Finisce sotto processo la fine della democrazia in Myanmar  

 

di Fausta Speranza

Il mondo del diritto batte un colpo per il popolo birmano. E’ stata ufficialmente annunciata la costituzione di un team di avvocati internazionali, tra i più stimati, per il monitoraggio del processo in corso nei confronti dei leader politici arrestati.

Informare il mondo di quello che accade a livello procedurale è già un passo in difesa di quella democrazia che il Paese del Sud est asiatico vede sfuggire ogni volta che sembra più a portata di mano.

 Sono i principi del Foro a livello mondiale ma non percepiscono stipendio. Il caso è particolare: si tratta di monitorare, alla Corte Suprema di Naypyidaw,  il processo al Consigliere di Stato Aung San Suu Kyi e al Presidente della Repubblica U Win Myint. Dopo decenni di lotta non violenta, il loro partito ha ottenuto un clamoroso successo elettorale, ma è stato accusato di brogli dall’esercito e i leader sono stati arrestati. La democrazia è caduta sotto il giogo dell’esercito. E’ scattata qualche sanzione internazionale ma di fatto il mondo della politica è in attesa.

Intanto, è arrivata l’iniziativa dell’International Bar Association e si è costituito il pool di avvocati per cercare di monitorare al meglio lo svolgimento del processo. L’iniziativa è partita da  un avvocato di Londra anglo-birmano a lungo consulente per gli affari giuridici di Aung San Suu Kyi e dalla già parlamentare italiana Albertina Soliani.   E’ stata accolta dall’IBAHRI, l’Istituto per i diritti umani dell’Associazione Internazionale degli Avvocati  (Iba) e il team si è  costituito. Hanno aderito innanzitutto diversi partecipanti del Regno Unito: Mark Ellis, Direttore esecutivo della International Bar Association; Sir Jeffrey Jowell QC, professore emerito di Diritto pubblico dello University College di Londra, ex Direttore del Bingham Centre for the Rule of Law e rappresentante del Regno Unito nella Commissione di Venezia; Baroness Helena Kennedy QC, uno dei più illustri avvocati britannici, direttore dell’IBAHRI, membro della Camera dei Lord.

Dall’India ha assicurato la sua adesione Harish Salve QC,  già Solicitor General del Paese, Blackstone Chambers.

Per l’Italia si è unita Paola Severino,  già ministro della Giustizia   e Professore ordinario di diritto penale nonché vicepresidente dell’Università Luiss Guido Carli.

Compare il Canada con il nome d Larry Taman, Professore di diritto, già vice Procuratore generale dell’Ontario, già Consigliere Internazionale senior dell’UNDP in Myanmar;

Rappresenta la Corea Jung-Hoon Lee,  decano e Professore di relazioni internazionali, alla Yonsei University, già Ambasciatore per i diritti umani della Corea del Nord.

Il sogno della democrazia risale alla rivolta degli studenti nel 1920, come rivendicazione del diritto all’indipendenza dal dominio coloniale inglese che praticamente si sovrappone alla vita del giovane Aung San, artefice dell’indipendenza nel 1947, poco prima di essere assassinato a 32 anni. La rivendicazione rinasce nell’agosto del 1988 nelle stanze della casa di Aung San Suu Kyi a Rangoon, per essere poi acclamata negli stessi giorni nella grande piazza  della pagoda Shwedagon. I giovani studenti sono i protagonisti di un’onda che penetra nelle città e nei villaggi di tutta la ex Birmania, ma la grande manifestazione dell’8/8/1988  costa la vita di almeno tremila persone. In ogni caso, il sogno è entrato nel profondo collettivo e nel 2007 rialza la testa, assumendo il colore dello zafferano: migliaia di monaci per le strade sfilano abbracciando l’iniziativa della Lega Nazionale per la Democrazia (Nld).

Tremano i palazzi del potere politico di Naypyidaw nel secondo decennio del nuovo secolo: l’immagine millenaria del pavone combattente che punta la stella ha ormai assunto il significato della democrazia. Il resto è storia del Tatmadaw, l’esercito da sempre  avversario della democrazia in Myanmar. Al potere dal 1962 al 2010,  l’esercito svolge un ruolo politico oltre che militare, permea ogni piega dell’amministrazione dello Stato, controlla ogni ambito economico, è in rapporti privilegiati con capitali stranieri. Nel 2008 risponde alle istanze di democrazia con una Costituzione non democratica.

Dal 2011 si avvia una transizione verso la democrazia, pacifica e non violenta. La road map prevedeva di raggiungere l’unità nazionale tra gli Stati etnici – sette i principali – e tra le etnie, 135 quelle riconosciute. Sull’unità si doveva costruire il federalismo, passando per la riconciliazione e la pace. Tappe importanti sono state le elezioni: del 1990, del 2012, del 2015, del 2020. La voce più gentile ma estremamente decisa è sempre quella di Aung San Suu Kyi, la figlia di Aung San. Insignita nel 1991 del Premio Nobel per la Pace, mentre era agli arresti. Parlare di diritti umani, di democrazia in Myanmar ed è tornato ad essere un grave reato. Un puntello costituzionale – i figli di nazionalità straniera – le hanno impedito di diventare presidente ma è diventata Consigliere dello Stato. In questo ruolo ha dovuto rispondere di fronte al mondo delle persecuzioni avvenute nei confronti dell’etnia rohingya al confine con il Bangladesh. Una storia da chiarire.

Il cammino verso la democrazia si è interrotto con il colpo di Stato del 1° febbraio scorso, quando un  nome si è imposto  sul voto popolare: quello del capo delle forze armate Min Aung Hlaing. Quel giorno doveva insediarsi il parlamento eletto con il ballottaggio del 21 gennaio, dopo il primo turno a fine 2020: la Lega di San Suu Kyi aveva stravinto rispetto al  il Partito dell’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo, vicino all’esercito, che aveva conquistato solo poche decine di seggi. Ma l’esercito ha arrestato gli esponenti di governo – San Suu Kyi e il presidente – e poi a maggio ha sciolto la Lega.

I cittadini fanno risuonare come possono le pentole e i coperchi, il suono del pot and pan. Dal giorno del golpe, l’eco cerca di arrivare in tutte le piazze del mondo globale, attraverso la rete, i social. Non è facile intervenire per la comunità internazionale. A parte immaginabili immobilismi, c’è il vicino gigante cinese al quale Tatmadaw si raccomanda. E c’è la Russia dove Min Aung Hlaing, sempre coperto di medaglie, è andato dichiaratamente ad acquistare armi, anche se a Mosca il capo del golpe è stato ricevuto con un basso profilo, come capo dell’esercito non come capo di Stato.

Non sappiamo se risponderà.
Aung San Suu Kyi è stata messa al corrente della cosa dai suoi avvocati. Era piuttosto impressionata, ci dicono. E a dirvi la verità anch’io. L’iniziativa, non senza rischi, è importante. Tutela la dignità delle persone, difende il diritto, sotto tutti i cieli, tiene accesa l’attenzione del mondo sul Myanmar e su Aung San Suu Kyi. I militari non possono sempre agire impunemente.
Come vedete, si possono fare cose, assumere iniziative, oltre l’immobilismo della politica internazionale.
Lei, nell’ultimo incontro con i suoi avvocati ha detto al popolo di essere unito, e di proteggersi dal Covid 19.Della pandemia i militari non si occupano di certo. Mi domando se dice qualcosa l’Organizzazione Mondiale della Sanità, di un golpe in piena pandemia.
Circola una foto recente di lei alla finestra di un edificio militare a Naypyidaw, saluta con la mano. Vale quell’immagine a rinfrancare un popolo.
Anche Mosca resta prudente. Noi possiamo resistere alle dittature. Dico noi cittadini, anche come professionisti, come società civile. In nome di un’etica che vuole il rispetto della natura di ogni cosa, direbbe Simone Weil. La dittatura è immorale, travolge il diritto, non rispetta le libere elezioni,
è menzognera, distrugge la vita di un intero popolo, degli anziani e dei giovani. Come non vedere? Come non reagire?

L’altra sera a Casa Cervi il fotografo Stefano Anzola, per iniziativa del Comune di Gattatico, ha proiettato sul muro della Casa foto bellissime di un viaggio in Birmania, anni fa. Un angolo del mappamondo dei fratelli Cervi, che oggi resiste, come loro. E’ la stessa cosa, la stessa scelta.
L’Istituto Cervi sostiene la resistenza del popolo birmano in difesa della democrazia. Il 12 luglio, in collaborazione con il Parlamento Europeo, abbiamo organizzato una videoconferenza tra parlamentari del Myanmar, che sono alla macchia, in luoghi sicuri, e parlamentari dell’Unione Europea. Sarà resa pubblica.

E’ cominciato il mese di luglio. Un mese di anniversari, ha scritto in una bella pagina Aung San Suu Kyi: “Luglio è un mese che non sembra ispirare afflati poetici. Forse è la sua banalità di mese di mezzo, collocato tra la dolcezza di giugno e l’esuberante rigoglio di agosto, a non stimolare l’immaginazione”. “Eppure, l’anonimo luglio, mese di mezzo, è gravido di anniversari importantissimi”. Ricorda quello della presa della Bastiglia, il 14 luglio, quello dell’indipendenza americana, il 4, e della cospirazione contro Hitler, il 20.
Il 19 luglio, in Birmania, veniva assassinato suo Padre, Aung San, a 32 anni. Lei ne aveva due. Quest’anno non parteciperà alla cerimonia al Mausoleo dei Martiri a Yangon. Ci saranno solo i militari. Ma sono certa che il popolo si farà sentire.

da meridianoitalia.tv del 10 luglio 2021

 

Messico a metà tra sconfitte e vittorie

di Fausta Speranza

       Iniziano le operazioni di scrutinio per le elezioni che hanno chiuso una delle più sanguinose campagne elettorali in Messico, ma già gli exit poll hanno decretato il ridimensionamento del partito di Obrador. In attesa dei risultati definitivi, è utile riflettere su vari aspetti al di là del consenso espresso al presidente che tre anni fa aveva ottenuto quasi un plebiscito e che non è rieleggibile.

Nel Paese dell’America Latina a nord dell’Equatore, per il capo dello Stato, dopo il mandato di sei anni, non è prevista una seconda candidatura. Anche per questo non si deve ridurre ad un referendum su Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo, il voto di mid-term più ampio di sempre: oltre 93 milioni di messicani sono stati chiamati alle urne domenica 6 giugno e lunedì 7 per il rinnovo del Congresso e di un numero mai così alto di autorità locali. In ballo c’erano 15 governatori dei 32 in ruolo nel Paese e 20.000 incarichi tra sindaci e presidenti di municipalità.

Morena resta il primo partito nel Paese che ha quattro fusi orari, anche se Juntos Hacemos Historia, la coalizione tra Morena, Partido del Trabajo e Verdi, ha ottenuto 279 seggi, contro i 313 che aveva la precedente coalizione. Senz’altro è importante ribadire che sembra non ci sia più una maggioranza qualificata, in grado ad esempio di cambiare la Costituzione. Certamente non si è ripetuto l’en plein che si è visto nel luglio 2018 quando Obrador è stato eletto presidente a furor di popolo e la sua coalizione  aveva conquistato due terzi dei seggi al Congresso.

In ogni caso, il Movimiento Regeneración Nacional, che nel suo acronimo ricorda la “vergin morena” o morenita, come la popolazione messicana, tutta e non solo i credenti, chiama  la Madonna di Guadalupe, se è vero che ha perso due terzi dei rappresentanti nella Città del Messico che controllava quasi interamente, ha comunque conquistato ben 10 dei 15 governatori sul territorio nazionale. Spetterà in prima battuta a Mario Delgado, leader nazionale del Partito Morena, fare i conti con questa sorta di vittoria a metà.

Colpisce il successo dei Verdi che è l’elemento nuovo della coalizione di governo. Nello schieramento che sostiene il presidente, a Morena e al Partito dei lavoratori si sono uniti i Verdi che, secondo gli exit poll, sono la vera rivelazione. E potrebbero esserlo non solo per il Messico: potrebbero indicare una tendenza a promuovere l’impegno ecologista nelle Americhe mentre avanza in Europa. Va detto che hanno sostituito Encuentro Social, il partito degli evangelici che, praticamente dopo l’exploit accanto a Morena nel 2018, si è andato dissolvendo. E anche questo è un elemento da considerare.

L’avanzamento della contro-coalizione segna il ritorno dei partiti tradizionali, fenomeno tutto da studiare. Non si può definire del tutto inedito, ma certamente il raggruppamento dei partiti  che hanno fatto per decenni la storia del Messico moderno e che tre anni fa sembravano spazzati via ha dell’insolito. Dagli Anni Ottanta non si vedevano alleati e comunque lo erano stati per tatticismi di governo. Per questa elezione, si sono compattati nell’intento, in parte riuscito, di frenare la coalizione di governo. Si parla del Pri, del Pan e del Prd. Il Pri, il Partido Revolucionario Institucional,  ha guidato il Paese per settant’anni dopo la rivoluzione che nel 1920 cacciò il generale Porfirio Diaz, chiudendo 35 anni di governo assoluto. Il Pan, il Partido Acción Nacional, che a volte erroneamente la stampa italiana definisce di centro destra, è semplicemente un antagonista storico del Pri. E poi c’è il progressista Prd, il Partido de la Revolución Democrática che è nato da una costola del Pri di dichiarato stampo socialdemocratico.

In attesa dei risultati definiti, c’è un dato certo: il 52 per cento di affluenza, che ha superato il 48 per cento delle precedenti elezioni di mid-term del 2015. Racconta di un popolo che ha raggiunto i seggi dopo che, in pochi mesi, 90 candidati sono stati uccisi. Tra questi, c’era Alma Barragan,  che si presentava per il ruolo di sindaco a Moroléon nello Stato centrale di Guanajuato, freddata come tanti altri alla fine di un comizio. Era legata al Movimento Ciudadano, che, almeno secondo le dichiarazioni di voto, ha poi conquistato, a sorpresa,  il governatorato a Nuevo Léon.

La violenza, che non si è fermata neanche durante le operazioni di voto, non ha fermato l’accesso alle urne. Cinque dipendenti dell’Istituto elettorale sono stati colpiti a morte in Chiapas, alcuni seggi sono stati presi d’assalto a Puebla e nello Stato del Messico. Poco importa stabilire se sia stata o no la campagna elettorale più violenta di sempre, di fatto, dopo la lieve flessione del numero di omicidi negli ultimi tempi, – relativa in un Paese che segna il drammatico record di 100 uccisioni al giorno –  l’accanimento contro i candidati che più si sono esposti contro corruzione e narcotraffico ha avuto il sapore della minaccia. Ma non ha fermato il popolo messicano che ha dato al mondo ancora una volta una lezione di speranza.

https://www.meridianoitalia.tv/index.php/l-italia-nel-mondo-4/estera/369-messico-a-meta-tra-sconfitte-e-vittorie

Ad Alipress: per parlare di cyber bio security con Massimo Amorosi

Nella rubrica A cuore aperto di Alipress, il 13 Maggio 2021, con Massimo Amorosi, esperto di minacce biologiche che  collabora con il Centro innovazione difesa dello Stato Maggiore della Difesa.

Abbiamo affrontato le nuove prospettive e  i possibili scenari nell’universo biologico. In particolare,  abbiamo parlato delle più urgenti questioni legate al proliferare di laboratori che si occupano di agenti biologici pericolosi;  del fenomeno della “convergenza tecnologica” e della “democratizzazione delle scienze”; dei rischi che promanano da talune partnership internazionali, in una fase di crisi dei tradizionali regimi internazionali di controllo degli armamenti, in primis della Convenzione sulle Armi Biologiche, e di nuovi rapporti di potere.  Il video:

https://youtu.be/QL31b3SKg0o

 

 

Brexit: scongiurare il no deal non può bastare

di Fausta Speranza

L’ipotesi di una Brexit no deal era davvero spettrale. Ora che l’accordo sulle relazioni commerciali future tra Unione europea e Regno Unito è stato raggiunto, alla vigilia di Natale, è lecito dirlo. La sicurezza ostentata dal premier britannico Johnson era di facciata e il piano B che si diceva pronto a Bruxelles non era sufficiente a evitare il caos assoluto.
Di fatto, si è andati oltre i termini ragionevoli di metà dicembre, che avrebbero permesso le ratifiche dei vari parlamenti in tempi adeguati all’entrata in vigore il primo gennaio 2021, proprio perché, come in tutti i negoziati che si rispettino, c’è chi ha bluffato. Praticamente fuori tempo massimo,   nasce un’intesa basata su un  patto originale: “a zero dazi e zero quote”. Per il momento significa scongiurare il dramma alle frontiere e una guerra commerciale, ma poi
arriverà il momento di capire se non sarà nel prossimo futuro anche a zero vincitori

Anche se Johnson ha tirato fuori il Regno Unito dalla preoccupante impasse in cui si è ritrovato quattro anni dopo il referendum, per Londra parlare di vittoria significa continuare a bluffare. Significherebbe dimenticare che dal referendum si sono già persi  60 miliardi di Pil, che le banche sono scappate dalla City che le case automobilistiche straniere hanno chiuso impianti nel Regno Unito, o sostenere che abbandonare l’Erasmus sia una conquista. Per i 27 Paesi che restano membri Ue, immaginare di aver chiuso la partita con 2000 pagine di cavilli, che tutelano un giro di affari annuale stimato sui 668 miliardi di sterline, è un’illusione, ma soprattutto pensare di accontentarsi di una menomazione, seppure meno dolorosa, senza rilanciare con un meditato piano di riassestamento e bilanciamento interno sarebbe colpevole. 

C’è l’incognita populismo che richiama alla mente lo scandalo Cambridge AnalyticaSe in questo momento indubbiamente a restare orfano è il Regno Unito, non c’è dubbio che cercherà “padrini” e “madrine” e la sua solitudine è anche la sua agilità. Bisognerà capire però se si affiderà di nuovo al populismo di Johnson – dopo essersi affidato a quello espresso da Farage e dal suo Partito per la Brexit – così come ha fatto con una maggioranza schiacciante alle elezioni di luglio 2019, nel momento della barca in secca. Un populismo che viene da lontano: dalla campagna pro Brexit, alimentata anche abbondantemente dalle fake newsLo scandalo Cambridge Analytica scoppia a maggio 2018, meno di due anni fa ma sembra già dimenticatoAndrebbero riletti gli articoli del Guardian e del New York Times che hanno dimostrato l’uso scorretto per propaganda politica di un’enorme quantità di dati prelevati da Facebook, da parte dell’azienda di consulenza e per il marketing online chiamata Cambridge Analytica. La vicenda ha confermato ancora una volta quanto Facebook fatichi a tenere sotto controllo la gestione dei  dati  ma anche che Cambridge Analytica ha avuto importanti rapporti con alcuni dei più stretti collaboratori di Donald Trump, soprattutto durante la campagna elettorale statunitense del 2016 che lo ha poi visto vincitore. La storia ha molti risvolti e anche dopo le udienze di fronte al parlamento britannico e le promesse del fondatore di Facebook Zuckerberg di maggiore controllo, alcuni aspetti sono rimasti da chiarire, compreso l’effettivo ruolo di Cambridge Analytica ed eventuali suoi contatti con la Russia e le iniziative per condizionare le presidenziali statunitensi e il referendum sulla Brexit nel Regno Unito. 

Un populismo che David Cameron, dopo sei anni a Downing Street, aveva sottovalutato. Era premier dal 2010 e nelle sue intenzioni il referendum fissato il 23 giugno 2016 avrebbe dovuto tacitare una volta per tutte gli euroscettici e invece ha sancito la Brexit. Camerun era tanto sicuro di veder vincere il remain da rifiutare la proposta dei costituzionalisti che chiedevano di non votare con una maggioranza semplice. Non aveva considerato il ruolo dei social pro leave e la pressione del partito di Farage, espressione di un’ultra destra che si piazzerà come primo partito britannico, con il 32 per cento, alle elezioni europee di maggio 2019, prima di scomparire come forza politica interna. In ogni caso, alle dimissioni di Cameron subentra Theresa May, già leader del partito conservatore, politica di professione. Sarà premier dal 13 luglio 2016 al 24 luglio 2019 ma non riuscirà ad andare oltre l’accordo di recesso nel negoziato con l’Ue. Londra non era ancora con l’acqua alla gola: aveva un anno di transizione per farlo e si è affidata a Johnson. Bisogna vedere se Johnson farà dimenticare agli inglesi tutto il percorso e saprà far accettare gli indubbi sacrifici che li aspettano anche avendo scongiurato la Brexit no deal. E soprattutto avrà a che fare con la Scozia, ancora non rassegnata alla Brexit, che rilancia l’idea del referendum per l’indipendenza.  

Per l’Unione europea c’è la soddisfazione di aver difeso punti cruciali come l’apertura del confine irlandese – che significava la difesa dell’Accordo di pace del Venerdì Santo – e il doveroso adeguamento a normative comuni essenziali come quelle sul clima, il cosiddetto level playing field. Il terzo punto irrisolto fino alla fine è stato quello relativo alla pesca in acque territoriali che tornano al Regno Unito: c’erano le richieste in particolare della Francia, ma tutto faceva pensare che un compromesso era possibile. Non si trattava, infatti, di una questione di principio come per le altre due. Di fatto è stato l’ultimo nodo ad essere sciolto grazie a una sorta di moratoria concessa da Londra: i pescherecci dei Paesi Ue potranno mantenere, per un periodo di cinque anni, i due terzi dei diritti di pesca nelle acque territoriali britanniche garantiti fino ad ora. In ogni caso,  per Bruxelles il successo più grande è stato la compattezza dei 27: abbiamo assistito a un negoziato condotto da Michel Barnier dall’inizio alla fine senza che nessuno mettesse in dubbio le sue mosse. Paradossalmente nel momento in cui veniva meno un mattone, il resto della costruzione non dimostrava crepe. Ha coinciso con la straordinaria unità messa in campo nella lotta al Covid-19, ma in questo caso l’eccezionalità della pandemia è fuori confronto.     

Ma la vera vittoria dell’Unione europea sarebbe rilanciare. Al vertice di dicembre, sono state assunte due decisioni importantissime: una sul Next Generation Eu, e l’altra sulla coraggiosa riduzione delle emissioni di gas serra del 55 per cento entro il 2030. In definitiva, con la risposta alla crisi sanitaria, l’Europa ha ritrovato slancio politico, mettendo in campo 1800 miliardi di euro destinati a progetti e riforme a favore della salute e del welfare dei cittadini e avviando davvero il green deal. Ma la decisione è stata possibile solo grazie a compromessi, peraltro su aspetti non direttamente legati ai fondi e al bilancio che erano il punto centrale all’ordine del giorno. C’è stata infatti la promessa, non indolore, di maggiore libertà fiscale all’Olanda ed è stato accettato un posticipo per la verifica sullo stato di diritto per Polonia e Ungheria. E’, dunque, nei processi decisionali che l’Ue può e deve fare progressi, in alcuni casi proprio grazie alla Brexit. L’invalidante freno del voto all’unanimità è stato, infatti, sempre strenuamente difeso dal Regno Unito. E’ il momento di superarlo per evitare di vincolare alcune decisioni a possibili “ricatti” su altre questioni. Inoltre, c’è da studiare per ridisegnare i rapporti con la Cina nel dopo Trump e senza il Regno Unito, considerando che Pechino ha orchestrato di recente il più grande patto commerciale della storia: riguarda due miliardi di persone e comprende Paesi, come la Cina e il Giappone, storicamente in forte rivalità, la Corea, le nazioni del sud-est asiatico dell’Aseanma anche Australia e Nuova Zelanda. Potrebbe coprire quasi un terzo del Pil mondiale. Immaginare che di fronte a questi nuovi orizzonti i Paesi del Vecchio Continente si facessero una guerra dei dazi era davvero impensabile. Verrebbe da dire che più che storico, come è stato definito, l’accordo commerciale tra Ue e Regno Unito di Natale 2020 è il passo indietro decisivo in un percorso verso il baratro. Inoltre, tutto dipenderà dai prossimi sviluppi.

https://www.meridianoitalia.tv/index.php/italia-e-il-mondo/italia-e-l-u-e/295-brexit-scongiurare-il-no-deal-non-puo-bastare

L’Occidente assiste al più grande patto commerciale del mondo

di Fausta Speranza

       Dogane che aprono e dazi che cadono in un bacino commerciale di due miliardi di persone e tra Paesi, come la Cina e il Giappone, storicamente in forte rivalità. L’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean), più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda hanno raggiunto un accordo di libero scambio che potrebbe coprire quasi un terzo del Pil mondiale. Ne resta fuori l’India nazionalista del presidente Modi, mentre gli Stati Uniti devono capire se riscopriranno l’affaccio sul Pacifico. In piena pandemia, l’Asia cerca  di respirare aria nuova di ripresa economica e per l’Europa dovrebbe essere un utile memorandum: è nel vecchio continente il più integrato dei mercati mondiali.

       Si chiama Regional comprehensive economic partnership (Rcep) ed è stato siglato virtualmente domenica 15 novembre. Da solo pesa di più, in termini di attività economica, non solo dell’Unione europea e del Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp) – di cui fanno parte Paesi di Asia, Pacifico, Sud America, oltre a Canada e Messico – ma anche dell’accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Messico e Canada (Usmca). I Paesi firmatari sperano di poter rilanciare l’economia dell’area fortemente provata dalla pandemia di Covid-19. Per il momento, è stata più che positiva la risposta dei mercati: Borsa di Tokyo e azionario Asia-Pacifico si sono evidenziati subito in rialzo, soprattutto i titoli del settore auto e tecnologici.

       La Cina, che già rappresenta la seconda economia al mondo, potrebbe migliorare la sua posizione per dettare le regole commerciali della regione. E l’accordo potrebbe aiutare Pechino a ridurre la sua dipendenza dai mercati e dalla tecnologia occidentale, in un momento in cui i rapporti con Washington si sono fatti  particolarmente tesi. Il capo del governo cinese Li Keqiang ha salutato l’accordo come una vittoria contro il protezionismo. “La firma del Rcep non è solo una pietra miliare della cooperazione regionale dell’Asia orientale, ma anche una vittoria del multilateralismo e del libero scambio”, ha affermato Li. Dunque, la Cina con questo accordo rilancia la scommessa di farsi paladina del multilateralismo e della globalizzazione. Il Coronavirus ha rappresentato un colpo anche per Pechino, ma  il Dragone si è già rialzato: mentre l’accordo veniva firmato, la Banca centrale cinese ha immesso denaro contante nel sistema finanziario per un totale di 800 miliardi di yuan. Sono circa 121 miliardi di dollari “iniettat” nel mercato attraverso la linea di credito a medio termine (Mlf) dalla People’s Bank of China. Lo strumento Mlf è stato introdotto nel 2014 per aiutare le banche commerciali e di policy a mantenere la liquidità, consentendo loro di prendere in prestito dalla Banca centrale titoli come garanzia.

       Gli Stati Uniti d’America, che aspettano che giuri il 46esimo presidente, sono fuori dalle dinamiche di intesa nell’area già da tre anni. Il presidente Barack Obama aveva sostenuto la Trans-Pacific Partnership (Tpp), il progetto di trattato di regolamentazione e di investimenti regionali che fino al 2014 ha visto seduti al tavolo delle negoziazioni dodici Paesi dell’area pacifica e asiatica e cioè Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti, Vietnam. Ma nel 2017 Donald Trump ha voluto il ritiro di Washington.  Il Tpp si è poi evoluto nel cosiddetto Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp), ma Trump ha continuato a sostenere una linea di intese praticamente bilaterali. Ora che la Casa Bianca sarà guidata dal democratico Joe Biden è possibile che Washington cerchi un impegno di tipo diverso dal predecessore Trump nel sud-est asiatico e in tema di sanzioni commerciali imposte alla Cina.

       E’ rimasta distante dall’accordo di cooperazione l’India del presidente Modi, che ha optato per forme di nazionalismo economico, e non solo. In questi anni il più grande alleato di New Delhi è stato il presidente statunitense Trump con il suo motto America first. La prospettiva però dovrebbe cambiare per Washington. Dopo il voto del 3 novembre si attende il cambio di guida alla Casa Bianca e con l’avvento di Joe Biden, sostenitore della logica del multilateralismo, si riaprono diverse partite. Non si può ipotizzare cosa si muoverà a New Delhi, ma è certo che nell’immediato risentirà del venir meno dell’alleato sul piano internazionale.

       Al di là degli interessi di ogni Paese, l’accordo suona vincente perché prevede che si ritrovino insieme Paesi di regimi politici diversi. Non è affatto scontato ritrovare “complici”  nella cooperazione economica regionale Paesi come la Cina e il Giappone, che tra l’altro storicamente sono protagonisti di dispute e di contese. Non si può dimenticare la questione delle isole Diaoyu/Senkaku, un patrimonio strategico rivendicato da Tokyo e da Pechino. Sono disabitate ma nelle acque circostanti si trovano importanti riserve ittiche e minerarie. E soprattutto sono situate all’interno della rotta marittima in cui transita oltre il 90 per cento del petrolio e del gas naturale diretti verso la Cina ed il Giappone. Come spiegava il filosofo ed economista scozzese Adam Smith, nel suo articolato saggio La ricchezza delle nazioni, là dove ci sono vincoli e scambi commerciali è più difficile che gli Stati arrivino a conflitti. Dunque, sotto questo punto di vista si deve parlare di successo.

       Tokyo e Seul hanno ritenuto di mettere da parte i timori nei confronti di Pechino. Anche l’economia giapponese si mostra vitale dopo i danni provocati dalla pandemia del coronavirus. Secondo i dati pubblicati nelle ultime 24 ore, il Pil è cresciuto nel terzo trimestre al ritmo annualizzato del 21,4 per cento. Su base trimestrale, l’economia giapponese è cresciuta del 5 per cento, meglio del 4,4 per cento atteso dagli analisti. C’è da dire che i flussi commerciali e di investimento all’interno dell’Asia si sono notevolmente ampliati negli ultimi dieci anni, anche in risposta al braccio di ferro tra Stati Uniti e Cina, che hanno imposto dazi per miliardi di dollari sulle reciproche esportazioni. E il punto è che l’accordo Rcep, che prevede l’abbassamento di imposte in molti settori, è abbastanza ampio da adattarsi alle esigenze disparate di Paesi membri diversi come Birmania, Singapore, Vietnam e Australia.

       Non si può certamente parlare di accordo commerciale tenendo presente l’idea del mercato comune europeo. A differenza dell’Ue, e peraltro anche del Cptpp, il Regional comprehensive economic partnership non prevede di stabilire standard unificati in materia di lavoro o di ambiente, né impegna i Paesi ad aprire ad altri servizi. Sancisce piuttosto regole per il commercio che faciliteranno gli investimenti e altre attività nella regione. Dunque, niente a che vedere con l’integrazione economica che ha raggiunto l’Ue, frutto di un processo di anni, che ha preso il via nel 1950 con la Dichiarazione Schuman e poi, concretamente, con la Ceca, la cooperazione in materia di carbone e di acciaio. Poi è stata storia di varie forme di collaborazione economica fino al  mercato comune e, alla fine negli anni Ottanta, ad un mercato unico. E se oggi è d’obbligo salutare come si deve l’accordo che dal Sud Est asiatico abbraccia la Nuova Zelanda, va anche ricordato, però, che al mondo non c’è un altro mercato integrato come è quello europeo, perfino più integrato di quello degli Stati Uniti d’America.  Inoltre, va ricordato che in Europa il meccanismo di scambi fa capo alle istituzioni comunitarie: in primis la Commissione, ma anche l’Europarlamento e il Consiglio, che dettano le linee. Politiche commerciali, economiche, perfino monetarie non sono più nelle mani dei singoli Stati. E c’è poi un altro fattore importante di forza: la Corte europea di giustizia, che ha anche il potere di dirimere le controversie di tipo commerciale, tra Stati oppure tra diversi attori delle dinamiche commerciali. Ovviamente per quanto riguarda i Paesi europei parliamo di un cammino lungo e articolato che dunque non è paragonabile al passo fatto nell’accordo di cooperazione regionale tra i 14 Paesi in questione, nel cui orizzonte non si intravede nulla di tutto questo.

       Visto che a livello mondiale si ridisegnano equilibri commerciali importanti, l’Ue può e deve riscoprire tutte le sue potenzialità. Lo sforzo iniziale per affrontare la crisi sanitaria ed economica è stato notevole, l’Ue ha messo in campo risorse mai ipotizzate prima e lo ha fatto indirizzandole praticamente direttamente ai cittadini. Bruxelles chiede ai singoli Stati riforme importanti che non possono essere disattese, ma ci sono anche sfide decisive da non mancare: in un modo o nell’altro si chiuderà la Brexit – a fine dicembre termina il periodo di transizione con o senza accordo sulle relazioni future – e può essere l’occasione giusta per abbandonare l’unanimità su molte questioni sulle quali serve piuttosto decisionalità. E visto che Londra era la prima ad opporsi al superamento dell’unanimità, il momento è propizio. Inoltre, si riapre con Biden la partita del multilateralismo e dunque è il momento di andare oltre le guerre dei dazi che tante energie hanno distolto da  questioni fondamentali transnazionali come la rincorsa agli armamenti o l’ambiente. Perché non si parli solo di cooperazione   economica.

da meridiano del 18 novembre 2020

Competenza e gentilezza: l’eredità di Massimo Campanini

di Fausta Speranza

“Non c’è grandezza dove non c’è semplicità, bontà e verità”. Così diceva Lev Tolstoj e queste parole dello scrittore russo possono contribuire a ricordare Massimo Campanini, lo studioso  di fama mondiale scomparso il 9 ottobre.

E’ stato tra i più autorevoli esperti di Islam e del Vicino Oriente, ma chi lo ha conosciuto da vicino ricorda un uomo colto che non ostentava la sua impareggiabile competenza su questioni così complesse, un insegnante generoso che non disdegnava chi si accostava al suo sapere, un intellettuale appassionato ma non ripiegato sulle proprie convinzioni.  

       La ricerca accademica è stata arricchita da oltre 50 libri e centinaia di pubblicazioni di Massimo Campanini, che era nato a Milano il 3 novembre 1954, si era laureato in Filosofia nel 1977 con una tesi su Giordano Bruno, e si era poi diplomato in lingua araba  nel 1984.

Tra i più apprezzati storici del Vicino Oriente arabo contemporaneo, nonché storico della filosofia islamica, è stato professore in varie prestigiose Università: a Milano, a Urbino, a Trento, all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, a Pavia. Membro dell’Accademia Ambrosiana “Classis Orientalis Araba”, nel 2016-2017 ha fatto parte del Consiglio per l’Islam italiano istituito presso il Ministero dell’interno.

Ha sviscerato aspetti storici o contemporanei dell’universo islamico affrontando, tra l’altro, la questione del rapporto tra politica e islam. Tra le sue principali opere ricordiamo: “Il pensiero islamico contemporaneo”; “Storia del Medio Oriente”; “Ideologia e politica nell’Islam”; “I sunniti”; “Storia dell’Egitto dalla conquista araba ad oggi”; “Quale Islam? Jihadismo, radicalismo, riformismo”; “L’Islam, religione dell’Occidente”. Nel 2019 ha pubblicato “I giorni di Dio. Il viaggio e il tempo tra Occidente e Islam” e “Pensare nell’Islam”. In questo 2020 in cui ci ha lasciato, ha firmato “Maometto, l’Inviato di Dio”  e una nuova edizione di “Il Corano e la sua interpretazione”.

Ha pubblicato per i tipi di diverse case editrici e da qualche anno dirigeva presso l’editore Jaca Book di Milano la collana di pubblicazioni specialistiche ‘Nell’Islam’. Si tratta della prima collana  a comparire nel panorama editoriale italiano su questi temi, con testi di filosofia, religione, storia, musica, letteratura, arte e attualità, tradotti, commentati e curati da studiosi e giovani ricercatori di differenti ambiti e Paesi.

La firma di Massimo Campanini compare in uno dei contributi che arricchiscono l’edizione commentata della nuova enciclica di Papa Francesco Fratres omnes, per i tipi di Scholé, che si trova in libreria dal 12 ottobre. Un testo che ha l’introduzione del teologo Bruno Forte e che propone le riflessioni di studiosi esperti delle tre diverse religioni abramitiche. Con loro, su queste pagine, Campanini parla di Fratellanza umana, un valore che gli stava profondamente a cuore.

       In tutti i suoi impegni, Massimo Campanini ha profuso la conoscenza e la passione che lo hanno contraddistinto come studioso e ha espresso il garbo e la gentilezza d’animo per il quale rimane nella memoria e nel cuore di chi lo ha conosciuto. Per sua volontà, i funerali si sono svolti in forma privata, ma l’omaggio è corale e va da Oriente a Occidente.

da meridianoitalia.tv del 12 ottobre 2020

 

A Beirut fumata nera sul governo

di Fausta Speranza

Non si vede l’orizzonte in Libano. La matassa politica è troppo aggrovigliata e il primo ministro designato, Mustapha Adib, rinuncia a formare il tanto atteso nuovo esecutivo che doveva traghettare il Paese fuori dall’emergenza dopo le esplosioni al porto di Beirut  e fuori dalla soffocante crisi economica e finanziaria. Adib, un diplomatico poco conosciuto in patria fino al mandato conferitogli il 31 agosto, ammette la sconfitta chiedendo “scusa al popolo libanese”. Il punto è che, mentre la popolazione è allo stremo, la classe politica rischia di navigare a vista ancora per mesi prima che si sblocchi l’impasse che tiene in ostaggio il più piccolo Paese dell’Asia nella più strategica posizione del Vicino Oriente.

E’ evidente come stia vacillando l’accordo di condivisione del potere che finora, con il termine “confessionalismo”, ha assicurato  un fragile equilibrio tra tutte le parti che fanno capo alle tre principali confessioni religiose, delle 18 riconosciute dalla Costituzione. E’ altrettanto evidente la difficoltà della sfida: tutti i principali partiti politici, legati alle comunità cristiana, sunnita e sciita,  devono concordare decisioni importanti, compresa la composizione di qualsiasi futuro gabinetto anche prima che sia sottoposto all’approvazione parlamentare. Ma in questo momento sono fuori di dubbio anche la fragilità dell’equilibrio e soprattutto l’esasperazione della popolazione.

Gli sforzi di Adib per elaborare una nuova proposta sembra siano stati bloccati nei fatti dai due principali partiti che rappresentano la grande comunita’ sciita del Paese: Amal e Hezbollah. Le due formazioni non hanno voluto rinunciare, come richiesto da Adib, al controllo del ministero delle Finanze.
Non sono bastate le pressioni internazionali – a partire dal presidente francese Macron e dal presidente del Consiglio dei ministri italiano Conte – perché si formasse un nuovo esecutivo il prima possibile, con l’obiettivo di attuare le urgenti riforme. Il fine non è da poco: sbloccare miliardi di dollari in aiuti esteri. In un discorso televisivo, Adib ha espresso il suo rammarico parlando della sua “incapacita’ di realizzare le sue aspirazioni per una squadra riformista”. La questione rischia di porsi al di là delle capacità o incapacità. Se tutte le parti concordano sulla necessità di riformare, non c’è più accordo quando si discute anche solo degli equilibri della squadra “riformatrice”.

Le scuse possono far onore ad Adib, ma tutte le parole perdono di senso a sette settimane  dalla drammatica esplosione al porto, che ha causato 200 morti e 6000 feriti, e a sette mesi  dalla dichiarazione di default da parte del governo, costata alla popolazione il blocco dei conti bancari, la svalutazione dell’85 per cento della moneta, l’inflazione giunta ormai al 700 per cento. Il rappresentante dell’Ordine di Malta nel Paese dei cedri, Marwan Senhaoui, è chiaro: manca tutto – ci ha detto in un incontro nei giorni scorsi – dal cibo alle medicine, dall’elettricità alla benzina: “Metà della popolazione è ormai al di sotto della soglia di povertà o appena al limite”.  Nel frattempo, ufficialmente nell’area del porto l’esercito ha rinvenuto oltre una tonnellata di articoli pirotecnici. I media parlano di diversi depositi di armi.

Il tempo che passa stride con l’urgenza  e stride con gli appelli  decisi e accorati del Patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Béchara Boutros Raï: “Salvare la città di Beirut al di là della politica e dei conflitti”; “il Libano non è in grado di far fronte a questa catastrofe umana”. E stride con l’eco dell’iniziativa di Papa Francesco: la giornata di preghiera e di digiuno con la visita del segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, venerdì 4 settembre, a un mese esatto dalla deflagrazione che ha ricordato al mondo quale polveriera rappresenti il Libano. Anche se non è solo questo: Francesco ha ricordato che, come diceva Giovanni Paolo II, il Libano sa essere “più di un Paese,  un messaggio di dialogo e di fraternità”.

Il momento è delicatissimo e la gravità  emerge nel commento dell’inviato delle Nazioni Unite, Jan Kubis, che, all’annuncio del passo indietro di Adib, ha esclamato:  “Un tale grado di irresponsabilita’, quando e’ in gioco il destino del Libano e del suo popolo!”. In realtà in ballo c’è un territorio chiave, punto nevralgico di un contesto mediorientale che non si è mai presentato così militarizzato dagli anni dei conflitti mondiali, teatro di confronti per corrispondenza di altre potenze regionali e di contrasti dall’onda lunga tra Oriente e Occidente.

26-09-2020
Autore: Fausta Speranza
Giornalista e Scrittrice

https://www.meridianoitalia.tv/index.php/italia-e-il-mondo/geopolitica/238-a-beirut-fumata-nera-sul-governo

Ancora fiato sospeso in Libano

Attesa per la sentenza sull’assassinio di Rafīq al-arīrī e preoccupazione per le possibili ripercussioni

di Fausta Speranza

Il Libano rischia un’altra devastante onda d’urto. Preoccupano le possibili reazioni al verdetto – previsto il 18 agosto – sull’omicidio dell’ex primo ministro Rafīq al-Ḥarīrī, avvenuto nel 2005.

Il processo del Tribunale Speciale voluto dall’Onu a L’Aja vede imputati membri del movimento Hezbollah. Il leader Nasrallah ostenta indifferenza e chiede “pazienza” ai suoi, mentre il figlio di al-Ḥarīrī, Saad, fa sapere che attenderà la sentenza nei Paesi Bassi. Dopo le devastanti esplosioni del 4 agosto – oltre 220 morti e 7000 feriti – e la caduta del governo, la settimana seguente, l’equilibrio del Paese del Levante, modello di convivenza ma in preda da mesi a una profondissima crisi economica e sociale, si presenta precario. Antiche tensioni potrebbero riaccendersi andando ad infiammare la disperazione crescente di una popolazione ridotta alla fame.

La sentenza del Tribunale Speciale voluto dalle Nazioni Unite per la prima volta per un atto terroristico – e non per crimini in contesti di guerra – difficilmente si potrà davvero liquidare con l’indifferenza.  Raīq al-Ḥarīrī, che era stato capo del governo dal 1992 al 1998 e dal 2000 al 2004 e che stava per tornare ad assumere l’incarico, è stato ucciso con altre 21 persone in una esplosione sul lungomare di Beirut il 14 febbraio 2005Anche se ha inaugurato la stagione del proliferare del debito pubblico,che ha portato al default finanziario a marzo scorso, viene ricordato dalla maggior parte della popolazione come il leader politico che ha saputo regalare al Paese il periodo recente di maggiore stabilità“Niente a che fare con il figlio”, ci si sente dire in Libano dalla maggior parte della popolazione, che non perdona a Saad lo scandalo delle sue spese pazze: sposato con tre figli, è stato calcolato che abbia fatto regali in poco tempo per 16 milioni di dollari all’amante, la modella sudafricana Candice van der Merwe, che ha raccontato tutto sotto la pressione dei controlli fiscali per il suo nuovo tenore di vita. Sembra fossero soldi del patrimonio di famiglia, ma spenderli così mentre il Paese passava da un ammanco e un disservizio all’altro, nell’impossibilità di far fronte ai debiti internazionali e con continui blackout energetici, è molto difficile da tollerare anche per un popolo abituato a scandali e corruttele. In ogni caso, la sentenza dovrebbe punire chi ha privato il Paese del padre Raīqun sunnita passato alla storia come sostenitore dei cristiani, che in tante interviste che abbiamo realizzato in Libano abbiamo sentito definire “mister Lebanon”,perché considerato il padre del Libano contemporaneo migliore. La sua uccisione è stato un momento storico: ha provocato, tra l’altro, una presa di posizione netta e forte della popolazione contro le truppe siriane che occupavano il Paese da più di 29 anni e che sono state costrette al ritiro. La posizione della Siria, da sempre profondamente coinvolta nella politica libanese, nonché sostenitrice del movimento divenuto poi partito politico Hezbollah, è stata seriamente messa in discussione.

Per noi sarà come se nessuna decisione fosse mai stata annunciata, ha dichiarato in questi giorniil leader di Hezbollah, Sheikh Hassan Nasrallah, chiedendo ai suoi “indifferenza” per il verdetto, ma aggiungendo ancheSe i nostri fratelli vengono condannati ingiustamente, come ci aspettiamo, manterremo la loro innocenzaHa avvertito che alcuni tenteranno di sfruttare il Tribunale speciale per prendere di mira la resistenza e Hezbollah e ha esortato i suoi sostenitori a essere pazienti, ma ha anche ribadito di rifiutare la giurisdizione e l’indipendenza del Tribunale.  

Una sentenza in piena crisi politica

Due governi caduti sotto il tiro della piazza in dieci mesi. In seguito a settimane di accese manifestazioni contro la corruzione e il carovita, a ottobre scorso, ha fatto un passo indietro l’esecutivo del primo ministro Saad al-arīrī, proprio il figlio del politico ucciso. Le proteste sono proseguite perfino in tempo di lockdown e sono esplose, con tutta la rabbia popolare, a inizio mese, quando 2,7 tonnellate di nitrato di ammonio sono deflagrate nella capitale. La conseguenza è stata la caduta dell’altro governo, nato a gennaio e guidato dall’ingegnere e accademico, considerato un tecnico, Hassan Diab. Le cause delle esplosioni restano tutte da accertare.  Di certo c’è solo che la pericolosità di quel composto chimico, utile per l’agricoltura ma anche per produrre esplosivo, era stata segnalata a tutte le autorità competenti, a partire dal ministero della Difesa e da quello dell’Interno. 

Al momento, mentre l’esecutivo Diab resta incaricato solo del disbrigo delle formalità, Nasrallah chiede la formazione di un governo di unità nazionale. Ha liquidato l’idea di un governo neutrale come una perdita di tempo per un Paese dove il potere e l’influenza sono distribuiti secondo le confessioni religiose: in base al dettato costituzionale, la carica di presidente spetta ai cristiani maroniti, quella di primo ministro a un sunnita e quella di presidente del parlamento a uno sciita. In questo equilibrio, Hezbollah vorrebbe riproporre  “un governo di unità nazionale, e se ciò non è possibile, allora un governo che assicuri la più ampia rappresentanza possibile per politici ed espertiE’ la proposta difesaanche da Nabīh Barrī, che dal1980 è capo politico del movimento a predominanza sciita Amal dal 1990 è presidente del ParlamentoBarrī non ha nascosto il fastidio per l’ipotesi di elezioni anticipate fatta dal dimissionario Diab. 

La voce della piazza

Una sorta di rimpasto tra gli stessi leader di sempre, fosse anche con qualche innesto di esperti o tecnicinon è quello che chiede la popolazione, che a gran voce reclama il rinnovo del Parlamento, ipotizzando anche un possibile cambio al vertice perfino per il capo dello Stato. Lo ripete in questi giorni Samy Gemayel, presidente del partito cristiano Kataeb, che dice di ritenere che il governo dimissionario, e tutte le parti che lo sostengono, siano responsabili del disastro e dovrebbero essere tutti assicurati alla giustizia. Gemayel, che l’8 agosto ha rassegnato le dimissioni assieme agli altri deputati del suo partito, spiega che la decisione è stata motivata dalla mancanza di fiducia. Il Libano ha bisogno di un nuovo governo, indipendente e neutrale, di elezioni anticipateche portino a un chiaro cambiamento politico e di una indagine internazionale sull’esplosione secondo il diritto internazionale, ripete Samy Gemayel, che è figlio dell’ex presidente Amine e nipote di Bachir Gemayel, il ministro dell’Industria ucciso in un attentato a Beirut il 14 settembre del 1982.

I rischi di strumentalizzazioni interne e esterne

Ci si chiede come il verdetto potrebbe essere strumentalizzato, da una parte o da un’altra, in funzione dell’attuale cruciale dibattito politico. Vanno considerate le pagine di storia recente, in cui pesano la guerra civile 1975-’90 e la difficile fase di riconciliazione e ricostruzione, i gravi atti terroristici, gli scandali – in particolare quelli bancari – che hanno accompagnato,nell’ultimo anno, la perdita dell’85 per cento  del potere di acquisto della lira libanese, il taglio del 35 per cento dei salari, il crollo dell’occupazione. Fino ad arrivare alle devastanti esplosioni che hanno squarciato il porto di Beirut, lacerato le ultime speranze, moltiplicato gli interrogativi. La popolazione è scesa in piazza questa volta davvero scossa e esasperata. Non sono mancati disordini e irruzioni nelle sedi istituzionali e, dopo il passo indietro del governo, è in attesa degli sviluppi. In questo contesto di dinamiche interne cadrà l’annuncio della sentenza, che doveva essere fatto il 7 agosto ma che, per rispetto delle vittimedella tragedia di tre giorni prima, è stato posticipato al 18. 

C‘è anche il contesto regionale da considerare per questo piccolo Paese crocevia da sempre: basta ricordare che da Tiro e Sidone, città più volte citate nelle Scritture per il passaggio di Gesù, partirono le navi dei fenici che fondarono Cartagine. Oggi lo scenario geopolitico che va dal Medio Oriente al Nord Africa è infiammatoNon lascia certo ben sperare nel confronto tra sunniti e sciiti che si ripropone nella contrapposizione tra i sostenitori della famiglia sunnita al-arīrī e la base del movimento sciita Hezbollah. Una contrapposizione parallela a quella tra lArabia Saudita, che ha ritirato i suoiinvestimenti a Beirut da quando Hezbollah filoiraniano sta al governo, e la leadership sciita dell’Iran, appunto nemico di RiadQuello tra sunniti e sciiti resta uno dei nodi cruciali di tutto il Vicino e Medio Oriente e anche un punto fermo del confronto tra Oriente e Occidente. 

Spazio ai giovani

Resta un’immagine di speranza: le migliaia di studenti accorsi per affiancare la Croce rossa nel prestare aiuto, riparando i vetri o la porta di persone anziane e sole, spazzando i detriti in zone segnate ma non distrutte. Lo hanno fatto cantando per darsi e dare forza e al loro canto idealmente si sono uniti, anche grazie alla tecnologia digitale, i tantissimi ragazzi libanesi che studiano o lavorano all’estero. Ovunque si distinguono per capacità e forza d’animo. Nel loro canto c’è una richiesta fortissima di giustizia, legalità, lavoro, ma soprattutto di pace. Si tratta di una generazione nata tra le macerie della guerra che si spera terrà lontano il Paese da altre macerie. 

La comunità internazionale deve ascoltare i loro appelli, ricordando che oltre ai 250 milioni di euro in aiuti ià stanziati una settimana fanon c’è solo l’ennesimo impegno che chiede l’Onu, e cioè 565 milioni di dollari per assicurare assistenza sanitaria, cibo e acqua a Beirut. C‘è ancora dell’altro: c’è da fare di tutto per sostenere chi voglia tenere a bada istinti di prevaricazione interni e logiche di guerre per procura. 

da meridianoitalia del 7 agosto 2020