Disabilita’ e sport

Potenzialità espressive, sport, anziani, spazi abitativi adeguati, sono stati tra i temi dell’incontro “Noi non loro” organizzato a Scampia dalla Conferenza episcopale italiana, che si conclude oggi con la Messa nel Duomo di Napoli. Tre giorni di confronto che hanno offerto un quadro essenziale dei bisogni delle persone con disabilità e che hanno inviato un messaggio potente sui sorprendenti risultati raggiunti quando entrano in campo attenzione e ascolto

Fausta Speranza – Scampia, Napoli 

 

“Separare le persone dai problemi”: con questa espressione lo psicoterapeuta Giovanni Miselli, intervenuto all’incontro “Noi non loro” della Conferenza Episcopale Italiana, che si è chiude oggi con la Messa celebrata a Napoli dall’arcivescovo della città, monsignor Domenico Battaglia, ha invitato i partecipanti, provenienti da tutta Italia, a concentrarsi su valori e desideri di persone con disabilità per “lasciare esplodere le tante potenzialità che tutti hanno”. Miselli ha sottolineato l’importanza fondamentale di un ascolto davvero attento per capire i desideri e i valori delle persone che non riescono ad esprimersi compiutamente. “E’ solo attraverso i loro desideri che si capiscono i valori e solo comprendendo i valori si può comprendere il progetto di vita che bisogna concepire per chiunque”.

Ascolta l’intervista con Giovanni Miselli

La contagiosa energia di Oney Tapia

Al secondo giorno di dibattiti dell’incontro voluto dal Servizio per la pastorale per le persone con disabilità della Cei si è parlato in particolare dell’ambito dello sport. Tra le varie testimonianze, quella dell’atleta paralimpico Oney Tapia che, al ritmo di musica, ha ringraziato la Cei e tutti i partecipanti per “tre giorni di condivisione di pensieri e di esperienze straordinari”. A proposito di agone sportivo, Claudio Arrigoni, giornalista del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport, che da anni segue le Paralimpiadi, ha messo in luce gli straordinari risultati raggiunti, sottolineando che nel mondo sono 650 milioni le persone con disabilità e che soltanto una percentuale troppo bassa riesce a fare sport. Arrigoni, tra l’altro, ha chiarito che le statistiche testimoniano che le persone con disabilità che si misurano con lo sport richiedono una spesa sociale di sei volte inferiore rispetto a chi non ne pratica. Una valutazione, quella di Arrigoni, non di tipo strettamente economico, ma che intende richiamare le responsabilità di una società chiamata ad essere lungimirante sotto tanti punti di vista.

Ascolta l’intervista con Oney Tapia
L'intervento di Oney Tapia
L’intervento di Oney Tapia

L’esperienza di ‘Insuperabili’

Toccante il racconto di Raffaella Bussetti, fondatrice di ‘Insuperabili’, associazione sportiva per persone con diverse disabilità. Bussetti ha testimoniato il bisogno, da madre di un adolescente con una forma di autismo, di offrire a suo figlio la possibilità di fare sport, così importante nell’età evolutiva. È da qui che è nata l’esperienza di ‘Insuperabili’ che in Campania ha la caratteristica straordinaria di offrire strutture e contesto per far praticare sport a ragazzi con disabilità fisiche e anche mentali. Bussetti ha ricordato che se per le problematiche fisiche ci sono perfino le Olimpiadi Paralimpiche, restano comunque molte le barriere per l’accesso allo sport di chi ha disagi mentali.

Ascolta l’intervista con Raffaella Bussetti

La terza età

Tantissimi, tra gli altri, gli interventi anche sul tema della terza età. L’Italia nel 2050 sarà il Paese con la popolazione più anziana al mondo, ha ricordato don Carmine Arice, padre generale della Piccola Casa Cottolengo. Don Carmine ha ricordato che a fronte di una fetta di anziani cosiddetti “fit”, cioè che vivono in salute la terza età, ci sono tantissimi che affrontano disagi, malattie e disabilità vecchie e nuove. Per tutte le persone che vivono problematiche “abbattere anche solo un gradino può fare la differenza”, è stata l’indicazione di Marco Bertelli della Misericordia di Firenze. Bertelli ha sottolineato l’importanza del diritto ad uno spazio abitabile che risponda a esigenze e scelte di vita personali e particolari. “Non si può pensare spazi per tutti – è stata la sua indicazione – ma valutare abitazioni e strutture per ciascuno”.

Ascolta l’intervista con Marco Bertelli

La vulnerabilità dei disabili

Ad offrire una sintesi di tante argomentazioni sulla dignità è stato don Gianluca Marchetti, Sottosegretario Cei, che si è soffermato sul concetto di vulnerabilità per spiegare che non si tratta di un confine, ma di una condizione dell’uomo. Tutti, seppur in diverso modo, siamo vulnerabili -ha ricordato – e quando nella storia l’uomo ha pensato di essere un superuomo, dimenticando la propria condizione di limitatezza, ha dato vita agli orrori più gravi dell’ideologia. Comprendere che la vulnerabilità, di cui la disabilità è una declinazione, non è qualcosa che appartiene ad alcune categorie, ma aiuta a vivere in modo pieno l’esistenza e a vivere la relazione nel “noi” che supera le distanze da “gli altri”. Vulnerabilità, è stata dunque la conclusione, è lo spazio dei limiti e delle ferite che tutti sperimentano ed è proprio quello spazio di umanità che Dio incarnandosi abita insieme con l’uomo.

 

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2024-04/disabilita-cei-suor-donatello-scampia-locatelli-convegno0.html

Disabilita’ e nuove prospettive

Disabilità e nuove prospettive, da Scampia richiamo a vigilare sugli adolescenti

Un forte appello a promuovere attenzione, linguaggio e strumenti sempre nuovi per le persone con disabilità emerge con forza dall’incontro “Noi, non loro”, organizzato dalla CEI alla periferia di Napoli. I sacerdoti impegnati sul campo raccomandano di occuparsi del particolare periodo dell’età evolutiva

Fausta Speranza – Napoli Scampia

Esiste un legame profondo tra povertà e disabilità perché l’una troppo spesso provoca o aiuta l’altra: è quanto ha ribadito, all’incontro “Noi, non loro”, organizzato a Napoli dalla Conferenza Episcopale italiana, Vincenzo Falabella, presidente della Fish – Federazione Italiana per il Superamento dell’handicap. È stata la sua, una delle tante voci emerse in questa terza edizione del congresso, voluta in particolare al Polo universitario di Scampia della Federico II.

L’opportunità della nuova legge in Italia

“Viviamo in Italia un’opportunità unica per una svolta decisiva in tema di disabilità, e la Chiesa è sempre fondamentale come presenza di stimolo per le istituzioni e in termini di collaborazione fattiva sul territorio”, ha detto invece il ministro italiano per le Disabilità, Alessandra Locatelli, intervenuta all’incontro promosso dal Servizio per la pastorale delle persone con disabilità della CEI di cui è responsabile Suor Veronica Donatello.

Ascolta l’intervista con il ministro italiano per le Ddisabilità Alessandra Locatelli

Locatelli ha parlato di centralità della persona, affermando che è arrivato il momento della concretezza. Pochi giorni fa, il 15 aprile scorso, è stato votato l’ultimo decreto attuativo della legge del 2021 che, ha spiegato il ministro, “prevede linguaggio, risorse e strumenti nuovi di inclusione per tutte le età e che porrà l’Italia all’avanguardia in Europa e nel mondo se riuscirà ad attuare quanto previsto”. “Sia in Europa, sia nel mondo – ha quindi aggiunto – c’è grande attenzione per la nuova normativa italiana di cui si è interessato anche il Commissario straordinario per i diritti umani dell’Onu, Volker Turk”.

Il bisogno di risorse all’altezza delle strategie

Resta da capire, è stata la raccomandazione di don Carmine Arice, padre generale della Piccola Casa Cottolengo, se ci saranno le risorse economiche per mettere in pratica tutto questo. In particolare, è l’interrogativo, per quanto riguarda gli anziani. “Nel 2050 – spiega Arice – l’Italia avrà il maggior numero di anziani rispetto a tutti gli altri Paesi del mondo e non tutti, purtroppo, autosufficienti”.

La delicatezza dell’adolescenza

A chiarire che è necessario affrontare l’aspetto disabilità in tutti i momenti dell’esistenza, dall’età evolutiva a quella adulta, è il sottotitolo del convegno “In ogni stagione della vita”. Della peculiarità e delle sfide dell’adolescenza ha parlato don Samuele Ferrari, docente del Seminario Arcivescovile di Milano, incaricato di catechetica e pastorale giovanile, che l’ha definita usando le parole di Chesterton: “L’età della vita meno comprensibile”, sottolineando poi l’importanza di individuare il dono e il talento di ciascun giovane che, a volte, si confondono con i desideri. In ogni caso, “quello che ogni giovane esprime va accolto e curato con attenzione speciale, e in particolare se vive disabilità”. Questo per altro, quando accade – ha ricordato don Samuele – permette tante forme di integrazione, come “ragazzi con forme di autismo che collaborano fattivamente con catechisti, giovani con disabilità impegnati a vario titolo in strutture sportive della parrocchia”. Anche da don Samuele è poi arrivata una raccomandazione, ossia che si tratta di “un cammino continuo da fare insieme, innanzitutto insieme con Gesù, e con l’impegno a imparare e ad ascoltare sempre perché ci sono sempre nuove scoperte da fare”. Da parte sua, il fondatore dell’Associazione Meter, don Fortunato Di Noto, ha messo in luce i rischi delle “trappole digitali”: siti e persone che sfruttano la solitudine di adolescenti e in particolare ragazzi con difficoltà per abusi di tipo sessuale.

Essere protagonisti del cambiamento

Tra gli interventi, c’è stato quello di Maria Rosaria Duraccio, direttore dell’Ufficio per la pastorale delle persone con disabilità della Diocesi di Vallo della Lucania:

Duraccio ha confermato di guardare alla nuova legge come ad una bella opportunità, perché “offre una visione nuova, quella della persona con il suo progetto di vita, mentre fino ad oggi il fulcro degli interventi si è focalizzato sulle disabilità”. Inoltre, ha spiegato che la nuova normativa può aiutare anche le stesse persone con disabilità a guardare diversamente al proprio spazio nella comunità: “Uno spazio di opportunità e non solo di problemi che deve far sentire tutti protagonisti e non vittime”.

L’inclusione vissuta

All’incontro sono emersi straordinari racconti, da nord a sud Italia, di case famiglie dove vivono persone con disabilità senza genitori, come la Casa Amoris Laetitia nella Diocesi di Bergamo, o esperienze particolari di parrocchie che, ad esempio, assicurano strumentazioni per la partecipazione alle attività delle comunità per non vedenti o non udenti, o ancora associazioni sportive, come Gli insuperabili di Caserta. Oltre alla riflessione, dunque, si tratta di valorizzare la creatività che spesso – ha affermato l’arcivescovo di Napoli, Domenico Battaglia – può essere stimolata dai protagonisti stessi. Monsignor Battaglia, infatti, ha raccontato quanto la sua Diocesi riceva “in termini di stimoli e idee da un ragazzo affetto da una forma di autismo che collabora da anni con il team della segreteria”.

Una partecipazione di alto livello

Al convegno, le esperienze narrate si intrecciano a rapporti che fotografano le necessità e video che raccontano i progetti Cei. A prendervi parte, in presenza o in collegamento video, oltre all’arcivescovo di Napoli monsignor Domenico Battaglia, sono stati l’arcivescovo di Cagliari e Segretario Generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi e l’arcivescovo di Ascoli Piceno e Vice presidente della Cei, monsignor Giampiero Palmieri. Diverse le autorità civili presenti, oltre al ministro Locatelli e al vice ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Maria Teresa Bellucci, sono intervenuti il Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II Matteo Lorito; il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi; il prefetto Michele Di Bari e la stessa suor Veronica Donatello, responsabile del Servizio nazionale per la pastorale delle Persone con disabilità.

Domani, domenica 21, alle 11, l’incontro si concluderà con la Messa presieduta dall’arcivescovo Battaglia.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2024-04/disabilita-cei-suor-donatello-scampia-locatelli-convegno.html

L’inclusione che passa per Scampia

Nella periferia di Napoli la terza edizione dell’appuntamento promosso dalla Cei, che da oggi a domenica prossima abbatte le barriere non solo fisiche contro la disabilità, individuando necessità e risorse dei territori. Suor Veronica Donatello, responsabile del Servizio per la pastorale delle persone con disabilità, racconta la prima scommessa vinta: portare 500 partecipanti in un quartiere ritenuto per tanto tempo difficile per tutti

Fausta Speranza – Napoli Scampia

Lo scivolo come mezzo e come simbolo: rampe che servono per persone con disabilità, scivoli che da sempre fanno divertire grandi e piccoli e che nel gioco creano partecipazioneStiamo parlando di alcuni degli “ingredienti” dell’evento “Noi, non loro”, organizzato dalla Conferenza Episcopale Italiana (Cei) presso il Polo a Scampia dell’Università Federico II per promuovere inclusione. Quest’anno, per la prima volta, dopo le due edizioni a Roma, ha portato i 500 partecipanti a Napoli. In particolare, dal pomeriggio di oggi, 19 aprile, alla mattina di domenica prossima, teatro degli incontri è il quartiere di Scampia.

Noto per lungo tempo come periferia difficile di Napoli, per l’evento il quartiere ha messo in campo energie straordinarie, come dice suor Veronica Donatello.

La scommessa vinta

Suor Veronica parla ai media vaticani mentre nell’Aula Magna del Polo universitario sta per iniziare l’incontro. Condivide con noi “la gioia per il fatto di vedere una sala strapiena, mentre sembrava impossibile portare qui tante persone con disabilità e poi parla di risposta straordinaria da parte del quartiere: a partire da nuove strutture per la mobilità, strumentazione per persone non udenti o non vedenti, nonché i “giochi inclusivi” inaugurati nella mattina di venerdì in alcune parrocchie di Scampia. Racconta di un territorio che si è mosso per abbattere le barriere: letteralmente per creare possibili vie di movimento e poi metaforicamente per andare oltre le barriere mentali, che possono tenere lontano dalle persone con difficoltà.

“Noi, non loro” è il titolo giusto per “costruire” fattivamente insieme l’inclusione. E la scelta di Scampia – sottolinea suor Veronica – racconta l’altra scelta fondamentale, “andare incontro ai territori”. Significa peraltro scoprire nuove energie e possibilità. La sfida – aggiunge – è creare una cultura nuova. Lo scivolo serve se provoca una riflessione e se mette insieme le persone.

“Il gioco – afferma ancora suor Donatello – è la metafora dell’amicizia: abbiamo scelto di donare questi giochi accessibili a persone di ogni età per rimarcare che il ‘noi’ è possibile e realizzabile, a partire dai territori”.

La collaborazione della Chiesa locale

“Dalle case famiglie, dove vivono le persone con disabilità senza genitori, a una parrocchia di Scampia dove il sacerdote è un tecnico Aba per l’autismo, abbiamo incontrato parrocchie accoglienti”, dice suor Veronica, ribadendo che “l’idea di spostarsi nei territori è quella di far vedere la bellezza, l’accessibilità dei luoghi ma soprattutto di promuovere e scoprire partecipazione”. È anche interessante come alcune diocesi si siano mosse, arrivando alla sinergia con progetti di vita insieme al Comune e alla Caritas, con l’8xmille.

Peraltro, per la prima volta l’evento avrà l’audiodescrizione anche per la parte liturgica per permettere alla rappresentanza di persone con disabilità visiva di poter seguire.

Oltre alla riflessione sul tema, si vuole valorizzare “la creatività che le Diocesi hanno messo in campo perché nessuno resti ai margini e sia escluso”, ribadisce suor Veronica.

Le stagioni della disabilità

Con i 500 ospiti si parla di tutte le età della vita, dall’età evolutiva a quella adulta, e tutte le relazioni guardano all’ambito teologico e pedagogico. “Abbiamo – continua la responsabile Cei – una visione della persona che tiene conto di entrambi gli ambiti: fede e vita. Durante il convegno saranno 60 le esperienze narrate, precedute dall’illustrazione di rapporti che fotografano le necessità e video che raccontano i progetti Cei.

Il programma

Tante autorità civili e ecclesiali previste. All’inaugurazione dei nuovi giochi a portata di persone disabili e nel pomeriggio del 19 sono intervenuti il rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II Matteo Lorito, il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, il prefetto Michele Di Bari, in collegamento video l’arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei monsignor Giuseppe Baturi e la stessa suor Veronica Donatello. A seguire, una tavola rotonda con gli interventi di Alessandra Locatelli, ministro per le Disabilità, su “Decreti attuativi e progetto di vita”, di monsignor Domenico Battaglia, arcivescovo di Napoli, e di Vincenzo Falabella, presidente nazionale della Federazione italiana per il superamento dell’handicap.

Tanti gli interventi da diversi punti di vista, come quello di don Mattia Magoni, docente all’Istituto Superiore di Scienze Religiose Bergamo, e quello di Roberto Franchini, presidente Endo-Fap Ente nazionale Don Orione e docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Inoltre, all’età evolutiva è dedicato un dibattito, moderato da Riccardo Benotti, giornalista dell’agenzia Sir, con la partecipazione di Dario Ianes, docente alla Libera Università di Bolzano, di Ubaldo Montisci, docente all’Università Pontificia Salesiana, della professoressa Antonella Costantino di Comunicazione e Partecipazione, di Lorenzo Besana e Renata Zanella dell’associazione La Nostra Famiglia, di Christian D’Angiò del Servizio Disabilità della diocesi di Ravenna – Cervia, di Carlo Riva de L’Abilità Onlus e di Fabrizio Serra della Fondazione Paideia.

Domani, 20 aprile, i temi sul tavolo sono quelli dell’adolescenza, dei giovani adulti, degli anziani, fino a giungere alla plenaria, alle 18, con gli interventi di don Gianluca Marchetti, sottosegretario della Cei, e di Maria Rosaria Duraccio, direttore dell’Ufficio per la pastorale delle persone con disabilità della diocesi di Vallo della Lucania.
Il 21 aprile, alle 11 il Convegno si conclude con la Messa presieduta dall’arcivescovo Battaglia.

 

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2024-04/noi-non-loro-cei-napoli-scampia-disabilita-veronica-donatello.html

“La pace possibile”

Un libro per riconoscere la parità degli Stati e il primato della politica

Conflitti e “realismo utopico”, mercato globale e multilateralismo, identità e appartenenze, determinazioni della geopolitica e volontà politica: sono tanti i concetti intorno ai quali ragiona l’internazionalista Pasquale Ferrara per spiegare che è tempo di una nuova concezione della costruzione della pace. Nel suo nuovo volume “Cercando un paese innocente. La pace possibile in un mondo in frantumi” invita a parlare di “categoria dell’innocenza” come categoria politica

Fausta Speranza – Città del Vaticano                

“Oggi si pensa che la politica in generale, ma soprattutto la politica internazionale, sia valida se si basa su quello che è chiamato il principio di realismo, ma è falso”. Ne è sicuro l’ambasciatore Pasquale Ferrara, attualmente direttore generale per gli Affari Politici e di Sicurezza del ministero degli Affari Esteri italiano, che affianca al servizio diplomatico l’attività accademica e di ricerca sulla teoria e la pratica delle relazioni internazionali. “Il principio di realismo – spiega – nasce dal presupposto che il mondo è popolato sostanzialmente da avversari, se non da nemici, e che bisogna anticipare le mosse”. Tanto che si è coniato il motto antichissimo: “Se vuoi la pace prepara la guerra”. In realtà preparando la guerra si ottiene solo la guerra. Un esempio storico fra gli altri è la Prima Guerra mondiale probabilmente scoppiata per una corsa agli armamenti navali tra Germania e Gran Bretagna.

Ferrara: guardare tutte le politiche dalla prospettiva della pace

Proprio su questo punto Ferrara si sofferma con Vatican News per parlare dell’orizzonte diverso indicato dal suo libro Cercando un paese innocente. La pace possibile in un mondo in frantumi, edito da Città Nuova:

Ascolta l’intervista integrale a Pasquale Ferrara

Professor Ferrara, nel suo libro lei introduce la parola innocenza. Perché?

Perché l’innocenza è qualche cosa che ispira fiducia. La “moneta” mancante oggi nelle relazioni internazionali è proprio la fiducia che serve coltivare se si vuole la pace. Non significa innocenza nel senso di ingenuità, ma piuttosto di assenza di secondi fini; capacità di tener fede alla parola data; rifiuto di intenti aggressivi. Credo che la categoria dell’innocenza possa diventare anche una categoria politica.

Abbiamo costruito negli ultimi 60 anni una “architettura di pace”: non si possono negare tanti passi avanti in tema di diritti, di riconoscimento del principio di multilateralismo e via dicendo… Ora ci sembra che questa architettura stia dondolando, addirittura sgretolandosi? Che succede?

In realtà non siamo stati in grado di relegare davvero la guerra agli archivi della storia. Il sistema del multilateralismo, in particolare la “costruzione” delle Nazioni Unite, si basa sul principio della sicurezza collettiva, cioè fare in modo che le questioni vengano risolte all’interno di un organismo di compensazione, rappresentato in particolare dal Consiglio di Sicurezza. Ci eravamo illusi che con la fine della guerra fredda questi organismi potessero funzionare al meglio. In realtà, constatiamo – non solo a seguito dell’aggressione russa contro l’Ucraina ma già da prima – la paralisi proprio del maggior organismo che dovrebbe garantire la sicurezza internazionale: il Consiglio di Sicurezza non è più in grado di prendere decisioni perché esiste, come sappiamo bene, l’istituto del veto da parte di cinque membri permanenti. La globalizzazione sostanzialmente ha rappresentato il tentativo di estensione del modello liberal democratico a vaste aree del pianeta e questo processo è stato visto da molti Paesi, soprattutto dell’Africa, dell’America Latina, o alcuni dell’Asia, come il tentativo di imporre un modello che è il modello occidentale: da parte occidentale viene percepito come “ordine” ma da altre parti del mondo viene percepito come “disordine”, e lo è se consideriamo le mancate risposte ai bisogni di molte aree del pianeta.

Ci siamo illusi che con l’economia si risolvessero le questioni?

Esattamente. Non dobbiamo dare credito alla tesi del cosiddetto “scontro di civiltà” ma sicuramente c’è stata una sottovalutazione della pari dignità degli Stati. La vera cultura liberale inclusiva delle Nazioni Unite dovrebbe significare che tutti gli Stati indipendentemente dalla loro posizione geografica e dalla loro forza – sia in termini economici, sia in termini demografici, sia in termini militari – debbano avere pari dignità, un posto nella governance globale. Questo in realtà non è avvenuto. Conosciamo benissimo le disparità a livello economico, macroeconomico, ma anche le diseguaglianze in termini microeconomici di sicurezza umana delle persone. Queste disparità si sono acuite grandemente nel corso degli ultimi 20-30 anni. In questo senso, tutta la costruzione successiva alla seconda guerra mondiale presenta elementi di grande crisi di legittimità.

Anche da parte dei cittadini occidentali è maturato scetticismo nei confronti degli organismi ritenuti “sovranazionali”, come l’Unione Europea o le Nazioni Unite, sebbene siano organi estremamente diversi. Si parla di un eccessivo peso dell’economia sulla politica. È d’accordo?

Sicuramente c’è da recuperare la voce della politica. Ma bisogna ricordarsi che la dimensione economica può anche essere uno spazio politico. Mettere insieme il carbone e l’acciaio durante la seconda guerra mondiale era un fatto economico che però ha avuto un grandissimo valore politico: si trattava precisamente delle risorse che erano servite perché Germania e Francia si facessero la guerra per oltre mezzo secolo. Quindi questa sicuramente è stata una strada economica per un patto di pace politico. È un altro discorso, invece, se si dà spazio all’ideologia del mercato: ci si pone su un piano diverso rispetto a quello dell’integrazione economica. Su questo piano le liberalizzazioni spesso sono state fatte senza tener conto delle necessità dei cittadini e soprattutto senza tener conto anche degli aspetti che fanno parte di quello che i francesi chiamano “l’eccezione culturale”, che significa tener conto che alcune decisioni non possono presupporre omogeneità in un continente variegato come quello europeo. Inoltre pensiamo alle riforme economiche, per esempio l’adozione dell’euro rappresenta una grande impresa politica: ha a che fare con la moneta e la moneta sin dall’antichità è il simbolo della sovranità. Il fatto di condividere l’euro tra diversi Paesi Ue è anche un segnale politico forte.

Parlando di desiderio di pace, non vorremmo un pacifismo cieco ma vorremmo sentire una decisa volontà dei cittadini, di tutti, a difendere o ricostruire la pace. C’è questa volontà?

Credo che a dispetto di un certo discredito per l’espressione del pacifismo, anche per un uso a volte improprio o talvolta strumentale che ne è stato fatto da una parte o dall’altra, anche se non da tutti, il cuore del concetto sia la preservazione della pace e credo che resti un aspetto fondamentale. Spesso interpretiamo la storia dell’umanità, e soprattutto la storia degli ultimi due secoli, come un susseguirsi di guerre. In realtà credo che soffriamo un po’ di una distorsione prospettica, perché la gran parte delle epoche ha conosciuto lunghissimi periodi di pace. La guerra è un vulnus e perciò la avvertiamo come qualcosa di importante, di centrale, ma la vera centralità è rappresentata dalla normalità della condizione di pace. Quindi se noi vediamo le cose in quest’altra prospettiva, recuperiamo anche l’idea di pace come un fatto che ha a che fare con la stessa struttura della politica.

Parliamo dunque di politica di pace?

Una cosa è una politica di pace che sicuramente è importante, perché mira a raggiungere condizioni di stabilizzazione dopo conflitti di varia natura, e ce n’è bisogno anche se è molto impegnativo, e un conto è la pace come politica, che significa guardare tutte le politiche – anche le politiche sociali o economiche, le politiche migratorie – dalla prospettiva della pace. Non si limita a mettere fine a conflitti, ma tende a fare in modo che si creino le condizioni per cui i conflitti non abbiano a scoppiare. Serve un cambiamento di approccio molto concreto.

Significa parlare di “realismo utopico”, come lei fa nel suo libro?

Sì, nel senso che noi spesso siamo abituati a ritenere lo status quo, cioè ad esempio la condizione attuale di “disordine”, la guerra, come qualcosa destinato a durare e riteniamo che sia molto difficile cambiare gli equilibri mondiali. In realtà, se guardiamo alla storia, gli equilibri sono cambiati tante volte: in alcuni momenti lo status quo che sembrava granitico si è sgretolato prima del previsto, accade qualcosa che nessuno aveva previsto come la caduta del muro di Berlino. Dunque, se noi utilizziamo questa categoria del “realismo utopico” guardiamo alla situazione del presente perfettamente consapevoli che non è destinato a durare per sempre. Contrariamente al “realismo classico”, che esalta sostanzialmente le virtù della forza negli equilibri di potenza, il “realismo utopico” mira a gestire il cambiamento attraverso meccanismi di collaborazione: il multilateralismo è in crisi sicuramente ma è l’unico strumento che abbiamo per poter affrontare problemi globali come, per esempio, il cambiamento climatico.

L’importanza del ruolo delle religioni: non è soltanto un contributo di belle parole …

No, affatto. Pensiamo al ruolo che le religioni stanno avendo oggi nel generare una cultura che si muove nella direzione di una politica planetaria, non più di una politica semplicemente mondiale, ma planetaria che cioè tiene conto della vita sul pianeta. Nelle religioni c’è quest’idea della famiglia umana universale e parte di questa famiglia sono anche tutte le componenti non umane perché contribuiscono alla sussistenza dell’umanità su questa terra. Quindi il tema è allargare gli orizzonti e le religioni possono contribuire proprio a questa operazione di ampliamento dello sguardo.

A volte nell’ambito della politica internazionale si è guardato alle religioni come “parte del problema” dei conflitti…

Perché se strumentalizzate possono essere utili ad alimentare i fondamentalismi che rendono i conflitti intrattabili. Oggi siamo nelle condizioni di poter dire che le religioni stanno diventando parte della soluzione in molti conflitti, in molti ambiti. Rileggendo le due grandi encicliche di Papa Francesco – Laudato si’ e Fratelli tutti – ci si rende conto di quanto sia andata in profondità questa consapevolezza che le religioni hanno una responsabilità per il destino dell’umanità e anche per le sorti del pianeta. Questa visione olistica – che non ha niente a che fare con la vecchia idea del panteismo, naturalmente – nasce dall’idea dell’unità del genere umano e della unitarietà della vita sul pianeta, che ci è consegnato perché sopravviva e ci faccia sopravvivere. Non ci è consegnato per scopi predatori.

Quanto è cruciale la questione dell’identità e delle culture?

Sì, il tema delle identità è tornato in auge: sono importanti, purché non si cristallizzino. Alcuni antropologi spiegano che siamo abituati a pensare l’identità associandola alle radici, che rappresentano l’humus da cui si trae linfa vitale, come letterature o culture popolari, ma si può pensare alle identità anche come a una grande corrente fluviale: lo stesso fiume mantiene dignità di fiume e al tempo stesso non è mai identico a se stesso, anzi si alimenta di contributi, di immissioni diverse e in un certo modo cambia continuamente. E lo scrittore Amin Maalouf fa una distinzione utilissima tra identità e appartenenze riconoscendo che l’identità di ognuno è fatta di mille appartenenze: siamo quello che siamo perché apparteniamo a una famiglia, una società, un Paese, magari siamo legati a un associazionismo sportivo… Questo insieme di appartenenze, che è diverso per ciascuno di noi, crea la nostra identità. Questo stesso meccanismo è riportabile anche sul piano dei popoli, delle nazioni, degli Stati, che sono comunque il risultato di diversi influssi e di molteplici appartenenze. Se l’identità è un insieme di fattori, in quell’insieme è più facile incontrarsi anche tra identità diverse.

Ma quanto è importante ancorarci al concetto di cittadinanza quando parliamo di identità?

La cittadinanza è fondamentale, perché altrimenti siamo una semplice convivenza, una coesistenza pacifica tra individui, se va bene. La cittadinanza è qualcosa che implica non tanto una partecipazione, che è una parola abusata, ma un’assunzione di responsabilità. Certamente va declinata più in termini di demos, di un popolo che esercita alcuni diritti e doveri, piuttosto che in termini più granitici e meno inclusivi di ethnos. In un mondo che possiamo anche immaginare non più governato dalla globalizzazione, ma che sicuramente rimarrà caratterizzato dalla mondialità.

Nel suo libro parla in un certo senso di “abuso” di geopolitica. Ci spiega?

La geopolitica ovviamente è una scienza nobile e intesa in senso corretto aiuta molto a capire i meccanismi internazionali. Il tema è che talvolta la geopolitica viene utilizzata come una sorta di pretesto per giustificare scelte politiche. Dobbiamo rivalutare la centralità della politica, perché se ci limitiamo a determinanti geografiche togliamo qualsiasi ruolo alla capacità di governo del mondo e di governo dei processi. La geopolitica è troppo spesso legata al cosiddetto hard power, quindi al potere militare, al potere economico, al potere demografico e quindi alla fine ha poco a che fare con la pace. Se si enfatizza la geopolitica, si finisce inevitabilmente sul piano delle politiche di potenza e quindi si sancisce l’impotenza della politica. Senza diventare dogmatici, occorre rivendicare l’autonomia decisionale della politica anche in politica estera. Bisogna sempre rimettere al centro le scelte coraggiose.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2023-06/conflitti-pace-politica-internazionale-libro-pasquale-ferrara.html

Si scioglie la tensione nel nord del Kosovo

Rimosse le barricate dopo l’incontro tra il presidente serbo Aleksandar Vučić e i rappresentanti dei serbi locali nel nord del Kosovo. Tra momenti più problematici e momenti di distensione resta l’area più delicata nel difficile processo di stabilizzazione nei Balcani. A quasi 30 anni dalla conclusione del conflitto, i giovani guardano al futuro e cercano la pace, sottolinea il generale Giuseppe Morabito, Generale della NATO Defence College Foundation

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Nel nord del Kosovo è iniziata ieri la rimozione delle barricate e dei blocchi stradali eretti tre settimane fa dalla locale popolazione serba per protesta contro l’arresto ritenuto ingiustificato di alcuni serbi e contro l’invio al nord a maggioranza serba di ingenti forze di polizia da parte della dirigenza di Pristina. La prima barricata ad essere stata rimossa è stata quella  al posto di Merdare, il valico di frontiera più importante fra Kosovo e Serbia. Il presidente serbo Vučić,  al termine dell’incontro  giovedì  con i serbi del Kosovo, che ha portato all’intesa e alla distensione, ha chiarito che sarebbero servite 24-48 ore perché la situazione si potesse normalizzare, con l’eliminazione dei numerosi blocchi e barricate in varie zone del nord del Kosovo. Dietro alle proteste per gli arresti c’era la questione delle targhe kosovare richieste a tutti i residenti, anche serbi, come spiega Giuseppe Morabito, generale dell’esercito in riserva e membro del Direttorato della Nato Defence College Foundation:

La questione delle targhe di per sé non è così grave – afferma Morabito – ma il punto è che in una situazione di latente tensione qualunque cosa può fungere da scintilla. A sbloccare la situazione di paralisi nei trasporti e nelle comunicazioni, in un’atmosfera di alta tensione – spiega il generale – è stato un incontro che Vučić ha avuto nella serata di giovedì con i rappresentanti dei serbi del Kosovo. L’incontro si è tenuto a Raska, località del sud della Serbia a pochi chilometri dalla frontiera con il Kosovo, con Vučić che è intervenuto in prima persona per evitare una escalation della tensione con conseguenze imprevedibili. La primo ministro serba Ana Brnabić aveva parlato nei giorni precedenti di situazione sull’orlo di un nuovo conflitto armato nei Balcani. Sempre nella serata di giovedì era stato rilasciato Dejan Pantic, il primo serbo ad essere arrestato il 10 dicembre scorso, posto sotto sorveglianza domiciliare e che potrà difendersi a piede libero. Morabito ricorda che l’intesa si basa sulle garanzie date da Unione europea e Stati Uniti su alcuni punti fondamentali e di grande rilevanza per la popolazione serba del Kosovo. Come ha detto stamane alla tv privata serba Pink Petar Petkovic, capo dell’Ufficio governativo serbo per il Kosovo, Ue e Usa garantiscono tra l’altro che non ci saranno altri arresti di serbi, compresi quelli coinvolti nelle proteste con blocchi stradali e barricate. Non vi potrà essere alcuna lista di serbi da arrestare, anche se i serbi non credono fino in fondo che ciò non avverrà e non sono certi che le garanzie internazionali verranno rispettate. Il generale Morabito ricorda che in Kosovo c’è il contingente Nato mentre la fase di pacificazione in Bosnia Erzegovina è stata affidata alla cura dell’Unione europea. Il Kosovo – spiega il generale – è l’area più problematica dei Balcani e succede in continuazione che ci siano momenti di confronto acceso e poi di distensione. In questo momento, vista la drammatica contingenza della guerra in Ucraina, Morabito concorda con quanto sostengono diversi analisti e cioè che a scatenare le proteste, a soffiare sul fuoco,  possa essere stata la pressione estera di chi è interessato a tenere occupata la Nato sul fronte Balcani.

Il desiderio di pace dei giovani

Morabito, che insegna Studi strategici in un’Università privata di Pristina, spiega che in Kosovo i giovani sono moltissimi, soprattutto sono per la maggior parte nati dopo la conclusione del conflitto nei Balcani. Hanno tutti – assicura – il desiderio forte di vivere in pace, di costruirsi un futuro. Tanti – dice – guardano all’estero per approfondire gli studi oppure per avere maggiori opportunità di lavoro. Non hanno vissuto anagraficamente la guerra – afferma – e non vogliono che la storia torni indietro.

L’incoraggiamento dell’Ue

“La diplomazia ha prevalso nella riduzione delle tensioni nel nord del Kosovo”, ha affermato l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell, sottolineando che la violenza non può mai essere una soluzione e ribadendo che “ora c’è bisogno di progressi urgenti nel dialogo”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-12/kosovo-serba-guerra-pace-nato.html

Voli commerciali e visita ufficiale di Stato, si consolida la pace nel Tigray

La stampa etiope parla di storico dialogo riferendo della visita della delegazione di Addis Abeba a Mekele, capoluogo del Tigray, appena conclusa. L’annunciata ripresa dei voli apre all’imminente ripristino delle attività commerciali, confermando che prosegue il processo di attuazione dell’accordo di pace raggiunto a novembre, dopo due anni di conflitto tra il Fronte popolare di liberazione del Tigray e le forze federali

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’Ethiopian Airlines ha confermato la ripresa imminente dei voli commerciali verso Mekele, la capitale del Tigray, Stato settentrionale da due anni al centro di un conflitto con le truppe federali di Addis Abeba. Questi voli consentiranno alle famiglie di riunirsi, faciliteranno il ripristino delle attività commerciali, stimoleranno il flusso turistico e porteranno molte più opportunità che serviranno alla popolazione.

Nel Tigray la delegazione di Addis Abeba

La notizia della ripresa dei voli è arrivata all’indomani della visita nella regione di una delegazione etiope guidata dal presidente del parlamento Tagesse Chaffo, la prima di questo tipo dalla firma di un accordo di pace lo scorso 2 novembre. La stampa ha parlato di “storico dialogo” sul processo di disarmo e sul ritiro delle forze armate eritree alleate del governo etiope. La delegazione di Addis Abeba è arrivata lunedì scorso a Macallè (capitale del Tigray) e ha incontrato i vertici del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf), il partito politico e movimento armato che dal novembre 2020 al novembre 2022 ha combattuto contro Addis Abeba per la secessione della regione settentrionale etiopica del Tigray. I dettagli di ciò che è stato discusso lunedì in merito al ritiro delle forze eritree non sono stati rivelati da nessuna delle parti, ma i leader del Tigray hanno affermato che le discussioni sono state “cordiali e storiche”. “Sono state tenute discussioni fruttuose ed è stata raggiunta un’intesa importante”, ha dichiarato Getachew Reda, consigliere del presidente del Tigray, che ha anche firmato l’accordo di pace con il governo etiope a nome del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf). “Il via libera al tanto atteso ripristino dei servizi (banche, collegamenti aerei, servizi eccetera) e il fatto che nessuno dei membri della delegazione governativa si sia preso la briga di assoldare guardie di protezione è una testimonianza della loro fiducia nell’impegno del Tigray per l’accordo di pace”, ha affermato Getachew. “Continueremo a costruire sui progressi mentre affrontiamo le sfide future”, ha aggiunto Reda. Il governo si è impegnato a riprendere completamente i servizi delle istituzioni e riparare le infrastrutture in tutte le aree della regione.

Tappe del processo di pace

Di recente, i funzionari del Tigray avevano esortato il governo del primo ministro Abiy a rispettare i termini dell’accordo di pace per quanto riguarda il ritiro delle forze straniere e non federali. La presenza delle forze eritree nel Tigray è stata infatti un ostacolo al disarmo delle forze del Tigray previsto dall’accordo di pace firmato il 2 novembre in Sudafrica. Durante il secondo incontro dei negoziati di pace tenutosi a Nairobi la scorsa settimana, le parti hanno concordato di istituire un gruppo di monitoraggio congiunto per verificare l’attuazione dell’intesa. “Hanno tutti concordato e accettato di dare pieno accesso al team di monitoraggio e verifica dell’Unione africana, così da avere uno sguardo completo a 360 gradi per garantire che tutti gli elementi degli accordi vengano effettivamente implementati”, ha detto Kenyatta durante una conferenza stampa a Nairobi. L’ex-presidente del Kenya ha inoltre affermato che la sua squadra e i rappresentanti dell’Unione africana si recheranno presto nel capoluogo del Tigray per supervisionare i progressi dell’accordo di pace.

L’appello dell’Ue a non dimenticare gli aiuti umanitari

L’Unione europea e i suoi Stati membri si sono congratulati con il governo dell’Etiopia e con il Fronte popolare di liberazione del Tigray per la firma dell’accordo per una pace duratura attraverso la cessazione permanente delle ostilità e la successiva dichiarazione dei comandanti di alto livello sulle modalità di attuazione dell’accordo. In particolare, nel comunicato pubblicato il 22 dicembre scorso si elogia il lavoro del gruppo di alto livello dell’Unione africana per il successo della mediazione che ha portato agli accordi. Dall’Ue anche parole di raccomandazione: “L’attuazione dell’accordo sulla cessazione delle ostilità richiede una leadership forte e un meccanismo di monitoraggio solido e sostenibile per garantire, tra l’altro, che la cessazione delle ostilità sia rispettata da tutte le parti, aprendo la strada alla ripresa, alla ricostruzione e alla riconciliazione”. L’Ue ricorda l’importanza di una cooperazione attiva, costruttiva ed efficace con i meccanismi nazionali e internazionali per i diritti umani. Assicurando il supporto per l’attuazione degli accordi, l’Unione europea ricorda “gli enormi bisogni umanitari nell’Etiopia settentrionale e in altre parti del Paese che richiedono una risposta adeguata e ben coordinata, le necessità urgenti delle popolazioni colpite dal conflitto”. Dunque la richiesta precisa: “Sono fondamentali un accesso umanitario senza ostacoli a tutti coloro che ne hanno bisogno e il pieno ripristino dei servizi di base in tutti i settori”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-12/etiopia-tigray-conflitto-pace-disarmo-delegazione.html

In Myanmar attesa e speranza per possibili passi verso la riconciliazione

Dopo la risoluzione dell’Onu, che ha chiesto il rilascio dei leader dell’opposizione, nel Paese sarà a giorni diffuso il verdetto del tribunale sugli ultimi capi di imputazione per la Premio Nobel. A 22 mesi dal colpo di Stato, anche le potenze regionali sembrano spingere la giunta al potere ad allentare la pressione, come sottolinea Albertina Soliani, già presidente del Gruppo parlamentari amici della Birmania

Fausta Speranza – Città del Vaticano

È atteso per venerdì 30 dicembre il verdetto nel processo all’ex leader Aung San Suu Kyi per gli ultimi cinque capi di imputazione contro di lei sollevati dalla giunta militare arrivata al potere dopo il colpo di Stato nel febbraio 2021. Il premio Nobel per la Pace è stata accusata di 14 incriminazioni, tra cui una per corruzione, e condannata a 26 anni di carcere. Il 21 dicembre scorso il Consiglio di sicurezza Onu ha esortato la giunta a rilasciarla. Il Myanmar è tra i Paesi citati dal Papa nel corso della benedizione Urbi et Orbi da Piazza San Pietro. In particolare, Francesco ha lanciato un appello per la riconciliazione nel Myanmar.

Della pressione internazionale abbiamo parlato con Albertina Soliani, già presidente del Gruppo parlamentari amici della Birmania:

Ascolta l’intervista con Albertina Soliani

Soliani spiega che si è trattato della prima Risoluzione delle Nazioni Unite sulla situazione in Myanmar dal colpo di Stato avvenuto il 1 febbraio 2021, ma in realtà è anche la prima risoluzione in 74 anni. L’unica altra risoluzione riguardante il Paese è stata adottata dal Consiglio di sicurezza nel 1948: quella che approvava l’adesione dell’allora Birmania all’organismo mondiale.

L’appello dell’Onu

La nuova risoluzione, ricorda Soliani, chiede la fine della violenza e invita i governanti militari del Paese a rilasciare tutti i prigionieri politici, inclusa la leader democraticamente eletta Aung San Suu Kyi. L’esercito del Myanmar ha preso il potere nel febbraio 2021, arrestando lei e altri funzionari, e uccidendo diverse migliaia di persone e incarcerandone più di 16.000 persone durante le proteste. Il Consiglio di sicurezza, che è composto da 15 membri, è stato diviso per decenni. La risoluzione del 21 dicembre, sottolinea, è stata adottata con l’astensione di Cina e Russia, che nel 2008 si erano espressi contro un altro precedente testo, e il favore dei restanti 12 membri del Consiglio di sicurezza.  Anche al momento della crisi dei Rohingya – dall’estate 2017 almeno 700.000 persone in fuga dallo Stato di Rakhine in Myanmar verso il vicino Bangladesh – non c’è stato un voto del Consiglio di sicurezza. Durante tale crisi era de facto al governo Aung San Suu Kyi.

Stati Uniti e Ue

Dopo le sanzioni contro la giunta al potere decise subito da Washington in seguito al colpo di Stato, il 23 dicembre scorso il presidente Biden ha firmato il Burma act, la legge votata dal Congresso con cui gli Stati Uniti prendono posizione contro l’esercito del Myanmar ritenendolo responsabile delle violazioni dei diritti umani e ribadiscono di sostenere la lotta per la democrazia.

Anche l’Unione europea ha reagito al colpo di Stato imponendo in quattro cicli sanzioni e lanciando appelli. Le misure restrittive si sono aggiunte alla sospensione dell’assistenza finanziaria dell’UE destinata direttamente al governo e al congelamento di tutti gli aiuti dell’UE che potessero legittimare la giunta.

Dai vertici dell’Unione europea si è levata più volte la voce preoccupata per la continua escalation della violenza in Myanmar e per l’evoluzione verso un conflitto prolungato con implicazioni regionali. E’ stata più volte ribadita in via prioritaria la richiesta di cessare immediatamente tutte le ostilità e di porre fine all’uso sproporzionato della forza e allo stato di emergenza. Bruxelles ha continuato a fornire assistenza umanitaria alla popolazione, conformemente ai principi di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza, ribadendo la richiesta che il diritto umanitario internazionale sia rispettato in toto e immediatamente.

La pressione regionale

Secondo Soliani, qualcosa sta maturando anche per quanto riguarda l’Asean, finora sostanzialmente diviso e poco incisivo. Al Summit dei Paesi del sud-est asiatico (Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia, Vietnam) che si è svolto a novembre scorso sotto la presidenza cambogiana è emersa una posizione più decisa nell’indicare come “una priorità assoluta” la risoluzione del conflitto in Myanmar. Il Paese, ricorda Soliani, è in preda all’instabilità politica ed economica, a causa dei protratti scontri tra milizie nazionali e gruppi ribelli armati. Finora dall’Asean erano giunte molte condanne verbali delle violenze dell’esercito e l’auspicio di un veloce ritorno alla pace, ma poche azioni concrete per mitigare il conflitto.

Sin da subito i Paesi dell’associazione si erano divisi tra chi preferiva non intervenire negli affari esteri di un Paese membro, come Tailandia e Cambogia, e chi, come Indonesia e Malaysia, chiedeva una condanna forte delle azioni della giunta birmana. I leader del Sud-est asiatico, incluso quello della giunta birmana Min Aung Hlaing, nell’aprile 2021 avevano trovato un compromesso con il cosiddetto five-points consensus, un accordo il cui primo punto prevedeva la sospensione delle violenze nel Paese. Tuttavia, in oltre un anno da quell’accordo non ci sono state azioni significative della giunta affinché realizzasse gli impegni presi. Poi c’è stato il divieto imposto alla giunta di rappresentare il Paese ai Summit ASEAN e infatti in Cambogia il seggio birmano è rimasto vuoto. Soliani sottolinea che al di là dei pronunciamenti ufficiali al momento è forte la pressione da parte di questi Paesi sulla giunta anche perché – ricorda – pesa la questione dei tanti profughi nei Paesi vicini. E dunque secondo Soliani potrebbe concretizzarsi l’ipotesi di cui – dice – si parla da giorni di un possibile rilascio dei leader dell’opposizione che hanno oltre 75 anni, che comprenderebbe la San Suu Kyi e anche l’ex presidente.

Un Paese di grandi risorse

Parlando di risorse, Soliani cita innanzitutto le risorse spirituali del Myanmar, ricordando che si tratta di un popolo che sostanzialmente ha sempre scelto o cercato di scegliere modalità di non violenza nella sua battaglia portata avanti da anni per la democrazia. Soliani sottolinea che la violenza della repressione infatti stride molto con una resistenza – sottolinea – che usa le armi in difesa.  Soliani poi ricorda che la popolazione è in gravi difficoltà economiche ma che si tratta di un Paese ricchissimo di risorse, a partire da quelle minerarie e di idrocarburi, per non parlare delle cosiddette terre rare, cioè le sostanze utili per la più moderna tecnologia. Inoltre Soliani mette in luce un aspetto culturale importante: si tratta – afferma –  del Paese che in Oriente lotta per la democrazia.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-12/myanmar-birmania-colpo-di-stato-popolazione-asean-usa.html

Il primo martire Santo Stefano e i cristiani perseguitati oggi

Nel giorno in cui la chiesa celebra Santo Stefano protodiacono e protomartire, il rapporto di Aiuto alla Chiesa che soffre invita a ricordare i cristiani perseguitati oggi nel mondo. Un numero in crescita tra violenze, abusi, chiusure forzate delle chiese. Dal 1° gennaio 2022 nel mondo sono stati uccisi 14 sacerdoti e 2 religiose

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Oggi la Chiesa commemora Santo Stefano (Grecia, 5 – Gerusalemme, 36), primo cristiano ad aver dato la vita per testimoniare la propria fede in Gesù Cristo e per la diffusione del Vangelo. Il suo martirio è descritto negli Atti degli Apostoli, dove sono evidenti sia la sua chiamata al servizio dei discepoli, sia il suo martirio, avvenuto per lapidazione, alla presenza di Paolo di Tarso che in seguito si convertì lungo la via di Damasco. Santo Stefano è venerato come protodiacono e protomartire. Il primo epiteto è dovuto al fatto che fu il primo e forse il più importante dei diaconi eletti in Gerusalemme. Il secondo è associato al suo nome sebbene il suo martirio sia cronologicamente preceduto da quello di Giovanni Battista, morto per decapitazione. Stefano è stato il primo dei sette diaconi scelti dalla comunità cristiana perché aiutassero gli apostoli nel ministero della fede.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2022-12/santo-stefano-martire-chiasa-cristiani-perseguitati-aiuto.html

A Torino il saluto della Chiesa al cardinale Poletto

Un esempio di dedizione alla vita della Chiesa: così l’arcivescovo di Torino monsignor Repole ha ricordato, alle esequie, il porporato. Nella basilica cattedrale metropolitana di S. Giovanni Battista è stato letto il telegramma del Papa. Nosiglia: è stato un costante punto di riferimento, un padre che è vicino

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si sono svolte oggi pomeriggio a Torino le esequie del cardinale Severino Poletto, nella basilica cattedrale metropolitana di S. Giovanni Battista. Il cardinale Poletto, che è stato presidente della Conferenza episcopale piemontese, è mancato nella tarda sera di sabato scorso nella casa di Testona di Moncalieri, dove si era ritirato dopo aver rinunciato alla guida dell’arcidiocesi, nel 2010. Avrebbe compiuto 90 anni il prossimo 18 marzo. La tumulazione, per sua volontà, avverrà nella basilica della Beata Vergine della Consolata in Torino.

L’abbraccio della Chiesa di Torino e la lettura del telegramma del Papa

Hanno celebrato le esequie l’Arcivescovo di Torino mons. Roberto Repole e l’arcivescovo emerito monsignor Cesare Nosiglia, unitamente al presbiterio diocesano e alla Chiesa torinese tutta. La celebrazione è stata trasmessa dalle ore 15 in streaming sul canale youtube della Diocesi. “Servitore fedele che con rettitudine e impegno ha offerto la vita al Signore e alla Chiesa”: così il Papa aveva ricordato il porporato nel telegramma inviato al momento del decesso a monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino. Il telegramma è stato letto oggi in Cattedrale.

Nosiglia: è stato un costante punto di riferimento

“Del cardinale Poletto voglio ricordare l’attenzione rispettosa con cui ha accompagnato tutto il mio episcopato a Torino”, ha affermato monsignor Nosiglia, arcivescovo emerito. “È stato per me un costante punto di riferimento, al quale mi sono rivolto spesso per parlare sia di alcuni problemi della diocesi e del territorio, sia per le situazioni di alcuni preti in difficoltà”. Nosiglia è stato arcivescovo di Torino per dodici anni e durante quel periodo, ha raccontato, “il cardinale Poletto è stato come un padre che è vicino, condivide la conoscenza dei problemi ma sa anche lasciare il doveroso spazio”. È stato “presente nei momenti cruciali della vita della diocesi e alle grandi celebrazioni liturgiche: ma sempre e soltanto se da me veniva un invito esplicito alla sua partecipazione”. Nelle parole di monsignor Nosiglia anche l’ultimo incontro avuto con il cardinale Poletto,  pochi giorni prima della morte: “Abbiamo pregato insieme e l’ho trovato consapevole della sua malattia ma le sue condizioni non mi facevano pensare che ci sarebbe venuto a mancare così presto. Unisco il mio grazie per il cardinal Poletto a quello dell’intera Chiesa torinese per il suo servizio tra noi, e per l’esempio di fede che ci ha lasciato”.

L’arcivescovo Repole: credente attento a custodire la fede in Gesù

“L’esempio della sua dedizione alla vita della Chiesa, in questa nostra Torino – ha detto monsignor Repole – si ricorderà anche per il ministero silenzioso e continuativo nella parrocchia di Testona, vicino alla sua casa, dove si rendeva disponibile per i servizi liturgici e i sacramenti”. Incontrando i giornalisti, l’arcivescovo di Torino ha inoltre ricordato di avere avuto la fortuna di incontrare pochi giorni prima del decesso il cardinale Poletto che è stato suo vescovo per oltre dieci anni, di aver avuto una lunga conversazione “bella, fraterna e filiale”. Ha parlato di commozione raccontando di “un uomo lucido che sapeva che stava andando incontro alla morte considerata come l’incontro con quel Signore per cui aveva vissuto tutta la vita e che aveva atteso”. Nelle parole di Repole il cardinale Poletto “è stato un credente anche meticoloso nella sua fede; scrupoloso e attento a custodire per sé e per gli altri questa fede in Gesù Cristo”.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2022-12/cardinale-poletto-esequie-chiesa-nosiglia-repole-papa.html

In Tunisia prima tornata elettorale con la nuova Costituzione

Manifestazioni di piazza accompagnano l’attesa per il secondo turno delle elezioni in Tunisia, le prime dopo il referendum sulla nuova Costituzione. Al primo turno il tasso di affluenza ha segnato un record negativo. A undici anni dall’avvio della cosiddetta “primavera araba”, la Tunisia, Paese strategico del Mediterraneo, attraversa un delicato momento politico, in un contesto di precarietà economica, che non può essere ignorato, come sottolinea il ricercatore dell’ISPI Lorenzo Fruganti

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“La Tunisia non ha altra scelta che il dialogo”: lo ha detto oggi il segretario generale del potente sindacato tunisino Ugtt, Noureddine Taboubi, in occasione di un comizio nella capitale, invitando la presidenza della Repubblica a “un dialogo serio e inclusivo”. Ieri in molti sono scesi in piazza a Tunisi lamentando gli effetti dell’inflazione e le difficoltà di sussistenza per il settore agricolo. Bisogna “mettersi intorno allo stesso tavolo e discutere un’alternativa con una visione di lungo termine e un governo all’altezza delle sfide”, ha affermato. Il sindacato ritiene che la situazione generale del Paese sia difficilissima e che il popolo alla fine “affermerà la propria volontà attraverso la lotta e la pressione”. A proposito dell’accordo con il Fondo monetario internazionale, Taboubi ha detto che l’Ugtt non è a conoscenza del programma presentato dal governo.

La scommessa delle elezioni

Sono 23 i candidati eletti al primo turno per le elezioni parlamentari del 17 dicembre scorso. Lo ha annunciato due giorni dopo il portavoce dell’Autorità superiore indipendente per le elezioni (Isie), Mohamed Tlili Mansri, aggiungendo che il secondo turno riguarderà 131 collegi elettorali. Tra gli eletti o passati al ballottaggio ci sono undici ex deputati e 24 candidati in rappresentanza di partiti politici, 27 sindaci, cinque avvocati e tre ingegneri. Per i collegi che non hanno registrato alcuna candidatura, Mansri ha assicurato che il nuovo parlamento si occuperà di rilevarne la mancanza e chiederà all’Isie di organizzare elezioni legislative parziali-suppletive. “Il parlamento ha anche la possibilità di modificare la legge elettorale per passare dalla fase dei decreti a quella della legislazione con legge in parlamento.”

La disaffezione alle urne

Per quanto riguarda l’affluenza – 11,2 per cento degli aventi diritto al voto –  si è trattato del tasso più basso dalla rivoluzione del 2011, dopo anni record di quasi il 70 per cento (elezioni legislative dell’ottobre 2014) e tre volte inferiore a quella del referendum sulla Costituzione dell’estate scorsa (30,5 per cento), già caratterizzato da una forte astensione.

Dell’appuntamento elettorale e del momento storico che vive la Tunisia abbiamo parlato con Lorenzo Fruganti, ricercatore dell’ISPI:

Fruganti innanzitutto chiarisce che dopo la pubblicazione dei risultati preliminari del primo turno sarà la volta di eventuali ricorsi e controricorsi per arrivare il 19 gennaio ai risultati definitivi, mentre i ballottaggi si terranno a febbraio, secondo quanto annunciato dall’Isie. La campagna elettorale per il secondo turno partirà il 20 gennaio. I risultati definitivi del primo e secondo turno saranno annunciati il 3 marzo 2023, ha precisato il portavoce.

Il richiamo alla cosiddetta primavera araba

Lo scrutinio – ricorda il ricercatore – si è svolto il 17 dicembre, giorno dell’anniversario dell’immolazione di Mohamed Bouazizi, che nel 2011 innescò la rivoluzione che avrebbe portato alla caduta del vecchio regime e ispirato le rivolte dell’intero mondo arabo. Eppure, il voto di domenica si è tenuto in un clima di generale indifferenza e appelli al boicottaggio. L’elemento che gli analisti mettono in luce – sottolinea Fruganti – è che le elezioni di questo fine 2022 e inizio 2023 non somigliano a quelle che le hanno precedute perché con la nuova Costituzione si verifica una perdita di centralità del parlamento nelle istituzioni tunisine. La nuova Costituzione – spiega – priva i deputati di quasi tutte le loro precedenti prerogative e concentra il potere nelle mani del presidente. La prospettiva di un parlamento senza peso politico deve aver pesato sulla forte astensione al primo turno.

Lo snodo politico a luglio 2021

Quando il 25 luglio 2021 il presidente Kais Saïed ha annunciato  il ‘congelamento’ del parlamento, assumendo i pieni poteri – spiega Fruganti – il popolo tunisino gli ha concesso il suo sostegno. Il capo dello Stato ha spiegato di voler “salvare” la Tunisia bloccata da mesi di veti incrociati tra i diversi partiti. Allora – sottolinea – l’Assemblea, dotata ancora di poteri molto ampi, simboleggiava la Tunisia post-rivoluzionaria preda dei suoi tormenti e incapace di andare avanti. Contro i fallimenti del governo, il sistema politico corrotto e incapace e la malagestione della pandemia, le proteste nel Paese erano all’ordine del giorno. Fruganti richiama alla memoria un discorso alla nazione in cui Saïed  spiegava i motivi del gesto, parlando di “situazione insostenibile”: a dieci anni dalla Rivoluzione dei gelsomini, la Tunisia, pur confermandosi l’unico vero  ‘cantiere democratico’ della regione , si mostrava preda di un’instabilità politica che ne ostacolava gli sforzi per rilanciare l’economia e i servizi.

La nuova Costituzione

Con il referendum del 25 luglio 2022 è stata approvata la nuova Carta costituzionale. Si è trattato – ricorda Fruganti – di una consultazione segnata da un tasso record di astensionismo dovuto al boicottaggio da parte di molti partiti, associazioni e sindacati (solamente il 30,5 per cento degli aventi diritto al voto si è recato alle urne). In ogni caso il referendum ha sancito la sostituzione della Costituzione del 2014, una delle Carte costituzionali più democratiche del mondo arabo, con un nuovo testo costituzionale. Fruganti ricorda che Saïed ha sempre criticato la Carta del 2014 parlando di natura bicefala dell’esecutivo, nonché di un parlamento, di un potere giudiziario e di una corte costituzionale in grado di condizionare e limitare in maniera significativa le scelte del capo dello Stato. Oggi – mette in luce Fruganti –  c’è il rischio che, in base alla nuova Costituzione, i deputati non possano concedere la fiducia al governo né ipotizzare di farlo cadere attraverso una mozione di sfiducia, poiché le condizioni per invocarla – spiega – sono troppo difficili da soddisfare. Inoltre, il parlamento sarà chiamato a confrontarsi con un’altra Assemblea le cui funzioni non sono ancora del tutto chiare. La nuova Costituzione – spiega il ricercatore – ha introdotto in Tunisia un sistema presidenziale puro in cui il capo dello Stato esercita il potere esecutivo, con l’aiuto di un capo di governo da lui designato, che non deve presentarsi in parlamento per ottenere la fiducia. Il presidente è anche comandante supremo delle forze armate, definisce la politica del Paese, ratifica le leggi e può proporle personalmente al parlamento. I testi proposti dal capo di Stato avranno priorità sugli altri. Il voto del 17 dicembre si è svolto in base al nuovo sistema elettorale uninominale che – precisa Fruganti – ha sostituito il sistema delle liste e ha ridotto l’influenza dei partiti politici nella scelta dei candidati.

Secondo Fruganti, dunque le controverse elezioni dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo in Tunisia rischiano di produrre un parlamento destinato a essere  un organo meramente consultivo privato della funzione legislativa e di controllo sull’azione del governo e del presidente. Il ricercatore dell’ISPI chiarisce che ad oggi è difficile prevedere quali saranno gli equilibri politici interni al Paese all’indomani del voto, per poi affermare che di fronte alla possibilità di una deriva autoritaria, è verosimile che la tenuta del presidente Saïed, e più in generale il futuro della Tunisia stessa, si giocheranno sulla capacità della leadership tunisina di offrire alla popolazione risposte adeguate soprattutto sul piano economico.

L’economia tra inflazione e Fondo monetario

“Il ritardo nel raggiungimento dell’approvazione finale in favore della Tunisia di un nuovo programma del Fondo monetario internazionale (Fmi) rischia di aggravare una posizione d finanziamento già difficile e di erodere le riserve di valuta estera”. E’ quanto ha affermato oggi l’agenzia internazionale di rating Moody’s in una nota, a seguito della notizia del rinvio a gennaio della richiesta di esame definitivo del dossier tunisino già fissato per il 19 dicembre, aggiungendo che tale “circostanza aumenterà anche il rischio di declassamento del rating sovrano della Tunisia, che attualmente è Caa1 e in fase di revisione per il declassamento”. Nel Paese scarseggiano beni primari come farina, latte, riso e zucchero, per non parlare delle lunghe file ai benzinai. L’inflazione, che sfiora il 10 per cento, mette a dura prova i bilanci delle famiglie. Afflitta da un debito superiore al 100 per cento del Pil e impossibilitata a indebitarsi oltre sui mercati internazionali, dopo lunghi e difficili mesi di negoziato la Tunisia ha raggiunto un accordo con il Fondo monetario internazionale per un prestito di circa due miliardi di dollari. Si tratta di circa la metà di quanto richiesto inizialmente e per ottenerlo comunque il Paese dovrà mettere in atto un programma di riforme che punta soprattutto ad una maggiore equità fiscale, tassando anche l’economia informale con tutti i problemi e le difficoltà che questo comporta. Il presidente ha accusato “gli speculatori” per i rincari e gli scaffali vuoti, ma molti lamentano il fatto che, dopo aver promesso così tanto, Saied si sia concentrato sui cambiamenti politici dimenticandosi di trovare soluzioni economiche ai loro bisogni più urgenti. Secondo Moody’s, la finalizzazione del bilancio 2023 – una probabile condizione per l’approvazione del Consiglio esecutivo dell’Fmi sull’accordo di sostegno finanziario – rimane in sospeso, così come una nuova legge sulle imprese statali.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-12/tunisia-costituzione-primavera-araba-elezioni-parlamento.html