Innocenti evasioni

“Innocenti evasioni”: uso e abuso politico della musica pop   di Fausta Speranza

Accade che non ci sia niente di più anticonformista della normalità. Non è un genitore conservatore a cercare di farlo capire a un figlio perso tra piercing e tatuaggi ma è uno storico che rilegge con sguardo professionale e passione musicale oltre 30 anni di canzoni, da metà Anni Cinquanta alla fine degli Anni Ottanta. Emerge una lettura del rapporto tra canzoni  e impegno politico libera da preconcetti ideologici e per questo nuova.
Parliamo del volume “Innocenti evasioni” di Eugenio Capozzi, professore di storia contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Nel libro, edito da Rubbettino, non è la musica ad essere sotto esame ma è il significato politico e sociale o, meglio, come si legge nel sottotitolo, “l’uso e l’abuso politico”. Tutto ciò ha suscitato alla fine di ottobre a Napoli uno stimolante dibattito tra giornalisti, docenti e il produttore discografico Giancarlo Lucariello.
E’ un po’ come riascoltare la colonna sonora di anni cruciali della storia contemporanea dal secondo dopoguerra all’avvento digitale, che in Italia significa lo spazio tra il primo benessere e la Milano da bere. Con un’operazione che la storica della letteratura Emma Giammattei ha definito fortemente innovativa sul piano storiografico perché supera le barriere tra forme ‘alte’ e ‘basse’ di cultura.
Dal rock’n’roll alla new wave, dal country e soul alla musica d’amore adolescenziale e musica psichedelica, dalle canzoni d’autore impegnate al pop balneare, si spazia nel mondo occidentale: protagonisti Stati Uniti, Gran Bretagna e Europa, ma c’è un flash anche sulla musica brasiliana. Si parte dagli anni in cui proprio le canzoni hanno nutrito l’esplosione del fenomeno delle comunicazioni di massa. Niente come la musica ha fatto la fortuna di radio pubbliche e private e niente come i dischi ha catturato l’attenzione e la passione dei giovani della generazione dei baby boomer, cioè figli del benessere e della cultura del tempo libero.
Tutto questo è tra i punti di partenza dell’analisi di Capozzi che dissacra qualche simulacro. Ad esempio, se non si può negare quella che definisce la “assoluta virale comunicativa del pop e del rock”, non è corretto continuare a far passare l’idea, tanto sostenuta fin qui, che quella musica sia stata sempre espressione di ribellione. A ben guardare, c’è un crogiolo di messaggi diversi: afflati politici e filosofici ma anche sentimenti pubblici e privati, e tanto scansonato divertimento. Altro mito da superare: in tanto rock’n’roll o country non c’è solo spontaneità, autenticità, lotta alla società negativa e ingiusta. E non c’è solo anticonsumismo. Va ricordato che alle spalle c’è un solidissimo star maker machinary, un apparato discografico che fa un altrettanto solidissimo business, condizionando pesantemente gusti e tendenze. E proprio i baby boomer che contestano le costruzioni economico-sociali dei genitori si prestano per primi al consumismo che il nuovo benessere di quegli anni permetteva: e la musica, dai dischi ai concerti, dai ritrovi agli strumenti, è uno dei lussi e mercati nuovi. Nulla da demonizzare, ma certamente da non negare in nome di una presunta età dell’oro di una presunta cultura della spontaneità.
Capozzi denuncia anche un “edonismo rinunciatario spacciato per rivoluzione”, cioè un invito a godere senza limiti e senza condizionamenti sociali che diventa però in tanti casi un modello assolutamente omologante di vita, di abito, di scelte, che, se partono da un elemento critico in difesa della natura e della naturalezza, in troppi casi, tra ansie ecologiste, finiscono in forzature innaturali a droghe o a promiscuità. Canzoni come “Quando è moda è moda” di Gaber aiutano magistralmente a capire quanto possa diventare conformista l’anticonformismo e integrato il ribelle. Lo storico dell’arte Stefano Causa, nel suo intervento al dibattito, ha sottolineato il valore dell’analisi di Capozzi parlando senza mezzi termini di rovesciamento di una “vulgata” stanca. Il direttore del Corriere del Mezzogiorno, Marco Demarco, ha affermato che Capozzi invita a ripensare quelle che ha definito le troppo facili distinzioni tra “impegno” e “disimpegno” e tra “progressismo” e “conservazione”.
Nel libro c’è anche l’analisi di una spinta al ritorno ad alcuni valori tradizionali in tante canzoni pop. Capozzi ci porta a rileggere i testi di Mogol per Battisti, che canta tra l’altro “Perché no”, in cui la trasgressione alla quale allude il titolo è quella di fare cose normali e quasi banali con la propria donna come andare al supermercato e ‘parlar di surgelati rincarati’. O le canzoni dei Pooh, dove spesso il protagonista maschile interpella l’elemento femminile che più risente dell’anelito alla vaghezza dei rapporti. Anche qui solo un esempio: “Cara bellissima”, in cui la donna si impone di lasciarsi sedurre ma senza concedersi sentimenti e l’uomo ne soffre. L’invito, dunque, è a capire meglio tendenze e bisogni passati sotto silenzio rispetto a un certo impegno politico-sociale gridato. E a capire meglio anche la pressione, sfociata nel famoso  processo pubblico a De Gregori in un concerto del 1976, su cantautori che all’impegno su temi sociali alternavano o preferivano contenuti intimisti. A questo proposito, alla presentazione-dibattito, il produttore Lucariello, che ha lanciato tra gli altri i Pooh, si è sbilanciato a dare testimonianza diretta di come fossero “emarginati” cantanti di peso come Battisti, gli stessi Pooh o Baglioni in quello che ha fotografato come il clima di movimentismo di sinistra. Salvo poi scoprire che in privato tanti intellettuali militanti li ascoltavano e apprezzavano.
In definitiva, Capozzi chiarisce: ciò che è stato politicizzato nelle canzoni non sempre è stato libero da abusi e forzature e non sempre è stato davvero rivoluzionario, anticonsumistico, anticonformistico. E ciò che non è stato politicizzato, non è detto che non avesse un forte significato sociale. Insomma, è lo storico a invitarci a riascoltare quelle che, per dirla con Bennato, a volte “sono solo canzonette” e a volte no. Ma non deve essere un presupposto ideologico a deciderlo.

da Area di novembre 2013

Progetto Pompei: arrivati soldi ma ….

Il “Grande Progetto Pompei”: arrivati soldi, attenzioni mafiose, esperti, ma mancano i custodi

di Fausta Speranza


105 milioni di euro, 66 ettari di area archeologica, 22 nuove assunzioni: sono i numeri essenziali del Grande Progetto Pompei che in questo mese dovrebbe avere una svolta operativa.  Intanto, per quanto riguarda i soldi, la Direzione Investigativa Antimafia ha già bloccato due appalti perché in odore di cosche mentre, per quanto riguarda il nuovo personale, restano comunque scoperte le guardiole dei custodi.
Dal 2010 le cronache non risparmiano gli allarmi su Pompei per crolli vari. Quello alla Schola Armatorum, o meglio conosciuta come Casa del Gladiatore, suscitò, oltre alla sollevazione dei media internazionali, l’appello duro del presidente Napolitano. Da lì partì qualcosa di concreto, il Grande Progetto Pompei per il quale l’Unione Europea contribuisce con 40  milioni di euro e l’Italia impiega 60 milioni dei fondi che sempre da Bruxelles provengono e che avrebbero preso altre vie. Fanno 105 milioni, di cui 70 potrebbero essere impiegati già entro la fine dell’anno. Ci sono progetti e idee. Sono arrivati da circa un anno al sito di Pompei 13 nuovi archeologi e 8 tra architetti e funzionari. Se a qualcuno sembrano pochi, va ricordato che prima gli archeologi erano 4. Ma il punto è che mancano custodi. Al momento si verifica che sulla carta a coprire i turni dell”intera giornata sono meno di 30 custodi di cui qualcuno ovviamente ogni tanto sta male o sta in ferie. Su 66 ettari di area. Capiamo perché la maggior parte delle Domus di Pompei siano chiuse ai visitatori, oltre al rischio crolli.
Facciamo un giro al sito che conserva il fascino indiscutibile della storia ritrovata, dell’affaccio su ciò che è stato. I turisti non mancano. La maggior parte sono incanalati nei percorsi guidati. Pochi girano da soli. Probabilmente con le poche ore a disposizione delle gite organizzate, tanto più se di altri paesi o continenti, non si accorgono più di tanto di quanto non sia visitabile. A chi si sofferma, fanno effetto i tanti cartelli di vietato l’accesso. I pannelli sanno di posticcio ma di un posticcio logorato dal tempo. Anche noi scegliamo una guida, anzi due. Si tratta di due dei giovani archeologi assunti in quella che ci piacerebbe pensare come la nuova era di Pompei. Si chiamano Luigi Scaroina e Laura D’Esposito. Sono giovani e disponibili a dedicare del tempo che dovranno recuperare anche se già fanno sistematicamente 20 ore di straordinario al mese che nessuno paga loro. Sono concreti e diretti. Ci accompagnano dove vogliamo. Scaroina ammette i grandi problemi del sito ma ci invita anche a guardare le cose da vicino e non con i riflettori dei media. Ci spiega con documentazione alla mano che il grande crollo del 2010 in realtà è consistito in una sola pietra antica più una parte di cemento armato messo ovviamente di recente. Non doveva succedere ma Scaroina chiede maggiore attenzione prima di strillare che crolla Pompei. Un richiamo a far prevalere la precisione sul sensazionalismo non fa mai male. Ci sono da ricordare in realtà altri cedimenti come quello al teatro piccolo che inquietano perché si immagina quanti altri simili potrebbero accadere. E poi ci sono flash di immagini che non vorremmo vedere: angoli di incuria o ad esempio le teche con i calchi che ci restituiscono l’immagine dei corpi rapiti alla vita nel sonno e che contengono le ossa di quelle persone conservate come solo gli scherzi della natura possono fare. Le teche sono a malapena coperte ma sono vecchie e non hanno termoregolazione. Ricevono i flash delle foto di forse tutti i 2 milioni di visitatori che ogni anno accedono al sito. Facendo mente locale sul numero di esperti e soprattutto su quello del personale che dovrebbe sorvegliare interventi e comportamenti, e considerando la ampiezza dell’area archeologica, i conti non tornano.
Scaroina ci assicura che alcuni progetti di intervento sono partiti. E poi ci parla appassionatamente dei progetti più importanti che potrebbero partire. Studiati, preparati, in attesa dell’avvio. E’ chiaro chi dovrebbe dare il via: il nuovo Direttore Generale per gli scavi di Pompei. E’ figura nuova, voluta di fascia dirigenziale più alta. E’ la seconda novità dopo lo scorporo delle Soprintendenze: fino ad ora una sola Soprintendenza si occupava di Napoli e Pompei.  Con la conseguenza di accorpare due territori difficilissimi e diversissimi. Tra i miracoli prodotti dall’emergenza crolli, che pure non avremmo voluto avere, c’è quello di una Soprintendenza per la sola zona archeologica di Pompei. Ma il punto è che il nuovo Soprintendente può poco a livello operativo senza il Direttore Generale. Il tutto sotto il cielo d’Italia, dove non ci sono tempi certi per le nomine e dove la durata del governo è messa in dubbio un giorno su due.
C’è un conto da fare subito a proposito di Soprintendenza unica.  Verifichiamo che l’introito dei biglietti per la visita al sito fruttano 25 milioni di euro l’anno. Finora erano inghiottiti dalla cassa comune dell’unica Soprintendenza. Ora arriveranno a quella che gestisce solo Pompei. Anche questo dovrebbe significare qualcosa oltre ai 105 milioni. In attesa che significhi interventi di messa in sicurezza o altro, per il momento rappresenta un’attrazione fatale per le mafie. Parlando con Scaroina, si respira ottimismo: già in due casi, l’intervento assegnato a una ditta è stato sospeso perché, in questa nuova era, la torta sta sotto lo stretto controllo della Dia, Direzione Investigativa Antimafia. E Scaroina lancia un’altra stoccatina ai media: si chiede perché gridano all’allarme ogni volta che si viene a sapere di un sopralluogo della Dia in uno dei cantieri: fa parte della doverosa vigilanza che è scattata da alcuni mesi e dovrebbe rassicurare piuttosto che allarmare. E’ un punto di vista più che comprensibile e fa bene pensare che ci sia qualcuno che non teme controlli, in questa Italia un po’ sgangherata dove a volte sembra che chiunque abbia qualcosa da nascondere. Ma il punto è un altro. Anche Scaroina deve ammettere che il blocco delle due ditte in odore di mafia ha già fermato di molto i passi che anche in attesa del nuovo Direttore generale si erano potuti fare. E si abbandona a un sospiro quando gli ricordiamo che la scadenza per il compimento del lavoro affidato al Grande Progetto Pompei per il restauro e la messa in sicurezza c’è e non è poi lontana: è il 2015. Ci viene da pensare che, seppure a titolo diverso, tanti dei soldi provengono da Bruxelles e dunque questa volta a qualcuno dovremo rendere conto. Anche qui respiriamo un’aria nuova: Scaroina sorride tradendo una certa soddisfazione sul fatto che qualcuno verificherà il lavoro fatto. Si respira voglia di fare e non è poco.

Tra tanta doverosa preoccupazione di salvaguardia, però, torna forte il pensiero dello studio di ciò che è stato. Tanto si è ricostruito della vita a Pompei al momento della terribile eruzione del Vesuvio nel mese di agosto del 79 d.C., ma tanto c’è ancora da scoprire. Per esempio ci sarebbe da analizzare gli elementi sulla vita precedente agli ultimi anni di Pompei prima dell’eruzione. Gli studiosi non mancano: ogni anno ottanta università ottengono permessi mirati a missioni di studio particolari. Provengono da 15 Paesi diversi. Operano sul terreno già scavato con rilevazioni e esplorazioni  circoscritte. A nessuno è dato di sognare di scavare i 22 ettari ancora non esplorati. La reazione di tutti, amministrativi o archeologi, è la stessa: è impensabile, per i costi insostenibili. Emerge dagli archeologi anche una sottile ma ferma consapevolezza: l’umanità oggi non è all’altezza. Molto più opportuno pensare che la terra, che “conserva molto meglio di qualunque mano d’uomo”, preservi ancora per un po’ tesori che forse ad altre generazioni sarà possibile disvelare. Nessuna domanda scalfisce la sicurezza della risposta: da 30 anni sostanzialmente si studia e preserva ciò che è emerso e non si scava; è tutto quello che si può fare. Sentiamo la mancanza di una voce discordante. Vorremmo sentire uno slancio visionario magari un po’ romantico, vorremmo percepire l’ostinazione della curiosità che altre epoche hanno tanto conosciuto. Sarebbe un sentire antico eppure forse nuovo per questa epoca di oscurantismo della cultura.
da Area di ottobre 2013

Emergenza Foro Romano

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Al di là della pedonalizzazione di Via dei Fori Imperiale, c’è l’emergenza Foro Romano

Si fa presto a dire Parco archeologico: dopo le discussioni sulla pedonalizzazione di Via dei Fori Imperiali, la domanda più urgente non è tanto quante macchine continuino a percorrerla o quanto traffico sia rimbalzato su Via Merulana o quanto i cittadini siano contenti, ma piuttosto che cosa ne sia del contiguo Foro romano. Racchiude mille anni di storia tra circa il 500 a.C. e il 500 d.C. ma rappresenta una sorta di passeggiata tra ruderi.

L’idea è bella: un Parco archeologico dove Roma è nata per iniziativa di Romolo. L’ha spiegato il sindaco Marino: sarebbe l’obiettivo ultimo della pedonalizzazione. E un personaggio di rilievo del mondo del teatro come Proietti lo ha invocato, forse anche sognando che diventi quello che è il teatro di Taormina in Sicilia o il teatro di Epidauro in Grecia: monumento storico di indicibile valore ma anche spazio fruibile alla cultura.

Tra gli archeologici della Sovrintendenza si raccoglie scetticismo assoluto sull’ipotesi di cambiamenti significativi. Ne incontriamo uno che gentilmente ci parla e offre dati interessanti ma non vuole comparire. Prima di proiettarci nel futuro, facciamo una visita al Foro, che, nei mesi estivi quando la calura imperversa e nel tardo pomeriggio sarebbe più piacevole fare una visita, chiude alle 18.

Facciamo una passeggiata al Foro con un architetto amante di storia antica,  funzionario del Comune. Il suo sguardo va dal culturale all’istituzionale. Si chiama Vincenzo Antonio Ambasciano, lavora al neo Primo Municipio ma fuori dello stabile c’è ancora scritto Municipio XVII, come prima dell’accorpamento. Ha affiancato per anni, nel suo impegno di studio all’Università, il noto prof. Massimo Birindelli. Con noi non ha nessun problema a metterci la faccia: parla di “degrado”, di “passeggiata tra i ruderi di turisti abbandonati a loro stessi”. Effettivamente basta guardare di fronte all’Arco di Settimio Severo: su capitelli e frammenti di colonne bivaccano indisturbati visitatori con bibite gassate in mano. Nessun cartello e, pur soffermandosi per ore, non si riuscirebbe a notare alcun richiamo da chicchessia. “Non ci sono controlli”: questo amaramente lo ammette anche l’archeologo che resta senza nome.

L’architetto Ambasciano, con una passionalità che richiama al senso enorme di quello che abbiamo di fronte, ci ricorda che nell’area sono stati trovati scheletri di necropoli preesistenti alla fondazione di Roma, del VII secolo a.C. E soprattutto ci ricorda che il Foro era il cuore di ogni attività, tra religione e politica, dal tempio di Vesta alla Curia. Al Foro campeggiava lo Umbilicus Urbis Romae: una sorta di cono di mattoni, centro ideale della città da cui partiva ogni misurazione di distanze per tutto l’impero. Resta il basamento ma senza nessuna indicazione. Così come per la secolare Via Sacra, la via che dalle pendici del Campidoglio arrivava all’Arco di Tito, percorsa da potenti e condottieri al rientro da imprese: i turisti possono camminare sui basolati rimasti senza alcuna segnalazione. L’archeologo boccia l’idea di qualunque pannello descrittivo: “deturperebbe”. Immaginiamo almeno un tratto da lasciare protetto dal camminamento. L’archeologo spiega che per simili iniziative si dovrebbero coordinare Sovrintendenza, Ministero dei Beni Culturali e Comune che “hanno sì contatti ma non una struttura di collegamento vero e proprio”. Struttura peraltro di cui “si parla da tempo” per diversi motivi.

Parliamo di scavi. I punti di coperture che nascondono l’impegno della Sovrintendenza sembrano abbandonati. Sappiamo di archeologi e speleologi impegnati e qualcosa si può leggere su riviste specializzate. Ma anche la nostra fonte anonima alla Sovrintendenza ci conferma: sono interventi isolati e tesi alla conservazione, nessuna campagna di scavi per restituire qualcosa di più di quello che giace sotto gli occhi di tutti. Eppure sappiamo che con la legge di Roma Capitale del 2000 sono arrivati “una marea di finanziamenti”. Quando domandiamo come mai non venga divulgato quasi nulla dell’impegno della Sovrintendenza in loco, l’archeologo ci dice: “Non siamo abituati a concepire questo”. E poi aggiunge: “Siamo pochi: dal 2000 ad oggi i funzionari sono stati ridotti esattamente del 50%”. Che si riducano gli addetti ai lavori per lo sfruttamento del nostro petrolio, i beni culturali, non è una novità in Italia ma resta uno scandalo. Ma parlando di più con l’archeologo cogliamo una resistenza di fondo all’idea di far emergere qualcosa: percepiamo il timore che non ci siano risorse per gestire patrimoni che è quasi meglio lasciare conservati come il tempo ha deciso di fare. Ovviamente il Foro è patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’Unesco ma non riceviamo fondi, solo l’indicazione di vincoli di manutenzione e conservazione. Ci piacerebbe sapere cosa ne pensi l’Unesco del bivaccamento di turisti sui capitelli, dei sandali e scarpe da ginnastica sull’unico tratto rimasto della Via Sacra, e ci piacerebbe sapere cosa ne pensi dell’idea di ignorare patrimoni ancora nascosti sotto terra.

Il nostro archeologo si rifiuta di accettare la definizione del Foro, così come si presenta oggi, come un’area praticamente recintata e basta. Rivendica giustamente il lavoro di quanti tentano di occuparsi della manutenzione e si dice convinto che scavare per riportare alla luce altro materiale non sia possibile in un’area così densa. Non è un archeologo, ma l’architetto Ambasciano su questo la pensa diversamente. Suggerisce intanto di “tirare su tutto quello che si può rimettere in piedi”, di “scavare per tirare fuori altro e, perché no, anche creando supporti che aiutino a ricostruire i monumenti come erano”. Lascia intendere che progetti del genere dovrebbero avere delle scadenze, che creerebbero un’attesa. Attualmente, ci fa notare, i lavori avvengono come in una sorta di limbo: “senza che qualcuno si aspetti resoconti o risultati”. Ci fa un esempio: il complesso del Carcere di Mamertino si visita solo in parte per via degli scavi in corso: da 30 anni e senza scadenze.

L’indicazione di tempi in Italia sembra un optional inconsiderato. Sul cartello sulla facciata del Palazzo Senatorio su Via del Campidoglio a tutt’oggi si legge che sono in corso lavori strutturali, per un costo di 2 milioni e 500.000 euro, della durata di 560 giorni a partire dal primo luglio 2007. Calcolare che siamo fuori già del doppio del previsto è immediato. Di altro non è dato sapere. Resta la consapevolezza che stiamo parlando dell’area archeologica più densamente ricca di storia al mondo e resta la consolazione che qualcuno come l’architetto Ambasciano continui a sognare altro.

di  Fausta Speranza in Area del 1 settembre 2013

La rivoluzione di Papa Francesco

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La rivoluzione datata di Papa Francesco tra “normalità” e “semplicità”

Tra “normalità” e “semplicità” Francesco sta operando una rivoluzione nella Chiesa. La percezione è di tutti anche se ognuno la spiega a modo suo, credenti e non credenti. La rivoluzione consiste nel ripartire con adesione profonda dal Vangelo. E’ una rivoluzione datata, con un potenziale nuovo di decisionalità. Ma non è tutto qui. C’è anche un riposizionamento tra livello vitale del messaggio cristiano e piano dottrinale.
“Dobbiamo abituarci a essere normali”, sottolinea Papa Francesco ai giornalisti in aereo di ritorno dal Brasile, rigorosamente improvvisando, senza più domande precostituite. La normalità è la valigetta portata a mano, il continuo richiamo alla misericordia e alla capacità di perdono di Dio, l’uso della parola gay, l’attitudine a condannare il peccato e a voler bene al peccatore, la mano tesa ai divorziati. Per Francesco è normale perché è quanto insegna il Vangelo. Ed è normale ricordarlo a gran voce, insieme con la “necessità di condannare” l’indegna condotta di preti come mons. Scarano, accusato di gravi traffici illeciti. Poi c’è il suo invito a studiare il tema della nullità matrimoniale ma anche la conferma della posizione già nota della Chiesa su aborto e nozze omosessuali. E normale per Francesco è stato istituire nel giro di poco commissioni per la riforma della Curia e dello Ior, centri di potere politico e economico del Vaticano. E normale è promettere che se ne vedranno presto i frutti. E poi ci sono missioni per sacerdoti in Africa o altrove avviate in 48 ore.
La normalità si sposa con la semplicità: “Dio ci chiede in questo momento più semplicità”, spiega. E fa fuori abiti e troni regali, abita in una residenza più che essenziale, viaggia in aereo senza il consueto lettino, in uno dei tanti posti come gli altri. Ma la semplicità di Francesco non è racchiusa solo in queste scelte. Si esprime soprattutto nell’essenzialità dei messaggi più rivoluzionari, ma meno ripresi, con cui ripropone la bimillenaria rivoluzione di Cristo che ha sentenziato: non si può servire Dio e Mammona, richiamando al rischio di asservirsi al denaro.  Papa Francesco senza mezzi termini denuncia: “Chi comanda oggi è il denaro”. Ma fa meno notizia di altro. Si scaglia contro “la politica economicistica senza un qualunque controllo etico, un economicismo autosufficiente”. Ma nessuno ci fa un titolo. Dichiara inaccettabile che bambini muoiano di fame e anziani non abbiano accesso a cure, ma la condanna non occupa una pagina di giornale. Condanna le lobby che si fanno “organizzazioni di potere”, ovunque siano. Lamenta che “manca un’etica umanistica nel mondo” e chiede di “stimolare una cultura dell’incontro riducendo l’egoismo”. E’ la stessa semplicità che l’ha condotto a Lampedusa, vicino agli ultimi, i migranti più disperati. In questo caso è stato accompagnato da una straordinaria copertura mediatica.
Ma la Chiesa che sta accanto ai poveri non dovrebbe meravigliare. E’ come dire che la Croce rossa si occupa dei malati o l’Onu di cercare la pace. E’ vero che spesso la Chiesa non è stata all’altezza del suo messaggio ma non si può dire che l’abbia sempre tradito e soprattutto l’opzione non è nuova e non dovrebbe sorprendere. La notizia sta nel decisionismo: Francesco è deciso a scuotere fortemente la Chiesa per riportarla accanto a chi sta nelle periferie del mondo.
Paolo VI nella Messa a conclusione del Concilio Vaticano II nel 1965 diceva al mondo: “Per la Chiesa nessuno è estraneo, escluso, lontano”. Era l’abbraccio al mondo del Concilio, voluto da Papa Giovanni XXIII, che sarà presto santo, nella convinzione che “il Vangelo non cambia ma cambia la nostra comprensione del Vangelo alla luce dei tempi nuovi”. Giovanni Paolo II ha percorso continenti nell’ottica dell’incontro e del dialogo, sulle orme di Paolo VI che fu il primo Papa a andare in Terra Santa, in India, alle Nazioni Unite. Benedetto XVI ha dedicato alla misericordia l’enciclica Deus caritas est e, a 50 anni esatti dall’apertura del Concilio, a ottobre 2012,  ha parlato di “speranza disattesa”. Papa Francesco afferma: “Il Concilio non è stato pienamente messo in pratica. In media ci sono voluti 100 anni per ogni Concilio, ora siamo a metà strada”. La filosofia è quella di Papa Giovanni XXIII: non si deve avere paura di cambiare per aderire meglio al Vangelo. E Papa Francesco dichiara: “Ci sono cose che erano utili in altre epoche, con altri punti di vista, che adesso non servono più, devono essere riorganizzate”. Ma nel frattempo che cosa è successo che rende oggi tanto rivoluzionarie certe parole di Papa Francesco che invece sono in linea con i predecessori? L’impressione di chi scrive è che in troppi casi nella vita vissuta di tanta parte della Chiesa, su impulso di zelanti uomini di chiesa, sacerdoti e laici, si metteva in atto una strisciante ma pesante sovrapposizione della logica del catechismo della chiesa cattolica, che 30 anni dopo il Concilio cercava di delineare linee dottrinali, sugli straordinari documenti del Concilio stesso che non aveva voluto essere dottrinale ma vitale e pastorale. Si è troppo spesso ridotto la trascendenza universale del Concilio all’esaltazione del catechismo, che doveva essere uno strumento. Risanare questo sfasamento, riscoprire la dimensione alta di comunione che sta prima della dottrina sembra il cuore della vera rivoluzione di Francesco.

di  Fausta Speranza in Area del 1 Agosto 2013

Dare regole a Internet: la sfida per l’informazione e per i legislatori

“Dare regole a Internet è la sfida più esaltante del mondo dell’informazione nei prossimi anni”. Sono parole del segretario della Federazione Nazionale Stampa Italiana (Fnsi), Franco Siddi, al dibattito organizzato a Roma dall’Unione Cattolica Stampa Italiana (Ucsi) a Marzo. Titolo: “’Il lato oscuro della Rete. La sfida di Ulisse oggi: varcare il virtuale”. Un incontro organizzato partendo dalla consapevolezza che Internet rappresenta un mondo di felicissime potenzialità ma anche di alti rischi e soprattutto che sfugge alle attuali legislazioni legate a confini e giurisdizioni. Un incontro pensato con l’esperto di sicurezza informatica Fabio Ghioni, e seguito da un’intervista per Area.
L’hacker Fabio Ghioni, divenuto famoso per il caso Telecom ed oggi consulente di governi e istituzioni internazionali, apre orizzonti di riflessione sulla zona oscura ai più della Rete, cioè i meandri tecnici. Una dimensione in ombra che potrebbe per certi versi incidere sulla vita di ognuno di noi più della zona “illuminata” della navigazione senza limiti di luogo o di tempo. Chi gestisce i dati che immettiamo ogni giorno sui social network è solo uno degli interrogativi che generalmente non ci si pone, pur vivendo l’amicizia virtuale per ore al giorno. Ghioni chiarisce l’assoluto arbitrio dei singoli operatori di FaceBook, per fare un esempio. I sistemi degli operatori di telecomunicazioni che hanno a disposizione i dati più sensibili (posta elettronica, password, dati telefonici…) sono accessibili da Internet attraverso fornitori esterni. Chi sa dove si trovino, e – assicura Ghioni – chi ci lavora lo sa, in soli cinque minuti può fare un copia e incolla dei tabulati o della lista degli intercettati.     “Quando si parla di sistemi inviolabili – assicura Ghioni ad Area – è solo per fare operazioni di facciata”. A questo proposito, un po’ sottovoce Ghioni ci fa una considerazione pesante: “Se un sistema è vulnerabile, è possibile violarlo dando la colpa agli hacker, ma se è completamente sicuro rappresenta un problema anche per le agenzie di intelligence che non possono accedervi senza essere scoperti. Lasciarli vulnerabili è spesso una scelta”.
Ghioni invita tutti a maggiore consapevolezza, mentre toglie sonno alle notti. Spiega che gli aggiornamenti continui dei service provider, che al massimo ci risultano noiosi, sono momenti di comunicazione aperta con il nostro computer in cui le macchine potrebbero comunicare qualunque tipo di dati e non solo quelli relativi all’aggiornamento. Ancora: cancella ogni illusione di sicurezza sull’utilizzo delle reti Wi-Fi: da tecnico assicura che non c’è ad oggi un sistema Wi-Fi che non sia vulnerabile. Per non parlare dei virus che permettono di tramutare qualunque computer in un computer spia, cosiddetto Zombie, che trasmette ogni tipo di dato a un pc terzo. Se consideriamo che le società più evolute dell’Occidente sono anche le più tecnologizzate e digitalizzate, il pensiero corre subito alla cyber criminalità e al cyber terrorismo. Basti pensare che solo sapendo qual è l’indirizzo da attaccare di un sistema critico si può bloccare un’intera nazione, per esempio il suo sistema elettrico.     “La cosa incredibile – sottolinea Ghioni – è che gli unici Paesi vulnerabili sono quelli occidentali”. E’ impossibile, infatti, pensare a un cyber attack a Paesi come l’Iran o l’Iraq, perché non hanno sistemi critici collegati a quelli informatici. Non sono digitalizzati. D’altro canto, però, Fabio Ghioni che è consulente di diversi paesi arabi, ci spiega che l’Iran ha la più grossa organizzazione governativa d’attacco: la Iranian Cyber Army. La Cina è specializzata nello spionaggio aziendale: ruba informazioni, formule e, senza spendere milioni in ricerca, produce, minacciando le nostre economie. Mettere in ginocchio un’azienda attraverso un computer è anche un modo di fare guerra.
Scenari inquietanti sui quali non si può non tenere alta la riflessione. Tutto ciò, che investe i dati personali dei singoli utenti di Internet ma si ripercuote anche sulla società intera, chiama in causa i legislatori. Il cyber world, infatti, rischia di rimanere terra di nessuno. La legislazione non tiene il passo della tecnologia. Dal diritto romano fino ad oggi le normative si fondano su territorio e giurisdizione ma Internet ha scardinato i parametri, creando il mondo virtuale della Rete che va oltre tempo e spazio. I legislatori a livello nazionale tentano regolamentazioni ma basta dire che un pedofilo o uno stalker che opera da un computer collegato ad un Internet Protocol Number diverso da quello del suo computer e del suo Paese non lascia traccia delle sue scorribande odiose in Rete e, dunque, non è rintracciabile. Un altro esempio: negli USA il Patrioct Act permette tra le altre cose che le autorità accedano ai dati personali dei cittadini senza restrizioni. Ma gli utenti Microsoft, come quelli di Google, sono sparsi in tutto il mondo. Ciò potrebbe significare che le autorità americane possono violare la privacy di un cittadino italiano avvalendosi di una legge statunitense.
Anche il fatto che le poche normative in materia a livello nazionale siano diverse da Paese a Paese contribuisce al far west. In Russia il pirataggio informatico non è un reato. In Corea del Sud è obbligatorio far coincidere l’identità virtuale con la propria identità reale. Andando a Seoul e scoprendo questa norma ci si sente in una giovane democrazia che conserva retaggi della presidenza quasi assoluta che ha avuto fino a qualche anno fa, ma poi parlando con Ghioni si comincia a pensare diversamente. Ghioni, innamorato della tecnologia digitale, hacker libero pensatore, approverebbe immediatamente l’obbligo di coincidenza di identità. Spiega: “la privacy da difendere è un’altra cosa, non è la libertà di mentire su web”. Ma se, come è in Corea del Sud, per i social network si imponesse nel resto nel mondo la corrispondenza tra identità reale e identità virtuale, meno persone forse aderirebbero a un sistema che rappresenta un bacino di informazioni  per compagnie pubblicitarie e non solo. Gli interessi in campo non mancano. E infatti l’hacker che spiega la necessità di avere regole sottolinea anche a gran voce l’enorme difficoltà, proprio per le implicazioni di tanti fattori.
Emerge tutto lo spessore di un dibattito epocale: la necessità di senso critico per il singolo utente e la necessità di una riflessione, a livello globale, sul piano legislativo. Da parte sua, Andrea Melodia, presidente dell’Ucsi nazionale, lancia un vero e proprio appello ai giornalisti e alla società civile a mantenere alta la riflessione per pretendere regole, sposando la battaglia per la trasparenza sulle identità. Emerge il bisogno condiviso di una qualche forma di controllo del mondo virtuale che ovviamente non deve lontanamente significare controllo di contenuti, censura, come fanno circa 60 governi al mondo. Ma per paura di sconfinare nel controllo o per scetticismo sulle difficoltà di governance, ci si può abbandonare all’idea che Internet sia terra di nessuno senza se e senza ma? A questo proposito è chiaro che qualunque forma di “controllo” debba essere sovranazionale anzi mondiale. E dunque, ci sembra che, oltre agli appelli che si sentono da più parti ad una governance mondiale in tema di economia, si aggiunga anche la stessa esigenza in tema di Internet.
Va detto che in Unione Europea e negli Stati Uniti qualcosa bolle in pentola. A Bruxelles a inizio anno la Commissione Europa ha presentato un regolamento sulla privacy dei dati che però è solo un’indicazione mentre per esempio la battaglia concreta con google per avere maggiore trasparenza sul rastrellamento e l’uso di dati personali è tutta aperta. A Washington sono in discussione al Congresso due proposte di legge, siglate SIPA e SOPA, che a dire il vero si concentrano di più sulla questione copyright.  Solo recentissimamente Obama ha lanciato un appello a trovare forme di tutela della privacy on line. Ma si sa che le sensibilità sono diverse: in EU il diritto alla privacy è assoluta priorità, negli Stati Uniti concettualmente viene dopo il diritto d’impresa. Certamente un accordo sulla privacy tra EU e USA aiuterebbe. Risulta chiara comunque la complessità anche solo a immaginare una normativa generale.
A proposito di sistemi immaginabili, va menzionato Logbox, un sistema che rappresenterebbe praticamente una  “scatola nera” per Internet che, come per gli aerei, possa dirci la verità di quanto accaduto su web. LogBox è stato presentato al Parlamento Europeo dall’europarlamentare PPE Tiziano Motti su idea di Ghioni. Prevede di crittografare i dati mettendo la “chiave” per decriptarli nelle mani di autorità, notaio, utente stesso. Dunque un certificato digitale che passa attraverso la garanzia di 3 entità, tra cui l’utente stesso che ha voce in capitolo.
Il meccanismo implica la “collaborazione” dei sistemi operativi. Dunque si chiamano in causa Windows, Apple, Linux. Dovrebbero contenere le caratteristiche di generazione di tutti i log (in pratica i tabulati) di attività che vengono attuati dal computer su cui gira il sistema operativo. Non è poco, perché così i log sarebbero firmati digitalmente in modo da far risalire a uno specifico computer e al suo utilizzatore. E questo indipendentemente da qualunque accorgimento per anonimizzare qualunque attività illecita. Ghioni assicura che i costi per l’operazione sarebbero estremamente bassi. Il sistema è attualmente all’analisi della Commissione Europea. Ghioni ci confessa: “Non credo che verrà approvato perchè in tanti non sono interessati alla trasparenza”. Ci convince sempre di più sull’importanza di un dibattito della società civile.
Resta da sottolineare che tutto il discorso non tende minimamente a demonizzare Internet o social network. Si tratta semmai di rivendicare maggiore educazione all’uso. E’ bello ricordare che il Consiglio d’Europa ha giustamente inserito a dicembre scorso tra i diritti fondamentali dell’uomo quello dell’accesso a Internet. E che il Parlamento Europeo ha assegnato a fine 2011 il Premio Sacharov per la libertà di pensiero a esponenti di diversi Paesi del Nord Africa che hanno fatto la “primavera araba” nei loro Paesi anche attraverso la Rete.  Il punto è che Internet è innanzitutto un’opportunità ma va conosciuta meglio nei suoi contenuti come nei suoi meandri tecnici. Un esempio di meandri del prossimo futuro: Internet 3.0. Significa non più solo computer che comunicano tra loro ma anche elettrodomestici e oggetti di uso quotidiano che comunicano in Rete attraverso sensori. Non si può non seguire quest’altra accelerazione della tecnologia con la riflessione e il pensiero. D’altra parte è sempre quello che accade all’uomo di ogni tempo: la tecnologia lo catapulta sempre in terreni nuovi dove si ritrova a reinventare il pensiero.
Si capisce la sfida che il mondo virtuale pone all’umanità di oggi. Con la consapevolezza che Ulisse è sempre nell’animo umano. Nell’antichità, l’Ulisse di Omero sfidava e veniva sfidato dai confini fisici tra noto e ignoto. Nel Medio Evo l’Ulisse di Dante “sconfinava” inseguendo la conoscenza tra vizi e virtù dell’animo. Poi nel ‘900, l’Ulisse di Joyce ha rappresentato la stessa brama di conoscenza ma sui “confini” tra conscio e inconscio. Oggi, Ulisse è sfidato sempre sul solito terreno della conoscenza ma nella zona in ombra tra reale e virtuale.  Fausta Speranza

Aprile 2012

Il rapporto tra le religioni 10 anni dopo l’11 Settembre

10 anni dopo l’11 Settembre, “Negli ultimi giorni alcuni ritenevano che ciò non sarebbe stato possibile, a causa dei tragici eventi negli Stati Uniti…”. Esattamente 11 giorni dopo il drammatico 11 Settembre 2001, Giovanni Paolo II pronunciava queste parole, mettendo piede in Kazakhistan, paese dell’Asia centrale a maggioranza musulmana ma di tradizione multietnica e multireligiosa. Le sue parole erano ferme come la decisione di mantenere la prevista visita pastorale ad Astana e in Armenia nonostante l’alto allarme internazionale e lo choc delle Torri gemelle.
E’ stato subito evidente a tutti, oltre al dolore e alla paura, che l’attentato a New York fosse uno di quei fatti che segna un prima e un dopo. Passati dieci anni, sono stati fatti tanti bilanci. Tra questi ce n’è uno particolarmente delicato: sul rapporto tra le religioni. Si parlava a gran voce, con timore, di un possibile scontro di civiltà. Oggi, un po’ sottovoce, si riconosce che le tre principali religioni, monoteiste, si presentano una di fronte all’altra ognuna con un rispettivo bagaglio di “fondamentalismo” al loro interno che dieci anni fa non aveva lo stesso spazio.
L’11 Settembre è figlio del fondamentalismo islamico e dunque nel caso del mondo musulmano è palese come il fenomeno fosse già in atto. Nel caso del giudaismo e del cristianesimo invece dobbiamo riconoscere che in questi dieci anni di inizio Millennio le forme di espressione che definiremmo ‘retrò’ si sono moltiplicate e accentuate. Lo sottolinea il prof. padre Giovanni Rizzi, biblista della Pontificia Università Urbaniana, che ci aiuta anche a dare una definizione di fondamentalismo. Ci spiega che si manifesta “quando si accentua una religiosità radicale che compie l’errore grave di fare a meno di alcune delle fonti della propria religione, in particolare della tradizione che media i testi religiosi fondatori con la storia della religione stessa”.  Per l’Islam significa una lettura integralista e politica del Corano che salta la tradizione interpretativa. Per il Giudaismo significa l’esasperazione delle implicazioni politiche. Per l’ambito del Cristianesimo, significa in sostanza trascurare il Concilio Vaticano II in nome di un tradizionalismo, che – dice padre Rizzi – “è una caricatura semplicistica della tradizione”. Il Concilio – afferma – offre ai cattolici documenti che hanno oggi più che mai validità e attualità, eppure in tanti “è venuta meno la speranza del Concilio, la fiducia di costruire”. Come dire che, a 50 anni dall’apertura del Concilio, stiamo attraversando, a parte il ruolo illuminante di uomini di Chiesa, una fase di ripiegamento. D’altra parte, è vero per tutti che senza speranza il ripiegamento è assicurato.
E’ facile trovare letture critiche del fondamentalismo islamico, ed è anche abbastanza facile trovare attente analisi di come un certo mondo ebraico rilegga la storia di Pio XII, ad esempio. Meno facile soffermarsi su quanto accade nel mondo cattolico.
Nel documento Nostra Aetate del Vaticano II si legge: “Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non cristiane”. Fin qui una consapevolezza che precorreva i tempi. Poi un fermo proposito: “Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, la Chiesa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino”. “La Chiesa cattolica – prosegue – nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle altre religioni… Considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”.
Tutto ciò lo ricordiamo per guardare a quanto accaduto a Parigi per lo spettacolo ‘Sul concetto di volto nel Figlio di Dio’, di Romeo Castellucci. Non interessa in questa sede entrare nel merito della valutazione dell’opera che presentava motivi di riflessione ma suscitava anche forti perplessità per alcuni gesti. Il punto qui non è questo: il punto sono alcune manifestazioni aggressive di alcuni contestatori cristiani fuori del teatro dove lo spettacolo veniva messo in scena. Lì – dice padre Rizzi – si è espresso un certo ‘fondamentalismo cattolico’ che non vorremmo vedere. Poi padre Rizzi fa esempi di tutt’altro genere: ricorda la scelta di alcune parrocchie di ospitare in Chiesa musulmani per le loro preghiere, vista l’assenza di loro luoghi di culto. Salvando le buone intenzioni, non si può non temere la confusione tra identità, che non è mai un buon sentiero sul percorso dell’ecumenismo, o sulla via del dialogo. Anche questo può essere estremismo. Inoltre padre Rizzi cita le tendenze di alcuni esponenti di movimenti ecclesiali che pretenderebbero di “sostituire la teologia insegnata nelle università pontificie con surrogati del tutto insufficienti”: vorrebbero ottenere un avvallo di programmi formativi autonomi, senza un vero confronto con tutta la grande tradizione della Chiesa, che non può essere ridotta al pensiero del  fondatore di una realtà ecclesiale. Non è questo il modo di lasciar soffiare lo Spirito che arricchisce la spiritualità dei movimenti ecclesiali. Tutto ciò sa in qualche modo di esagerazione, di esasperazione e di semplicismo irresponsabile. E rischia di essere questa la cifra dei rapporti tra le religioni in un momento storico in cui l’accelerazione delle migrazioni comporta di per sé sfide niente affatto banali.
Intanto si ridisegnano equilibri mondiali in tutto il Medio Oriente e nel continente africano e assistiamo ai massacri di cristiani in Nigeria da parte di gruppi di estremisti islamici. Ci ricorda che è sempre in agguato il rischio delle strumentalizzazioni delle religioni per guerre di potere. E’ un rischio che trascende il periodo in questione e ci riporta a momenti storici che attraversano 1400 anni di storia di rapporti tra musulmani e cristiani. Certamente non c’è solo tutto ciò in questi anni: ci sono quanti guardano alla Congregazione per la dottrina della fede che continua il suo impegno serio e fruttuoso di ermeneutica del Concilio. “Un’ermeneutica – ricorda padre Rizzi – che non è né di destra né di sinistra”. Inoltre ci sono quanti non dimenticano la personale testimonianza di dialogo che ha vissuto papa Giovanni Paolo II, oggi Beato. Papa Wojtyla – va detto – proprio seguendo l’entusiasmo del Concilio ‘apriva porte’ e comunicava aperture ma nello stesso tempo chiamava il teologo Ratzinger alla guida della Congregazione per la Dottrina della fede, quasi come ideale “controparte” di tanto slancio. Padre Rizzi dice: “Con il cardinale Ratzinger Giovanni Paolo II si assicurava note di accortezza, di ponderatezza”. Ecco la cifra della Chiesa ufficiale che però alcuni rischiano di trascurare. E c’è anche altro: c’è l’impegno del magistero di Benedetto XVI. Troppo facile citare solo l’episodio di Ratisbona, con gli effetti di tensione procurati da una certa interpretazione delle parole del Papa, o la tensione con gli ebrei per l’apertura al vescovo lefebreviano negazionista. C’è molto altro, a partire dalla storica visita di Benedetto XVI alla Moschea Blu di Instanbul, in Turchia. C’è il dialogo importante con i musulmani che Benedetto XVI è riuscito a proseguire su un piano culturale, visto che in questa fase storica è praticamente impossibile il dialogo sul piano teologico. Una scelta accorta che può portare frutti importanti, spiega padre Rizzi. Una scelta che sembrerebbe paradossale sotto il Papa teologo per eccellenza. Ma il cammino intravisto dalla Nostra Aetate non è mai stato definito facile in nessun documento e non può esserlo nel contesto del “trend epocale all’estremismo” individuato da padre Rizzi. Bisogna aggiungere qualcosa: quando, nel 2007, 138 saggi musulmani hanno scritto a Benedetto XVI una lettera chiedendo in sostanza di riprendere il dialogo – anche con l’intento di superare l’accerchiamento internazionale e la possibile equivalenza tra Islam e estremismo – chiedevano un dialogo teologico. Con la sua risposta attraverso il segretario di Stato cardinale Bertone, Benedetto XVI ha invece messo a fuoco l’impegno sul piano culturale. Questo la dice lunga sugli anni di cui stiamo ragionando. Padre Rizzi riconosce: “Il mondo cattolico ha bisogno ancora di chiarimenti interni prima di un dialogo teologico con l’Islam”. E c’è da dire che alcuni frutti si sono visti: i saggi da 138 sono diventati presto 500 e dopo la prima adesione di sunniti anche gli sciiti hanno aperto un tavolo di trattative. Intanto proseguono sotto il magistero di Benedetto XVI gli incontri ad Assisi, voluti da Giovanni Paolo II. Ma – come si nota spesso – ci sono meno momenti di preghiera comune. L’importante, in questo momento storico, è mantenere un dialogo. In fondo è anche tutto quello che hanno potuto gli incontri interreligiosi nella cittadina di San Francesco. Dal punto di vista dottrinale, infatti, non è stato raggiunto alcun passo avanti. Ma resta il valore profondo dell’incontrarsi. Come restano le parole di Benedetto XVI alla vigilia dell’ultimo incontro ad Assisi: “I cristiani non cedano mai alla tentazione “di diventare lupi tra i lupi”.    E ancora restano le parole di Giovanni Paolo II in quella particolarissima visita pastorale in un paese musulmano a 11 giorni dalla tragedia degli aerei kamikaze. Rivolgendosi ai cristiani diceva: “Alla forza della testimonianza unite la dolcezza del dialogo”.  Fausta Speranza

Gennaio 2012

La questione di genere: un dibattito serissimo da non relegare alle sedi Onu

A primavera all’Onu si discuterà di orientamento sessuale e di identità di genere ma non sarà più solo per combattere violenze e discriminazioni. Sarà per sdoganare la scelta di identificarsi in una X in alternativa all’indicazione di maschio e femmina e soprattutto sarà per discutere se essere una X è solo una questione di sensazione e non di fisicità.
Mentre discutevamo di diritti delle donne e di giusta lotta a ogni forma di violenza e discriminazione ai danni del femminile e delle persone omosessuali, ci si accorge che senza troppo clamore il diritto internazionale viene sfidato sul terreno dei termini, o meglio della definizione dei termini. Il punto sta diventando se una persona può decidere a prescindere dalla propria fisicità sessuale di essere donna o uomo o X.  Non stiamo dicendo che con un’operazione chirurgica la persona può modificare tale fisicità perchè questa è una frontiera già aperta. Il punto ora sta diventando se, senza nulla operare sui propri organi, una persona possa scegliere di identificarsi in un genere diverso dagli organi stessi. Certamente è dovuto il rispetto per l’inquietudine, la sofferenza, le difficoltà che a livello umano le persone coinvolte possono provare nel volersi identificare con qualcosa di diverso dalla naturale fisicità o in alcuni casi per situazioni oggettivamente non chiare dalla nascita. Ma è d’obbligo ragionare sui principi. Ad introdurre in modo serio e palese questa finestra di discussione è stata la notizia, commentata più o meno in termini di curiosità, della normativa introdotta a ottobre in Australia che prevede la X nei passaporti, in alternativa a maschio e femmina, per transgender e trans. Il pronunciamento giuridico che lo autorizza è preciso: la persona ha facoltà di scegliere il genere al di là dell’evidenza fisica. Basterà infatti una lettera del medico che attesti che quella persona sente di essere donna, uomo o trans per ribaltare quello che la natura fisica dice. La prima cosa che viene da chiedersi è se in un giorno diverso quella persona sentirà una cosa diversa. Ma viene anche da chiedersi come sta messo il diritto internazionale, chiamato prima o poi in causa da questo pronunciamento giuridico.
Il vecchio continente pensando all’appuntamento a primavera a livello di Nazioni Unite si sentiva preparato. Sia l’Unione Europea a 27, sia il Consiglio d’Europa a 47 Paesi, si sono pronunciati più volte contro ogni forma di discriminazione di genere. I dati denunciano un livello di inaccettabile violenza e discriminazione nonostante tutte le Carte sottoscritte e, dunque, i pronunciamenti non sembrano mai abbastanza. In particolare a settembre scorso è approdata al Parlamento Europeo una Risoluzione che ha avuto pareri favorevoli dal Partito Popolare come da quello Socialista e Liberale e Democratico. Il testo si richiama alla Risoluzione A/HRC/17/19 del Consiglio dei diritti umani dell’Onu e esprime la costante preoccupazione del Parlamento Europeo per le violazioni dei diritti umani delle persone LGBT e cioè lesbiche gay bisex transessuali. La sigla è da imparare perché ritorna ormai in tutti i discorsi e i documenti relativi alla questione di genere. Compare da più tempo nei testi del Consiglio d’Europa che ha come finalità proprio quella di tutelare i diritti umani. Il Consiglio d’Europa già nel 2010 ha adottato una sua Risoluzione sul tema. Si tratta della risoluzione 1728 che afferma che “in tutti i paesi membri del Consiglio d’Europa l’omosessualità è stata discriminata”. Ricorda che “in base al diritto internazionale tutti gli esseri umani sono nati liberi e uguali per quanto riguarda la dignità e i diritti”, per poi sottolineare che “non deve essere permesso considerare l’orientamento sessuale e l’identità di genere come motivi di discriminazione”. Precisamente spiega che “secondo la Corte Europea dei diritti dell’uomo una differenza di trattamento è discriminatoria se non ha oggettive e ragionevoli giustificazioni” e che “dato che l’orientamento sessuale è l’aspetto più intimo della vita privata di un individuo, la Corte considera che soltanto ragioni particolarmente serie possono giustificare differenze di trattamento basate su orientamento sessuale”. C’è l’invito a ogni paese membro a “sradicare ogni forma di omofobia e transfobia”, in particolare “sostenendo a livello nazionale cambiamenti nella legislazione e nelle politiche”. Fin qui discorsi già aperti, che non interessa in questa sede analizzare. C’è un punto invece che ci riporta al dibattito che intravediamo giungere dall’Australia. A ben guardare, infatti, nella Risoluzione del Consiglio d’Europa si legge: “L’identità di genere fa riferimento alla esperienza interiore e individuale di genere sentita profondamente da ogni persona”. La domanda da farsi è quale margine di interpretazione lasci questa affermazione. Forse da parte di chi l’ha sottoscritta nel 2010 non c’era la consapevolezza che qualche Corte introducesse il riconoscimento di “sensazioni” di genere. O forse sì. Impossibile dirlo. Ma in ogni caso il dibattito va aperto seriamente a partire dalla normativa di Sidney che autorizza passaporti con M, F, X.
Ma non è l’unico spunto: in Canada compirà un anno proprio in primavera Storm, il figlio, o la figlia, di tali Kathy e Witterick David Stocker. Il sesso del bambino è proprio quanto non è dato sapere. La coppia infatti ha pubblicamente chiesto alle autorità di poter omettere ogni indicazione su questo e conferma di non averlo comunicato neanche ai nonni. La motivazione: la scelta del sesso sarebbe una “questione personale” del nato/a, che lui/lei dovrà decidere, nell’ottica che definiamo inquietante della coppia, “senza condizionamenti sociali”. Della vicenda aggiungiamo solo che i nonni hanno espresso pubblicamente disappunto e preoccupazione. Raccogliendo spunti dall’Australia al Canada, siamo andati a fare una chiacchierata con un politico britannico di fama internazionale in tema di diritto: Lord Alton. Conferma che la questione di genere è stata finora sottovalutata. Precisamente parliamo di David Patrick Paul Alton, Baron Alton of Liverpool, noto per aver promosso campagne contro l’aborto in stretta sinergia con ambienti laici e atei. Professa più che pubblicamente di essere cattolico, ma, quando si tratta di diritti umani – ci tiene a sottolinearlo – “bisogna sentirsi innanzitutto cittadini responsabili prima ancora che credenti”. Lord Alton in questi anni si è messo in contatto con medici e intellettuali atei che si sono posti un problema di fronte ad alcune cifre: la Gran Bretagna in un anno registra 250.000 aborti, cioè più di 600 al giorno. Dietro alle cifre ci sono donne con il loro vissuto e 60 milioni di euro spesi. Al di là del valore della difesa della vita da parte della Chiesa cattolica, in tanti si sono posti il problema. E Alton fa anche un altro esempio: la pena di morte. Se davvero siamo nel mondo in controtendenza è perchè in tanti hanno testimoniato il valore di ogni vita umana ma anche perchè l’opinione pubblica in sempre più paesi sta considerando oggettivamente che non c’è nesso tra pena capitale e maggiore sicurezza. E poi l’eutanasia: Alton assicura che se il parlamento britannico non si è adeguato all’apertura fatta da alcuni Paesi è “perchè il dibattito tra la gente è molto forte e l’opinione pubblica coinvolta”. Per tutti questi temi Alton tiene aperta la discussione con l’Associazione Libertarian for life, movimento che conta molti credenti e non. In definitiva, sulla questione di genere Lord Alton raccomanda proprio un dibattito più trasversale possibile: “Non lasciare la questione di genere solo a chi la affronta come questione politica o religiosa ma coinvolgere tutti i cittadini come i media”. Ognuno deve porsi l’interrogativo se dichiararsi donna, uomo o trans possa essere solo questione di una sensazione. E ognuno deve prepararsi a un dibattito che al momento è solo accennato e circoscritto al prossimo incontro all’Onu ma che in realtà apre interrogativi su parecchi fronti. Se tutti siamo d’accordo a condannare violenza e discriminazione contro Lgbt, infatti, è tutto da dibattere su altre richieste che indubbiamente premono da parte dei gruppi che stanno dietro a questa sigla: adozione, matrimonio, fecondazione assistita. Se non abbiamo più neanche la distinzione biologica “reale” tra uomo e donna come punto di riferimento per ragionare su tutto ciò, il dibattito diventa davvero arduo.  Fausta Speranza

Dicembre 2011

La persecuzione dei cristiani in Iraq: strategia del fondamentalismo

Fermare la carneficina di cristiani in Iraq, e non solo, è dovere della comunità internazionale ma l’Europa e il resto del mondo dovrebbero innanzitutto comprendere che non c’è in gioco solo la difesa di vite umane: c’è in gioco la libertà religiosa in quanto “cartina tornasole di tutte le più importanti libertà”. A definire così la libertà religiosa è stato Giovanni Paolo II e l’attuale drammatico scenario di persecuzione contro i cristiani non fa che confermare la profondità e la profeticità di questa definizione. Il massacro nella Cattedrale di Baghdad, diabolicamente pianificato a fine ottobre solo pochi giorni dopo la conclusione del Sinodo della Chiesa cattolica sul Medio Oriente, rappresenta un triste simbolo di come il fondamentalismo e l’intolleranza cerchino di minare la libertà, partendo dalla libertà religiosa. Il Rappresentante personale della presidenza dell’OCSE contro razzismo, xenofobia e discriminazione nei confronti dei cristiani, Mario Mauro, lo ha detto chiaramente nel suo libro intitolato ‘Guerra ai cristiani’: “Le comunità cristiane documentano il dramma della libertà dell’uomo di fronte al potere”. Accanto alla voce del cattolico europarlamentare italiano, citiamo una voce laica di Oltreoceano: il Direttore  del Washington Institute’s Project on the Middle East Peace, David Makovski. Ci ha detto: “La storia insegna che non esiste una soluzione magica per pacificare il Medio Oriente e che l’unica via potrebbe essere quella di capire meglio le dinamiche in atto senza cercare grandi teorie ma investendo in piccole azioni positive”. E ha aggiunto: “Proprio quello che il terrorismo vuole colpire”. Terrorismo e fondamentalismo colpiscono ciò che è positivo e costruttivo: per questo colpiscono la libertà religiosa.
Si prende a pretesto Dio per il potere. E’ il dramma del Medio Oriente e non solo. E’ il dramma che ha insanguinato troppe pagine della storia. E che ha visto purtroppo in passato anche cristiani protagonisti di violenze. E’ ben chiaro nelle parole di Benedetto XVI nell’esortazione postsinodale ‘Verbum Domini’: “La religione non può mai giustificare intolleranza e guerre. Non si può usare la violenza in nome di Dio!”. Nella Messa conclusiva del Sinodo, il Papa ha chiesto “pace e libertà religiosa e di coscienza”. Peraltro il Papa si è unito all’appello del Sinodo per una maggiore unità tra i cristiani nelle terre che hanno visto nascere il Cristianesimo. Ha detto: “Abbiamo bisogno di umiltà, di riconoscere i nostri limiti, errori, omissioni per poter formare un cuor solo e un’anima sola”. In Medio Oriente ci sono 22 “chiese cristiane”, la Chiesa cattolica ne conta 7. Il Sinodo ha fatto emergere la ricchezza di riti antichi e diversi ma anche la povertà di antiche e nuove divisioni. Il Sinodo ha dato al mondo una lezione anche esprimendo – in sintonia con l’umiltà invocata dal Papa – un mea culpa: ha stigmatizzato il “proselitismo cristiano” di alcuni gruppi evangelici che “non fanno una doverosa riflessione sulle differenze di concetti e di atteggiamenti nei musulmani e nei cristiani prima di aprire un dialogo che non può che essere rispettoso”. E ha criticato alcuni esponenti di movimenti cattolici che “si impegnano in Terra Santa senza studiare abbastanza usanze, tradizioni, cultura e lingua locali”.
La Chiesa riconosce i propri limiti e dovrebbe fare altrettanto la comunità internazionale. Il Papa dal Sinodo ha lanciato un appello che non dovrebbe rimanere inascoltato: “I governi delle Nazioni garantiscano a tutti la libertà di coscienza e di religione, anche di poter testimoniare la propria fede pubblicamente”. E nella lettera che ha inviato, poco dopo per mano del card. Tauran, al presidente iraniano Ahmadinejad, in risposta a una sua missiva, ha ricordato che “il rispetto della dimensione trascendente della persona è condizione per la costruzione della pace, così come il dialogo interreligioso e interculturale è via importante per la pace”. Il dialogo presuppone la libertà religiosa.
In Oriente libertà di religione vuol dire solitamente libertà di culto. Non si tratta dunque di libertà di coscienza, cioè della libertà di credere o non credere che il Cristianesimo difende, di praticare una religione da soli o in pubblico, di cambiare religione. In Oriente la religione è, in generale, una scelta sociale e perfino nazionale, non una scelta individuale. Cambiarla è ritenuto un tradimento verso la società.
Da 7 anni, dall’intervento militare in Iraq, gli analisti guardano a quanto accade a Baghdad come a un paradigma di quanto potrebbe accadere in tutto il Medio Oriente. Il dittatoriale ma laico Stato dell’Iraq si è bruscamente aperto alla democrazia ma anche al fondamentalismo. Rappresenta un difficile banco di prova per tanti equilibri. Ma dell’Iraq non si parla nei nostri media ad eccezione di resoconti frettolosi degli episodi più gravi di violenza: solo la punta dell’iceberg della mattanza quotidiana. Non si racconta la sfida inarrivabile per un governo di unità nazionale durevole. Non si racconta abbastanza il dilagare del fondamentalismo. Così come non si racconta la difficile fase politica del Libano. Altro Paese paradigma: il Paese dei cedri è l’unico nel Medio Oriente dove i cristiani hanno avuto una rappresentanza politica. E soprattutto, le più alte cariche dello Stato sono assegnate ai tre gruppi religiosi principali: il presidente della Repubblica è cristiano maronita, il primo ministro è sunnita, il presidente del Parlamento è sciita. E questo ha un valore grandissimo perchè alcuni dei massacri quotidiani che avvengono in Iraq, in Afghanistan e in Pakistan sono dovuti a lotte fratricide tra diverse componenti o correnti dell’Islam. La minoranza sciita è oggetto di attacchi tanto quanto altre minoranze. Dunque se è vero che i cristiani sono perseguitati in nome di un’errata e strumentale sovrapposizione tra Cristianesimo e Occidente e in quanto espressione dei valori di libertà, tolleranza e laicità positiva, è altrettanto vero che in realtà ad essere combattute dalle frange violente dei radicalisti islamici sono tutte le minoranze che non si adeguano alla logica dominante o potenzialmente dominatrice. La vera posta in gioco è solo il potere. In quest’ottica, il Libano rappresenta un esemplare esperimento di convivenza e di equilibrio tra poteri, che però è messo a dura prova negli ultimi tempi dalla preoccupante instabilità politica. Andrebbe strenuamente sostenuto dalla comunità internazionale. Del paese dei cedri, invece, non parla nessuno.
Anche di mons. Padovese si è parlato troppo poco e male. E’ quanto è emerso dal toccante intervento al Sinodo di mons. Ruggero Franceschini, successore del vescovo dell’Anatolia ucciso in casa il 3 giugno scorso dal suo autista. Del  predecessore ha difeso la memoria dalle “insopportabili calunnie fatte circolare dagli stessi organizzatori del delitto” su presunte relazioni omosessuali del vescovo martire. Mons. Franceschini non ci sta a vedere infangata la memoria di mons. Luigi Padovese e non ci sta a sentir parlare di un gesto da squilibrato e al Sinodo ha parlato chiaramente di “ultranazionalisti e fanatici religiosi” di “un omicidio premeditato da esperti della strategia della tensione, dagli stessi poteri occulti che il povero Luigi  pochi mesi prima aveva indicato come responsabili dell’assassinio di Don Andrea Santoro, del giornalista armeno Dink e dei quattro protestanti di Malakya”. Resta la considerazione del Papa: “Questo assassinio non può essere attribuito alla Turchia e ai turchi e non deve oscurare il dialogo”. Ribadito questo, va detto che nella laica Turchia l’uccisione di Don Santoro, a febbraio 2006, e quella di mons. Padovese, quattro anni dopo, rappresentano un inquietante segno del dilagare del fondamentalismo. Anche di questo non si parla abbastanza. Mons. Franceschini al Sinodo ha aggiunto: “La Chiesa di Anatolia è a rischio sopravvivenza: ve ne faccio partecipi con un tono di gravità e urgenza”. Poi lo slancio del pastore: “Voglio tuttavia rassicurare le chiese vicine, in particolare quelle che soffrono persecuzione e vedono i propri fedeli trasformarsi in profughi, che come Conferenza Episcopale turca saremo ancora disponibili all’accoglienza e all’aiuto fraterno, anche oltre le nostre possibilità”. Questa è la forza dirompente del Cristianesimo che tanto dà fastidio al fondamentalismo nel Medio Oriente. In Turchia a fine ‘800 i cristiani erano 4 milioni, oggi sono meno di 100.000; in Iraq solo nel 2004 se ne sono andati 40.000 cristiani; nella culla del Cristianesimo, a Betlemme, non troppo tempo fa i cristiani rappresentavano il 70% della popolazione, oggi su 35.000 abitanti sono meno di un sesto. Anche se bisogna dire che in alcuni Paesi del Medio Oriente dopo anni di abbandoni oggi si registra un’immigrazione da Paesi cattolici come le Filippine. Ma ad essere ingombrante è il messaggio di amore, di pace e libertà, al di là dei numeri. La comunità internazionale dovrebbe agire, ma prima dovrebbe capire la piega che ha preso la crescita esponenziale di un certo Islam politico iniziata dagli anni ’70 e quello che rappresenta il Cristianesimo.
L’Islam tende ad essere onnicomprensivo: religione, società e politica sono un unicum. La laicità statale è processo incompiuto. Quando questo unicum è in mano al radicalismo è Sharia e intolleranza. Quando il radicalismo è in mano ai violenti è terrorismo. Di fronte a tutto ciò non andrebbe dimenticato il concetto di laicità positiva difeso dalla Chiesa cattolica. In sostanza significa distinguere il ruolo della religione da quello dello Stato ma non negare il ruolo anche pubblico della religione. Ma in questa fase storica sembra che in Occidente non si capisca più a pieno il valore della laicità positiva: sembra offuscata dal pregiudizio del laicismo, cioè la posizione radicale di quanti vorrebbero far fuori completamente la religione da ogni ambito o dibattito pubblico relegandola alla sfera privata. Una posizione che rischia di essere radicale tanto quanto il radicalismo islamico o i fondamentalismi del secolo scorso.
A questo proposito è interessante ricordare alcune parole di mons. Luigi Padovese raccolte insieme con altre nel bel libro che gli è stato dedicato con il titolo di “come chicco di grano”, Edizioni Terra Santa, a cura di Giuseppe Caffulli. Si tratta di parole pronunciate in un intervento fatto l’11 ottobre 2009 nella Basilica di San Marco a Venezia, dove era stato invitato a parlare della realtà dei cristiani in Turchia. Mons. Padovese, dopo aver parlato della Turchia e di Don Santoro come un uomo che voleva essere ponte tra Occidente e Oriente, interrogava le coscienze dicendo: “A molti cristiani oggi in Europa è difficile pensare la religione al di fuori di una concezione individuale e intimistica, a volte è perfino difficile affermare in pubblico che si ha una fede privata, confessare a parole la propria fede; c’è anche un diffuso timore di trattare temi religiosi”. Queste parole restano come un monito all’Europa e all’Occidente: con questi timori si viene meno alla sfida decisiva di difendere la laicità positiva di fronte al fondamentalismo che caccia, stupra, uccide i cristiani, proprio per le libertà che testimoniano.  Dicembre 2010

A 60 anni dalla Convenzione dei diritti umani: nuovi diritti nazionali e sovranazionali

L’Europa festeggia 60 anni di impegno in difesa dei diritti umani mentre discute di nuovi possibili diritti e assiste a un braccio di ferro sempre più impegnativo tra diritto internazionale e diritti nazionali. Il 4 novembre 1950 il Consiglio d’Europa presentava la Convenzione di salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali. Sei decenni dopo, non è solo anniversario ma anche acceso dibattito e attesa per scadenze importanti. A ottobre si è giocata una partita delicata all’interno dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, che vive dal 1949 proprio per la difesa dei diritti umani e che raccoglie oggi ben 47 paesi. E’ stato respinto il Rapporto della deputata britannica Christine McCafferty che avrebbe oscurato l’esercizio dell’obiezione di coscienza per chi, lavorando nel settore sanitario, rifiuta pratiche quali l’aborto o l’eutanasia. Di più: è stato sostituito con un nuovo testo in cui il diritto del personale medico all’obiezione di coscienza viene sancito in maniera esplicita. Dunque, risultato ribaltato, con buona sorpresa di tutti. A ben guardare, il diritto alla libertà di coscienza è tra i diritti fondamentali riconosciuti nel 1950, così come il diritto alla vita. L’aborto, invece, non è tra i diritti fondamentali ma viene ammesso in molti paesi come eccezione al diritto alla vita. Eppure molto lasciava pensare che ci fossero i numeri per aprire alla possibilità di equiparare il presunto diritto all’aborto al diritto alla libertà di coscienza. Non è stato possibile grazie all’azione di diversi parlamentari, tra cui l’italiano Luca Volontè promotore di determinanti emendamenti, e all’appoggio di moltissime Ong europee e diverse chiese cristiane. In prima fila lo European Centre for Law and Justice. Il direttore, Grégor Puppinck, ha rispolverato il Principio IV dei Principi di Norimberga, voluti dopo la tragedia nazista: “Il fatto che una persona agisca obbedendo al proprio governo o ai propri superiori non la solleva dalla responsabilità nei confronti della legge internazionale perché resta provvisto della facoltà di una scelta morale”. Dunque la propria coscienza innanzitutto. Poi la Raccomandazione 1518 del Consiglio d’Europa del 2001: “Il diritto alla libertà di coscienza è un fondamentale aspetto della libertà di pensiero, coscienza e religione”. Poi l’articolo 10.2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: “Il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto in conformità con le leggi che a livello nazionale disciplinano l’esercizio di tale diritto”.
Questa partita giocata alla vigilia del 60esimo ha significato che i solenni impegni della Convenzione dei Diritti Umani del Consiglio d’Europa sono ancora vivi e hanno tenuto all’insidia del documento della deputata socialista che terminerà con la fine dell’anno il suo mandato parlamentare. Ma Grégor Puppinck, parlando con Area, dopo aver espresso la soddisfazione per questo “importantissimo risultato”, assicura che “in parecchi appoggiavano l’iniziativa” e che “partite simili aspettano dietro l’angolo”. Anche in ambito di Unione Europea negli ultimi anni si è mosso qualcosa nel tentativo di vietare l’obiezione di coscienza in materie sanitario-riproduttive. Ma non è l’unico argomento sul quale si affaccia la richiesta di nuovi diritti.
Il fatto che a distanza di 60 anni l’evoluzione della società imponga qualche revisione non stupisce nessuno. Ma Marta Cartabia, docente di Diritto costituzionale all’Università Milano Bicocca, spiega ad Area un rischio preciso: “Il problema serio è che questi nuovi diritti vengono introdotti non attraverso una riflessione generale sui cambiamenti che la nostra società ha subito e quindi gli adeguamenti possibili, ma piuttosto vengono aggiunti o per via giurisprudenziale o attraverso risoluzioni, come quella tentata dalla McCafferty, votate da organismi internazionali”. Il diritto individuale non può che discendere dai principi stabiliti dalla Convenzione, ma – avverte la Cartabia – “se questi presunti nuovi diritti vengono introdotti fuori da un contesto generale vengono concepiti come assoluti”.
Fin qui abbiamo parlato di battaglie parlamentari, ma la prof.ssa Cartabia ci introduce all’altra sfida su cui riflettere: la via giurisprudenziale. Le sentenze delle Corti di giustizia, infatti, fanno scuola. Ricordiamo che l’UE ha la sua Corte che ha sede a Lussemburgo e che il Consiglio d’Europa ha la sua Corte che risiede a Strasburgo, dove sono anche i due rispettivi parlamenti. A pronunciarsi sul Crocifisso è stata la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, cioè la Corte che fa capo al Consiglio d’Europa. Ha accolto in prima istanza il presunto diritto di una cittadina straniera residente in nord Italia di non avere la Croce nella classe dei propri figli perchè la Croce avrebbe minato il suo diritto a un’educazione laica. La Corte si è pronunciata in prima istanza il 3 novembre 2009, l’Italia ha fatto ricorso con l’appoggio formale di 10 paesi, ottenendo il pronunciamento in seconda ed ultima istanza della Grande Chambre, deciso il 30 settembre scorso ma non ancora reso noto. C’è anche un altro caso di grande rilevanza arrivato alla stessa Corte e non ancora sciolto: 3 donne irlandesi rivendicano il diritto di abortire nel loro paese, che per legge non lo ammette. Si pronuncerà direttamente la Grande Chambre senza passare attraverso la prima istanza.
Veniamo così all’altro aspetto fondamentale dell’attuale dibattito in tema di diritti: il braccio di ferro tra legislazione nazionale e diritto internazionale. Nel caso del Crocifisso è stato ricordato quanto la sua presenza nelle scuole sia radicata nella legislazione italiana: non solo dello Stato sabaudo come è stato erroneamente detto nella prima sentenza, ma nel diritto dello Stato liberale dei primi del novecento che peraltro era in piena tensione con la Chiesa. Non solo: è stato ricordato quanto sia radicato nel sentire religioso così come nel vissuto culturale e nella tradizione italiana. E peraltro non solo in Italia, visto che la Croce compare in bandiere del Nord Europa. Per quanto riguarda, poi, il caso dell’aborto in Irlanda, basta ricordare che il timore che abbracciare la Costituzione dell’UE significasse per il paese finire per approvare prima o poi l’aborto è stato il motivo centrale del no al referendum sulla Costituzione nel 2005. E ancora se ne parlava al momento delle campagne mediatiche sull’adesione al ridimensionato Trattato di Lisbona nel 2007. Dunque, in questi due casi il diritto internazionale rischia di piovere sulle teste dei cittadini che a livello nazionale vivono tutt’altro. Certamente il dilemma non è nuovo, tanto che sia il Consiglio d’Europa che l’Unione Europea si erano posti il problema. L’Europa allargata a 47 del Consiglio d’Europa ha stabilito il principio del “margine di apprezzamento”, in base al quale si riconosce la dialettica tra esigenze unitarie e rispetto delle diversità nazionali. Nel caso dei 27 Stati membri dell’Unione Europea si chiama “principio di sussidiarietà”: prevede che si possa legiferare a livello comunitario là dove è possibile farlo, altrimenti si deve scendere al livello dello Stato nazionale o anche delle sottostanti entità territoriali. In entrambi i casi, tradotto in parole povere, si tratta di considerare le specificità di ogni Paese, che ha la propria storia e cultura. Il punto è che si avverte una pressione più o meno strisciante a minare questi due principi. Non sarebbe cosa da poco, e non solo per Crocifisso e aborto che sono stati solo i primi temi di grande rilievo affrontati. A valanga sarebbero travolti molti altri. Eppure i totalitarismi del secolo scorso, dal cui orrore è sorta la spinta a creare le strutture sovranazionali che potessero difendere pace e rispetto contro le derive nazionaliste, dovrebbero sempre ricordare a tutti che non è cancellando la coscienza e il suo spessore culturale che si costruisce una società migliore. Non è con l’appiattimento dei popoli su un unico standard che si costruisce una società di valori. Significava e significa ben altro l’impegno dei padri dell’Europa a mettere nero su bianco valori universalmente condivisibili. Per il bene comune e non per l’annullamento comune delle identità.  Novembre 2010

Pedofilia

Un quadro della Via Crucis come tanti ma diverso da tutti: rappresenta il dolore di un abuso sessuale. 45 anni dopo, il bambino violato da una suora è diventato un artista che dice di non essere mai riuscito a rimuovere del tutto i fatti. Il 9 agosto scorso ha accettato di tornare all’Opera serafica di Merano dove era stato accolto perché orfano, per incontrare l’attuale direttore, Peter Hofer, e la madre Superiora delle Suore terziarie, Klara Rieder. Loro, a nome della Chiesa, hanno chiesto perdono a Peter Paul Pedevilla, in arte Peter Verwunderlich. Lui si è lasciato stringere la mano visibilmente scosso e non ha chiesto soldi. Ha chiesto che quel quadro con il suo dolore rimanga nell’Istituto. E’ solo un episodio ma racconta qualcosa di quel “lungo processo di ripresa e di rinnovamento ecclesiale” che Benedetto XVI ha chiesto alla Chiesa dopo le ferite della pedofilia “inferte al corpo di Cristo”. Un cammino che si è aperto portando speranza nuova anche se purtroppo è sembrato iniziare tardi: è sempre troppo tardi quando non si risparmia dolore. C’è anche una tappa significativa a livello giuridico, segnata sempre ad agosto. Si tratta della chiusura del caso Kentucky, dove oltre a rivendicare giustizia per vittime di abusi si era alzato il tiro facendo causa alla Santa Sede in quanto ritenuta responsabile finale. Dopo sei anni di causa, l’avvocato delle tre vittime coinvolte, William McMurry, ha annunciato la decisione di rinunciare. Secondo l’avvocato del Vaticano, Jeffrey Lena, è stato dimostrato che la causa era sbagliata nel merito. Peraltro lo stesso McMurry ha ricordato che almeno una delle vittime che aveva intentato causa al Vaticano è tra quanti hanno raggiunto già un accordo con le diocesi. Nello Stato del Kentucky l’arcidiocesi di Louisville si è impegnata per un risarcimento di 25 milioni di dollari.
Il processo di risanamento  è fatto di percorsi e tappe diversi. In Irlanda la prossima tappa comincia ora, in autunno: i prelati nominati dal Papa “visitatori” stanno per partire per andare a vedere come stanno le cose in Diocesi, seminari, congregazioni religiose. Ma la consapevolezza e l’allerta sono per tutte le diocesi del mondo, dopo che lo scandalo, scoppiato negli Stati Uniti nel 2002, è riscoppiato quest’anno in Irlanda, in Germania e in altri Paesi d’Europa. Non è più tempo di chiacchiericci. E’ tempo per tutta la Chiesa di “stare più umili”, di “chiedere a Dio la grazia di essere all’altezza dei sacrifici che ci vogliono per superare errori e mediocrità”. E’ quanto raccomanda, parlando con Area, mons. Domenico Sigalini, presidente della Commissione episcopale per il laicato della CEI. E’ vescovo di Palestrina e assistente ecclesiastico dell’Azione Cattolica. “I giovani chiedono radicalità – ci dice – e le vicende della pedofilia nella Chiesa sono state per loro una coltellata alle spalle”. Dei media che hanno denunciato, mons. Sigalini dice che “hanno svolto una funzione positiva”. E aggiunge: “C’è altro male nella Chiesa che i giornali non scrivono: esiste come esiste l’impegno di tanti per chiedere a Dio che aiuti la sua Chiesa fatta di peccatori”. Mons. Sigalini ricorda che “abbiamo avuto in passato papi indegni di essere vicari di Cristo” e sottolinea che la Chiesa deve saper guidare la purificazione. “Benedetto XVI – afferma – ha saputo far chiarezza”.
Benedetto XVI ha espresso “vergogna e rimorso”, ha parlato di “danno immenso provocato alle vittime”, di “seri errori commessi nel trattare le accuse”, di “procedure inadeguate per determinare l’idoneità dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa”,  di giustizia di Dio che “esige che rendiamo conto delle nostre azioni senza nascondere nulla”. Ai colpevoli ha detto: “Dovete rispondere davanti a Dio come pure davanti ai Tribunali debitamente costituiti”. Si è espresso in particolare nella Lettera ai cattolici di Irlanda ma lo ha fatto anche in Australia, Stati Uniti, Malta. Ha incontrato più volte vittime di abusi e lo farà molto probabilmente anche in Gran Bretagna. Di fronte alla tentazione del vittimismo, ha chiarito: “Il ”pericolo più grave” per la Chiesa oggi non viene dalle ‘persecuzioni’ esterne ma dal male che la ‘inquina’ dall’interno”. Ha voluto l’aggiornamento delle norme canoniche sui Delicta graviora del 2001.
Di “progresso della cultura giuridica” parla il portavoce del Papa affermando che “le normative sono il risultato di un lavoro in corso da molti anni”. Poi però nell’intervista esclusiva ad Area ammette: “E’ certamente vero che il fatto che nei media e nell’opinione pubblica è cresciuta la consapevolezza sugli abusi ha portato anche nella chiesa a sviluppare una parallela consapevolezza dell’urgenza di normative e  protezione dei bambini”. E aggiunge: “La Chiesa profondamente colpita e umiliata si rende conto e reagisce. Sarebbe auspicabile che questo avvenisse anche nella società dove avvengono la massima parte degli abusi, non certamente limitati o concentrati nel mondo della Chiesa.”
Il piano delle norme, di cui si sentiva il bisogno, è solo un’altra tappa del cammino. Tra le pieghe di qualche percorso ci sono anche “attacchi scorretti e infondati”, come ha denunciato il Papa. Lo ha detto ai primi di agosto, pochi giorni dopo la pubblicazione da parte del settimanale Panorama del dossier su un sottobosco di relazioni omosessuali con preti a Roma. In alcuni corridoi vaticani giurano che un prete, di cui si parla nell’articolo senza indicare nominativo completo e oscurando il volto, sia stato immediatamente individuato. Sembra siano scattati seri provvedimenti. A scandalizzare in particolare era la scioltezza nel frequentare ambienti di vizio e depravazione senza peraltro nascondere di essere un prete. Ma gli “attacchi” di cui ha parlato Benedetto XVI non sono le denunce – ci spiega p. Lombardi – ma alcuni “modi di criticare la Chiesa che sono strumentali: qualcuno non mira tanto ad un’effettiva purificazione della Chiesa quanto ad attaccarla per le sue posizioni controcorrente sull’uomo e sulla famiglia, e dunque matrimonio stabile tra uomo e donna, eutanasia etc.” La vicenda degli abusi può essere per qualcuno l’occasione per “calcare la mano in modo critico”.
Negli Stati Uniti già alla fine del ‘92 il Wall Street Journal calcolava a più di 400 milioni i dollari pagati dalla gerarchia cattolica in risarcimenti. Nel 1997 la diocesi di Dallas si è impegnata a sborsare 119 milioni di dollari. Nel 2007 l’arcidiocesi di Los Angeles ha accettato di pagare la cifra record di 660 milioni di dollari a 508 vittime di molestie. Cifre da capogiro, da business. Ma p. Lombardi mette subito in chiaro: “E’ legittimo cercare un risarcimento tangibile di quanto sofferto, il riconoscimento della dignità violata e della gravità dell’abuso subito”. Però il portavoce del Papa ammette che “alcuni avvocati ne hanno fatto una fonte di guadagno, considerando diocesi o istituzioni responsabili piuttosto che le singole persone, in modo da chiedere cifre particolarmente consistenti”. Ma p. Lombardi ci tiene a sottolineare che stabilire congrui compensi o svelare eventuali strumentalizzazioni è compito dei giudici. La Chiesa deve occuparsi di altro, del suo specifico: l’ascolto. E ci confida: “Mi colpisce moltissimo che alcune persone, se si dà loro la possibilità di farlo in una forma riservata e rispettosa, parlano di quanto subito anche dopo decenni e mostrano di essere ancora in cerca di un risanamento interiore: è qualcosa di molto importante e di molto profondo”.  I centri di ascolto sono una realtà da tempo presso alcune diocesi ma certamente ora che tanto di sommerso è venuto alla luce saranno più impegnati, anche per casi prescritti secondo la legge ma non “prescritti” nell’anima. Viene in primo piano la vicenda belga e anche in questo caso ci sono stati nel mese di agosto sviluppi. Parliamo delle perquisizioni del 24 giugno scorso nella sede dell’arcidiocesi di Malines-Bruxelles e nella residenza del cardinale Godfried Danneels, nell’ambito delle indagini sugli abusi sessuali sui minori da parte di membri della Chiesa locale. Il punto è che le perquisizioni hanno significato la chiusura della commissione di inchiesta istituita dalla Chiesa e il passaggio di mano alla giustizia civile. Di nuovo c’è che la Procura generale di Bruxelles è intervenuta giudicando tali azioni “irregolari”. Bisognerà attendere ora la Corte d’Appello. Intanto l’avvocato Fernando Keuleneer, legale dell’arcidiocesi di Malines e del cardinale Danneels, definisce l’intervento della Procura “una sconfessione di quelle perquisizioni-evento” e si chiede “se ci fossero elementi concreti specifici, o se lo scopo non fosse andare ‘alla cieca’ sperando di trovare qualcosa”. P. Lombardi sottolinea che “la commissione istituita dalla Chiesa riceveva confidenze, testimonianze da parte di vittime che erano venute per farlo alla commissione della Chiesa e non al tribunale”. E aggiunge: “Se la polizia prende tutta la documentazione, perché ritiene che la Chiesa non sappia fare il suo mestiere, in un certo senso vanifica e rende impossibile lo svolgimento di questa dimensione dell’affrontare i problemi come risanamento interiore, che la Chiesa o organizzazioni che sappiano mettersi in ascolto profondo possono fare ma che non farà mai una giustizia civile e un tribunale”.
Se è vero, come è vero, che la dimensione dell’ascolto è uno specifico della Chiesa, gli uomini di Chiesa devono fare ammenda anche su questo terreno: non solo è mancato in troppi casi l’ascolto dei segnali che venivano da vittime ma anche l’ascolto dei sacerdoti: un “ascolto” appena più attento del mondo interiore e della psicologia di quelli che poi hanno commesso abusi, li avrebbe esclusi dal ministero. P. Lombardi ammette: “In molti casi si è trattato di persone che non avrebbero mai dovuto essere sacerdoti perché nella loro personalità c’erano tare, tendenze che li rendevano non adatti per il ministero e pericolosi per gli altri.”  Allarga il discorso a tutta la società per dire che “in passato c’era una cultura generale di riservatezza, non solo nella Chiesa, che ha influito negativamente e c’era anche un’idea non sufficientemente approfondita della natura psicologico-medica di tendenze alla perversione, alla pedofilia: ci si immaginava che fossero colpe o delitti di cui uno si poteva pentire e non commetterli più. Adesso si è molto più consapevoli del fatto che si tratta generalmente di tendenze profonde da cui è difficile poi cambiare.” A proposito della riduzione allo stato laicale che tanti cattolici vorrebbero accadesse più spesso, p. Lombardi dice: “Se si tratta di persone che rimangono pericolose nel ministero per gli altri, è chiaro che è meglio che lascino il ministero completamente, ma in altri casi possono essere sufficienti limitazioni molto rigide di ambienti da frequentare, di attività da svolgere.” Tanti laici hanno difficoltà a capire questi ultimi casi, ma mons. Sigalini ci invita a considerare che “qualunque padre di famiglia tenta fino all’ultimo di recuperare il proprio figlio prima di arrivare al punto di cacciarlo di casa”.
Resta da dire che tra tanti percorsi individuati, si dovrebbe parlare di più anche di quelli all’interno della società e della famiglia: se è vero che la pedofilia nella Chiesa è “una pugnalata alle spalle”, non è meno grave all’interno delle mura domestiche o in altri ambiti educativi, o non è meno aberrante in settori spesso bene organizzati e tollerati di turismo sessuale. E’ legittimo chiedersi se si sia aperta o no una stagione nuova anche in questi ambiti. Agosto 2010