Primavera araba, ecco i premi

L’egiziana Asmaa Mahfouz, 26 anni, e il libico Ahmed al-Sanusi, 78 anni, hanno ricevuto il Premio Sacharov 2011 per i diritti umani. Una battaglia che non è ancora finita.

Il libico Ahmed al-Sanusi, 78 anni, 31 dei quali passati nelle carceri libiche per aver partecipato al tentativo di ribellione a Gheddafi un anno dopo il colpo di Stato del colonnello.

I protagonisti della “primavera araba” ringraziano i media europei per il supporto assicurato finora ma chiedono anche che non si parli dei loro Paesi e dei loro popoli attraverso i soliti stereotipi. L’appello arriva da Asmaa Mahfouz, la giovane egiziana che ha ricevuto il Premio Sacharov per i diritti umani del Parlamento Europeo 2011 insieme con altri 4 protagonisti dei cambiamenti in atto nel mondo arabo. Mahfouz ha preso parte, mercoledì 14 dicembre, alla cerimonia di consegna del Premio nell’emiciclo di Strasburgo insieme con il libico Ahmed al-Sanusi. Le sedie pronte per gli altri tre sono rimaste vuote. Il riconoscimento a Mohamed Bouzazizi è stato assegnato alla memoria: l’ambulante tunisino che, dandosi fuoco il 17 dicembre 2010 per protesta contro soprusi e ingiustizie, ha dato il via a tutta l’ondata di proteste, è morto dopo 18 giorni.

Gli altri due premiati, invece, non sono riusciti a lasciare la Siria, Paese dove la repressione del regime del presidente Assad continua. Si tratta di Razan Zaitouneh, giovane donna avvocato per i diritti umani, creatrice e autrice del blog Syrian Human Rights Information Link, e di Ali Farzat, noto autore di satira politica al quale le forze di sicurezza ad agosto hanno rotto le ossa delle mani come avvertimento a smettere di criticare il regime attraverso vignette e cartoon.

L’egiziana Asmaa Mahfouz, 26 anni, dopo le proteste in Tunisia, ha contribuito alla nascita dell’analogo movimento in Egitto con i sui post su diversi social network.

Se in Siria siamo ancora nel pieno delle violenze, in Egitto e in Libia si vivono due diverse fasi di transizione accomunate dall’inquietudine. Asmaa Mahfouz è la più giovane laureata con il Premio Sacharov dall’istituzione nel 1988. Ha 26 anni. Dopo le proteste in Tunisia, ha contribuito alla nascita dell’analogo movimento in Egitto con i sui post su diversi social network, in particolare con i suoi coraggiosi video blog di ogni settimana. A Famiglia cristiana parla di una “battaglia niente affatto finita”. Spiega che “al momento in Egitto la situazione è in mano a uomini che gravitavano nella sfera di Mubarak” e che “la cacciata del presidente dittatore non può finire con la consegna del Paese ai militari”. “

La piazza non si fermerà e io stessa sarò ancora in piazza – dice – fino a quando non avremo un governo civile,  ma – sottolinea – in modo pacifico”. Chiede ai media europei di continuare ad assicurare il loro sostegno, evitando “gli stereotipi che ricorrono in tema di mondo arabo”, in particolare in tema di “Islam e di forze che si oppongono alla democrazia in nome di presunte leggi islamiche”. Chiede che si guardi  alle donne che in Egitto – assicura – “sono impegnate a fare chiarezza su questo”. “Non esiste una democrazia perfetta – aggiunge – ma esiste l’impegno a costruirne una in cui le donne siano protagoniste di pace.”

Premi Sacharov e il presidente PE Buzek

Ahmed al-Sanusi ha 78 anni e 31 li ha passati nelle carceri libiche per aver partecipato al tentativo di ribellione a Gheddafi un anno dopo il colpo di Stato del colonnello. Un passato lungo e pesante. Ma anche un presente attivo: fa parte del Consiglio Nazionale di Transizione in rappresentanza dei prigionieri politici di decenni di dittatura. Il modo di parlare risulta un po’ affaticato: rifiuta interviste personali. In conferenza stampa con il presidente del Parlamento Europeo, Buzek, sottolinea “l’urgenza in Libia di dare vita a un’Assemblea costituente per assicurare una Costituzione e libere elezioni e scongiurare lo strapotere di qualcuno”. Avverte: “Non può esserci spazio per vendette, la priorità deve essere la riconciliazione nazionale”. “La vera faccia del regime di Gheddafi deve essere mostrata al mondo in tutta la sua brutalità e chi si è macchiato di crimini contro la popolazione deve pagare ma ci vogliono processi e non vendette, ci vuole pace e non odio”. In queste parole si riassume la speranza in un futuro davvero di primavera e non di lungo inverno per i Paesi che, dal Nord Africa al Medio Oriente, sono caratterizzati da profonde differenze sociali, culturali perfino al loro interno ma che sono stati attraversati dallo stesso vento di cambiamento. Fausta Speranza da Strasburgo

Famiglia Cristiana del 19 dicembre 2011

Figli contesi, arriva il mediatore

Un Vademecum del Parlamento Europeo per i casi di sottrazione internazionale di minore: fenomeno tristemente in crescita in Europa.

Solo in Gran Bretagna c’è un caso di sottrazione internazionale di minore ogni due minuti. Il dato è del Ministero degli Esteri britannico e la dice lunga sul dramma vissuto dai bambini contesi da genitori di diverse nazionalità al momento della separazione. Un fenomeno in crescita in tutta Europa, parallelo all’aumento della circolazione delle persone.

Il Parlamento UE da due anni ha istituito la figura del Mediatore in materia e ora pubblica  un Vademecum per cittadini e Istituzioni, per offrire orientamenti in quello che riconosce come un campo sensibilissimo. Ogni anno nei 27 Paesi membri, che da luglio saranno 28 con la Croazia, si contraggono circa 2 milioni di matrimoni, di cui 300.000 riguardano coppie di diversa nazionalità. Su 1 milione di divorzi, 140.000 riguardano coppie bi-nazionali. Sulla custodia dei minori scoppiano conflitti con molti casi di uno dei due genitori che “rapisce” il figlio o i figli. E’ storia di avvocati, di vie diplomatiche oltre che di dolore.Il Mediatore europeo cerca di portare i genitori a un ‘accordo volontario’ che eviti estenuanti azioni giudiziarie transnazionali che restano sempre molto complesse. Riveste tale ruolo l’On. Roberta Angelilli, vicepresidente del Parlamento Europeo, che parla di “conflitti forti, di dolori laceranti”. Assicura che ci vuole innanzitutto molto ascolto per il padre e per la madre e ore di mediazione tra le parti legali. La vice-presidente della Commissione Europea, Viviane Reding, che ha sostenuto l’iniziativa, sottolinea che si tratta di “mettere insieme i pezzi delle leggi che in materia non mancano ma anche sostanzialmente di perseguire la via del dialogo”. Dopo i primi due casi che possono definirsi risolti perchè si è arrivati a una soluzione che permette ai bambini di mantenere un rapporto con entrambi i genitori, cresce il numero di coppie che ricorrono all’ufficio della Angelilli. Anche se bisogna dire che nella maggioranza dei casi a scrivere sono i papà che vedono affidati i figli alle madri. C’è da dire che l’Italia è lo Stato membro dal quale arriva il maggior numero di richieste di mediazione. Al momento le richieste riguardano 98 coppie: i bimbi contesi sono 123, tra i 3 e gli 11 anni, di cui 76 femminucce e 47 maschietti.  Ma ancora sono tanti coloro che non saprebbero come muoversi su questa strada che è sostanzialmente di dialogo: per questo da gennaio il Vademecum sarà disponibile in tutti gli Uffici di rappresentanza UE e on line in tutte le lingue.

L’Europa che tenta con difficoltà di raggiungere una vera governance politico-economica sta cambiando anche l’approccio al sociale. Lo conferma la presidente della Commissione Petizioni del Parlamento Europeo: “Fino a poco tempo fa le richieste dei cittadini venivano respinte perchè la competenza sui figli era solo nazionale ma oggi non può più essere così”. “La tutela dei minori è un punto fermo della Carta dei diritti diventata parte integrante del Trattato di Lisbona – spiega – e dunque l’UE non può più sottrarsi”. La Angelilli, la Reding, la Mazzoni usano la stessa identica espressione: “Con grande cautela”. La cautela necessaria sempre quando si parla di minori e tanto più per bambini che nella sofferenza della separazione rischiano le lacerazioni ulteriori di un conflitto esasperato dalla lontananza fisica e a volte di lingua e di cultura tra le famiglie di origine, che rischiano di essere solo oggetto del contendere. Fausta Speranza

Famiglia Cristiana del 14 dicembre 2011

E l’Europa fa appello alle religioni

di Fausta Speranza

Il Consiglio d’Europa ha chiesto ai leader religiosi di essere protagonisti del dialogo. Perché non si può parlare di cultura o identità dei popoli senza il concorso di tutte le fedi.

Thorbjiorm Jagland, Segret. Generale del Consiglio d’Europa.

Il Consiglio d’Europa fa appello alle religioni e bacchetta i media. Dopo anni in cui sembrava prevalere la ricerca di una certa neutralità di approccio che possibilmente facesse fuori il punto di vista delle confessioni religiose di per sé mai neutrali, c’è una vera e propria riscoperta dell’importanza della “dimensione religiosa del dialogo interculturale”. È stato proprio questo il tema dei due giorni di dibattito che l’organismo a 47 Paesi, nato per la difesa dei diritti umani, ha organizzato il 28 e 29 novembre a Lussemburgo.

Il messaggio è chiaro: il Segretario Generale del Consiglio d’Europa, Thorbjorn Jagland, che ha inaugurato eccezionalmente la Conferenza generale di quest’anno, ha chiesto ai leader religiosi di essere protagonisti dei tentativi di dialogo. È stato, inoltre, presentato il Rapporto redatto da eminenti personalità su richiesta del Consiglio d’Europa intitolato “Vivere insieme: combinando diversità e libertà nel 21esimo secolo in Europa”.

Si legge che in particolare la Chiesa cattolica a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II ha messo in atto un impegno notevole per chiamare al dialogo altre fedi. C’è da dire che la Chiesa si impegna nel dialogo interreligioso che è terreno diverso da quello interculturale e che soprattutto resta prerogativa delle fedi. Ma il punto è che le si riconosce un impegno particolare in termini di ascolto e di rispetto dell’altro.

Monsignor Aldo Giordano, osservatore permanente della Santa Sede.

Alla Conferenza, pertanto, sono stati chiamati mons. Aldo Giordano, Osservatore Permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa, padre Laurent Mazas del Pontificio Consiglio per la Cultura, mons. Piotr Mazurkiewicz, segretario generale della Commissione delle Conferenze Episcopali delle Comunità Europee, Comece. Così come personalità delle Chiese ortodosse e esponenti dell’Ebraismo e dell’Islam, ma anche rappresentanti di associazioni di atei.

Mons. Giordano parla esplicitamente di “nuova coscienza maturata in questi anni anche all’interno delle istituzioni europee: la consapevolezza dell’importanza del ruolo delle religioni per popoli e culture”. Non si può parlare di storia, di cultura, di identità di popoli senza parlare delle religioni. Questo è il primo punto, ma poi c’è il vero e proprio allarme lanciato sui media: in nome della libertà di espressione non si può mancare di rispetto alla diversità culturale e religiosa.

Un gruppo di lavoro durante il dibattito che si è svolto a Lussemburgo sul tema della “dimensione religiosa del dialogo interculturale”.
Il direttore generale dei Programmi del Consiglio d’Europa, Gabriella Battaini-Dragoni, spiega che la prima mancanza di rispetto è lo scollamento tra la realtà, seppure fatta di luci e ombre, e la rappresentazione a senso unico dei media che parlano delle diversità e delle religioni sempre in termini riduttivi, unilaterali e, quel che è più grave, in termini di contrapposizione. Il vizio dei mezzi di comunicazione di “parlare solo di scandali”, di “spettacolarizzare”, di “ridurre tutto allo scontro” è emerso in tante delle relazioni fatte da ambasciatori, esperti culturali.
La dottoressa Myria Georgiou, della London School of Economics, guarda ai nuovi media, che rappresentano indubbiamente una nuova frontiera della comunicazione in particolare con le piattaforme personali, per denunciare il rischio che ripetano con modalità nuove chiché antichi, schemi mentali che già in molti casi si vedono ricalcati dai mezzi tradizionali. Un esempio per tutti: costruire identità contro e non verso l’altro. Esattamente l’opposto di quello che serve a un’Europa in crisi sotto tanti punti di vista. Un’Europa che fa appello alle religioni.

Famiglia Cristiana 28 novembre 2011

Lotta alla cybercriminalità

Caro hacker, ti fermo così

Internet e l’arbitrio assoluto sui dati dei Service Provider: presentata al Parlamento l’iniziativa per un sistema di controllo sotto garante

Una “scatola nera” per Internet: un sistema che come per gli aerei possa dirci la verità di quanto accaduto su web. E’ l’iniziativa lanciata al Parlamento Europeo che, se approvata, potrebbe pestare parecchi piedi in un ambito che finora rappresenta il regno dell’anarchia oltre che del virtuale. A chi a sentir parlare di controllo viene voglia di evocare subito l’incubo di un Grande Fratello e invoca libertà assoluta per la moderna tecnologia che ha annullato distanze spazio-temporali, uno dei massimi esperti mondiali di sicurezza, Fabio Ghioni, risponde che big brothers ci sono già e impiegano un personale che potrebbe indisturbato vendere a chicchesia i nostri dati o modificarli per qualche ragione. Fabio Ghioni è la mente del progetto presentato dall’europarlamentare dell’Udc Tiziano Motti. Ghioni è l’ex capo della sicurezza informatica di Telecom balzato alla cronaca per gli 8 mesi in carcere con l’accusa di illecite incursioni. Oggi è l’hacker più famoso d’Italia ed è scrittore e conferenziere di fama mondiale. Si intrattiene a lungo a raccontarci l’altra faccia delle “magnifiche e progressive” nuove tecnologie. Sottolinea: “C’è stata la sfida della comunicazione globale, ora la sfida è il controllo”. Ghioni ricorda che gli Internet Service Provider gestiscono i dati personali dei cittadini, che al momento possono registrare, conservare, modificare. Dopo poche parole guardiamo a FaceBook con occhi nuovi pur non demonizzando nulla. FaceBook, come gli altri social network, raccoglie dati ma anche preferenze e informazioni che spontaneamente l’utente offre sul piatto d’argento del suo profilo. Ghioni ci fa riflettere: con estrema scioltezza, tra l’inconsapevole e l’irresponsabile, si affidano preferenze, confidenze al personale che sta dietro il sistema e che esercita su profili o quant’altro un assoluto arbitrio. Per non parlare dei tanti abilissimi hacker di cui Ghioni ha scritto nel suo libro “Hacker republic” del 2009 che conserva tutt’oggi il valore di denuncia e di messa in allerta che aveva. Parliamo dei professionisti della rete in grado di scovare password e rubare dati ma dovremmo parlare di cracker che per definizione sono hacker con obiettivi truffaldini. Incassate tutte queste considerazioni, vale la pena di valutare il sistema elaborato da Ghioni, che si chiama LogBox e prevede un’archiviazione dati di due anni con criteri che vogliono assicurare diritti e libertà fondamentali del cittadino.

La logica di LogBox
Il sistema LogBox elaborato da Ghioni prevede di crittografare i dati mettendo la “chiave” per decriptarli nelle mani di autorità, notaio, utente stesso. Dunque un certificato digitale che passa attraverso la garanzia di 3 entità, tra cui l’utente stesso che ha voce in capitolo. Chiariamo che il discorso non ha nulla a che fare con le intercettazioni: qui parliamo di dati digitali non di contenuti. Attualmente i nodi della questione che risulta da far west sono due: l’identità digitale e l’autenticazione sia degli utenti che dei fornitori di servizi. Facciamo l’esempio di social network: al momento chiunque può aprire un profilo falso di una persona. Facciamo l’esempio di pedofili in rete: sono rintracciabili solo se agiscono dal proprio account ma se, con estrema facilità, si collegano attraverso un Internet Protocol diverso in un paese qualunque, non saranno mai riconducibili all’azione criminale che fanno. Con il sistema LogBox si farebbe chiarezza su questi due punti attraverso un meccanismo preciso che implica la “collaborazione” dei sistemi operativi. Dunque si chiamano in causa Windows, Apple, Linux. I sistemi operativi dovranno contenere al loro interno le caratteristiche di generazione di tutti i log (in pratica i tabulati) di attività che vengono attuati dal computer su cui gira il sistema operativo. Non è poco perché così i log sarebbero firmati digitalmente in modo da far risalire a uno specifico computer e al suo utilizzatore. E questo indipendentemente da qualunque accorgimento per anonimizzare qualunque attività illecita. Dall’alto della sua competenza in materia, Ghioni assicura che i costi per l’operazione sarebbero estremamente bassi.

L’attuale far west su Internet e chi lo difende il giro d’affari intorno ai crimini informatici è stato stimato nel 2010 in circa 7 miliardi di dollari. Andiamo dal social engineering, a frodi, furti di identità, stalking, pedopornografia, ricatti. Dal momento che si tratta di un business che sta appassionando la criminalità organizzata e che apre a scenari inquietanti di cyber terrorismo, in Italia, come negli Stati Uniti, dopo l’11 Settembre è stato già avviato un controllo. Al Patrioct Act di Washington ha fatto seguito a Roma il Decreto Pisanu che ha imposto che i “passaggi digitali” vengano fotografati e conservati per 10 anni. A farlo è stata chiamata la compagnia Telecom. Ci si presenta la seconda situazione di controllo senza garanzie per il cittadino: per un tecnico della compagnia vendere a terzi l’identità e la privacy di un cittadino o addirittura falsare alcuni dati è solo una questione di coscienza personale. Proprio questo è il punto che si vorrebbe superare. Il sistema di controllo LogBox, presentato dall’europarlamentare Motti, presumibilmente passerà l’esame della Commissione Europea all’inizio del prossimo anno. Tra i corridoi di Palazzo Berlaymont a Bruxelles c’è già chi mormora che la linea finora è stata quella di “liberalizzare” mentre il sistema ideato da Ghioni vorrebbe controllare. A dire il vero si sentono motivazioni che hanno il sapore dell’ideologia senza la sostanza di una sufficiente competenza in materia. In generale bisogna dire che cresce il Partito dei Pirati informatici, che chiaramente chiede libertà ad oltranza, senza se e senza ma. Dal 2009 ha una rappresentanza nel Parlamento Europeo e, a livello nazionale, nella potente Germania, alle elezioni di settembre, ha ottenuto l’8,9% di voti. E’ certo che il dibattito è acceso. Al momento in materia c’è la Direttiva europea 24 del 2006 che, vista la velocità delle innovazioni tecnologiche, chiede urgentemente di essere aggiornata. Dunque è il momento di rimetterci le mani. Facile immaginare in quale direzione spingano le compagnie del settore, compreso quelle pubblicitarie che beneficiano della situazione attuale. Resta da dire che il dibattito non è solo europeo: in Australia si sta prevedendo un’archiviazione di 15 anni. In Corea del Sud per severa legge è vietato usare identità digitali diverse da quella reale. Speriamo che l’obiettivo sia tutelare i cittadini utenti del mondo iper connesso, in un’era in cui ovunque, più che mai nella storia, la legislazione fa fatica a tenere il passo della tecnologia.    Fausta Speranza

Famiglia Cristiana del 19 ottobre 2011

Internet avvicina le due Coree

di Fausta Speranza

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Ma Cina, Russia e Giappone non auspicano l’unificazione

Se la Corea del Nord avrà la sua “primavera araba” sarà per le telenovela illegali. E’ la convinzione del direttore dell’Istituto per l’Unificazione delle due Coree che incontriamo nel suo studio in una zona residenziale di Seoul. Choi Jinwook si occupa proprio della situazione del Nord.

Afferma che la gente rischia grosso pur di far girare le trasmissioni del Sud su chiavette usb passate attraverso la Cina. Le telenovela, dunque, cavallo di Troia nella dittatura più isolata del mondo in cui non esiste Internet. Ma su questo ci fa riflettere Philip Hong Sun Kim, responsabile operativo di AhnLab, Agenzia per la sicurezza informatica in Sud Corea. Parliamo dei recenti attacchi informatici ai dati di 35 milioni di sudcoreani. Ci conferma che sono partiti dal Nord con indirizzi di Internet Protocol cinesi. Attacchi non di tipo terroristico-politico – ci spiega – ma finalizzati a rubare soldi. Dunque, forse Internet non è così lontano dal dilagare anche nel Paese in cui ti insegnano che “i genitori ti danno il corpo e il capo supremo lo spirito”, come ci racconta, Y Iang, ex scrittore del regime fuggito.
“La riunificazione della Germania è arrivata all’improvviso – ci dice Choi Jinwook – mentre per le due Coree, siamo ben preparati”. “Anche Cina e Russia sono preparate ad una caduta improvvisa del regime”. Non vuole aggiungere altro. Per quanto riguarda la Cina, sappiamo che sta preparando un massiccio dispiegamento di forze nell’area. Non sappiamo se a causa o in risposta al compound Usa che si sta materializzando a 90 km a sud est della costa meridionale dell’isola di Jeju: 20 navi da guerra con sottomarini, 2 incrociatori. Della Russia sappiamo che fa affari per il trasporto di gas con Kim Jong Il, che dal 1994 è il leader di Pyong Yang, senza avere il peso del padre Kim Il Sung, “presidente eterno”. Mosca non ha interesse a novità che destabilizzino l’area. Così come il Giappone non auspica la riunificazione della penisola che darebbe vita a una grande nazione a pochi km. Per la Cina la situazione è più complessa: la Corea del Nord è il suo baluardo nell’area ma è anche una palla al piede. Pechino non ha gradito le ostilità dell’anno passato, perchè interessato a sempre più stretti rapporti commerciali con la Corea del Sud. Cheong Seong-chang, del Sejong Institute, think-thank sudcoreano, esclude che la Cina onorerebbe il trattato che la lega militarmente con il Nord dal 1961. Dopo le recentissime aperture di Pyong Yang, tutti aspettano la ripresa dei negoziati a sei sul nucleare nordcoreano.  E i negoziati sembrano una bella coperta che tiene in caldo senza scoprire tante cose.

L’Europa corre verso Est

Crisi globale e Cina che soccorre l’Occidente indebitato: in questo scenario l’UE si è lanciata nella guerra commerciale dichiarata da Seoul a Pechino, aprendosi una possibile interessante finestra in Asia. Il 1 luglio è entrato in vigore il Free Trade Agreement tra UE e Corea del Sud, che abbatte le barriere doganali. L’UE è il primo investitore nel Paese del Sud est asiatico. Seoul ha sorpreso il mondo negli ultimi anni con automobili e alta tecnologia ma non fa più solo assemblaggio: compete ora anche sui software. Parliamo di 48 milioni di abitanti su meno di 100.000 Km² e il colosso cinese è un incubo. In più, Pechino, leader del sottocosto, si prepara a risfidare il mondo commerciale sul terreno della qualità. Ce lo assicura Gue-Bae Yeoum, direttore alla Korea Federation of textile industries, settore in cui le tariffe doganali con l’UE sono crollate del 95%. C’è da dire che Seoul tratta rispettivi FTA con Usa, Canada, Giappone e Cina, ma ci vorrà tempo: un vantaggio da non perdere.

Choi Seouk Joung, vice Ministro per Affari Esteri e commercio, ci conferma lo stallo nelle trattative con gli Usa e le contestazioni di piazza: ammette un “sentimento antiamericano”, che sorprende nel Paese liberato dagli Usa, minacciato dalla  parte settentrionale della penisola dominata dalla dittatura comunista. Yoo Duk Kang, leader al Korea Institute International Economy Policy, ci fa notare: “Economia, cultura e politica sono connesse”. La partita dell’UE in Asia si arricchisce di implicazioni, a patto che regga l’urto della crisi.

Seoul conferma il nucleare ma punta sul verde

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La Corea del Sud, che conferma senza esitazione la scelta del nucleare anche dopo Fukushima vissuta a pochi Km di distanza, punta su tutte le possibili energie pulite. Young Soo Gil, presidente del ‘Comitato per la crescita verde’ parla di investimenti cresciuti in tre anni del 75%. Solo nel 2011 i fondi  per ricerca e sviluppo – tutti all’insegna del Green – sono passati dal 30 al 40%:  il governo assiste 21.350 compagnie, 4150 laboratori, 1795 centri di ricerca per creare 30.000 nuovi posti di lavoro. Poi ci sono i fatti: è entrata in funzione da pochi giorni la più grande centrale al mondo per lo sfruttamento delle maree: 10 generatori sulla costa ovest di Seoul in grado di produrre elettricità sufficiente per una città di 500.000 abitanti. E nel Porto di Busan, quarto per grandezza in Asia, a gennaio entrerà in funzione il 60% della nuova grandissima area che vanta sistemi di automazione e energia pulita.

Giovani intrappolati nella rete

Una delle 10 migliori idee al mondo nel 2010 è venuta dal KAIST, primo istituto in Asia per scienza e tecnologia. Praticamente l’MIT coreano. Al Kaist,  quest’anno è alzata la soglia del voto che ti salva da tasse iperboliche, dopo 5 suicidi: 4 studenti e un professore. Il vice Ministro per Uguaglianza di generi e Famiglia, Tae-Seok Kim, ammette: “Stiamo chiedendo agli istituti scolastici più attività di tempo libero”. Joo Mee Bae, psicologa del KYCI, Istituto nazionale per i giovani, ci rafforza nell’idea di una società troppo competitiva ma poi punta il dito contro Internet, nuova emergenza sociale: il 4% dei giovanissimi ha problemi da dipendenza. “Conosco Europa e Usa e vi dico: attenti, è solo questione di tempo, noi siamo un passo avanti nella tecnologia e dunque nelle devianze. Inoltre noi facciamo test in tutte le scuole e abbiamo i dati. Dovreste anche voi fare verifiche a tappeto e non solo affrontare i casi eclatanti”.

Il boom del cattolicesimo

30 anni fa i cattolici in Corea del Sud erano 500.000, oggi sono 5milioni e 500mila. Il 10% di una popolazione che per metà è non credente, per un altro 10% cristiana non cattolica, per il 30% buddhista. Il boom è noto ma girando dalla capitale ai villaggi tradizionali del centro, colpisce il calore di tutti. A chiunque chiedi della Chiesa cattolica ti esprime grandissima stima e inesorabilmente sottolinea: lavora per la gente e non bada a fare soldi. Citano due “eroi nazionali”: “il presidente che ci ha traghettati nella democrazia, Kim Dae-Jung, che era cattolico”. E il cardinale Stephen Kim Sou-hwan, arcivescovo di Seoul dal ’68 al ’98, morto nel 2009: “negli anni della dittatura è stato una coraggiosa voce critica fondamentale per il Paese”. I coreani che si convertono aggiungono al loro nome un nome latino di battesimo: Stephen spopola. Molti citano Assisi, luogo simbolo per loro di una religione che dà calma e serenità alla vita. Nota dolente: anche tra i cattolici resta molto alto il numero di aborti, anche se illegali. La difesa della vita non passa in un popolo che conta gli anni considerando l’anno di gestazione. Curioso e forse promettente.

Famiglia Cristiana del 2 ottobre 2011

BILIN

Famiglia cristiana N. 33  17 agosto 2008

BILIN: MURO NO MA PIC NIC SI’

di Fausta Speranza dalla Cisgiordania

Ogni venerdì, dopo la preghiera in moschea, sfilano presso il tratto di Muro da costruire. Chiedono che sia rispettata la sentenza della Corte di giustizia israeliana del 4 settembre 2007, che ha decretato che Il percorso del muro che investe Bilin e altri cinque villaggi doveva essere modificato per non privare gli abitanti delle loro terre.
Forse anche per rendere omaggio alla lotta pacifica di queste 1.700 persone, per tre giorni Bilin è stata sede di una conferenza internazionale cui hanno partecipato il primo ministro palestlnese Salam Fayyad (che si è Impegnato ad appoggiare la scelta non violenta) e Mustafa Barghouti, segretario del partito AI Mudabara, che si pone come terzo polo tra AI Fatah e Hamas. Barghoutl ha invitato I palestinesi a contrastare la spinta alla disgregazione innescata dalla vittoria elettorale di Hamas nel 2006 e dai successivi scontri. Con loro anche delegati da Israele, Francia, BelgJo, Germania, Italia e altri Paesi europei.
Nonostante i poverissimi mezzi, la gente di Bilin veste di colori e fantasia la sua protesta. Per ostacolare i lavori, vengono organizzati pie nle, piantati ulivi, giocate partite di calcio proprio sul tracciato del Muro. I soldati israeliani non vogliono che si facdano foto, ancne perché quasi ogni venerdi qualcuno resta ferito dai loro proiettili di gomma.
La scelta della non violenza, però, è per la gente di Bilin irreversibile. Fu presa di fronte ai primi mattoni del Muro. È stata difesa nonostante la disperazione di vedere disattesa la sentenza a loro favore.

L’avvocato libera i bambini

Pubblicato da Famiglia cristiana n.° 16 – 20 aprile 2008

di Fausta Speranza da Israele

Tra i palestinesi cresce la violenza tra clan rivali e in ambito familiare. Lo denuncia Ray Dolphin, responsabile dell’OCHA, l’Ufficio dell’ONU per le questioni umanitarie nei Territori Occupati. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio di Gerusalemme. Tensione, disorientamento e anarchia non sono solo il frutto del sostanziale stallo nel processo di pace con gli israeliani ma anche del conflitto tra Fatah e Hamas. Dalla vittoria alle elezioni di Hamas a gennaio 2006 e lo scontro a giugno 2007 con gli esponenti del partito del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, la frattura non è ricomposta e si riflette sulla popolazione. Nell’ultimo incontro che hanno avuto nei giorni scorsi a Gerusalemme, il premier israeliano Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen hanno ribadito di voler arrivare a un accordo di pace entro la fine del 2008, in coincidenza con la fine della presidenza di George W. Bush. Ma restano aperte tutte le questioni e cresce la sfiducia nella popolazione. La situazione a Gaza è quella di una terra sotto assedio ma anche in Cisgiordania il peggioramento delle condizioni di vita è evidente, a causa della frammentazione del territorio provocata dalla costruzione del famoso muro, che Tel Aviv porta avanti senza che la comunità internazionale se ne accorga.
Tutto ciò ovviamente si va a sommare alla situazione già tragica di decenni di conflitto. Si tratta di un terreno arido e difficile dove qualcuno continua a coltivare semi di non violenza, di dignità, di positività. E’ quello che accade al centro di accoglienza per bambini orfani o sbandati vicino Tel Aviv. Si trova nel villaggio di Lidda-Lod, che pur distando solo mezz’ora da Tel Aviv è molto povero, con una caratteristica: ad essere in difficoltà economiche in quella zona sono palestinesi con passaporto israeliano ma anche ebrei. Il fondatore si chiama Zidan Mtanes, è un avvocato palestinese cattolico, battezzato Antonio. Cristiani sono la maggior parte delle 7 persone che lavorano come volontari nel centro che si chiama Arfad Association, ma il 98% dei bambini che sono stati accolti finora e di quelli
che attualmente lo frequentano sono palestinesi musulmani. Al momento sono 140 minori, ospitati a dormire e seguiti per un recupero del percorso scolastico perso nella maggior parte dei casi. Antonio spiega che nella stessa zona o nelle vicinanze ci sono strutture con lo stesso obiettivo di recupero sovvenzionate dal governo israeliano ma sono solo per bambini ebrei.  Da qui la spinta a crearne uno per tutti gli esclusi, di qualunque religione siano o qualunque passaporto abbiano.
In realtà il villaggio di cui parliamo, che nei secoli ha preso la denominazione di Lidda o quella di Lod, non è un villaggio qualunque: ospita il sepolcro di san Giorgio, il martire cristiano la cui memoria è celebrata anche nei riti siro e bizantino, dal IV secolo. La tradizione popolare lo raffigura come il cavaliere che affronta il drago, simbolo della fede intrepida che trionfa sulla forza del maligno. Il centro Arfad Association sorge all’ombra della chiesa dedicata a San Giorgio, chiesa affiancata, come spesso succede in Palestina, da una moschea. Abbiamo incontrato Antonio Zidan Mtanes nel cortile del suo centro, sorto tre anni fa.

Antonio, fino a che età i bambini posso stare?

Fino a 16 anni. Per il momento non ci è proprio possibile ospitarli o assicurare loro scolarità oltre. Certo viviamo il dramma di vederli andare via in un’età ancora molto difficile. E tanti di loro vengono da un’infanzia segnata da morte, carcere dei genitori o abbandono. E c’è poi il dramma del lavoro che non si trova. Cerchiamo di mantenere un filo forte con loro per tentare di non restituirli alla strada.

Ricevete aiuti?

Il governo israeliano non ci dà nessun sostegno di nessun tipo e neanche il Comune di appartenenza. Abbiamo avuto donazioni internazionali. Ringraziamo Dio per quello che riusciamo a fare: siamo tutti volontari.  Il
punto è che ogni giorno si sente maggiore tensione. Sempre di più. Non soltanto aumenta il livello di violenza a livello familiare e a livello di clan tra i palestinesi, ma tutto ciò è motivo di inasprimento da parte israeliana. Parlo da arabo con passaporto israeliano: con la lotta tra palestinesi si esaspera l’atteggiamento nei nostri confronti degli israeliani. Vengono ancora meno i nostri diritti. Stiamo perdendo quel 30% di diritti che avevamo in rapporto agli israeliani ebrei. Siamo persi in Israele.

Nel tuo caso sei arabo con passaporto israeliano e cattolico…

Per noi cristiani è peggio. Siamo tra l’incudine e il martello. Noi cristiani palestinesi paghiamo tutto il prezzo dalla parte israeliana e dalla parte palestinese. Se gli arabi sono il 20%, i cristiani sono l’1,5%. Devo dire che si dice spesso che aumentano i musulmani ma bisogna anche dire che anche gli ebrei aumentano. In questa zona ne sono arrivati tanti dall’Etiopia ma anche dalla Russia, richiamati dal governo israeliano. E io parlando con alcuni giunti dalla Russia ho scoperto che erano cristiani ortodossi ma molto poveri e si sono convertiti all’ebraismo per essere accolti e iutati dal governo israeliano.  Quindi, non è solo il numero di musulmani che aumenta. Aumenta, e anche in questo modo, il numero degli ebrei. La decisione del governo è giustificata da tanti discorsi di Olmert che  ha parlato più volte di problema demografico. Hanno fatto venire milioni di persone.

In quanti anni?

In dieci anni.

Dunque già prima di Olmert con il governo Sharon. E continua questo processo?

Sì, continua. Continuano a far venire gente. C’è anche un altro motivo ora. Il governo ha bisogno anche di persone per il servizio militare. Ci sono
insediamenti di 400 coloni che hanno 4000 soldati che li proteggono.

Dalla vittoria a gennaio 2006 di Hamas, e in particolare negli ultimi 9 mesi, dopo lo scontro sul campo tra esponenti di Hamas e sostenitori di Fatah, c’è una drammatica situazione di divisione e di tensione tra palestinesi.  Si sente nel quotidiano?

E’ un dolore per noi. Mi dispiace tantissimo, per il fatto che la Palestina è un luogo santo dove è nato e ha vissuto Gesù cristo. E ogni lotta e divisione che si gioca su questa terra aumenta la sofferenza.

Ha una speranza di negoziati?

Tutto sono talmente finti. Israele alla fin fine vuole occupare tutto il territorio arabo. I palestinesi voglio anche Gerusalemme capitale. Secondo me Gerusalemme è una questione cruciale.  Se la questione di Gerusalemme si risolve tutto si risolve. Però  a mio parere è talmente così difficile. Io una soluzione non ce l’ho.

Come avete vissuto l’incontro di Annapolis a novembre scorso?

Un incontro fatto in fabbrica, soltanto per far vedere al mondo che Bush faceva qualcosa. Un incontro finto. Ogni due anni fanno un incontro simile per calmare l’opinione pubblica internazionale e la gente qui. Io penso che la nostra speranza è solo un miracolo di Dio.

Che ne pensa di Hamas? Dello statuto fondativo del movimento?

Hamas è un’organizzazione violenta. Non mi piace la violenza e non mi piacciono i loro toni fanatici. Sono proprio fanatici. E già per questo non mi piace. Il loro obiettivo è di cancellare Israele e questo non è condivisibile. E poi c’è da dire che se potessero non sarebbero certo teneri con i cristiani.  E’ un’organizzazione fanatica e violenta e io sono contro. Certo quando parlo di violenza devo anche dirti che io condanno anche tante cose che il
governo israeliano fa. Ognuno che decide di ammazzare senza motivo lascia senza fiato.

Si parla sempre della corruzione di Fatah. E’ stato uno dei motivi principali per cui si è spostato il voto?

La corruzione dispiaceva ma non è stato questo il motivo principale. La gente disperata appoggia il forte. Io non lo farei e non sono d’accordo ma quando tanti hanno visto che Fatah è debole, hanno appoggiato Hamas che sembra più forte. Il motivo è uno solo: non vogliono essere ammazzati e pensano di essere più protetti da uno forte. Non hanno visto altra scelta per vivere, anzi per sopravvivere perché qui non si vive, al massimo si sopravvive.  Per esempio, la gente che vive a Gerusalemme e che non avendo passaporto israeliano vota nelle elezioni palestinesi, ha votato al 98% e rivolterebbe ora Hamas. Sanno che è un’organizzazione violenta ma dicono di essere esasperati e per questo di voler votare chi sembra forte. E’ un momento bruttissimo per i palestinesi:

L’isolamento di Gaza e la frantumazione del territorio in Cisgiordania con sempre nuovi insediamenti di coloni ebrei e conseguente blocco delle comunicazioni: è un momento particolarmente negativo e drammatico per i palestinesi. Ma se ne parla abbastanza secondo lei anche in Europa?

Da quello che so io no. Si fa solo il conto dei morti se sono tanti.

Intanto, in questi giorni, le autorità israeliane hanno deciso di distribuire di nuovo alla popolazione, a partire dall’anno prossimo, le maschere antigas, che erano state ritirate negli scorsi anni, in previsione di un conflitto nel quale le città del paese potrebbero essere colpite da missili armati con testate chimiche.