A 60 anni dalla Convenzione dei diritti umani: nuovi diritti nazionali e sovranazionali

L’Europa festeggia 60 anni di impegno in difesa dei diritti umani mentre discute di nuovi possibili diritti e assiste a un braccio di ferro sempre più impegnativo tra diritto internazionale e diritti nazionali. Il 4 novembre 1950 il Consiglio d’Europa presentava la Convenzione di salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali. Sei decenni dopo, non è solo anniversario ma anche acceso dibattito e attesa per scadenze importanti. A ottobre si è giocata una partita delicata all’interno dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, che vive dal 1949 proprio per la difesa dei diritti umani e che raccoglie oggi ben 47 paesi. E’ stato respinto il Rapporto della deputata britannica Christine McCafferty che avrebbe oscurato l’esercizio dell’obiezione di coscienza per chi, lavorando nel settore sanitario, rifiuta pratiche quali l’aborto o l’eutanasia. Di più: è stato sostituito con un nuovo testo in cui il diritto del personale medico all’obiezione di coscienza viene sancito in maniera esplicita. Dunque, risultato ribaltato, con buona sorpresa di tutti. A ben guardare, il diritto alla libertà di coscienza è tra i diritti fondamentali riconosciuti nel 1950, così come il diritto alla vita. L’aborto, invece, non è tra i diritti fondamentali ma viene ammesso in molti paesi come eccezione al diritto alla vita. Eppure molto lasciava pensare che ci fossero i numeri per aprire alla possibilità di equiparare il presunto diritto all’aborto al diritto alla libertà di coscienza. Non è stato possibile grazie all’azione di diversi parlamentari, tra cui l’italiano Luca Volontè promotore di determinanti emendamenti, e all’appoggio di moltissime Ong europee e diverse chiese cristiane. In prima fila lo European Centre for Law and Justice. Il direttore, Grégor Puppinck, ha rispolverato il Principio IV dei Principi di Norimberga, voluti dopo la tragedia nazista: “Il fatto che una persona agisca obbedendo al proprio governo o ai propri superiori non la solleva dalla responsabilità nei confronti della legge internazionale perché resta provvisto della facoltà di una scelta morale”. Dunque la propria coscienza innanzitutto. Poi la Raccomandazione 1518 del Consiglio d’Europa del 2001: “Il diritto alla libertà di coscienza è un fondamentale aspetto della libertà di pensiero, coscienza e religione”. Poi l’articolo 10.2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: “Il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto in conformità con le leggi che a livello nazionale disciplinano l’esercizio di tale diritto”.
Questa partita giocata alla vigilia del 60esimo ha significato che i solenni impegni della Convenzione dei Diritti Umani del Consiglio d’Europa sono ancora vivi e hanno tenuto all’insidia del documento della deputata socialista che terminerà con la fine dell’anno il suo mandato parlamentare. Ma Grégor Puppinck, parlando con Area, dopo aver espresso la soddisfazione per questo “importantissimo risultato”, assicura che “in parecchi appoggiavano l’iniziativa” e che “partite simili aspettano dietro l’angolo”. Anche in ambito di Unione Europea negli ultimi anni si è mosso qualcosa nel tentativo di vietare l’obiezione di coscienza in materie sanitario-riproduttive. Ma non è l’unico argomento sul quale si affaccia la richiesta di nuovi diritti.
Il fatto che a distanza di 60 anni l’evoluzione della società imponga qualche revisione non stupisce nessuno. Ma Marta Cartabia, docente di Diritto costituzionale all’Università Milano Bicocca, spiega ad Area un rischio preciso: “Il problema serio è che questi nuovi diritti vengono introdotti non attraverso una riflessione generale sui cambiamenti che la nostra società ha subito e quindi gli adeguamenti possibili, ma piuttosto vengono aggiunti o per via giurisprudenziale o attraverso risoluzioni, come quella tentata dalla McCafferty, votate da organismi internazionali”. Il diritto individuale non può che discendere dai principi stabiliti dalla Convenzione, ma – avverte la Cartabia – “se questi presunti nuovi diritti vengono introdotti fuori da un contesto generale vengono concepiti come assoluti”.
Fin qui abbiamo parlato di battaglie parlamentari, ma la prof.ssa Cartabia ci introduce all’altra sfida su cui riflettere: la via giurisprudenziale. Le sentenze delle Corti di giustizia, infatti, fanno scuola. Ricordiamo che l’UE ha la sua Corte che ha sede a Lussemburgo e che il Consiglio d’Europa ha la sua Corte che risiede a Strasburgo, dove sono anche i due rispettivi parlamenti. A pronunciarsi sul Crocifisso è stata la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, cioè la Corte che fa capo al Consiglio d’Europa. Ha accolto in prima istanza il presunto diritto di una cittadina straniera residente in nord Italia di non avere la Croce nella classe dei propri figli perchè la Croce avrebbe minato il suo diritto a un’educazione laica. La Corte si è pronunciata in prima istanza il 3 novembre 2009, l’Italia ha fatto ricorso con l’appoggio formale di 10 paesi, ottenendo il pronunciamento in seconda ed ultima istanza della Grande Chambre, deciso il 30 settembre scorso ma non ancora reso noto. C’è anche un altro caso di grande rilevanza arrivato alla stessa Corte e non ancora sciolto: 3 donne irlandesi rivendicano il diritto di abortire nel loro paese, che per legge non lo ammette. Si pronuncerà direttamente la Grande Chambre senza passare attraverso la prima istanza.
Veniamo così all’altro aspetto fondamentale dell’attuale dibattito in tema di diritti: il braccio di ferro tra legislazione nazionale e diritto internazionale. Nel caso del Crocifisso è stato ricordato quanto la sua presenza nelle scuole sia radicata nella legislazione italiana: non solo dello Stato sabaudo come è stato erroneamente detto nella prima sentenza, ma nel diritto dello Stato liberale dei primi del novecento che peraltro era in piena tensione con la Chiesa. Non solo: è stato ricordato quanto sia radicato nel sentire religioso così come nel vissuto culturale e nella tradizione italiana. E peraltro non solo in Italia, visto che la Croce compare in bandiere del Nord Europa. Per quanto riguarda, poi, il caso dell’aborto in Irlanda, basta ricordare che il timore che abbracciare la Costituzione dell’UE significasse per il paese finire per approvare prima o poi l’aborto è stato il motivo centrale del no al referendum sulla Costituzione nel 2005. E ancora se ne parlava al momento delle campagne mediatiche sull’adesione al ridimensionato Trattato di Lisbona nel 2007. Dunque, in questi due casi il diritto internazionale rischia di piovere sulle teste dei cittadini che a livello nazionale vivono tutt’altro. Certamente il dilemma non è nuovo, tanto che sia il Consiglio d’Europa che l’Unione Europea si erano posti il problema. L’Europa allargata a 47 del Consiglio d’Europa ha stabilito il principio del “margine di apprezzamento”, in base al quale si riconosce la dialettica tra esigenze unitarie e rispetto delle diversità nazionali. Nel caso dei 27 Stati membri dell’Unione Europea si chiama “principio di sussidiarietà”: prevede che si possa legiferare a livello comunitario là dove è possibile farlo, altrimenti si deve scendere al livello dello Stato nazionale o anche delle sottostanti entità territoriali. In entrambi i casi, tradotto in parole povere, si tratta di considerare le specificità di ogni Paese, che ha la propria storia e cultura. Il punto è che si avverte una pressione più o meno strisciante a minare questi due principi. Non sarebbe cosa da poco, e non solo per Crocifisso e aborto che sono stati solo i primi temi di grande rilievo affrontati. A valanga sarebbero travolti molti altri. Eppure i totalitarismi del secolo scorso, dal cui orrore è sorta la spinta a creare le strutture sovranazionali che potessero difendere pace e rispetto contro le derive nazionaliste, dovrebbero sempre ricordare a tutti che non è cancellando la coscienza e il suo spessore culturale che si costruisce una società migliore. Non è con l’appiattimento dei popoli su un unico standard che si costruisce una società di valori. Significava e significa ben altro l’impegno dei padri dell’Europa a mettere nero su bianco valori universalmente condivisibili. Per il bene comune e non per l’annullamento comune delle identità.  Novembre 2010