Ghana: quelle bare creative

Gli articoli del dossier: Ghana,crocevia di interessi

Donne, tutelate solo a parole
I cinesi e la corsa all’oro del Ghana
I piccoli schiavi che sostengono l’economia del Ghana
Ghana: Obloboshie, la discarica dell’Occidente
Ghana, quelle bare creative

la-bara-per-un-coltivatore-di-caffe_1112304  per un coltivatore di caffè

Il Ghana terra di contraddizioni ma anche di suggestiva vitalità: non ha rivali in tema di creatività delle bare per defunti.

la-bara-per-un-sarto_1112324  per un sarto

Nel cuore dell’Africa non meravigliano né i colori accesi né i suoni intensi né le voci animate. In Ghana la popolazione conta 100 etnie e 47 idiomi, oltre all’ufficiale lingua inglese. Non sorprende dunque la ricchezza e la varietà di tradizioni. Tra queste, una ci ha colpito più di altre. Ci siamo imbattuti in un laboratorio di costruzione di bare.

Tra pezzi di legno e pitture più o meno naturali, abbiamo incontrato giovanissimi artigiani che mettevano a punto, con grande creatività, bare pensate non per esaltare l’importanza del defunto, come spesso accade tra legni pregiati e fregi particolari in Occidente, ma piuttosto figurate per richiamare l’attività che la persona defunta ha svolto o la sua passione. Si vedono allora bare a forma di automobili, di macchina da cucire, di chicco di caffè, ma anche di lattina di bibita, di animali etc etc. Emerge una cura e una simpatia che colpiscono.

Sembra rappresentata un’altra concezione della morte e, dunque, di riflesso anche della vita. Resta una sensazione di leggerezza, di accettazione, che allarga il cuore.

da Famiglia Cristiana del 16 ottobre 2014

I piccoli schiavi che sostengono l’economia del Ghana

7000 baby pescatori in catene per assicurare pesce da esportare.

piccoli-schiavi

Gli articoli del dossier: Ghana,crocevia di interessi

Donne, tutelate solo a parole
I cinesi e la corsa all’oro del Ghana
I piccoli schiavi che sostengono l’economia del Ghana
Ghana: Obloboshie, la discarica dell’Occidente
Ghana, quelle bare creative

Appena si lascia la capitale Accra nel più prosperoso sud e, faticosamente sulle impervie strade, ci si dirige verso il centro-est e si riesce a superare la coltre di omertà, ci si imbatte nel fenomeno dei baby pescatori, sfruttati sulle rive del fiume Volta e del Lago Volta. Spesso sono legati alle imbarcazioni perché non si distraggano.

A Kumasi abbiamo incontrato Bernard Fianku, direttore della casa Abram Kessy, a un’ora e mezzo dalla città in una zona di foresta tropicale. Il centro è sorto su iniziativa delle Onlus americana Touch a life e della italiana Una chance, fondata da Patrizia Contri. Da un anno il timone del centro è passato al ghanese Bernard Fianku, segno di un passaggio di responsabilità significativo.

Fianku, che ha un curriculum di alto livello in tema di questioni sociali e pedagogiche, ci racconta dei 46 ragazzini tra gli 8 e i 13 anni che sono faticosamente riusciti a strappare al sistema di schiavitù, che cattura circa 7000 minori in Ghana. Sono ospiti del Centro a Kumasi. Visi segnati dalla sofferenza ma anche illuminati da un amore che fino a poco tempo fa non sapevano esistesse. Fianku ci dice della difficoltà di combattere contro i gruppi organizzati malavitosi ma anche della grande difficoltà di sradicare una mentalità diffusa. In alcuni casi, ci racconta, bambini riscattati dagli schiavisti e restituiti alle famiglie sono stati di nuovo venduti dalle famiglie stesse a nuovi schiavisti.

da Famiglia Cristiana del 16 ottobre 2014

I cinesi e la corsa all’oro del Ghana

Gli articoli del dossier: Ghana,crocevia di interessi

Donne, tutelate solo a parole
I cinesi e la corsa all’oro del Ghana
I piccoli schiavi che sostengono l’economia del Ghana
Ghana: Obloboshie, la discarica dell’Occidente
Ghana, quelle bare creative

In Ghana i cinesi invadono ma non hanno affatto la vita facile che hanno in altri Paesi africani. di Fausta Speranza

cinesi-nel-nord-del-ghana_1112291

Si chiamano galamsey operator, sono i cercatori d’oro illegali. Sono soprattutto cinesi. Arrivati in Ghana in numero massiccio negli ultimi tre anni: almeno 35.000, provenienti in particolare dalla regione cinese di Guangxi Zhuang. Non si sa come siano entrati illegalmente nel Paese ma si sa che 4500 sono stati espatriati nel solo 2013. Le autorità hanno provveduto all’espatrio per le gravi tensioni sociali che si erano create con la popolazione. Di fatto sono stati i pacifici ghanesi a dichiarare guerra a questo esercito di illegali arrivato con materiale tecnologico all’avanguardia per l’estrazione dell’oro.

In particolare parliamo della regione dello Ashanti, a nord di Accra ma ancora in zona quasi centrale del Paese. Gli episodi di violenza sono avvenuti soprattutto nei villaggi intorno a Obuasi, ma anche nella zona di Nsuaem Kyekyewere, che sta nella cosiddetta regione centrale che, a dispetto del nome, penetra nella zona nord del Ghana. In modo fraudolento, ignorando le autorizzazioni governative necessarie per lo sfruttamento delle miniere nel Paese, i cinesi fanno fortissimi ricavi. Ma sono stati oggetto di veri e propri attacchi da parte della popolazione che si è vista colpita in quella che da sempre è la prima risorsa del Ghana, l’oro. Basti ricordare che il tratto di costa ghanese sul Golfo di Guinea è stata denominata dai colonizzatori inglesi la Gold Coast.

In Ghana ti raccontano che i cinesi, asserragliati nelle foreste e impegnati solo di notte nell’estrazione furtiva nelle miniere, assaltano i villaggi e stuprano le donne.

Ma si capisce presto che sono storie raccontate per alimentare l’odio. In realtà risulta che controllino ormai la metà delle oltre 100 tonnellate di oro ricavate all’anno. E questo basta per essere invisi. All’inizio, in realtà, sono stati accolti con favore e stupore perchè avevano macchinari che semplificavano di gran lunga le metodologie locali. Ma poi la gente si è accorta che a beneficiarne erano solo i cinesi. Una consapevolezza presto assunta che colpisce, pensando ai tanti Paesi dell’Africa che consegnano risorse e terre a personale cinese che non chiede tutti i vincoli che l’Europa pretende in termini di diritti umani e rispetto dell’ambiente e che paga in contanti.

Ma bisogna ben focalizzare che la reazione delle autorità è arrivata in Ghana solo dopo fortissima pressione dal basso. I governi di Accra e Pechino firmano accordi significativi per investimenti in costruzioni e infrastrutture. Come dire, Accra ha accompagnato alla frontiera tanti illegali mentre prepara ben più numerosi legittimi visti. In barba al legame preferenziale e d’eccezione con Usa, Europa, Onu.

da Famiglia Cristiana del 16 ottobre del 2014

Donne, tutelate solo a parole

E’ rosa una pagina ogni giorno dei giornali in Ghana ma le prime vittime del traffico di esseri umani sono donne.  di Fausta Speranza

bambina-ghanese-in-un-villaggio-vicino-al-fiume-volta_1112174

Gli articoli del dossier: Ghana,crocevia di interessi

Donne, tutelate solo a parole
I cinesi e la corsa all’oro del Ghana
I piccoli schiavi che sostengono l’economia del Ghana
Ghana: Obloboshie, la discarica dell’Occidente
Ghana, quelle bare creative

In Ghana, su indicazione delle Nazioni Unite, ogni giorno una pagina dei quotidiani viene dedicata per legge alla questione femminile. Un provvedimento che proietta il Ghana all’avanguardia sul tema. Ma che non squarcia ancora il velo su diverse emergenze rosa. Dalla confinante Costa d’Avorio e dalla vicinissima Nigeria, transitano in Ghana migranti verso l’Europa. Non solo: arrivano in Ghana in migliaia anche da Paesi asiatici come lo Sri Lanka. Non siamo di fronte ai percorsi che da diverse zone dell’Africa portano alle coste del Nord Africa e alle drammatiche carrette nel Mediterraneo, ma siamo di fronte a un altro tipo di tratta: un traffico di passaporti riciclati.

Qualcuno in Ghana ci ha parlato di donne nigeriane che ad Accra prendono passaporto ghanese per passare più facilmente le frontiere in modo regolare. Ma nessuno è disposto a dichiararlo mettendoci la faccia. L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, che ha un ufficio ad Accra, apertamente, on the record, ci ha confermato solo il caso di diverse centinaia di asiatici finiti su strada nel 2013, dopo aver pagato trafficanti di uomini che li fanno giungere in modo illegale in Ghana con la promessa di portarli poi in Canada. Ma in Ghana vengono abbandonati a loro stessi. Tra questi molte donne che finiscono nel giro della prostituzione. In tema di donne c’è poi una tradizione antica che risale al XVII secolo e che è durissima a morire.

E’ il fenomeno delle Trokosi, cioè letteralmente le spose-schiave del dio. Si basa sulla convinzione che si possa cancellare colpe di uomini delle famiglie donando una giovanissima della famiglia stessa a un uomo riconosciuto come divinità che abita in una sorta di santuario. In Ghana sopravvivono un migliaio di queste assurde strutture. Si concentrano soprattutto nella regione del Volta, ma ce ne sono anche nell’area urbana intorno alla capitale.

L’età delle giovani, che devono essere vergini, varia tra i 6 e i 10 anni. Saranno per la vita dedicate a quell’uomo, a disposizione dei suoi bisogni sessuali, segnate nel vestiario da un abbigliamento tradizionale scarno e fatto di teli di iuta, rigorosamente senza calzature. In alcuni casi, dopo anni l’uomo le lascia andare ma le famiglie difficilmente le riaccolgono e vagano per il Paese. Sono considerate creature folli o streghe. Se si chiede in giro, nessuno nega che esistino ma nessuno ti aiuta ad incontrare qualcuna di loro.

Di questioni femminili e di Trokosi abbiamo parlato con Afua Ansre, che abbiamo incontrato nel suo ufficio Onu ad Accra. Oltre a confermarci che il fenomeno è tutt’altro che superato ci ha dichiarato: “Non sento mai politici ghanesi parlare di trokosi”. Anche se c’è una pagina rosa al giorno da riempire.
da Famiglia Cristiana del 16 ottobre 2014

AGROALIMENTARE E TESSILE, DOVE IL TTIP PUO’ CONVENIRE ALL’ITALIA

AGROALIMENTARE E TESSILE, DOVE IL TTIP PUO’  CONVENIRE ALL’ITALIA

Gli industriali italiani prevedono un forte incremento delle esportazioni verso gli Usa. Ecco perché.

Gli articoli del dossier
di Fausta Speranza
“TTIP, più politica che economia”

.

Ttip, l’Europa in difficoltà per eccesso di regole

Ttip, le critiche di chi non lo vuole

Agroalimentare e tessile, dove il Ttip può convenire all’Italia

Il settore agroalimentare e quello tessile sono indiscutibilmente il cuore del Trattato commerciale  tra Ue e Usa. Al momento è quanto emerge da tutti i documenti che si possono prendere in considerazione. Risulta evidente, dunque, che tra i Paesi maggiormente interessati c’è l’Italia.

Secondo Confindustria, con il TTIP in Italia verrebbero assicurati almeno 30.000 nuovi posti di lavoro. Al momento, il volume di scambi nel solo settore agricolo tra Roma e Washington è quantificabile in 2,5 miliardi di dollari l’anno. Ma bisogna ricordare che attualmente sono significative le limitazioni all’esportazione dall’Italia in Usa di prodotti ortofrutticoli, sempre per motivi di standard di produzione o ispezioni, di dazi e quote di mercato. Si può immaginare il vantaggio se le limitazioni venissero rimosse.

Ma non siamo ancora al vero core business, se non parliamo di formaggi. Attualmente, ci fa notare Anthony Gardner, ambasciatore Usa presso l’Unione Europea, gli americani stanno scoprendo sempre di più il cibo di qualità. Gardner ci dice che nel 2013 la vendita di formaggi italiani esportabili ha subito un’impennata del 200% rispetto all’anno precedente. Bisogna ricordare che i formaggi pastorizzati al momento non sono esportabili per differenze normative negli standard di pastorizzazione. Superare tutto ciò, con il TTIP, significherebbe spalancare per la ricchissima produzione italiana di formaggi spazi notevoli di mercato. C’è poi il peso delle quote stabilite di mercato. Per esempio, attualmente dopo una certa quantità di un certo tipo di formaggio esportato, scatta un aggravio del dazio. E’ un caso di barriere tariffarie oltre i dazi, in via di rimozione con il TTIP.

Si dovrebbe aprire a dovere il capitolo dei vini italiani, sempre più amati dagli americani raffinati, ma sostanzialmente, si tratta di dinamiche analoghe. Bisogna piuttosto ricordare che sono 1400 i prodotti italiani per i quali l’Italia si distingue tra i primi 5 paesi del mondo, dall’agroalimentare al tessile, al pellame, solo per citare alcuni ambiti.

TTIP, LE CRITICHE DI CHI NON LO VUOLE

TTIP, LE CRITICHE DI CHI NON LO VUOLE

Privacy, prodotti Ogm, concorrenza sleale… Ecco che cosa teme chi non vuole il Ttip.
langeBernd Lange (foto F. Speranza).

Vista dalla parte dei critici, l’approvazione del TTIP aprirebbe la porta agli Ogm e alla carne agli ormoni, oggi leciti negli Usa e banditi in Eu. Non solo, spazzerebbe via i paletti in tema di rispetto della privacy che distinguono il Vecchio dal Nuovo Continente e lascerebbe inondare il mercato europeo di audiovisivi americani. Sull’onda di questi rischi, in varie piazze europee ci sono state e sono annunciate manifestazioni di protesta. La più consistente a Berlino: 250.000 persone. Ma c’è bisogno di distinguere tra leggende metropolitane e reali prospettive e soprattutto c’è bisogno di capire meglio quello che già accade sulle nostre tavole.

La carne agli ormoni è questione fuori dalla sfera negoziale. Il bando è insito nei Trattati fondanti l’Ue e non può, in nessun modo, essere rivisto da semplici negoziatori. Il TTIP, dunque, potrà rivedere dazi, barriere non tariffarie che riguardano la sola carne senza ormoni, che pure si produce negli Stati Uniti.

Ma se con gli Usa ci sono regole e altre si tenta di scriverne, nel frattempo la globalizzazione sta imponendo, senza troppe discussioni e manifestazioni, uno status quo non trascurabile. Facciamo un esempio: attualmente il 40% della produzione mondiale di maiale e derivati viene dalla Cina. L’immissione nel mercato anche europeo avviene attraverso meccanismi più diversi ma sicuramente senza tutti i vincoli che vigono tra paesi occidentali. Altro prodotto: il pollo. L’Ue non importa pollo dagli Stati Uniti perché, nella fase di disinfestazione, si usa una sostanza, la clorina, in misura non accettata da Bruxelles. Ma in Europa si mangia pollo proveniente dal Vietnam e dalla Cambogia, senza che questo desti particolare sospetto, perchè il percorso è diverso, gestito da quella sorta di far west che caratterizza questa fase di sostanziale inadeguatezza di regole vecchie a un mondo nuovo e di assenza di nuove regole appropriate. In caso di accordo su standard comuni tra Ue e Usa, certamente anche questi paesi sarebbero chiamati ad adeguarsi.

C’è anche un altro punto sensibilissimo per i critici del TTIP: gli Ogm, anche questi vietati in Europa e permessi negli Stati Uniti. Anche qui si tratta di un veto imposto da norme fondanti che non possono essere messe in discussione da politiche commerciali. Ma anche qui bisogna guardare allo stato di fatto. L’europarlamentare Paolo De Castro, del gruppo socialisti e democratici,  assicura a Famiglia Cristiana che 400.000 tonnellate di soia per nutrire gli animali vengono importate in Europa ogni anno da Usa e Brasile e che si tratta di soia Ogm. Parliamo, ci spiega De Castro,  del 90% delle proteine vegetali che compongono i mangimi in Europa. Dunque, non sembra proprio che gli Stati Uniti abbiano bisogno del TTIP per promuovere il prodotto.  E, a guardare ancora meglio, si scopre che la Cina ha cominciato a comprare questo prodotto dagli Usa, con domanda crescente ogni anno, assicurando un’eventuale alternativa a Washington.C’è poi lo scottante tema della privacy, diversamente tutelata in Eu o Usa. E su questo si accaniscono le proteste dei critici del TTIP. Bernd Lange, relatore sul Trattato della Commissione Commercio Internazionale, INTA, dell’Europarlamento, sostiene, carte alla mano, che la privacy in nessun modo rientra tra i temi discussi. E’ la stessa convinzione che ci esprimeHiddo Houben, negoziatore per la Commissione Europea sul TTIP, che ci ricorda il riferimento all’interno del Trattato di Lisbona, spiegandoci ancora una volta che mai negoziatori di politiche commerciali potrebbero cancellare un assioma del Trattato in vigore dal 2009.

Sull’altro tema sollevato dai critici, quello relativo alla produzione di audiovisivi con il presunto rischio di vedere affondato definitivamente il cinema d’autore in Europa dal dilagare della produzione statunitense, entrambi ci spiegano che il settore audiovisivo è semplicemente fuori da qualsiasi punto in discussione per il TTIP. Leggiamo le 28 pagine di mandato a trattare pubblicate sui siti ufficiali delle istituzioni europee e in effetti non compare.

Qualcuno scrive inoltre che il Trattato transatlantico costringerà i governi a privatizzare i servizi pubblici, ma nessuno dei movimenti che alimentano le manifestazioni, a partire dal gruppo Tsipras o del Movimento 5 Stelle rappresentati a Strasburgo, ci sa spiegare in che modo avverrebbe.  C’è poi il divieto stabilito in Ue di esperimenti su animali per la produzione di trucchi, deodoranti, cosmetici, che avvengono invece in Usa. Anche qui si discute delle paure di abbassamento degli standard europei ma non si discute del fatto che intanto dalla Cina arrivano prodotti senza nessuna certificazione adeguata a questi  standard, in particolare in Italia. E non si ricorda che in Europa si sono sviluppate alternative alla sperimentazione animale che gli Stati Uniti stanno prendendo in considerazione. Forse, arrivare a un accordo forte tra sponde dell’Atlantico potrebbe solo rafforzare il peso di certe posizioni.C’è anche un altro aspetto da considerare: è urgente una normativa che argini il fenomeno del ‘faking it’, cioè la contraffazione di prodotti, in particolare, se parliamo di TTIP, di prodotti alimentari. Non avviene solo in Cina, maestra nel settore. Sono pieni anche gli scaffali dei negozi statunitensi di prodotti made in Usa che esibiscono etichette che fanno seriamente pensare a produzioni made in Italy o in Spain. Pensiamo a confezioni di olio di oliva o al parmigiano reggiano.Le scritte sono studiate ad arte per essere equivoche e fuorvianti e spesso compare il nome del paese europeo con accanto la relativa bandiera, anche se nulla di quel prodotto è originale. Una normativa seria, all’intero del TTIP, può arginare il fenomeno che comporta una notevole perdita di mercato e di valore di mercato per i prodotti europei. Un solo esempio: un cittadino americano compra una porzione di parmisan, che lascia pensare di essere italiano, e identifica il sapore che imita l’originale pensandolo l’originale: si ritrova a pensare che non sia così diverso da prodotti Usa e non spenderà di più per brand italiani, neanche in altri casi. Se fosse vero prodotto italiano o spagnolo o greco, invece, la differenza di sapore si sentirebbe.

TTIP, L’EUROPA IN DIFFICOLTÀ PER ECCESSO DI REGOLE

TTIP, L’EUROPA IN DIFFICOLTÀ PER ECCESSO DI REGOLE

La mancata armonizzazione delle regole e degli standard tra i 28 Paesi della Ue mette l’Europa in difficoltà nella trattative commerciale con gli Usa.

Elena Bryan.

 

Gli articoli del dossier
di Fausta Speranza
“TTIP, più politica che economia”

 

.

Ttip, l’Europa in difficoltà per eccesso di regole

Ttip, le critiche di chi non lo vuole

Agroalimentare e tessile, dove il Ttip può convenire all’Italia

 

Un punto chiave del TTIP è la creazione di tribunali privati internazionali per dirimere eventuali controversie tra investitori e Stati. Le cause sono già possibili ma passano attualmente per tribunali statali che tendono a tutelare gli interessi dello Stato e che solo grandi multinazionali possono affrontare. Si creerebbe un’entità indipendente con standard comunemente accettati, che dovrebbe rappresentare una possibilità concreta per piccole e medie imprese che attualmente non possono sostenere direttamente una causa con uno Stato. Si è discusso tanto di questi tribunali a partire dalla sigla ISDS, che sta perInvestor-State Dispute Settlement. Ora sembra si stia imponendo la definizione più semplice diInvestment Care System. Dovrebbe trattarsi, in ogni caso, di un giudizio di primo grado, più appello.

Il punto è che il tema dei tribunali è esemplare delle difficoltà dell’Europa nel negoziare il Trattato transatlantico. Lo capiamo bene parlando con Elena Bryan, Rappresentante per il commercio della Missione degli Stati Uniti presso l’Unione Europea. A Famiglia Cristiana ricorda che nella sola Europa, tra i vari Stati membri, ci sono in vigore 250 diversi accordi di arbitrato. Tra Paesi Ue e Usa, ce ne sono nove. Cercando di saperne di più, scopriamo che la proposta della Commissione Europea sugli ISDS o ICS, che dir si voglia, non è ancora pervenuta all’altra parte. Si focalizza, dunque, immediatamente che l’Europa che negozia standard comuni Oltreoceano non ha ancora standard comuni al suo interno.

Guardiamo a un altro ambito: al settore farmaceutico. Bruxelles e Washington tentano di superare i costi e le lungaggini dovute alla moltiplicazione di ispezioni: i controlli sui farmaci, infatti, seguono protocolli diversi, pur trattandosi di farmaci con gli stessi componenti. Questo obbliga a passaggi ripetuti e costi moltiplicati. Ma bisogna guadare dentro casa nostra e prendere atto del fatto che, al momento, anche alcuni medicinali approvati in un paese Ue non possono essere approvati automaticamente in altri Stati membri.

Altro tema centrale è la questione dello scambio di dati sensibili. La normativa di Bruxelles è più restrittiva rispetto a Washington e l’ultima normativa Usa, denominata Safe Harbour, non aiuta. Non è tema da poco e il braccio di ferro da parte dell’Ue è importante. Ma anche qui va affrontato con la dovuta consapevolezza che, se è vero che in sede di Commissione Europea e di Europarlamento sono state date linee guida inequivocabili, è vero anche che i singoli paesi non si sono sempre adeguati e continuano a viaggiare con diversi distinguo nazionali. Per esempio, per quanto riguarda le indicazioni di tracciabilità in cui non c’è armonizzazione.

Diversità, o meglio divergenza, si registra anche in relazione ai prodotti più interessati dallo slancio agli scambi. I paesi del Sud Europa producono  quei formaggi e quei vini che le tavole degli americani aspettano. E, dunque, il Trattato risulta una gran bella prospettiva per allargare le vendite. Ma i paesi del Nord Europa, per esempio,  sono forti, piuttosto, nella produzione di carne e il TTIP aprirà, superando gli ostacoli, all’importazione di carne bovina made in Usa. In questo caso, non suona come un vantaggio, ma come concorrenza, per paesi come la Danimarca. Va ricordato che nella filiera di approvazione dei singoli passi negoziali, da una parte, c’è il filo diretto tra negoziatori Usa e relativo potere politico, mentre, dall’altra parte, il tutto passa per la discussione e l’approvazione di 28 governi. Si tratta di una catena di comando più articolata e complicata, attraverso la quale non possono non emergere interessi tanto diversi.

C’è poi un aspetto che colpisce su tutti, perchè in qualche modo li investe tutti. Le diverse normative nei diversi paesi Ue in tema di cittadinanza rappresentano maglie larghe attraverso le quali, al momento, investitori statunitensi, o perchè no cinesi, possono aggirare dazi e barriere non tariffarie. Pensiamo alla nuova normativa di Malta che permette l’acquisto, ad un prezzo di 250.000 euro, della cittadinanza dell’isola, e dunque europea. Per un facoltoso imprenditore che volesse venire a fare affari in Europa, sarebbe facile, con una spesa per lui relativa, aggirare gli attuali ostacoli di dazi e barriere non tariffarie o investimenti.

In considerazione di tutto ciò, immaginando i tempi possibili di approvazione del Trattato, viene in mente che non è solo alle elezioni americane che si deve guardare. Ci sono anche elezioni di casa nostra da considerare, fattore in genere di forte rallentamento dei processi di integrazione e di ripiegamento interno. Fanno pensare, dunque, diverse scadenze oltre al voto presidenziale in Usa: in Germania le amministrative nel 2016 e le federali nel 2017, in Francia il voto presidenziale nel 2017.

Wifi più che cibo e coperte

wifi-piu-che-cibo

PAURA E SPERANZA: IN

UNGHERIA TRA I PROFUGHI

Gli articoli del dossier

– Orban e gli ungheresi “traditi dalla storia”
– Il braccio di ferro tra Orban e la UE
– Anche nei Balcani, Italia in prima linea
– Wifi più che cibo e coperte

Siamo al punto di svolta dove i profughi sanno che se salgono su uno degli autobus che vedono in lontananza saranno in Europa davvero. di Fausta Speranza

bambino-siriano

Il bambino siriano in cerca di una connessione internet per poter comunicare con i parenti e amici, anche loro profughi (foto F. Speranza).

Un bambino un po’ paffuto vede il microfono e ci corre incontro strillando: “www”. Il papà lo richiama e ci spiega: “Sono giorni – dice – che non facciamo che parlare della necessità di connessione digitale per tornare in contatto con familiari rimasti indietro o in viaggio su un’altra rotta; abbiamo bisogno come il pane di google map per orientarci”. Per questo il bambino, appena ha visto qualcuno diverso entrare nel campo, ha chiesto la world wide web. Il papa’ lo sgrida e lui ne resta contrariato. Ma poi ci sorride e, non soddisfatto, chiede: “Internet, Internet”. Raccontiamo l’episodio a esponenti della Croce Rossa che ammettono:  è la prima crisi in cui ci sentiamo chiedere wifi più che cibo e coperte. La cosa all’inizio ci ha sorpreso  ma poi abbiamo capito e abbiamo impiegato dei fondi per pagare le aziende perchè offrissero connessione gratuita nelle zone interessate.

natal

Mohamed Abdel Natal dell’UNHCR (foto F. Speranza).
Mohamed Abdel Natal dell’UNHCR, organismo Onu per i rifugiati, ci spiega che Internet è stato utile anche per un tam tam di notizie tra i profughi. Per esempio, l’indicazione di non fidarsi di chi, dopo l’istallazione del filo spinato, ha chiesto soldi ad alcuni profughi accompagnandoli in punti dove gli stessi organizzatori truffatori tagliavano con le cesoie il filo spinato, invitando a proseguire il cammino. E’ passato così in Ungheria il maggior numero delle centinaia di persone che si sono ritrovate in carcere dopo l’entrata in vigore della nuova legge che prevede tre anni di galera per gli illegali.
da Famiglia Cristiana del 29 settembre 2015

Il braccio di ferro tra Orban e la UE

PAURA E SPERANZA: IN UNGHERIA TRA I PROFUGHI

Gli articoli del dossier

– Orban e gli ungheresi “traditi dalla storia”
– Il braccio di ferro tra Orban e la UE
– Anche nei Balcani, Italia in prima linea
– Wifi più che cibo e coperte

aniko-bakoni

Aniko Bakoni, del Comitato di Helsinki (foto F. Speranza).

Solo uomini e soli: niente rende meglio l’idea della politica del governo di centro-destra ungherese, nei confronti della questione migrazioni, quanto le immagini scelte dalla Tv di Stato: solo giovani senza vulnerabilità apparenti. Non compaiono famiglie. Ce lo fa notare Aniko Bakoni del Comitato di Helsinki, che non ha dubbi: “Alla barriera fisica che Budapest oppone, fatta di filo spinato e difesa di soldati, si accompagna il muro della comunicazione e quello legale”.
Solo nel week end abbiamo incontrato nei punti nevralgici di arrivo e espulsione verso l’Austria 10.000 persone  e di queste almeno il 25% erano donne e bambini. Ma in Tv non si vedono. C’è poi un altro elemento chiave: anche nelle citazioni ufficiali mancano le migliaia di famiglie, così come manca il termine profughi o rifugiati. Sono sempre tutti appellati come migranti: nei documenti in cui Orban spiega la sua posizione e negli interventi fatti dai ministri degli Interni e della Difesa. Non compare distinzione tra  poveri, richiedenti asilo, rifugiati o profughi.

Solo nel week end abbiamo incontrato nei punti nevralgici di arrivo e espulsione verso l’Austria 10.000 persone  e di queste almeno il 25% erano donne e bambini. Ma in Tv non si vedono. C’è poi un altro elemento chiave: anche nelle citazioni ufficiali mancano le migliaia di famiglie, così come manca il termine profughi o rifugiati. Sono sempre tutti appellati come migranti: nei documenti in cui Orban spiega la sua posizione e negli interventi fatti dai ministri degli Interni e della Difesa. Non compare distinzione tra  poveri, richiedenti asilo, rifugiati o profughi.
E’ qui il cuore del braccio di ferro di Orban con il resto d’Europa,  che – in testa la cancelliera tedesca Merkel – vorrebbe rispondere in modo nuovo alla crisi nuova. Cioè, ad esempio, appellandosi ai criteri fondamentali di solidarietà e emergenza umanitaria e riformando strumenti messi a punto in altro momento storico, come l’Accordo di Dublino che impone al Paese che ha registrato un rifugiato di accoglierlo nel caso in cui, passato in altro Paese, sia stato da lì espulso.
Orban si oppone a qualunque apertura od eccezione. Si oppone a seguire la pancia dell’Europa che non ce l’ha fatta ad assistere indifferente alla marea umana in fuga da guerre e violenze e ha aperto la porta di casa, in attesa di mettere a punto le questioni di diritto. L’Europa che ricorda bene come l’embrione dell’Unione sia nato per portare pace a tutti i profughi su territorio europeo della Seconda Guerra mondiale. E’ stata la Germania, paese più forte d’Europa a farlo per prima ma Commissione Europea e Consiglio dei capi di Stato e di governo hanno cercato di tenere il passo, imponendo il ricollocamento dei primi 120.000 arrivati sul Mediterraneo. I Paesi ex comunisti dell’est si sono opposti ma sul ricollocamento hanno visto prevalere la maggioranza qualificata. E’ stato un pronunciamento significativo ma tutto da verificare: la Slovacchia ricorrerà e gli altri, Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria non è affatto detto che si attengano davvero alla decisione. Al momento non ci sono sanzioni previste.
Orban, che dà voce all’altra pancia d’Europa, quella che ha paura di vedere il proprio territorio invaso e impoverito, si sta opponendo in punta di diritto all’Europa che vorrebbe riconoscersi almeno un po’ nei profughi attuali. Ma per prevalere sulle chiusure del governo ungherese, e di altri, l’Europa dovrebbe avere il coraggio e la forza di pronunciamenti che abbiano il potere legale di un’azione comune in politica estera.
Il punto è proprio questo: la questione migranti e profughi viene ancora pensata e gestita come una questione di sicurezza interna. E invece è una questione di politica estera e come tutte le grandi questioni di politica estera paga lo scotto di un’Europa ricattata dai suoi stessi Paesi membri, ricattati a loro volta dagli umori degli elettori locali: gli egoismi nazionali impediscono di fare il salto sul piano sovranazionale e di dare davvero alla Commissione e all’Alto rappresentante della politica estera e della sicurezza, attualmente Federica Mogherini, gli strumenti di azione che dovrebbero avere. Tutta questa storia non è solo un referendum sull’accoglienza o no dei profughi, ma sullo spessore politico, tanto invocato, dell’Europa unita.
L’altro punto nevralgico lo dobbiamo individuare ancora al di sopra, allargando lo sguardo alla comunità internazionale. Da più parti si invoca l’intervento dell’Onu, di fronte a una emergenza umanitaria che investe Medio Oriente e Vecchio Continente. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, oltre a richiamare l’Ungheria al rispetto dei diritti umani nell’incontro ai margini dell’Assemblea generale con il presidente ungherese Jonos Ader, ha indetto una Conferenza mondiale sulle migrazioni il 30 settembre. Il ruolo delle Nazioni Unite non si gioca tanto nelle possibili misure di assistenza ai profughi quanto nei possibili interventi di pacificazione nelle aree da cui provengono. Ma qui emerge la questione dei difficili equilibri tra potenze che sottendono i conflitti nell’area mediorientale. In particolare, al momento, gli equilibri che impediscono un’azione congiunta in Siria contro il sedicente Stato islamico.

deputati-italiani-in-missione_1544685

Un gruppo di parlamentari italiani, guidati dall’eurodeputata Silvia Costa (foto F. Speranza).
Ne abbiamo parlato con il presidente del Parlamento Europeo, Martin Schultz. Ci ha detto chiaramente che finchè, di fronte alla questione siriana, Europa e Stati Uniti procedono su un binario parallelo e opposto a quello di Russia e Iran, non si va da nessuna parte. E c’è poi il ruolo della Turchia, non abbastanza considerato. Ci vuole – ci spiega Schultz – “una vera coalizione internazionale contro il sedicente Stato islamico, altrimenti l’area non potrà essere pacificata”. E poi la ribadita raccomandazione: “Tutti gli interlocutori devo avere un ruolo, a partire da Mosca e Teheran”.
Risulta evidente che l’azione più efficace che l’Europa può fare, per superare le logiche dei nazionalismi, sarebbe di fare il salto e porsi come interlocutore credibile e unitario sullo scacchiere politico mondiale. Finchè questo non accade, il premier ungherese Orban ha buon gioco a sostenere di muoversi nel rispetto della legalità formale. Una legalità costituita in altri tempi e troppo ingessata per l’oggi, ma ancora non riformata.
Orban, di fatto, scandalizza l’Europa rimanendo però praticamente inattaccabile. Abbiamo visto lo sconcerto di fronte ai carri armati e ai soldati equipaggiati da assetto di guerra sui volti del gruppo di parlamentari italiani, guidati dall’eurodeputata Silvia Costa, che abbiamo seguito in missione in Ungheria, proprio per potersi rendere conto da vicino.

blindati-croati

Uno dei blindati croati fermati alla frontiera (foto F. Speranza).
Ai responsabili di frontiera è stato chiesto conto dei blindati. Hanno risposto che, quando l’esercito ungherese si muove, come qualunque altro esercito, si muove con i mezzi che ha. E di fronte alle perplessità per tutto l’equipaggiamento da guerra, ci è stato risposto che è normale che ogni soldato abbia sempre con sé gli strumenti in dotazione. Si è fatta notare la differenza che balza agli occhi tra il confine ungherese con la Croazia e il confine ungherese con l’Austria, dove i profughi al loro arrivo vedono solo poliziotti e non soldati, e ci hanno spiegato che ogni Paese risponde alle questioni di sicurezza in base ai propri standard. Torniamo al punto nevralgico:  come pretendere che non si parli di sicurezza interna ma di politica estera? In questo contesto, concreto e legale, è impossibile.
Questo non significa che Silvia Costa e gli altri parlamentari del PD presenti, tra cui Roberto Cociancich, Sandra Zampa, Flavio Zanonato, non abbiano intenzione di dare voce a richieste e perplessità. Ci sarà –i anticipano a Famiglia cristiana – un’interpellanza parlamentare e una lettera alla Mogherini ma anche alla Commissione Europea.

lederer

Tamas Lederer di Street Aid (foto F. Speranza).
Restano ancora denunce da verificare, come quella di Tamas Lederer di Street Aid  FOTO , che sostiene che in Ungheria ci siano violazioni in tema di minori e in tema di rifugiati politici. E ci dice: “In più è vergognoso che nel dibattito pubblico si parli tanto di rischio malattie e terrorismo e non di storie di persone”.
Attraversando i punti caldi, non registriamo evidenti comportamenti in violazione delle normative internazionali ma più di un operatore della Croce Rossa e dell’UNHCR, l’organismo Onu per i rifugiati, non nasconde, off the record, le grandissime difficoltà incontrate su territorio ungherese. Di qualunque genere, ci dicono, spiegandoci che non possono aggiungere altro perchè devono assicurarsi la presenza sul territorio.  Ancora una volta, in questo lungo viaggio da un capo all’altro dell’Ungheria viene da chiedersi: ma siamo sempre in Europa?
da Famiglia Cristiana del 29 settembre 2015

Orban e gli Ungheresi “traditi dalla storia

orban-e-gli-ungheresi
Il nazionalismo del premier Orban fa appello a sentimento segreto degli ungheresi.

 

PAURA E SPERANZA: IN UNGHERIA TRA I PROFUGHI

Gli articoli del dossier

– Orban e gli ungheresi “traditi dalla storia”
– Il braccio di ferro tra Orban e la UE
– Anche nei Balcani, Italia in prima linea
– Wifi più che cibo e coperte

orban

Il primo ministro ungherese Victor Orban (Reuters)

Camminando per le strade di Budapest non c’è più traccia delle persone accampate alla stazione in attesa di lasciare il paese, ma se ci si ferma a parlare con qualcuno, ci si rende conto che una traccia è rimasta nell’emotività. Più di una persona ci ripete che gli ungheresi sono stati traditi dalla storia. Immaginiamo sia un’espressione entrata nel dibattito corrente.

Qualcuno parla di 200 anni di guerre tra nazioni, lingue, culture che non possono aver lasciato spazio alla fiducia nell’altro. Ricordiamo che tutto il continente è stato terreno per secoli di conflitti, ma ci sentiamo rispondere che solo in Ungheria, però, ci sono stati 150 di dominio ottomano, per non parlare del comunismo poi. Rinunciamo a confronti sul livello di drammaticità della storia passata e cerchiamo di capire il supporto di cui gode tra la popolazione il premier Orban, paladino della chiusura delle frontiere.

Ci sentiamo spiegare che Orban, in carica dal 2010, sta difendendo, dopo tanto liberismo selvaggio degli Anni Novanta, il popolo ungherese. Finalmente, ci dicono ben tre persone, sta avvenendo una “ungherizzazione del Paese”. Altra espressione che sa di slogan.

In sostanza Orban ha rinazionalizzato i settori dell’energia e dell’acqua, quello bancario e quello agricolo. Alzando le tasse per tutti gli stranieri, in modo chirurgico, ha facilitato gli investimenti stranieri solo nel settore manifatturiero. Questa la chiamano ungherizzazione. Non fa certo rima con globalizzazione. Parliamo con una famiglia italiana che anni fa si è trasferita in Ungheria e ha messo su un’azienda agricola. Allo scadere dei 20 anni di affitto del terreno coltivato con profitto, pensava di essere forte del diritto di prelazione sul terreno formalmente riconosciuto dal precedente contratto ma la nuova legge del governo Orban, con valore retroattivo, ha cancellato il diritto di prelazione. La famiglia italiana ha visto assegnato quel terreno a una famiglia ungherese. E’ solo un esempio. Ci sono altri casi di usufrutto andato in fumo: anche qui per interventi legislativi retroattivi.

Di fatto non si può parlare di incremento del benessere in questi 5 anni, ma è vero che mentre prima le bollette di energia e acqua pesavano per il 25% sulle entrate delle famiglie, ora questi costi sono stati drasticamente ridotti. Ma nel frattempo c’è la disoccupazione e il PIL non risulta cresciuto.  A proposito di disoccupazione, verifichiamo che per arrivare al 7%, fornito da fonti governative, si arriva comprendendo tra gli occupati anche tutti gli ungheresi che lavorano all’estero. E’ uno standard particolare di analisi dei dati che distingue l’Ungheria dal resto d’Europa.

Anche questo è “difesa dell’ungheresità”, espressione che traduce letteralmente l’altra espressione più ricorrente, insieme con ungherizzazione.

Non mancano alcune critiche ma sono sempre su faccende interne. Il monopolio stabilito per il tabacco, che prima rientrava nel libero commercio, pare essere toccato a fedelissimi. La critica che ascoltiamo da un anziano signore non sta nell’aver sottratto il commercio al libero mercato ma solo sulla scelta dei nomi dei beneficiari.

Ci raccontano comunque che Orban è un ungherese doc. Protestante, attivo, presente. Al senso della paura e dell’essere a rischio invasione che la politica cavalca – ci spiegano – mancano argini  innanzitutto perchè nella società ungherese, dopo gli anni di comunismo, e nonostante gli oltre  dieci anni dall’ingresso nell’Ue, non c’è associazionismo civile. E’ quello che lamenta in Ungheria chiunque abbia rapporti con il resto dell’Europa e del mondo. Ma non sono certamente la maggioranza.
da Famiglia Cristiana del 29 settembre 2015