della psiche di ognuno, la realtà viene distorta e si stabilisce una sequenza parallela. Si crea una realtà fittizia ma il punto è che è proprio in base a questa “verità” fittizia che molti formano le loro opinioni, attraversano e rileggono le loro esperienze. E’ qualcosa che va ben oltre l’individualismo e il relativismo ed è ben evidente quanto facilmente si sposi con il mondo dei social network. E’ un meccanismo in base al quale quanto percepito è considerato vero perché sorretto anche solo dal desiderio e dai sentimenti o dalle sensazioni cui fa appello. Il problema vero è l’impatto che tutto ciò ha sui comportamenti degli individui e delle masse. E il quesito essenziale è come far sopravvivere la ricerca del vero oltre l’apparenza – l’inchiesta – in un momento storico in cui sensazioni e sensazionalismo diventano il sostegno della realtà.
Il bisogno di verità dopo la presa di Kabul…
A ben guardare tutto ciò non significa che sia morto il bisogno dell’uomo di verità o che la verità non abbia più un peso e un valore. Solo guardando all’emergenza Afghanistan, è evidente come i talebani la temano più di ogni altra cosa. Gli attacchi ai media hanno accompagnato di pari passo la conquista di nuovi territori. Dove hanno imposto la sharia, hanno anche subito trasformato le radio locali in organi di propaganda. E tra i primi oppositori giustiziati dagli jihadisti è stato assassinato a Kabul il direttore del Government Information Media Center, Dawa Khan Menapal, figura chiave per la comunicazione del governo, già uno dei portavoce del presidente Ashraf Ghani. Se la prendono con i giornalisti, li braccano, li minacciano, li ammazzano. Le uccisioni di giornalisti, di interpreti, i raid sulle radio locali, fanno parte di un’unica strategia. Non possono permettersi alcuna narrazione che sia diversa dalle loro bugie e dalle loro fake news. Possono imporsi soltanto con la brutalità e mettendo a tacere qualunque altra verità diversa dalla loro.
— e le manifestazioni di guerriglia urbana a casa nostra
Non ci sono soltanto gli scenari estremi. Ci sono anche prospettive molto inquietanti a casa nostra. Le recenti manifestazioni di protesta in molti Paesi occidentali sono il segnale di come la pandemia stia contribuendo a destabilizzare la relazione fra i cittadini e lo Stato. Le scene di guerriglia urbana provocate a Roma e in altre città d’Italia a fine agosto dai cosiddetti “no vax” e “no pass” sono state caratterizzate da due preoccupanti elementi: l’uso della violenza e la scelta dei giornalisti e degli scienziati come obiettivo da colpire.
La pandemia ha generato frustrazione, esclusione sociale e molte altre preoccupazioni, alimentando gli atteggiamenti antigovernativi e anti-sistema.
Lo sottoscrive uno studio dell’Istituto di ricerca sulla pace di Oslo pubblicato sulla rivista Psychological Science[1]. Il gruppo di analisti ha intervistato 6 mila adulti abitanti negli Stati Uniti, in Danimarca, Italia e Ungheria ed è emerso un impressionate legame tra il carico psicologico del Covid-19 e sentimenti e comportamenti altamente distruttivi, incluso l’uso della violenza per una causa politica. Non è invece emersa una relazione consistente tra il peso della pandemia e le motivazioni a impegnarsi in forme di attivismo pacifico. Per questo – raccomanda lo studio – quando finirà, i programmi di ripresa dovranno anche riparare le relazioni tra i cittadini e il sistema politico. Senza dimenticare le relazioni tra cittadini e giornalisti, bersaglio in realtà già da prima della pandemia della furia delegittimatrice dei populismi.
Verità fa rima con libertà
Non si può cercare la verità se non si è liberi. Ma anche per il concetto di libertà bisognerebbe intendersi. E’ ovvio che il giornalista deve poter avere un margine di movimento, non può essere ingabbiato da nessuno, nei tanti modi in cui può accadere che lo sia. Ma c’è un altro punto di vista decisivo. Tra i ricordi più vivi delle riunioni di redazione con Zavoli e di alcuni scambi personali, nella memoria di chi scrive c’è un pensiero preciso formulato a seguito di alcune considerazioni del giornalista che amava definirsi cronista. Per un intellettuale, la libertà fondamentale – sembrava suggerire Zavoli – non è solo quella di muoversi in qualunque spazio senza limitazioni o con meno limitazioni possibile, ma è quella di gestire la propria interiorità. Sono bisogni e desideri, ambizioni e aspettative, se non la cupidigia di gloria, di soldi, di potere, a limitare la libertà di movimento. I legacci non sono solo al di fuori, ma dentro di noi. Tante considerazioni e tanti ricordi si potrebbero aggiungere su questo tema. Personalmente ricordo scambi intensissimi di pensieri e di dubbi sulla fede. Non vorrei o saprei raccontarli. Ma c’è un verso dedicato a Dio che, senza restituire tutto lo spessore delle riflessioni di Zavoli e della sua esperienza umana e spirituale di cui nessuno peraltro potrebbe mai davvero dire se non balbettare, mi sembra esprimere il suo anelito di conoscenza, di verità, di libertà perfino nel rapporto con l’ultraterreno, almeno nella dimensione in cui riusciamo a pensarlo.
In relazione alla fede, resta il titolo del suo libro, Il socialista di Dio, pubblicato nel 1981 da Mondadori,[3] che ha spiegato che un tempo essere socialisti voleva dire essere atei, mentre Zavoli era di fede cattolica e di animo laico. Ha segnato una sorta di superamento di una barriera, da parte di un uomo che era profondamente figlio della tradizione politica romagnola che affondava le sue radici nella difesa dei deboli ma anche nelle violente lotte anticlericali contro lo Stato Pontificio. Ma in realtà bisogna riconoscere che le definizioni non possono essere efficaci di fronte a personalità che meritano questo appellativo. E infatti, più che di superamento, dovremmo parlare di sintesi che l’uomo, il comunicatore, il poeta, ha poi personalmente espresso, tante sintesi quanti sono stati i momenti e i passaggi più significativi della sua esistenza e delle sue convinzioni religiose e politiche. Per un intellettuale vero non c’è approdo: c’è solo la tensione di un continuo viaggiare verso, cercare, attraversare significati e definizioni.
Se la superficialità è spacciata per velocità
Si è detto per anni: la radio lancia la notizia, la Tv la fa vedere, il quotidiano la spiega. Non si è capito ancora cosa debbano fare il web e i social. Si può obiettare che siamo nell’era del medium totale, ma si deve riconoscere che la rete ha gestito l’informazione prima che il mondo del giornalismo gestisse davvero internet.
Di certo c’è che si è imposto un ritmo di snellezza della notizia, corredata da video e foto che rappresentano un’ipoteca sul sensazionalismo, carente troppo spesso di vere spiegazioni.
E quel che è peggio è che la rete e i social sono diventati fonti per i media tradizionali. L’effetto principale è di stordimento e di assuefazione a un fenomeno: l’offerta in termini numerici si è esponenzialmente moltiplicata, ma troppo spesso viene riproposta la stessa notizia che conserva spessissimo anche lo stesso errore di battitura.
Tutto ciò risponde e riconduce a un pensiero disarticolato e spezzettato che sta agli antipodi rispetto al concetto di approfondimento o di inchiesta. E chi vive la realtà di tante delle redazioni di oggi si rende conto che corrisponde alla velocità con cui si fanno le riorganizzazioni aziendali.
Accade che professionisti siano surclassati da persone meno competenti scelte per dirigere settori cruciali dell’informazione perché se ne sapessero abbastanza si renderebbero conto dello scempio che si compie. L’ignoranza, se si sposa con l’ambizione partorisce obbedienza, tanto apprezzata in tempi di tagli e di sensazionalismo.
Dunque, la superficialità è servita in salsa veloce, condita da ignoranza. La distanza dall’amore per lo studio e il rispetto della competenza che si respirava accanto a Sergio Zavoli, e che peraltro ovviamente conosce altre felici eccezioni, è abissale.
E accade che, mentre i media seri stanno vivendo grosse difficoltà a livello globale, l’industria della disinformazione sta vivendo un momento particolarmente florido.
Programmi strutturati di inserzioni pubblicitarie per 2,6 miliardi di dollari all’anno firmati da top brand del settore sembrerebbero una fetta come un’altra di mercato, se non fosse che il prodotto in questione da promuovere è la disinformazione.
A tanto ammonta, infatti, l’incasso per chi produce fake news, secondo la ricerca condotta grazie alla combinazione dei dati di NewsGuard e quelli di Comscore. Si tratta rispettivamente dell’organizzazione fatta di giornalisti che monitorano la disinformazione online e dell’azienda che misura pubblico, traffico e metriche pubblicitarie per decine di migliaia di siti. NewsGuard è un’estensione per browser Internet, creata da NewsGuard Technologies.
In sostanza, si tratta di un programma che contrassegna le notizie con un’icona di colore verde oppure rosso, che permette agli utenti di riconoscere le fake news.
ComScore è una società di ricerca via internet in grado di fornire servizi e dati per il marketing in diversi settori commerciali del web. Sostanzialmente tiene un monitoraggio costante di tutti i flussi che appaiono in internet per studiare il comportamento della “rete”. Sussulti di consapevolezza.
A chi pubblica falsità, dunque, arrivano miliardi di dollari che possiamo stimare per difetto perché si tratta solo di quelli che risultano. Le piattaforme digitali che controllano gran parte del mercato pubblicitario non rendono pubblici tali dati.
Spesso le pubblicità vengono inserite automaticamente tramite algoritmi dalle piattaforme pubblicitarie digitali. Gli strumenti offerti dalle aziende tradizionali di verifica delle inserzioni, create con lo scopo di proteggere i brand dall’inserire annunci su siti inappropriati, sono efficienti nell’uso dell’intelligenza artificiale per individuare e bloccare le pubblicità su siti pornografici, o che promuovono violenza e odio.
Queste aziende sono invece generalmente inefficaci nel riconoscimento della disinformazione, che spesso si presenta esattamente come vera e propria notizia e che non può essere identificata attraverso l’uso della sola intelligenza artificiale.
Quanto valore commerciale produce il mercato delle fake news ben indirizzate
Le falsità più supportate dalla pubblicità riguardano settori estremamente sensibili per il cittadino: salute, disinformazione elettorale, propaganda. Si tratta semplicemente di notizie false ma catturano l’attenzione proprio perché l’ambito interessa. Un esempio lampante arriva da quello che è accaduto in Germania nell’estate che ha preceduto il voto di ottobre 2021. Mentre il partito dei Verdi ha continuato ad essere il principale obiettivo della campagna di falsità, le alluvioni hanno introdotto nuove narrative di disinformazione elettorale su presunti illeciti compiuti durante i disastri, incluse affermazioni secondo cui le inondazioni sarebbero state interamente orchestrate per ragioni politiche.
Il sito web anonimo N23.tv, considerato inaffidabile da NewsGuard perché viola pesantemente standard giornalistici fondamentali, ha scritto precisamente che “evidenti anomalie suggeriscono fortemente che l’inondazione di intere località e regioni sia stata voluta e forse anche intenzionalmente forzata”. L’articolo ha raggiunto oltre 60 mila utenti su Facebook, secondo i dati di CrowdTangle, uno strumento di monitoraggio dei social media di proprietà di Facebook. Va ribadito che non sempre c’è consapevolezza da parte dei brand del fatto che la loro pubblicità raggiunge siti di questo tipo.
La cosiddetta pubblicità programmatica passa per un processo automatizzato che non offre informazioni chiare e complete ai brand su dove esattamente compaiano i loro annunci e di conseguenza su quale tipo di informazioni stiano finanziando.
Ma nessuno può girarsi dall’altra parte. Ridurre o eliminare le pubblicità che inavvertitamente supportano i siti di fake news toglierebbe loro una fonte di guadagno determinante. Ben l’1,68 per cento della spesa per la pubblicità programmatica nei 7.500 siti facenti parte del campione è andata a siti che pubblicano disinformazione.
Considerando i 155 miliardi di dollari della spesa mondiale della pubblicità programmatica, si arriva alla stima di spesa pubblicitaria mondiale annua su siti di disinformazione pari ai 2,6 miliardi di dollari sopra citati. Quest’ultima ricerca arriva dopo numerosi altri report sulla sconcertante iniezione di fondi con la quale gli inserzionisti supportano inavvertitamente la disinformazione attraverso la loro pubblicità. Le notizie sono false ma ben indirizzate.
Grazie all’analisi di NewsGuard e Comscore si comprende bene il motivo per cui così tanti siti che pubblicano bufale siano in grado di generare introiti e mantenere modelli aziendali di successo. I loro articoli tendono a generare interazioni significative online e gli articoli contenenti notizie false sono spesso anche promossi dagli algoritmi dei social media. L’elemento determinante è che sono studiati per massimizzare il livello di interazione e le entrate pubblicitarie e non l’accuratezza dell’informazione e la sicurezza di chi legge. In definitiva, oggi chi pubblica disinformazione può produrre notizie false a un costo molto ridotto, a prescindere dal fatto che si tratti di notizie semplicemente inaccurate oppure dannose, e può competere in termini di engagement e introiti con organizzazioni giornalistiche legittime che spendono milioni in giornalisti, editor, cosiddetti fact-checker per produrre contenuti accurati e di qualità. Inoltre, ogni dollaro speso in pubblicità che vada a siti di disinformazione contribuisce molto più alla produzione di notizie false di quanto un dollaro speso in pubblicità che vada a media legittimi contribuisca alla “produzione” di vero giornalismo.
L’intelligenza umana come forma di resistenza al “copia e incolla” e agli algoritmi
Serve l’intelligenza umana, ovvero giornalisti formati e competenti che non si affidino al “copia e incolla” e agli algoritmi. Sembrerebbe banale ripeterlo ma invece ci rendiamo conto che non è scontata una considerazione né per giovani laureati né per professionisti: se si trova un articolo sulle pagine di un motore di ricerca o di un social media non è detto che sia scritto da un giornalista legato a regole di deontologia professionale: potrebbe, ad esempio, far parte di una campagna politica. Sarebbe fondamentale capire chi finanzi quel sito – un’azienda privata, un governo straniero – e quale sia il suo orientamento editoriale. Ma difficilmente, nonostante la delicatezza e l’importanza dell’informazione, ci si sofferma o si hanno effettivamente gli strumenti per capire. Non si tratta di valutazioni di tipo ideologico sui contenuti, ma di analisi dei criteri che assicurano affidabilità a un prodotto giornalistico.
Alcuni esempi: si controlla se quel sito citi le fonti da cui attinge per le notizie o se pubblichi smentite in caso di errori. Sembrano dettagli ma, con altre considerazioni, fanno invece la differenza. Così come un’informazione corretta fa sempre la differenza per il cittadino.
Sono considerazioni che non valgono solo per l’ambito della pubblicità. E bene lo ha argomentato Michele Mezza su questa rivista nel suo testo intitolato “Lo spillover del giornalismo”, pubblicato nel fascicolo invernale 2021. Mezza invita a
“riprogrammare le intelligenze dell’informazione”, parlando della figura del social timing manager che “non deriva né da esperienze giornalistiche né da logiche editoriali, ma direttamente dalle pratiche di esecuzione degli stilemi algoritmici”, e che “tende a chiedersi solo come postare e non perché postare”.
E’ chiara, efficace, esaustiva la sua definizione:
“La redazione diventa così sempre più un hub, una stazione di smistamento, dove il momento magico è dato dalla coincidenza che si coglie fra attenzione e contenuto”[4].
Conclusione
C’è da chiedersi quanto spazio resterà per la corretta informazione. Non per lagnarsi della delusione per le “magnifiche sorti e progressive” che la tecnologia riserva, ma per cercare di recuperare la consapevolezza che era degli antichi: nella mitologia greca e romana Atena/Minerva era dea della guerra e delle arti intellettuali. Inventare divinità non era certo un problema all’epoca: la sovrapposizione era voluta e significativa. Nella ricchezza dell’immaginario dei Classici, i due orizzonti di vita hanno in comune il valore del campo di battaglia. Battaglie profondamente diverse, anzi di concezione opposta, ma battaglie.
L’impegno intellettuale è il contrario dell’arrendevolezza. Ricordiamo Sergio Zavoli per conservare la grinta di fare e farsi domande vere e in autentica libertà. E’ bello farlo con alcuni suoi versi, ricchi del suo indimenticabile garbo e della sua indomita intelligenza: