La persecuzione dei cristiani in Iraq: strategia del fondamentalismo

Fermare la carneficina di cristiani in Iraq, e non solo, è dovere della comunità internazionale ma l’Europa e il resto del mondo dovrebbero innanzitutto comprendere che non c’è in gioco solo la difesa di vite umane: c’è in gioco la libertà religiosa in quanto “cartina tornasole di tutte le più importanti libertà”. A definire così la libertà religiosa è stato Giovanni Paolo II e l’attuale drammatico scenario di persecuzione contro i cristiani non fa che confermare la profondità e la profeticità di questa definizione. Il massacro nella Cattedrale di Baghdad, diabolicamente pianificato a fine ottobre solo pochi giorni dopo la conclusione del Sinodo della Chiesa cattolica sul Medio Oriente, rappresenta un triste simbolo di come il fondamentalismo e l’intolleranza cerchino di minare la libertà, partendo dalla libertà religiosa. Il Rappresentante personale della presidenza dell’OCSE contro razzismo, xenofobia e discriminazione nei confronti dei cristiani, Mario Mauro, lo ha detto chiaramente nel suo libro intitolato ‘Guerra ai cristiani’: “Le comunità cristiane documentano il dramma della libertà dell’uomo di fronte al potere”. Accanto alla voce del cattolico europarlamentare italiano, citiamo una voce laica di Oltreoceano: il Direttore  del Washington Institute’s Project on the Middle East Peace, David Makovski. Ci ha detto: “La storia insegna che non esiste una soluzione magica per pacificare il Medio Oriente e che l’unica via potrebbe essere quella di capire meglio le dinamiche in atto senza cercare grandi teorie ma investendo in piccole azioni positive”. E ha aggiunto: “Proprio quello che il terrorismo vuole colpire”. Terrorismo e fondamentalismo colpiscono ciò che è positivo e costruttivo: per questo colpiscono la libertà religiosa.
Si prende a pretesto Dio per il potere. E’ il dramma del Medio Oriente e non solo. E’ il dramma che ha insanguinato troppe pagine della storia. E che ha visto purtroppo in passato anche cristiani protagonisti di violenze. E’ ben chiaro nelle parole di Benedetto XVI nell’esortazione postsinodale ‘Verbum Domini’: “La religione non può mai giustificare intolleranza e guerre. Non si può usare la violenza in nome di Dio!”. Nella Messa conclusiva del Sinodo, il Papa ha chiesto “pace e libertà religiosa e di coscienza”. Peraltro il Papa si è unito all’appello del Sinodo per una maggiore unità tra i cristiani nelle terre che hanno visto nascere il Cristianesimo. Ha detto: “Abbiamo bisogno di umiltà, di riconoscere i nostri limiti, errori, omissioni per poter formare un cuor solo e un’anima sola”. In Medio Oriente ci sono 22 “chiese cristiane”, la Chiesa cattolica ne conta 7. Il Sinodo ha fatto emergere la ricchezza di riti antichi e diversi ma anche la povertà di antiche e nuove divisioni. Il Sinodo ha dato al mondo una lezione anche esprimendo – in sintonia con l’umiltà invocata dal Papa – un mea culpa: ha stigmatizzato il “proselitismo cristiano” di alcuni gruppi evangelici che “non fanno una doverosa riflessione sulle differenze di concetti e di atteggiamenti nei musulmani e nei cristiani prima di aprire un dialogo che non può che essere rispettoso”. E ha criticato alcuni esponenti di movimenti cattolici che “si impegnano in Terra Santa senza studiare abbastanza usanze, tradizioni, cultura e lingua locali”.
La Chiesa riconosce i propri limiti e dovrebbe fare altrettanto la comunità internazionale. Il Papa dal Sinodo ha lanciato un appello che non dovrebbe rimanere inascoltato: “I governi delle Nazioni garantiscano a tutti la libertà di coscienza e di religione, anche di poter testimoniare la propria fede pubblicamente”. E nella lettera che ha inviato, poco dopo per mano del card. Tauran, al presidente iraniano Ahmadinejad, in risposta a una sua missiva, ha ricordato che “il rispetto della dimensione trascendente della persona è condizione per la costruzione della pace, così come il dialogo interreligioso e interculturale è via importante per la pace”. Il dialogo presuppone la libertà religiosa.
In Oriente libertà di religione vuol dire solitamente libertà di culto. Non si tratta dunque di libertà di coscienza, cioè della libertà di credere o non credere che il Cristianesimo difende, di praticare una religione da soli o in pubblico, di cambiare religione. In Oriente la religione è, in generale, una scelta sociale e perfino nazionale, non una scelta individuale. Cambiarla è ritenuto un tradimento verso la società.
Da 7 anni, dall’intervento militare in Iraq, gli analisti guardano a quanto accade a Baghdad come a un paradigma di quanto potrebbe accadere in tutto il Medio Oriente. Il dittatoriale ma laico Stato dell’Iraq si è bruscamente aperto alla democrazia ma anche al fondamentalismo. Rappresenta un difficile banco di prova per tanti equilibri. Ma dell’Iraq non si parla nei nostri media ad eccezione di resoconti frettolosi degli episodi più gravi di violenza: solo la punta dell’iceberg della mattanza quotidiana. Non si racconta la sfida inarrivabile per un governo di unità nazionale durevole. Non si racconta abbastanza il dilagare del fondamentalismo. Così come non si racconta la difficile fase politica del Libano. Altro Paese paradigma: il Paese dei cedri è l’unico nel Medio Oriente dove i cristiani hanno avuto una rappresentanza politica. E soprattutto, le più alte cariche dello Stato sono assegnate ai tre gruppi religiosi principali: il presidente della Repubblica è cristiano maronita, il primo ministro è sunnita, il presidente del Parlamento è sciita. E questo ha un valore grandissimo perchè alcuni dei massacri quotidiani che avvengono in Iraq, in Afghanistan e in Pakistan sono dovuti a lotte fratricide tra diverse componenti o correnti dell’Islam. La minoranza sciita è oggetto di attacchi tanto quanto altre minoranze. Dunque se è vero che i cristiani sono perseguitati in nome di un’errata e strumentale sovrapposizione tra Cristianesimo e Occidente e in quanto espressione dei valori di libertà, tolleranza e laicità positiva, è altrettanto vero che in realtà ad essere combattute dalle frange violente dei radicalisti islamici sono tutte le minoranze che non si adeguano alla logica dominante o potenzialmente dominatrice. La vera posta in gioco è solo il potere. In quest’ottica, il Libano rappresenta un esemplare esperimento di convivenza e di equilibrio tra poteri, che però è messo a dura prova negli ultimi tempi dalla preoccupante instabilità politica. Andrebbe strenuamente sostenuto dalla comunità internazionale. Del paese dei cedri, invece, non parla nessuno.
Anche di mons. Padovese si è parlato troppo poco e male. E’ quanto è emerso dal toccante intervento al Sinodo di mons. Ruggero Franceschini, successore del vescovo dell’Anatolia ucciso in casa il 3 giugno scorso dal suo autista. Del  predecessore ha difeso la memoria dalle “insopportabili calunnie fatte circolare dagli stessi organizzatori del delitto” su presunte relazioni omosessuali del vescovo martire. Mons. Franceschini non ci sta a vedere infangata la memoria di mons. Luigi Padovese e non ci sta a sentir parlare di un gesto da squilibrato e al Sinodo ha parlato chiaramente di “ultranazionalisti e fanatici religiosi” di “un omicidio premeditato da esperti della strategia della tensione, dagli stessi poteri occulti che il povero Luigi  pochi mesi prima aveva indicato come responsabili dell’assassinio di Don Andrea Santoro, del giornalista armeno Dink e dei quattro protestanti di Malakya”. Resta la considerazione del Papa: “Questo assassinio non può essere attribuito alla Turchia e ai turchi e non deve oscurare il dialogo”. Ribadito questo, va detto che nella laica Turchia l’uccisione di Don Santoro, a febbraio 2006, e quella di mons. Padovese, quattro anni dopo, rappresentano un inquietante segno del dilagare del fondamentalismo. Anche di questo non si parla abbastanza. Mons. Franceschini al Sinodo ha aggiunto: “La Chiesa di Anatolia è a rischio sopravvivenza: ve ne faccio partecipi con un tono di gravità e urgenza”. Poi lo slancio del pastore: “Voglio tuttavia rassicurare le chiese vicine, in particolare quelle che soffrono persecuzione e vedono i propri fedeli trasformarsi in profughi, che come Conferenza Episcopale turca saremo ancora disponibili all’accoglienza e all’aiuto fraterno, anche oltre le nostre possibilità”. Questa è la forza dirompente del Cristianesimo che tanto dà fastidio al fondamentalismo nel Medio Oriente. In Turchia a fine ‘800 i cristiani erano 4 milioni, oggi sono meno di 100.000; in Iraq solo nel 2004 se ne sono andati 40.000 cristiani; nella culla del Cristianesimo, a Betlemme, non troppo tempo fa i cristiani rappresentavano il 70% della popolazione, oggi su 35.000 abitanti sono meno di un sesto. Anche se bisogna dire che in alcuni Paesi del Medio Oriente dopo anni di abbandoni oggi si registra un’immigrazione da Paesi cattolici come le Filippine. Ma ad essere ingombrante è il messaggio di amore, di pace e libertà, al di là dei numeri. La comunità internazionale dovrebbe agire, ma prima dovrebbe capire la piega che ha preso la crescita esponenziale di un certo Islam politico iniziata dagli anni ’70 e quello che rappresenta il Cristianesimo.
L’Islam tende ad essere onnicomprensivo: religione, società e politica sono un unicum. La laicità statale è processo incompiuto. Quando questo unicum è in mano al radicalismo è Sharia e intolleranza. Quando il radicalismo è in mano ai violenti è terrorismo. Di fronte a tutto ciò non andrebbe dimenticato il concetto di laicità positiva difeso dalla Chiesa cattolica. In sostanza significa distinguere il ruolo della religione da quello dello Stato ma non negare il ruolo anche pubblico della religione. Ma in questa fase storica sembra che in Occidente non si capisca più a pieno il valore della laicità positiva: sembra offuscata dal pregiudizio del laicismo, cioè la posizione radicale di quanti vorrebbero far fuori completamente la religione da ogni ambito o dibattito pubblico relegandola alla sfera privata. Una posizione che rischia di essere radicale tanto quanto il radicalismo islamico o i fondamentalismi del secolo scorso.
A questo proposito è interessante ricordare alcune parole di mons. Luigi Padovese raccolte insieme con altre nel bel libro che gli è stato dedicato con il titolo di “come chicco di grano”, Edizioni Terra Santa, a cura di Giuseppe Caffulli. Si tratta di parole pronunciate in un intervento fatto l’11 ottobre 2009 nella Basilica di San Marco a Venezia, dove era stato invitato a parlare della realtà dei cristiani in Turchia. Mons. Padovese, dopo aver parlato della Turchia e di Don Santoro come un uomo che voleva essere ponte tra Occidente e Oriente, interrogava le coscienze dicendo: “A molti cristiani oggi in Europa è difficile pensare la religione al di fuori di una concezione individuale e intimistica, a volte è perfino difficile affermare in pubblico che si ha una fede privata, confessare a parole la propria fede; c’è anche un diffuso timore di trattare temi religiosi”. Queste parole restano come un monito all’Europa e all’Occidente: con questi timori si viene meno alla sfida decisiva di difendere la laicità positiva di fronte al fondamentalismo che caccia, stupra, uccide i cristiani, proprio per le libertà che testimoniano.  Dicembre 2010