La rivoluzione di Papa Francesco

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La rivoluzione datata di Papa Francesco tra “normalità” e “semplicità”

Tra “normalità” e “semplicità” Francesco sta operando una rivoluzione nella Chiesa. La percezione è di tutti anche se ognuno la spiega a modo suo, credenti e non credenti. La rivoluzione consiste nel ripartire con adesione profonda dal Vangelo. E’ una rivoluzione datata, con un potenziale nuovo di decisionalità. Ma non è tutto qui. C’è anche un riposizionamento tra livello vitale del messaggio cristiano e piano dottrinale.
“Dobbiamo abituarci a essere normali”, sottolinea Papa Francesco ai giornalisti in aereo di ritorno dal Brasile, rigorosamente improvvisando, senza più domande precostituite. La normalità è la valigetta portata a mano, il continuo richiamo alla misericordia e alla capacità di perdono di Dio, l’uso della parola gay, l’attitudine a condannare il peccato e a voler bene al peccatore, la mano tesa ai divorziati. Per Francesco è normale perché è quanto insegna il Vangelo. Ed è normale ricordarlo a gran voce, insieme con la “necessità di condannare” l’indegna condotta di preti come mons. Scarano, accusato di gravi traffici illeciti. Poi c’è il suo invito a studiare il tema della nullità matrimoniale ma anche la conferma della posizione già nota della Chiesa su aborto e nozze omosessuali. E normale per Francesco è stato istituire nel giro di poco commissioni per la riforma della Curia e dello Ior, centri di potere politico e economico del Vaticano. E normale è promettere che se ne vedranno presto i frutti. E poi ci sono missioni per sacerdoti in Africa o altrove avviate in 48 ore.
La normalità si sposa con la semplicità: “Dio ci chiede in questo momento più semplicità”, spiega. E fa fuori abiti e troni regali, abita in una residenza più che essenziale, viaggia in aereo senza il consueto lettino, in uno dei tanti posti come gli altri. Ma la semplicità di Francesco non è racchiusa solo in queste scelte. Si esprime soprattutto nell’essenzialità dei messaggi più rivoluzionari, ma meno ripresi, con cui ripropone la bimillenaria rivoluzione di Cristo che ha sentenziato: non si può servire Dio e Mammona, richiamando al rischio di asservirsi al denaro.  Papa Francesco senza mezzi termini denuncia: “Chi comanda oggi è il denaro”. Ma fa meno notizia di altro. Si scaglia contro “la politica economicistica senza un qualunque controllo etico, un economicismo autosufficiente”. Ma nessuno ci fa un titolo. Dichiara inaccettabile che bambini muoiano di fame e anziani non abbiano accesso a cure, ma la condanna non occupa una pagina di giornale. Condanna le lobby che si fanno “organizzazioni di potere”, ovunque siano. Lamenta che “manca un’etica umanistica nel mondo” e chiede di “stimolare una cultura dell’incontro riducendo l’egoismo”. E’ la stessa semplicità che l’ha condotto a Lampedusa, vicino agli ultimi, i migranti più disperati. In questo caso è stato accompagnato da una straordinaria copertura mediatica.
Ma la Chiesa che sta accanto ai poveri non dovrebbe meravigliare. E’ come dire che la Croce rossa si occupa dei malati o l’Onu di cercare la pace. E’ vero che spesso la Chiesa non è stata all’altezza del suo messaggio ma non si può dire che l’abbia sempre tradito e soprattutto l’opzione non è nuova e non dovrebbe sorprendere. La notizia sta nel decisionismo: Francesco è deciso a scuotere fortemente la Chiesa per riportarla accanto a chi sta nelle periferie del mondo.
Paolo VI nella Messa a conclusione del Concilio Vaticano II nel 1965 diceva al mondo: “Per la Chiesa nessuno è estraneo, escluso, lontano”. Era l’abbraccio al mondo del Concilio, voluto da Papa Giovanni XXIII, che sarà presto santo, nella convinzione che “il Vangelo non cambia ma cambia la nostra comprensione del Vangelo alla luce dei tempi nuovi”. Giovanni Paolo II ha percorso continenti nell’ottica dell’incontro e del dialogo, sulle orme di Paolo VI che fu il primo Papa a andare in Terra Santa, in India, alle Nazioni Unite. Benedetto XVI ha dedicato alla misericordia l’enciclica Deus caritas est e, a 50 anni esatti dall’apertura del Concilio, a ottobre 2012,  ha parlato di “speranza disattesa”. Papa Francesco afferma: “Il Concilio non è stato pienamente messo in pratica. In media ci sono voluti 100 anni per ogni Concilio, ora siamo a metà strada”. La filosofia è quella di Papa Giovanni XXIII: non si deve avere paura di cambiare per aderire meglio al Vangelo. E Papa Francesco dichiara: “Ci sono cose che erano utili in altre epoche, con altri punti di vista, che adesso non servono più, devono essere riorganizzate”. Ma nel frattempo che cosa è successo che rende oggi tanto rivoluzionarie certe parole di Papa Francesco che invece sono in linea con i predecessori? L’impressione di chi scrive è che in troppi casi nella vita vissuta di tanta parte della Chiesa, su impulso di zelanti uomini di chiesa, sacerdoti e laici, si metteva in atto una strisciante ma pesante sovrapposizione della logica del catechismo della chiesa cattolica, che 30 anni dopo il Concilio cercava di delineare linee dottrinali, sugli straordinari documenti del Concilio stesso che non aveva voluto essere dottrinale ma vitale e pastorale. Si è troppo spesso ridotto la trascendenza universale del Concilio all’esaltazione del catechismo, che doveva essere uno strumento. Risanare questo sfasamento, riscoprire la dimensione alta di comunione che sta prima della dottrina sembra il cuore della vera rivoluzione di Francesco.

di  Fausta Speranza in Area del 1 Agosto 2013