Anche nei Balcani, Italia in prima linea

italia-in-prima-linea

PAURA E SPERANZA: IN UNGHERIA TRA I PROFUGHI

Gli articoli del dossier

– Orban e gli ungheresi “traditi dalla storia”
– Il braccio di ferro tra Orban e la UE
– Anche nei Balcani, Italia in prima linea
– Wifi più che cibo e coperte

monguzzi

Marco Monguzzi, responsabile dell’area Europa per la Croce Rossa (foto F. Speranza).

Poliziotti italiani alla frontiera calda tra Ungheria e Croazia, a Benemend. Li incontriamo e pensiamo a un impegno di collaborazione tra forze europee. Ci spiegano, invece, che sono lì perchè l’arrivo dei profughi  sta per spostarsi in Slovenia e, dunque, in Italia. Si stanno organizzando.
Stessa mobilitazione per la Croce Rossa. FOTO Marco Monguzzi, responsabile dell’area Europa, ci  fa notare che, dopo il Muro eretto al confine con la Serbia e quello in costruzione per la Croazia, Budapest sta già provvedendo alla barriera con la Slovenia. Il fiume umano, che non si arresta da Siria, Iraq ma anche Afghanistan, allungherà dunque il percorso ma non si fermerà. Ne sarà investita, “oltre alla Slovenia, anche la Romania, così come Montenegro e Albania”.

Il punto è che, oltre ai percorsi via terra, il passaggio obbligato via mare, dalla città turca di Bodrum all’isola greca più vicina di Lesbo, è di soli 45 minuti. E’ facilmente presumibile che l’imminente inverno non bloccherà questa traversata, come invece frena quella più lunga sul Mediterraneo.
La Croce Rossa è pronta a intervenire in questi Paesi con le tecniche nuove messe a punto in questa emergenza. Di diverso dalle tante altre affrontate nel mondo,  c’è che non si tratta di necessità per persone sostanzialmente stanziali, come – ci spiega Monguzzi – nei casi di calamità naturali o in scenari di conflitto. A partire dal kit: non un fabbisogno essenziale per un mese, troppo pesante da trasportare, ma coperte e viveri per un giorno o due. Di più è troppo gravoso per chi, dopo aver viaggiato dalla Siria o dai Paesi limitrofi, arriva ai confini d’Europa e deve aspettare in tenda qualche ora, poi salire su un autobus per essere accompagnato a un altro confine, ma solo nei pressi: gli ultimi 4 o 5 chilometri spettano sicuramente a piedi. Lo abbiamo visto a Hegyeshalom, ultimo paese ungherese prima dell’Austria.

szoke

Laszlo Szoke, sindaco di Hegyeshalom (foto F.  Speranza)
A Hegyeshalom abbiamo incontrato profughi anche fuori dei centri di accoglienza. Al sindaco, Laszlo Szoke, facciamo presente che, in base alla nuova legge in vigore in Ungheria dal 15 settembre, dovrebbero essere arrestati. FOTO Abbozza uno strano sorriso e ci dice: “Io sono sicuro che sono tutti entrati prima del 15 settembre”. La complicità di quest’uomo, che vediamo muoversi tra i binari dei treni e le tende accanto al personale delle organizzazioni umanitarie, ci restituisce un’altra faccia delle politiche dure del governo Orban.
da Famiglia Cristiana del 29 settembre 2015

Cipro, anche qui il dramma dei migranti

Dalla Siria e da altri Paesi del Medio Oriente arrivano a Cipro i “clandestini”. E finiscono anche loro nella trappola dell’isola divisa.

di Fausta Speranza

Gli articoli del dossier

Cipro, la partita del gas naturale
Cipro, il Paese islamico che non esiste
Cipro, la cultura non si arrende
Cipro, anche qui il dramma dei migranti

cipro9Sami Ozuslu, direttore e editorialista del Turkish Cypriot Daily (foto F. Speranza).

Sbarcare sulle coste di Cipro è relativamente facile per tutti i disperati che fuggono dalla tragedia in Siria o dalla fame e da altre guerre in Medio Oriente e Africa. Nessuno sa quanti siano. E sembra che nessuno sappia quanti dal Nord passano al Sud per essere poi rigettati indietro e viceversa. Accetta di accennare alla questione immigrazione nella Repubblica di Cipro del Nord, il giornalista Sami Ozuslu, direttore e editorialista del Turkish Cypriot Daily, che coordina anche il Kanal SimTvRadio, una sorta di consorzio di media. Ozuslu ci chiarisce subito: “Potete parlare di rifugiati solo al Sud, perchè sono tali se sono riconosciuti da uno Stato, ma al Nord lo Stato non esiste e, dunque, non possono esistere neanche i rifugiati”. Ci racconta qualcosa che lo colpisce e che colpisce moltissimo anche noi:  “Tanti dei profughi, specialmente siriani, quando arrivano non sanno che Cipro è divisa”.

Tra gli aspetti più noti del problema,  l’immigrazione illegale che passa dal Nord al Sud europeo, alimentando un certo traffico della prostituzione. Alle donne cui va bene, lavorano come babysitter. Gli uomini in questi anni hanno lavorato nelle costruzioni, ma il problema è che c’è stato un brusco arresto al Sud e un forte rallentamento al Nord. Dal 2003 si erano moltiplicati i pendolari: gente che la mattina dal Nord passava il Muro e andava a lavorare al Sud dove i salari sono decisamente più alti. Almeno 60.000 persone. Ma anche questo fenomeno è stato drasticamente ridimensionato dalla crisi. C’è da dire che al Nord i salari, oltre che bassi rispetto al Sud, sono caratterizzati da una netta differenza tra settore pubblico e privato, che paga molto meno. A parità di professione e anzianità, per lo stesso lavoro, se nel privato si arriva a un salario equivalente a 700 euro, nel pubblico si possono raggiungere i 2000 euro. A ben guardare, in salari pubblici se ne va il 70% del budget di Cipro del Nord, che ammonta all’equivalente di 5 milioni di euro l’anno. Un dato che ci ricorda, fatti i debiti distinguo, la madre patria del Sud, la Grecia con la sua elefantiaca amministrazione.

Da Famiglia Cristiana del 6 febbraio 2015

Cipro, la cultura che non si arrende

Da un lato e dall’altro del Muro, gli uomini di cultura non si arrendono alla divisione dell’isola. di Fausta Speranza

Gli articoli del dossier

Cipro, la partita del gas naturale
Cipro, il Paese islamico che non esiste
Cipro, la cultura non si arrende
Cipro, anche qui il dramma dei migranti

cipro7Ahmet Sozen, capo del Dipartimento per le relazioni internazionali e Direttore del Cyprus Policy Centre (foto F. Speranza)

Si chiama Joint Teacher Commission: è il progetto che professori turco-ciprioti e colleghi greco-ciprioti  stanno cercando di portare avanti, nonostante l’indifferenza della politica. Il progetto cresce all’Università internazionale del Mediterraneo orientale, che si trova a Famagosta, nel Nord di Cipro. Vale sempre la regola che al momento gli insegnanti si incontrano a titolo strettamente personale perchè i professori del Nord per il mondo non esistono. Esiste il progetto: una Commissione per portare avanti “un dialogo a livello di società civile parallelo a quello dei negoziati, che passi attraverso l’educazione delle nuove generazioni”. Così ci spiega Ahmet Sozen, capo del Dipartimento per le relazioni internazionali e Direttore del Cyprus Policy Centre.

Ci racconta di aver partecipato, in una sorta di ruolo di consulenza, alla fase di riavvio dei negoziati a inizio anno e ci assicura che “in sei mesi è stata scritta una pagina, prima dell’ennesima sospensione”. Si dice certo che sul piano negoziale, a parte la mancanza di volontà delle parti, nulla può accadere prima di un anno, cioè prima dell’inizio del mandato del presidente che uscirà dalle elezioni di primavera. Anche per questo afferma che “la società civile deve muoversi in parallelo e il mondo della cultura lo sta facendo”.

Passiamo il Muro e andiamo all’Università di Cipro.  Incontriamo Nigazi kizilyurek. che insegna materie umanistiche. Gli chiediamo se è vero che la cooperazione tra università si sta facendo più stretta e lui, con un sorriso, ci chiede: “Basta dire che io sono turco-cipriota e insegno al Sud?”. Kizilyurek in realtà ha nazionalità greco-cipriota, ma ci sembra di aver capito il senso delle sue parole. Anche meglio quando aggiunge: “Il conflitto non è etnico, né religioso, dalle ultime rilevazioni di uno studio, fatto da ricercatori del Nord e del Sud, emerge che il 65% di tutti i ciprioti non vuole il conflitto e voterebbe per una qualche riunificazione”.

cipro8Lo stadio turco-cipriota di Nicosia (foto F. Speranza)

A ben guardare dallo studio emerge che al Nord in maggioranza vorrebbero una federazione, mentre al Sud la maggioranza è per una confederazione di due Stati dstinti. Ma la volontà comune di una svolta è indubbia. Per capire il valore rivoluzionario di tutti questi progetti, che sembrano all’ordine del giorno per qualunque territorio, può essere utile ricordare che in quella che per il mondo è l’unica Repubblica di Cipro, al Sud, i giovani possono viaggiare e godere per esempio degli scambi Erasmus; nella parte Nord, invece, i giovani per lasciare la Turchia, unico Paese in cui possono arrivare in aereo, devono aver acquisito un passaporto turco, la loro carta di identità turco-cipriota non ha valore.

Incontrando proprio ragazzi e studenti, oltre che commercianti, si percepisce che la società civile sta aspettando seriamente la risposta sui progetti dai leader politici seriamente interpellati. Qualcuno ci ricorda che nei mesi scorsi, nonostante tante perplessità sollevate da politici, la squadra di calcio della Repubblica di Cipro si è recata a giocare nello stadio a Nord con la squadra turco-cipriota. Un altro forte segnale dalla società civile.

Da Famiglia Cristiana del 6 febbraio 2015

 

 

 

 

Cipro, il paese islamico che non esiste

Nel ricordo di Ataturk, a Cipro del Nord si è sviluppata una Repubblica islamica moderata che nessuno riconosce.                        di Fausta Speranza

Gli articoli del dossier

Cipro, la partita del gas naturale
Cipro, il Paese islamico che non esiste
Cipro, la cultura non si arrende
Cipro, anche qui il dramma dei migranti

cipro4Statua di Ataturk al palazzo presidenziale (foto di F. Speranza)

Cinque minuti di silenzio per qualsiasi attività a Cipro del Nord, compreso gli inservienti dell’hotel internazionale a 5 stelle. E’ l’appuntamento fisso a Leskosa nei giorni di anniversario del leader della Turchia che ne ha fatto a inizio secolo scorso il paese musulmano più laico: Ataturk. Oggi che la Turchia con Erdogan, che ad agosto dopo essere stato premier è diventato presidente, vira sempre di più sull’onda del suo partito islamico, con ostentato orgoglio nella Repubblica di Cipro Nord ti sbandierano il volto di Ataturk con sempre maggiore convinzione, sottolineando a tutti i livelli la resistenza dei turco-ciprioti ad ogni islamizzazione della vita politica e sociale.

Trovare una donna velata per strada è davvero un’eccezione e scopri che non e’ cipriota. Una convinzione e un impegno di resistenza laica espressi da un paese musulmano sunnita che nelle cartine geografiche non esiste. Non trova eco nel mondo neanche la preoccupazione espressa per i tanti “coloni”, o con termine internazionale “settler” turchi che continuano ad arrivare nella repubblica che adotta, gioco forza, la lira di Ankara.

cipro5Emine Colak, presidente della Ong Human Rights Foundation (foto di F. Speranza)

Emine Colak è la presidente della Ong Human Rights Foundation, nata dopo il fallimento del piano Annan. FOTO. Ci riceve nel suo studio di avvocato e ci spiega che l’Ong vuole ricordare al mondo l’esistenza dei turco-ciprioti ma vuole anche contribuire a migliorare la situazione interna. Ci dice: “I coloni turchi negli ultimi anni portano soldi soprattutto per costruire moschee e questo preoccupa noi ciprioti”. Poi spiega che, oltre a quelli ricchi, ci sono turchi poveri provenienti dal sud della Turchia che rappresentano l’emergenza del momento perchè creano attriti con la popolazione locale per la rigidezza dei loro costumi islamici. Tutto cio’ colpisce in modo particolare considerando la storia di Cipro, fatta di battaglie feroci tra musulmani e governatori prima genovesi e poi veneziani.

cipro6La Cattedrale gotica di Famagosta, oggi Moschea (foto di F. Speranza)

Ne rende memoria la citta’ di Famagosta, a nord est, su territorio turco-cipriota, con la sua Cattedrale di San Nicola trasformata in Moschea, peraltro senza nessun intervento architettonico ma solo con l’aggiunta di arredi all’interno. FOTO cattedrale. Ma al sud e’ accaduto il contrario: Moschee trasformate in chiese. Scoprire una cosi’ forte battaglia per una sana laicita’ a Cipro Nord fa pensare che dovrebbe trovare supporto internazionale e non indifferenza.

Colak ci parla poi con orgoglio delle battaglie della sua Ong per il miglioramento della situazione dei diritti umani e ci ricorda che dal 28 gennaio 2014 l’omosessualità non è più un reato. Per quanto riguarda la libertà di espressione, non è l’unica ad assicurare che i turco-ciprioti ne hanno più di quanta sia riconosciuta in Turchia. Anche lei, come altri, lascia intendere che si spera in ulteriori cambiamenti dopo le prossime elezioni presidenziali ad aprile 2015. In campagna elettorale, sono solo proclami. I partiti sono quattro. Le differenze si possono giocare proprio sul livello di distanza imposta alla Turchia, ma il margine resta ristretto.

Tutti i partiti invece hanno l’adesione all’Ue nel loro programma, anche se l’avvocato ammette che nel paese c’è meno entusiasmo per l’Ue, dopo la grossa crisi economica che ha colpito la Grecia e Cipro di conseguenza. La crisi mondiale non ha risparmiato la Turchia e la parte turca di Cipro, ma molto meno di quanto abbia segnato lo Stato Ue, le cui banche, fortemente legate a quelle greche, le hanno seguite nel collasso. Anche a Cipro colpisce il numero di istituti chiusi.

Sul piano economico, c’è una battaglia che la Repubblica di Cipro, membro Ue, sta facendo per il riconoscimento del marchio Doc per il famoso formaggio greco Halloumi. Il punto è che, passando il Muro e andando al nord di Cipro, riconosciuta solo dalla Turchia, si trova esattamente lo stesso prodotto caseario con il nome, tradizionale per i turco-ciprioti, di Hellim. Oltre il 16% della popolazione nel Nord è legata alla produzione o distribuzione di questo formaggio e il 24% dei prodotti esportati è rappresentato proprio dall’Hellim. Il marchio Doc solo per l’Halloumi significherebbe un danno economico per il Nord, ma si capisce che rappresenterebbe qualcosa di più: l’ennesimo rifiuto di considerazione del mondo per un popolo che da 40 anni paga l’invasione turca e che oggi si batte per resistere alla svolta islamica.

Da Famiglia Cristiana del 6 febbraio 2015

 

 

 

 

Cipro, la partita del gas naturale

Usa, Turchia, Russia: tutti interessati ai giacimenti scoperti in mare. Una partita a scacchi di livello mondiale. di Fausta Speranza

Gli articoli del dossier

Cipro, la partita del gas naturale
Cipro, il Paese islamico che non esiste
Cipro, la cultura non si arrende
Cipro, anche qui il dramma dei migranti

cipro3Le bandiere greco-cipriota e turco-cipriota lungo il Muro (foto F. Speranza)

Il Muro di Nicosia fa ombra da sempre a interessi geopolitici che lo tengono su, ma mai come nel 2014, a 40 anni dalla divisione, la partita è stata così complessa e aperta ad una svolta: favorevole alla riunificazione o drammatica.  L’elemento nuovo entrato in campo è di quelli prorompenti: le risorse energetiche, difficilmente foriere in genere di pacificazione. Si tratta di un giacimento di gas naturale individuato nelle acque a sud-est, nell’area tra Cipro e Israele. Il gas non è stato ancora liberato, ma la sola individuazione ha provocato un’esplosione di dinamiche geopolitiche. Come se non bastassero le implicazioni internazionali già proprie di tutto il Medio Oriente. Tra Cipro e Israele ci sono solo 400 km di mare, tra Cipro e il Libano 100 km, poco di più tra l’isola e la Siria.

L’area in mare che nasconde gas naturale si trova nelle acque riconosciute dal diritto marittimo internazionale alla Repubblica di Cipro, che ha avviato le ricognizioni. A settembre, per suo conto, hanno cominciato a lavorare sul posto l’Eni e la sudcoreana Kogas, con l’impegno di costruire 4 pozzi in un anno. Qualche mese prima era arrivato in missione riconciliante sull’isola l’inviato Usa Biden, dimostrando un inusuale interesse per la questione cipriota da parte degli Stati Uniti così drammaticamente coinvolti nell’incubo della vicina Siria o nel caos del non lontano Egitto. Alla missione Usa, si era accompagnata, a inizio anno, una Dichiarazione congiunta di Nicosia, termine usato dai greci per la capitale, e Lefkosa, termine turco per la stessa capitale. Le due parti si impegnavano in passi concreti su punti nodali. Ma, dopo l’inizio dei lavori, nell’area interessata si sono materializzate navi turche ufficialmente impegnate in attività esplorative sul carattere sismico del territorio. Molto poco ufficiosamente, le autorità turche e quelle turco-cipriote rivendicano per Lefkosa i proventi delle risorse energetiche, sostenendo che appartengono agli abitanti dell’intera isola, in via di riconciliazione. La partita si è complicata e non sono bastati i solleciti ammonimenti del Consiglio Europeo ad Ankara perché resti fuori di acque territoriali appartenenti ad uno Stato membro Ue.  Il risultato è stato un congelamento del negoziato ai primi di ottobre. Il presidente greco-cipriota Anastasias ha abbandonato il tavolo.

Abbiamo incontrato entrambi i negoziatori: il turco-cipriota, Ergun Olgun, ci spiega che  “Anastasias cercava solo un espediente per sospendere”, ammettendo però che “troppi paesi stanno effettuando esercitazioni militari e altre attività a Cipro”. Sulla proprietà del gas, ci spiega la rivendicazione di Lefkosa affermando che “le due comunità sono separate ma nella stessa casa e non hanno divorziato: le proprietà sono comuni”. Un’opinione condivisa solo dalla Turchia. Il greco-cipriota, Andreas D. Mavroyiannis, ci riceve con la stessa cordialità e gentilezza, ma sottolineando subito: “Io non rappresento nei negoziati il governo ma la comunità greco-cipriota”. La sottolineatura ci colpisce. La teniamo a mente anche quando dichiara: “I negoziati vanno fatti  per il futuro comune, non per interessi di altri”. Un’opinione è condivisa: il gas potrebbe rappresentare una benedizione o una maledizione. Una benedizione, se porta soldi ai ciprioti. Una maledizione, se alza la posta della partita giocata da altri sull’isola. Difficile essere ottimisti.

Dal 2003, il processo negoziale per una riunificazione dell’isola di Cipro, con stop and go, è sostanzialmente sempre proseguito sulla traccia della proposta Onu: una Federazione di due Stati. La bozza di accordo proposta dall’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, nel 2004, al momento dell’ingresso della Repubblica riconosciuta nell’Ue, è stata approvata da referendum dalla parte turco-cipriota ma bocciata proprio dal nuovo Stato greco-cipriota dell’Ue. Da allora è rimpallo di responsabilità e disputa su varie questioni. Il negoziato non ha fatto passi avanti sostanziali. Si è solo complicata la questione delle proprietà abbandonate o confiscate rispettivamente da esponenti delle due comunità sui due territori. Dopo 40 anni non è più pensabile la restituzione dei beni immobili e la differente evoluzione delle due parti complica ogni meccanismo di risarcimento o compensazione, che dir si voglia. C’è il pronunciamento del Consiglio d’Europa sui risarcimenti dovuti a cittadini greco-ciprioti cacciati dal Nord, ma si tratta di cause a livello individuale, come è nel costume dell’organismo a 47 paesi.  Ma ci sono cause a livello collettivo di turco-ciprioti che non trovano istanza a Strasburgo. Non è questione semplicissima ma il problema vero per cui Cipro non trova pace non è nel capitolo proprietà. E’ il capitolo sicurezza dell’area quello davvero incriminato. E i ciprioti hanno davvero debole voce al proposito.

Nicosia è l’unica capitale rimasta al mondo divisa in due. Il Muro in alcuni punti è stato costruito apposta in cemento ma non troppo alto; in altri punti coincide con belle mura antiche; in altri ancora è un posticcio filo spinato che lascia intravedere da entrambi le parti le case e gli abitanti. Oltre la capitale, la linea divisoria, con distanziati check point, segna la lunghezza di 180 km di frontiera a tre quarti di isola. Lo fa in in base a un armistizio, che da subito ha servito  logiche di piani geopolitici ben al di fuori dell’isola del Mediterraneo orientale e ben al di sopra delle teste dei cittadini che su tutto il territorio sono poco più di un milione di persone. Circa 800.000 sono i greco-ciprioti. Circa 300.000 sono i turco-ciprioti, cioè meno della comunità turca-cipriota che vive a Londra, che sfiora i 360.000. Questo dato fa pensare ad una artificiosità che si dovrebbe poter facilmente sanare. Ma non è così.

Da Famiglia Cristiana del 6 febbraio 2015

 

 

 

TASK FORCE

A TASK FORCE OF INFORMATION KEEPERS
Ensuring information in the world could contribute in a substantial way to rebuild or to mantain the peace. Often the weapons are misunderstanding, no knowledge, censorship, propaganda too. That´s why it sprung up the idea to have „I Caschi blu dell´informazione“, „a task force of informationkeepers“.
The idea was from a group of opinion leaders and journalists (Alberto Abruzzese, Lucia Annunziata, Giulio Anselmi, Bocchini, Bolchi, P.Borgomeo, Giampiero Gamaleri, Marcelle Padovani, Pulcini, Serventi-Longhi, Fausta Speranza, Sergio Zavoli, Franco Zeffirelli).
It was presented in Rome on may 1999 at the side of Foreign Press Association that joined the iniziative. The aim is to arrive in every conflict area (and in the world there are so many running tragedies) as a task force for humanitarian help, to defence information in that area and to open a channel to ensure exchange of news in every way.
The theorical idea needs realising in a concrete way so the hour is struck to launch a project. First of all „I Caschi blu dell´informazione“ tried to put themselves in contact with other promoters of similar projects, first of all in Italy. They discovered „The Mega chip“ project by Planet (an indipendent association for cultural exchange in the world) and Formin (a Forum of humanitarian and volontary organizations as Amnesty International Italia).
Their aim is to create a global Observatory for the Media to monitorate what is happening. It could be the first step.
A meeting is organised in September, exactly few days before the Third ONU Assembly for population, to present the iniziative in a so high side.
In the same time „I Caschi blu dell´informazione“ presented the idea to the European Institute for the Media, the core of communication studies in Europe. For the high professional standard of the Institute „I Caschi blu dell´informazione“ are sure that the project could soundly go on, if it is worth, in the best way.

Caschi blu

Caschi blu dell’informazione

Iniziativa di Alberto Abruzzese, Lucia Annunziata, Giulio Anselmi, Ermanno Bocchino, Sandro Bolchi, padre Pasquale Borgomeo, Giampiero Gamaleri, Marcelle Padovani, Paolo Serventi Longhi, Fausta Speranza, Sergio Zavoli, Franco Zeffirelli
“Caschi Blu dell’Informazione” è un’iniziativa sviluppata da un gruppo di intellettuali e giornalisti ideatori di un manifesto con cui si chiede l’apertura nelle aree di conflitto di adeguati corridoi informativi, che, non meno degli invocati corridoi umanitari, sono elementi fondamentali sulla via della pace.
La proposta si articola nei punti seguenti:
-scrivere una “Carta dell’informazione in tempo di guerra” da portare, per vie diplomatiche, all’attenzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
-creare un “Osservatorio” composto da studiosi e professionisti di indiscusso prestigio che indaghi su ogni episodio di violazione della libertà e completezza dell’informazione sul teatro di guerra.
-istituire un “Tribunale etico internazionale” incaricato di comminare sanzioni morali, denunciando alla pubblica opinione i casi di grave violazione della libertà di stampa e le sempre più sottili forme di censura e di propaganda che con violenze palesi ed occulte vengono esercitate nei confronti dei giornalisti e di tutti gli operatori della comunicazione, compreso Internet.

Tutto è cominciato in un’aula dell’Università LUISS-Guido Carli dove il Prof. Gianpiero Gamaleri svolge il corso di “Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa”, così come il Prof. Ermanno Bocchini insegna “diritto dell’informazione”. Incontrandosi e discutendo della guerra in atto, hanno commentato che sarebbero serviti dei corridoi informativi accanto agli auspicati corridoi umanitari. La sensazione che prevaleva era che i Serbi non fossero adeguatamente informati. E’ vero che in un numero considerevole di case, superiore forse alle aspettative, c’erano antenne satellitari in grado di ricevere le trasmissioni, ad esempio, della CNN ma è anche vero che molte esasperazioni nazionalistiche poggiavano sulla disinformazione. Inoltre era anche la frammentarietà e l’insicurezza delle notizie che giungevano fino a noi a convincere che l’informazione non aveva caschi blu a sua difesa. Restava ferma la relativa convinzione che sia più difficile combattere un nemico guardandolo in faccia piuttosto che ignorando la sua identità.
A questo proposito è molto interessante lo studio di Cumins intitolato War and television. Bruce Cumins, studioso americano di prestigio, stabilisce un’equazione precisa: dove c’è televisione non c’è guerra. Presentando un’analisi che spazia dalla Korea al Viet-Nam, dalla guerra del Golfo al travaglio jugoslavo, distingue i conflitti in due categorie: “monitorated wars”, guerre monitorate, e “unmonitorated wars”, guerre non monitorate. Le prime tendono a estinguersi in breve tempo. Le seconde rischiano di diventare endemiche. La tesi di Cumins, nella sua essenzialità, è semplice: fin dai tempi delle trincee è molto più difficile sparare a un nemico quando lo si guarda negli occhi. E la TV, se presente, ti costringe in qualche modo, con il suo occhio elettronico, a guardare in faccia il nemico. Certamente il veleno della propaganda cerca di inquinare anche la fonte televisiva. Da Saddam Hussein a Slobodan Milosevic abbiamo assistito a un uso addomesticato del mezzo e, parallelamente, a una relativa debolezza delle democrazie alimentate ovviamente da un’informazione aperta e spesso anche autocritica. Alla fine, però, dovrebbe esserci sempre un vero vincitore: un’opinione pubblica internazionale sufficientemente informata che sa distinguere.

DIETRO L’INTUIZIONE IL DIRITTO
L’iniziativa è maturata presto sotto il profilo giuridico e ha trovato l’adesione di altri intellettuali, esponenti e studiosi dell’informazione:  Alberto Abruzzese, studioso di sociologia della comunicazione; Lucia Annunziata che ha personalmente conosciuto le limitazioni del regime di Milosevic, essendo stata espulsa perché sospettata di non rispettare tutti i diktat imposti ai giornalisti stranieri; Giulio Anselmi, in quel momento direttore dell’ANSA, la maggiore agenzia giornalistica italiana; il regista televisivo Sandro Bolchi e quello cinematografico Franco Zeffirelli; Padre Pasquale Borgomeo, direttore generale della Radio Vaticana che ha, come i servizi di RAI International, trasmissioni rivolte anche ai paesi più direttamente interessati; Paolo Serventi Longhi, segretario della Federazione Nazionale della Stampa Italiana; Sergio Zavoli, scrittore e giornalista sempre attento agli aspetti etici dell’informazione, e poi Marcelle Padovani, presidente dell’Associazione Stampa Estera di Roma, che si è appassionata all’iniziativa tanto da ospitare la conferenza stampa di presentazione, il 29 aprile 1999, e da mettere a disposizione anche in seguito la  sede dell’Associazione come trampolino per poter interloquire con i colleghi stranieri.
L’iniziativa, nata dallo scambio di idee tra il Prof. Bocchini e il Prof. Gamaleri, è stata dunque portata avanti con tutti questi protagonisti e altri sostenitori come i giornalisti Enrico Pulcini e chi scrive, che ha curato l’organizzazione e i contatti. L’intuizione iniziale trovava conferma nella premessa giuridica così formulata dal Prof. Bocchini: accanto alla comunità degli Stati, e quindi dei governi e delle istituzioni, c’è una comunità di popoli che deve essere considerata dall’informazione. I popoli sono costituiti dalle persone e l’informazione è diritto primario della persona. Anche quando ci sono regimi che possono non rappresentare adeguatamente o rappresentare in modo distorto la gente, è il popolo ad avere la priorità. E’ su questo che si basa il concetto del diritto-dovere di un’informazione aperta. Va detto che la concezione di corridoi informativi vuole essere un’iniziativa fondamentale verso la pace e che, pertanto,  si sottolinea  il carattere di  reciprocità che il flusso dell’informazione attraverso questi canali deve avere.

IN GUERRA
Per tornare con la mente alla situazione e al clima in cui l’idea maturava, riportiamo anche il seguente comunicato comparso nel sito dei Caschi blu dell’informazione in risposta alla presentazione da parte di Milosevic  del Codice di condotta per i corrispondenti stranieri di guerra.

>>CENSURIAMO LA CENSURA>>
Alla tragedia nei Balcani si accompagna la guerra di notizie e propaganda. Il comando militare supremo di Belgrado per la prima volta dalla guerra fredda in un paese d’Europa impone la censura preventiva militare.
Come ben sai, con il titolo di “Codice di condotta per i corrispondenti stranieri in guerra” intende mettere il bavaglio all’informazione. E’ urgente difendere l’unica buona condotta per un giornalista: informarsi e informare.
Alla “tessera di guerra” che Milosevic crede di poter assegnare a suo piacimento rispondiamo chiedendo una Carta dell’informazione con l’avallo dell’ONU che attesti in maniera irrevocabile la responsabilita’ della verita’.
Al “permesso giornalistico” di cui Belgrado crede di poter gestire la scadenza rispondiamo chiedendo un Osservatorio che tuteli in ogni tempo il dovere di un’informazione libera.
Era un momento drammatico in cui il presidente jugoslavo imprimeva l’ennesimo giro di vite. D’altra parte,  non mancava la consapevolezza che anche sul fronte delle forze occidentali potevano esserci carenze o distorsioni nell’informazione. A questo proposito va ricordato il dibattito con il quale è stato sottolineato il ruolo dei media come armi di guerra. Qualcuno, parafrasando McLuhan, ha detto: il medium è il massacro, perché spesso l’informazione è stata massacrata essa stessa.
NON SOLO BANDIERA ITALIANA PER I CASCHI BLU
Anche nei mesi successivi alla presentazione dei Caschi blu dell’informazione in molti hanno manifestato di condividere le ragioni di fondo. L’European Institute for the Media, che ha sede a Dusserldolf, ha voluto saperne di più e farne sapere di più ospitando nel Bollettino bimestrale un articolo ampiamente esplicativo. Grazie anche a questa pubblicizzazione in ambito transnazionale, sono piovute al sito dei Caschi blu dell’informazione adesioni dalle più disparate zone, come ad esempio Libano, Egitto, Canada, oltre che da tutta la zona dei Balcani.
Come per tutti i progetti a carattere fortemente ideale e umanitario i passi non possono essere che lenti. Per quanto riguarda la Carta, in ogni caso, c’è stato un vivo impegno anche perché in altre sedi erano maturate idee analoghe, ad esempio a Firenze se ne era parlato in un convegno organizzato il 3 maggio. Sono state fondamentali, poi, altre due tappe dell’autunno 1999. Si tratta dell’incontro-dibattito organizzato a Firenze nell’ambito del Premio Italia, e dedicato al rapporto tra televisione e guerra, e del Primo Forum Nazionale promosso a Gubbio dalla FNSI, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana. In questa sede la proposta della Carta ha trovato concretezza in una prima bozza.
I DIECI COMANDAMENTI DELL’INFORMAZIONE
“Il principio della libertà di espressione e, quindi, della libertà di stampa è uno degli elementi di base della vita democratica di ogni paese”: così si legge all’inizio del manifesto con cui ci si è impegnati a elaborare il testo preciso della Carta. La necessità di un documento del genere nasce dalla constatazione che tale principio, pur formalmente riconosciuto, viene frequentemente calpestato. Un’Europa che sta consolidando le comuni casi economiche si deve porre il problema di avere un documento che aiuti a difendere sempre e comunque la libertà di informare e di essere informati. Il rappresentante dell’ONU in Italia, Staffan De Mistura, al Forum di Gubbio ha salutato l’iniziativa con favore, spiegando che manca attualmente una norma riassuntiva dei vari principi in materia di informazione. I casi di repressione, intimidazione e minacce nei confronti dei giornalisti per la loro attività professionale e nei confronti dei media indipendenti sono una realtà da non dimenticare. Nel Manifesto si legge: “la costruzione di uno spazio europeo non può avvenire solo attraverso il rispetto di parametri di bilancio, finanziari, monetari o strategico-militari ma deve tenere conto anche del rispetto di standard comuni di vita democratica”. I promotori della Carta invitano la Commissione e il Parlamento europeo a fare in modo che i paesi membri e quelli che dovessero chiedere l’adesione all’Unione europea accolgano nella propria legislazione dieci principi. Tra questi, oltre all’abolizione di forme di censura e intimidazioni e il rispetto di forme di associazionismo, si prevede tra l’altro:
-fornire un servizio radiotelevisivo pubblico realmente indipendente e altrettanto indipendenti organi di tutela dei servizi radiotelevisivi privati;
-porre il limite di un tetto congruo alle concentrazioni proprietarie;
-favorire la nascita di tipografie e di aziende di distribuzione indipendenti;
-affermare il rispetto del diritto dei giornalisti a tenere segreta la fonte delle loro informazioni;
-favorire con misure idonee l’accesso dei cittadini ai media elettronici e in particolare a Internet.
A richiamare drammaticamente l’attenzione di tutti sulla necessità di mettere nero su bianco alcuni principi ribaditi e difesi in tutta Europa è stata la vicenda dei Balcani. Ma in realtà altre situazioni difficili e più che attuali nel mondo chiedono altrettanto drammaticamente la considerazione di tali principi.
A conferma, se ce ne fosse bisogno, dell’importanza della comunicazione, nel dibattito a Gubbio Staffan De Mistura ha detto in modo provocatorio ma deciso: “non porterò più beni materiali senza avere anche una radio che assicuri informazione”.
STOP ALLE ARMI MA NON ALL’INFORMAZIONE
Guardando ai Balcani ora che il conflitto è concluso, la situazione si presenta niente affatto risolta. Lo ricordano le interessantissime testimonianze dei giornalisti provenienti da Kossovo, Serbia, Montenegro, raccolte dai colleghi italiani che non vogliono dimenticare Serbia e Kossovo solo perché i bombardamenti sono cessati. Tra quanti durante il conflitto sono stati in prima linea nel loro lavoro, a dispetto delle armi, ricordiamo Baton Haxhiu, giornalista di “Koha ditore” del Kosovo; Dusan Masic, direttore del Dipartimento Informazione di Radio B92 della Serbia; Vladan Radosadljivic, direttore del Media Center di Belgrado; Jagoda Vukusic, presidente dell’Associazione Giornalisti Indipendenti della Croazia. Con alcuni di loro si è riusciti a mantenere il contatto anche sotto le bombe, dialogando via internet. Li nominiamo perché ci piace sottolineare che dietro all’informazione ci sono sempre persone. Andrebbero nominati anche quanti sono stati messi in condizione di interrompere il loro lavoro e quanti hanno perso la vita per farlo. Oggi tutti quelli che rilasciano dichiarazioni segnalano mille difficoltà. Purtroppo nelle aree interessate dal conflitto si continuano a registrare episodi di violenza e intolleranza e non si può ancora parlare di pacifica convivenza interetnica. E’ evidente che se ne dovrebbe parlare di più. Si tutela l’informazione anche evitando che dall’evento mediatico si passi al silenzio, ribellandosi all’idea che quando tacciono le armi tacciano anche i media. Il proposito dei Caschi blu dell’informazione è di difendere al comunicazione anche e proprio quando sembra si spengano i riflettori. E per non tacere, la prima informazione da dare dopo il conflitto riguardava la necessità, in quelle zone, di infrastrutture di ogni tipo, compreso quelle per l’informazione. Significava anche computer e mezzi tecnici per radio e Tv distrutte. Per questo la Rai ha messo a disposizione macchinari desueti ma funzionanti e cura da vicino Radio West.
Radio West, che propone trasmissioni nelle varie lingue delle etnie coinvolte, si colloca nella logica di pacificazione che investe in dialogo e confronto. Nel Kossovo non occorre solo assicurare l’ordine e avviare la ricostruzione materiale. Bisogna soprattutto promuovere la ricostruzione delle menti. I ragazzi che sono simili ai nostri, sono stati contagiati dal virus dell’intolleranza etnica. Si accendono come un fiammifero se riprende il sopravvento quella malattia contagiosa che è la lotta razziale. E questa malattia la si può estirpare in un solo modo: con una cultura diversa alimentata dai mezzi con cui i giovani hanno più familiarità. Per questo una radio può essere altrettanto importante, e forse di più, dei blindati, dei fucili mitragliatori, dei posti di blocco. Costruire le menti è stato sempre più importante che costruire le fortezze. La filosofia è chiara: affiancare al contributo militare e assistenziale anche investimenti economici e infrastrutturali che consentano all’area travagliata dal conflitto di riprendere il passo della pacifica convivenza e di avviare il processo che potrà portarla a tutti gli effetti in Europa, disinnescando il rischio di ulteriori focolai di guerra. Se è vero che il principio del Peace-keeping è quello di impegnarsi per evitare ogni forma di conflitto, allora è urgente e importante che i caschi blu dell’informazione si impegnino a portare avanti in tempo di pace le idee maturate nell’emergenza.
DA IDEA NASCE IDEA
L’altra proposta in elaborazione, lanciata dai Caschi blu dell’informazione, è quella di un Osservatorio permanente dei media per monitorare sempre e ovunque la realtà dell’informazione in modo scientifico e professionale. Esiste già da due anni, con sede a Firenze, l’Osservatorio internazionale sulla libertà di informazione, promosso da alcune associazioni indipendenti e sostenuto tra gli altri dalla FNSI. Ma solo conoscendo e comprendendo quanto accade sempre e normalmente, e non solo nei casi di violazioni palesi di diritti, si può lavorare per tutelare una corretta e sana informazione. A questo proposito va detto che si sta formando un team di lavoro legato all’associazione internazionale Planet che, in un seminario tenutosi a Genova il 29 ottobre 1999, ha chiamato a raccolta tutti i gruppi o gli organismi interessati a creare un punto di osservazione dei media. A sollecitare lo studio e l’analisi del funzionamento dei media non solo le guerre ma anche, ad esempio, il
ruolo che in Italia e in altre parti del mondo ha svolto e sta svolgendo il sistema dei media nei processi di trasformazione e di ristrutturazione della politica. Esistono in Italia varie iniziative che segnalano una crescente attenzione al sistema dei media sia in ambito universitario, sia nel campo dell’associazionismo e delle organizzazioni non governative. Sembra si stia diffondendo davvero la percezione che il nostro prossimo futuro sarà sempre più condizionato dai mezzi di informazione e comunicazione e che si stia gradualmente affermando l’esigenza di intervenire in un settore così delicato e strategico. Resta da dire che il Forum nazionale di Gubbio è stata un’occasione particolare
per i giornalisti italiani perché per la prima volta si sono ritrovati i rappresentanti di tutte le realtà dell’informazione a confronto insieme. Ma si deve aggiungere che, oltre ai personaggi già citati, hanno partecipato anche docenti universitari di mass media, giornalisti stranieri del calibro di Daniel Williams del Washington Post o con un ruolo trasversale come Bettina Peters, vicesegretario generale dell’Ifj, il sindacato internazionale dei giornalisti. La ricchezza di un dibattito sostenuto a questo livello e soprattutto varcando i confini nazionali ci fa pensare che i Caschi blu dell’informazione abbiano ragione di esistere anche come Caschi blu della comunicazione. Ogni guerra produce un’accelerazione sul piano tecnologico. Vogliamo credere che la guerra del Kossovo possa aver provocato anche un’accelerazione sul piano della consapevolezza dell’importanza dell’informazione e della comunicazione. Senz’altro ci ha chiamato a riflettere in modo particolare sul fatto che le prime vittime dei conflitti sono i diritti umani e le notizie e che l’humus più fecondo per le guerre è proprio la disinformazione. E’ triste trarre insegnamenti dalla drammatica realtà delle armi che, seppure moderne e sofisticate, restano strumenti di morte. Ma a questo proposito è doveroso sottolineare che sarebbe molto più avvilente pensare che il dramma si è compiuto, che tanti convegni sono stati fatti ma che non siamo in grado di trattenere insegnamenti utili per il futuro. In questo senso, primo dovere dei Caschi blu dell’informazione è tenere aperto il dibattito, lo scambio di idee, di propositi e di esperienze. L’invito è per tutti attraverso il sito già citato. La convinzione di fondo è sempre la stessa: la comunicazione può rappresentare in ogni situazione una preziosa occasione di crescita delle persone e del livello di umanità dei loro interscambi e rapporti.

Testo dell’intervento in inglese:
CASCHI BLU DELL’INFORMAZIONE: A TASK FORCE OF INFORMATION KEEPERS
Ensuring information in the world could contribute in a substantial way to rebuild or to mantain the peace. Often the weapons are misunderstanding, no knowledge, censorship, propaganda too. That´s why it sprung up the idea to have „I Caschi blu dell´informazione“, „a task force of informationkeepers“.
The idea was from a group of opinion leaders and journalists (Alberto Abruzzese, Lucia Annunziata, Giulio Anselmi, Bocchini, Bolchi, P.Borgomeo, Giampiero Gamaleri, Marcelle Padovani, Pulcini, Serventi-Longhi, Fausta Speranza, Sergio Zavoli, Franco Zeffirelli).
It was presented in Rome on may 1999 at the side of Foreign Press Association that joined the iniziative. The aim is to arrive in every conflict area (and in the world there are so many running tragedies) as a task force for humanitarian help, to defence information in that area and to open a channel to ensure exchange of news in every way.
The theorical idea needs realising in a concrete way so the hour is struck to launch a project. First of all „I Caschi blu dell´informazione“ tried to put themselves in contact with other promoters of similar projects, first of all in Italy. They discovered „The Mega chip“ project by Planet (an indipendent association for cultural exchange in the world) and Formin (a Forum of humanitarian and volontary organizations as Amnesty International Italia).
Their aim is to create a global Observatory for the Media to monitorate what is happening. It could be the first step.
A meeting is organised in September, exactly few days before the Third ONU Assembly for population, to present the iniziative in a so high side.
In the same time „I Caschi blu dell´informazione“ presented the idea to the European Institute for the Media, the core of communication studies in Europe. For the high professional standard of the Institute „I Caschi blu dell´informazione“ are sure that the project could soundly go on, if it is worth, in the best way.

DIGITAL REVOLUTION

THE DIGITAL REVOLUTION AND TV

The transformation of television, which is underway in the whole world, is in part influenced by the development and by the convergence of technological standards, but most of all by the Internet. Television, in turn, is influencing the net, as Internet services tend to include video distribution with television quality.
The use of digital technologies for TV will thus accelerate the fusion between these two universes, with the possibility of accessing Internet services from TV and vice-versa. It is therefore likely that the new generation of TV viewers expect from TV some characteristics that are typical of the Internet world.
To watch first-run films that have not yet reached theaters on television. That is the outlook offered by Video On Demand and which, according to Raymond W. Smith, president of Bell Atlantic, belongs to the near future. Smith explains that it takes the producers’ authorization to whom it can be offered to share up to 2$ for each user request. It is really an interesting hypothesis for the TV viewer of the future. It is the most revolutionary hypothesis for the whole film and television industry that has ever been linked to the traditional exploitation and that now will see pay-per-view ahead of the ticket counter. It has been talked about for years but now it seems that the time has come to translate the project into reality.
DIGITAL TV IS NOT ONLY BROADCASTING

Cybernetic networks may seem revolutionary compared to TV common usage. They are in terms of text because the networks’ hypermedia modalities suggest a re-definition of narrative structures, of values, of forms an of languages. They are in terms of creativity because they can favor a radical de-composing and re-composing of work thus regaining the craftsman’s quality with technological potency. They are in terms of production and distribution because they represent the fall of broadcasting’s centrality and the de-structuring of the product-consumer chain. They require, in addition, a political economy of the product in relation with the dynamics of globalization and localization of needs. They rely on the positive enjoyment of demanding and motivated audiences. To be multimedia means being able to be channeled on more supporting structures and according to various usage categories.
In fact, the fundamental opportunity to improve service quality is digital technology that is geared towards both satellite and terrestrial transmission. The radio-television firm in the new millenium is under very strong competition pressure due to the new transmitting and receiving devices having numerical or digital technology.
It was soon defined digital revolution. It is something that involves each aspect of production and knowledge management, from telecommunications to photography, from newspapers to business accounting. Digital connects in fact each compartment of communication, thus increasingly accentuating the convergence of a macro sector which promises to be, in the new millenium, the leading industry of the world’s economy.
TV AND PC

One billion televisions in the world, four hours of videoscreen daily per capita for Americans and little more than three and a half hours for Italians, but also more than eighty million computers connected between each other through the Internet. The Fifth Power will have to strive to successfully design its new relationship with a new public.
The anthropological mutation consists of a detachment from traditional TV. Public opinion seems more aware and cautious concerning the pressing influence of mass television.

In the 1950s and 1960s, television had few channels and programs were a careful mix of education and entertainment. With the multiplication of channels and with the remote control, the user sitting in front of the TV takes on a new decisional role compared to who, from behind the screen, loses power while designing television programs.
Because of this, television supply begins to pursue the audience of its taste. Taste indexes do not count anymore, but rather the Auditel results.
Today we realize that the television era is giving way to that of televisions: supply is no longer decided by the programming  wizards because programming is being built through theme channels, it becomes in other words personal. Once more technology has been determinant. Besides, each one of us has always less time and therefore if he/she can, he/she will increasingly do only the things that particularly interest him. This is the great novelty that has led to the television renaissance. The satellite-computer-TV and computer technologies system tends to unify itself strategically in order to produce a completely original supply compared to the past.
It is clear that there will be an interaction between television and computer in the future. But it is imaginable that still for many years the living room will be destined for entertainment, even with all its possible simple interactivity like games or the request of programs. The studio or the computer corner, instead, will be places for interactive activities concerning management of more complex services like home banking and others. It is already possible to use web-TV or to receive in a corner of the computer’s monitor also Bloomberg TV with its economic news.

Impact and approach

If on the one hand there is extreme difficulty in thinking of culture in the same line of development as the Information Technology, on the other hand only the virtual space guaranteed by the digital platform allows national cultures the possibility of using market gobalization. For Italy and its particular technological evolution it is a survival need.
In the history of the relationship between industrial and postindustrial technologies and cultures, a continuous comparison-clash between the acceleration of innovative processes and the stabilization and conservation of assets has been prevalent. On one side the avant-guarde, ever  more compatible with the “common cultures” of the current consumer society. On the other side traditionally elitist cultures which have hegemonized the flow of collective media top-down. Thus today the contraposition between experimental use and conservative use of the media does not hold.
There are cultures that have a totalizing vision of the media and cultures that instead feel their instrumental nature.
The former ones conceive Information Technology as an update of an endowment based on the television model. The latter ones feel the terminal as a simple means of access to services and contents. These are the authentic potential of the system. The choice, then, must be made between two different strategies of using the new-media. The choice of using them and privileging unidirectional languages is substantially regressive, while those who use them in an instrumental way are making identity their prevalent reason.

TV AND COMPETITION

In order to have an effective competition it is necessary to favor legislative competition mechanisms. In Europe, where the installation costs of ether and cable stations is prohibitive, the only possibilities of access for new subjects come from satellite.
Generalist TV has traditionally had two types of actors, that is television as it once was defined as public service and the commercial TVs. In time the two forms have been contaminated, as anyone can see first of all in Italy, so much that there is no conference that does not deal with the role of public service.
Generalist TV has elsewhere been shaken by a process that has seen the penetration, starting in the 1980s, of a second typology, that of pay tv and now sees the growing establishment of new supply modalities such as theme channels and globalizing channels. In this process of transformation, technology plays its part regarding satellite and cable and signal digitization. This process could play the same transformative role as that data transmission played in the telephone monopoly with the lowering, thanks to technology, of protective barriers of the natural monopoly, the increasing difficulties on the part of regulators, in avoiding the by-pass. In order to do this it is however necessary to find out more about the economy of channels.
THE ROLE OF LAW

Obviously there is a lot of material for the regulator and it is important, to this end, that the regulator be one. We recall that this aspect concerns other aspects such as questions concerning antitrust laws on TV and those on the surveillance of content and on the right to information.
It is the regulator’s capacity, starting from the European regulator, that can lead to competition. In fact, there is a revolution in this sector called netcasting. It is a modality to gradually introduce interactivity in the activities of broadcasting. This will be possible if the final consumer has, at low price, all the opportunities offered by technology and by the market. And this requires, in fact, that the competition mechanism work

ROLES AND CHALLENGES OF MULTIMEDIA

In order to participate in the challenge of television multimedia, no matter what the area of belonging is, it is important to fix long-term goals, to develop a wise investment policy and a close-knit network of dialogue and alliances with other operators,  to be able to be ahead of others in the race.
The fine line that separates the different sectors of information will lead to an opposite tendency to that which we have seen from the 1980s onwards which professed the specialization of roles. It is credible to imagine that in a scenario where the areas of technological development are so close together to be overlapping, the strategy of the great multimedia participants will be geared in fact to the search of partners with different specializations and competencies with which to unify forces and globally control the market. This is why alliances between telecommunications, publishing and computer-related groups, as the sum of specific know-hows, will lead to a new form of globalization where it will be important to consider each single area by respecting a common strategy.
THE ADVENT OF AD-MATICS

New media pose the problem of understanding their technological content so that the best opportunities of utilization may be identified both in terms of expression and of pure cost-efficiency
Today a media planner does not have to know the technical aspects of a television transmission to arrive at the decision of using it in a spot.
But the dividing line between choice of channel, creation of the message, and technical execution for the most efficient result will be much finer thanks to the new computer technologies. The possibilities offered by computer technology are infinite already today and the communications solutions that could blend well with it are known to very few advertising executives.
In order to understand them it is necessary to plunge into technological matter, to live at close contact with it, follow step by step the birth of new products and communication channels.
The dialogue between publicity experts, particularly those who have best followed the evolution of media and who know the expressive possibilities of the new media, and computer experts, those who live in a technological environment, could give life to a new professional figure: the ad-matic, half advertiser and half computer expert.
THE TOTAL MEDIUM: TELEPUTER OR COMPUVISION?

The information superhighways hypothesized by Bill Gates of Microsoft and all the computer world are more near to be realized in North America, perhaps very soon, because it has accumulated a technological and content-wise advantage during the first years of their life and expansion. This advantage will guarantee their advent at the moment when infrastructures and wide band will be ready for use.
Interactive TV takes time to impose itself because of long and costly experimentation while waiting for the wide band which offers users a low level of interactivity. It should find millions of followers among American middle-class families who must have their daily dose of generalist TV and talk shows.
For PCs, the Internet and tens of millions of users in the world who are already navigating in the future of information, the wide band will be an exceptional launching pad.
PERSPECTIVES IN THE POST-TV ERA

In Italy there is still a generalist public, but there are also other audience aggregations that are quantitatively relevant defined, perhaps with limiting term, target or niche audiences.
When referring to these segments of audience, it may be thought of people who read the same books, listen to the same music, watch the same films, consume the same products. A much more extended segment than what could be imagined. This public does not find that the supply is adequate to their needs in mass television, and is searching for more innovative and quality programs through personalized channels. It may also be said that the passage from mass media to personal media, theorized by Negroponte in 1982 has found an initial yet imprecise demonstration in the explosion of theme channels.

The situation, although it is fluid, imposes urgent choices even if they work only on the medium term. The delay of the Italian experience compared to other European countries allows, under a certain profile, a certain advantage compared to those who started before. The advantage may be profitably used only taking into account stimuli and continuous evolutions that other entertainment forms have on our tastes, our way to be informed and to have fun.
Television products have always been mono-media. It happened sometimes that a film was made from a TV series, that a radio or theatrical performance was made of a TV sitcom. During the last few years a kind of production has established itself mostly for economic and market needs and it that can be defined as oligomedia, using the synergies between different media both in terms of product and of market.
Until now however nobody has conceived an enlarged multimedia form which operates at 360 degrees on the whole universe of media through a digital platform and which produces modular works where each version interacts with the others. This multimedia is different from the accidental one because it is an organic modality of design and not of production, a sort of engine  where each medium accumulates and gives back energy. An important consequence of this way of thinking is in the fact that television structures will no longer have as their ultimate goal that of producing programs but rather material for multimedia and multichannel works. And the same can be said of publishing firms.
The day when it will be clear that multimedia is something more than a digital support, that is a different way of designing, executing and distributing products for all media, publishing companies and television structures will have to be radically re-designed in their structure and functioning.
In order to develop a culture capable of adapting to the new scenario of the digital platform it will be necessary to redesign the structures of the information industry following horizontal paths thus building a multitude of bridges that connect media to each other.
INTERACTIVE REVOLUTION AND FRUITION OF THE TELEVISION PRODUCT

Cybernetics today is seen by many as an instrument of a new alphabetized elite. And yet digital technology’s flexibility allows a simplification of functions such as the verbal command of programs and it brings a resulting decline in prices, probably greater than the corresponding decline of the initial television costs.
Cybernetics opens towards new forms of relationship, learning, representation and communication. Digital languages favor a progressive slide towards somatic, psychomotor languages, bodies that are increasingly less linked to the authority and the centrality of texts and increasingly more the actors of simulation rather than spectators, or creators of environments rather than inhabitants. It is in this sector that the Information Technology will play an epochal role,  through a gradual renewal of the supply of the audiovisual product.
The interactive revolution permitted by the digital platform does not mean the disappearance of the passive fruition of the television product but rather progressively adding to mass television channels, theme channels,  Pay TV those interactive services channels that, especially in the beginning, will be experienced by the average spectator as a sort of super televideo.
Startling indications come instead from the programming and fruition of videogames and from artistic experimentation, those that are turning to the Information Technology in radically alternative terms compared to the traditional audiovisual culture.

Not all that connects is global

Internet, key element of digitization, represents the fastest growing communications instrument in history. It is calculated that from 1999 to 2001 the number of users will go from approximately 150 million to more than 700 million. It can be asserted that the concept of distance and time has changed. In the meantime, we must stop and reflect on the magical potential of what we are saying.
Internet, loyal to its name, world wide web, is a world network which marvelously connects its users excluding however all others. The world could still be divided between rich and poor, schooled and illiterate, computerized and non. A computer costs the average inhabitant of Bangladesh an amount that is equivalent to eight years of his earnings, while the average American buys it with the salary of one month. 88% of Internet users lives in industrialized countries that represent only 17% of the global population. The United States possess more computers than the rest of the world taken together. South Asia, with 23% of world population hosts less than 11% of Internet users in the planet. These figures come from the 10th Report of the United Nations on human development of the year 1999.

Globalization, which finds in digitization the best ally, represents the free flow of money and merchandise and allows the growing interdependence between individuals. It is the magic through which space shrinks, time contracts, frontiers disappear. But this communication can also be a conversation with high tones which excludes those who have a weak voice. Let’s remember that English is used in almost 80% of websites although less than one person in ten speaks it in the world.
Without demonizing a phenomenon representing the key to access to the third millenium, it must be said that the globalization that we know does not satisfy all of humanity’s expectations for tomorrow. There is reason to believe that market forces alone will not correct inequalities, imbalances, contradictions. The illusion that the globalization process could work according to the principle of communicating vases miraculously leveling differences in people’s quality of life has been abandoned. We need awareness to act in this sense. We need a strong mind that does not give up when confronted with the current speed of communicated thought. We need a careful study elaborating the new horizons opened by the multimedia era. For this it is fundamental to try to understand problems through all aspects, reasoning while keeping in mind technology, law, economy, politics and society.
THE LIMITS OF CYBERSPACE

Cyberspace, interconnection of the computers of the whole world, tends to become the major production, management and economic transaction infrastructure. It will soon become the main collective memory phenomenon. In a few tens of years cyberspace, its virtual communities, its images, its interactive simulations, its texts and signs, will be the essential mediator of humanity’s collective intelligence. It would be wrong to think however that this will happen automatically with all positive implications. We must not forget that the defense of exclusive powers, institutional rigidity and mentality and culture inertia can lead to social utilization of the new technologies that are much less positive. The challenge is open.
We must not forget that in addition to the plane of technological potential there is the plane of contents. To this end we quote Mr. Wang, head of Wang computer multinational: “It is certain that in the future will we communicate more and more easily. It does not mean that we will communicate better”.
SOCIAL ASPECTS OF DIGITIZATION

The question of the inclusion, that is, of the participation of everybody is a central element of the emergent information society. The inclusion, or more commonly defined cohesion, is measured with degree of participation of an individual in society. It is hoped for that all individuals will be able to fully play their role in the social life of the collectivity. The information society should contribute to reducing exclusion and not to augment it.
And yet there are many who express the preoccupation that the new communications and information technologies will increase instead of diminish existing inequalities. The risk is that a society of two speeds may develop privileging those who dispose of information compared to those who have been excluded. In this sense, we must single out two levels of exclusion. The first concerns those within western society who remain outside of cyberspace for various reasons. The other comes from the contrast between industrialized countries and third world countries.

It is an ample and complex issue. Those who manage the new technologies will undoubtedly play an important role by creating more cohesive and integrated collectivities, creating opportunities to avoid the exclusion of disadvantaged or marginal groups.
On another plane the danger of increased individual isolation in the information society must be valued, although there are signals of the manifestation of new forms of conviviality and human interaction around the new media. Equally important is to keep in mind that the virtual environment created  by the new technologies can alter our perception of concrete reality. In both cases there should be an in-depth study, and not a theoretical speculation, of the real effects of information and communications technologies. For example, it would be worth going into the phenomenon of  identity falsification when navigating on the net. There are cases mostly of net alterations in the information on age or on the census. In fact, navigating on the net allows people to relate to one another forgetting or hiding their physical reality.
Finally it seems important to create the conditions so that people, particularly less active groups, will not be obligated to adapt to the new technologies, but on the contrary technologies may adapt to human needs. With this outlook we can hope that the information society will not create new excluded categories but rather improve social integration and quality of life.
DIGITIZATION: A UNITED EUROPE BUT DIVIDED BY LAW AND TECHNOLOGY

Given the new social challenges, there must be an incisive change in the policies of the European countries to go beyond the old industrial economies of scale and legal harmonization needs associated with economic and monetary integration. To obtain a minimum of economies of scale is an essential condition for the commercial success of many information services and products. To this end we must underline the distinction between services offered on the net and the information products. The connection is close thanks to the very characteristics of digital technologies but conceptually the difference must be kept in mind. In any case the new forms of economy will amply surpass those possible in the case of industrial goods. The promotion of a harmonized European market concerning many of those services constitutes an essential element for a rapid diffusion but it can be important also for the establishment of a competitive multimedia European industry which will not forget quality.
Therefore, the peculiar challenge posed by the European information society is in fact the search for competition based on cultural, education and social diversity. A new economic integration outlook is needed so that the emphasis will not be only on the standardization and harmonization of products and services and on the accessibility of infrastructures and a greater transparency of markets in Europe. What becomes fundamental in fact is the recognition and the enhancement of the great variety of tastes, cultures and talents.
How information society can transform the productive potential inherent in the enormous multicultural wealth of Europe into a competitive advantage is a central question which will have to be confronted in the next few years.
MULTIMEDIA AND MULTICULTURAL

The risk that is immediately perceived is that globalization may involve homogeneity. In the case of Europe this would signify a flattening with the loss of the specifically cultural of each country. And yet a multicultural vision of Europe can be maintained and even favored by information society. Thanks to the use of new technologies in fact it is possible to ensure the transmission of ideas and cultural creations thus encouraging direct contacts between different groups which are often very distant from each other.
In the Union variety expresses itself especially at local level because the local collectivity and the region constitute the advanced leaders where diversity can be fed, promoted and integrated in the global community. It thus becomes important to enhance the local dimension. And the first step is to increase cultural production and consumption at local level. It is an important aspect that contributes to the development of the natural creativity of people, especially in remote or peripheral areas, and which plays also an educative role. For this, however, cultural services must be conceived in such a way that they will contrast, rather than follow, tendencies that are too centralized.

WITHOUT FRONTIERS AND WITHOUT FILTERS

On the other hand, if we focus on media we realize that the internationalization of media operations tends to increasingly bypass the regulations of national governments. In this scenario the concentration of mass media could create a privileged group of able lobbyists and political leaders capable of handling the attention of mass media and therefore of users. Public access to neutral high quality information is essential for the adequate functioning of democracy. If they don’t have impartial information on what  is happening in the collectivity, in the nation or in the world in general, citizens cannot play an active role in the running of society nor make conscious choices at the moment of elections.
In fact, even today, the information we receive is not selected and channeled in a completely neutral and transparent way. Mass media ownership becomes increasingly concentrated and a media conglomerate can control a whole series of newspapers, of television stations, of newscasts. If only a few organizations decide which information to give to the public and if there is no transparency on those who own the media, we must ask what limits to cultural and political pluralism in Europe derive from this. It must be underlined that in the current phase of technological and communications revolution new mass media forms, first of all the Internet, promote the decentralization of expression making it easier for the individual to communicate a message or his opinion to many other people.
CONCENTRATION EFFECT

A few EU countries have passed laws on mass media concentration but this legislation should be harmonized and coordinated at European level also to avoid distortions of competition between member states. It seems to be always more necessary to keep discussion always open on similar issues. In order to ensure a pluralistic representation of mass media, maintain freedom of expression and reinforce democratic debate in the EU, it is desirable to observe developments in the mass media environment.from an european point of observation, as better as possible.
It could ensure total transparency concerning cross-ownership of media, promote discussion and debate on issues concerning the distinction between information, knowledge and entertainment, study the influence of media on young people as well as the impact and the consequences of new technologies, like the Internet, on mass media and policy.

On the other hand, Digitization means having the possibility of touching any point and there creating a tangible effect through  our electronic extensions. Surfaces are no longer satisfying. We are even trying to penetrate what is non-penetrable, the video screen. A literal expression of the digitization culture is represented by virtual reality machines which let us penetrate the world of the video and explore the infinite depth of human creativity in science, art and technology.
The digitization culture implies, therefore, seeing through. We see through matter, space and time with our techniques of information search. Every time a digital technology allows a physical and mental access to some place on earth or in the depth of space, beyond any previous border, our mind follows it. The cultural consideration has to be up to the situation of the present and of the future.

Intervento Fausta Speranza

Testo dell’intervento di Fausta Speranza al convegno il 13 luglio 2001 a Genova
Parliamo di Internet non in quanto strumento o mezzo mediatico ma, piuttosto, come metafora della comunicazione di oggi. La rete, infatti, è sinonimo di simultaneità, velocità, annullamento o restringimento dello  spazio e del tempo. Inoltre, si può guardare all’informazione non solo come comunicazione di dati giornalistici ma come trasmissione in tempo reale di quei dati.  In questo modo riflettiamo sul concetto di globalizzazione dal punto di vista dei sistemi informativi e cioè intendendo per globalizzazione la copertura globale dell’informazione.
A questo proposito possiamo affermare, un po’ provocatoriamente, che non è tutto globale quel che connette. Internet è certamente il mezzo che ha bruciato più tappe nella storia delle tecnologie. Il telefono per raggiungere il 30% della popolazione mondiale ha impiegato trentotto anni, la TV  diciassette, il pc tredici, mentre Internet lo ha fatto in soli sette anni. La rete ha realmente cambiato il concetto di distanza e di tempo e ha allargato lo sguardo sul mondo. Non si può dimenticare, però, che il pianeta rimane diviso tra ricchi e poveri, istruiti e non istruiti, tra informatizzati e non informatizzati.  Se pensiamo che un computer costa in Bangladesh una cifra pari ad otto anni di stipendio medio mentre negli Stati Uniti si acquista con lo stipendio medio di un mese, ci rendiamo conto che la possibilità di accesso alla rete non è un fenomeno che si può definire globale.  In Malawi ci vogliono circa vent’anni di lavoro per comprare un pc e in Sierra Leone si dovrebbe approssimativamente parlare di centoventi anni.  Si potrebbe continuare non tralasciando alcuni luoghi dell’Africa dove ancora esiste il baratto e i calcoli diventerebbero impossibili.    Non meraviglia, inoltre, che  l’88% degli utenti di Internet viva nei paesi industrializzati che racchiudono, però, soltanto il 17% della popolazione del pianeta.  Colpisce che l’Asia del Sud, nella quale risiede il 23% della popolazione  mondiale, abbia circa l’1% di navigatori digitali.
Possiamo affermare che Internet, fedele al suo nome World Wide Web, è una rete ad estensione globale che connette prodigiosamente le persone di tutto il mondo ma dobbiamo aggiungere che collega chi è connesso. Gli altri sono esclusi. Il tempo si contrae, lo spazio si restringe, le frontiere scompaiono, però rischiamo di affidarci ad una conversazione dai toni alti che esclude i molti che non hanno voce. Può trattarsi di una comunicazione che non lascia spazi per inserirsi perché compattata come accade nell’ambito degli scambi digitali di dati.
Un’altra riflessione che può essere utile riguarda la lingua inglese: viene utilizzata nell’80%  dei  due miliardi e mezzo di siti web registrati al mondo fino ad oggi, eppure meno di una persona su dieci la parla.   Sono dati riportati dal Rapporto mondiale sulla popolazione pubblicato ogni anno dall’ONU. Si riferiscono al Rapporto del 2000 e forse qualche cifra nell’aggiornamento cambierebbe, ma senza alterare la fotografia della situazione.
A questo punto va chiarito che non si intende demonizzare il processo di globalizzazione dei sistemi informativi che piuttosto rappresenta la chiave di accesso al Terzo Millennio. Si deve tenere presente, però, che questa magia rende ancora più esclusi gli esclusi. Vale la pena di ricordare che all’inizio del secolo scorso la proporzione tra ricchi e poveri era indicata con la cifra di 8 a 1, oggi viene indicata come 75 a 1.  La fiducia che sembrava si potesse riporre nell’effetto “vasi comunicanti” che, prodotto dalla globalizzazione, sarebbe stato in grado di livellare le condizioni sociali della popolazione mondiale, si è rivelata una illusione.  Ormai siamo in grado di valutare che, se la copertura globale dell’informazione, come altre forme di globalizzazione, non viene gestita, non arriva affatto a ricoprire il mondo abitato. Su questo si sono espresse personalità molto autorevoli come il Presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, il Segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, e il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Ritengo, in ogni caso, che i dati numerici siano utili alla riflessione e se finora abbiamo parlato di esclusione per ciò che concerne i paesi poveri, ora vale la pena di dare uno sguardo all’Italia.  Più di un italiano su quattro risulta conquistato da Internet. Nel 1999 gli utenti erano circa sei milioni e solo due anni più tardi sono arrivati ad essere undici milioni, pari al 23,4% della popolazione. Siamo, con questo dato, vicini alla Francia (25%), più lontani dall’Inghilterra (34%) e ben distanti dalla Svezia (69%).  Possiamo comunque vantare una posizione dignitosa.  Ma se facciamo l’identikit di questo 23,4 % di popolazione italiana scopriamo che il 99,5% ha un’età inferiore ai 40 anni, è maschio, vive al Nord ed ha un reddito medio-alto.
In ogni caso, non dobbiamo parlare solo di esclusione, perchè perderemmo di vista altri aspetti significativi sui quali rimanere vigili. Ragioniamo su questo:  i vari mass media stanno convergendo in Internet. Si guarda felicemente alla rete come ad una fonte globale: ci ritroviamo connessi con le principali biblioteche e con web cam in tutto il mondo e il prodigio è reale, ma c’è sempre l’altro aspetto delle “magnifiche sorti e progressive” della civiltà, delle quali ci parlava Leopardi. Siamo collegati con le biblioteche del mondo ma il nostro mass media diventa uno solo. C’è il rischio di assottigliamento delle fonti.  I vari mezzi di comunicazione, infatti,  stanno convergendo in Internet. Si parla del famoso medium totale che raccoglie intorno al web, radio, TV e telefono oltre che la scrittura e il pc. Collegati con tutto il mondo, dunque, potremmo usufruire di un solo medium totale e delle fonti di informazione da lui veicolate. Non è un processo negativo di per sè ma uno sviluppo da capire. Stiamo già vedendo oggi come la conversione di molti gruppi editoriali e centri di informazione abbia creato una concentrazione di potere che non ha nulla a che vedere con la pluralità delle fonti che ci si aspettava da uno strumento globale come Internet.
Parlando da giornalista, inoltre, sottolineo che la grande velocità dei nuovi mezzi di comunicazione, la cosiddetta “notizia in tempo sempre più reale”  apre una problematica enorme: la verificabilità delle fonti. Non c’è il tempo necessario per il controllo delle notizie che pubblichiamo  perché siamo costretti ad inseguire a livelli estremi l’attualizzazione. In questo modo la notizia si coriandolizza. Abbiamo sempre l’ultimo aggiornamento e nelle redazioni è forte la tentazione di dare sempre l’ultimo dettaglio ma si dimentica sempre di più di ricostruire l’antefatto. Mi chiedo quanti possano realmente capire il continuum di una notizia, che non riguardi un fatto di cronaca che viene spesso morbosamente riproposto in tutti i suoi dettagli.
Mi sembra che il rischio paradossale sia la difficoltà di possedere e gestire le informazioni a fronte delle nuove illimitate possibilità che abbiamo di essere raggiunti dalle notizie. L’autorevole massmediologo canadese Derrick De Kerckhove afferma che i mass media deformano la nostra psiche perché sono un’estensione del pensiero, una specie di arto-fantasma mai abbastanza integrato al corpo e alla mente. Ci ricorda che anche di fronte ad Internet dobbiamo cercare di tutelare  la connessione tra l’estensione dei nostri sensi, la mente e il corpo. Si tratta di essere in grado di gestire ciò di cui stiamo usufruendo  e certamente non di rinnegarlo.   Accenniamo soltanto al problema della extraterritorialità di Internet che si pone come zona franca che sfugge alle normative territoriali. Un eventuale controllo su fenomeni come la pedofilia, che ha tristemente trovato nella rete  un utilissimo strumento di promozione, deve fare i conti con accordi internazionali finora impensabili perché da riferire ad un ambito virtuale e non a confini geografici. Non può mancare uno sforzo di inventiva per aggiornare, in questo caso, gli aspetti legislativi di battaglie a crimini di vecchia data. E il punto è sempre quello: capire e gestire fenomeni in fieri che accanto a grandissime potenzialità  presentano forti rischi.
Anche per sottolineare le non scontate potenzialità, propongo due esempi di dati, questa volta  di natura decisamente positiva. Il primo riguarda la Russia: nascono ogni giorno cinque nuovi siti web dedicati all’informazione,  tuttora risalgono in tutto a circa 4000 ed è certamente una vittoria della libertà di informazione.  Gleb Plavonsky, sociologo dissidente ora consigliere di Putin, ha detto che Internet rappresenta l’occasione unica e la vera speranza di riequilibrio dell’informazione, essenziale per pluralismo e democrazia.   Il secondo esempio ci porta in Spagna, precisamente in Andalusia, in  un paesino vicino a Granada dove hanno avviato un sistema di teledemocrazia. Ricordiamo che la zona ha il reddito più basso di tutta la Spagna. Il Consiglio comunale è connesso ad Internet e dopo il dibattito, durante la pausa telematica,  si chiede alla popolazione di esprimere la propria opinione sulle proposte. Solo più tardi si vota. Anche qui, certamente, è fondamentale la differenza tra chi è connesso e chi no. Ma la vincente positività del caso è riposta nelle scelte fatte in fase progettuale. Prima di avviare il sistema di teledemocrazia, infatti, nel 1999, lo Stato ha provveduto alla distribuzione di un computer per ogni abitante e all’istituzione di corsi di aggiornamento anche per i cittadini più anziani. In tema di esclusione, d’altra parte, gioca un ruolo fondamentale  la scelta di un percorso formativo per quanti ancora non hanno acquisito gli strumenti per “navigare”.  Un percorso formativo che deve passare attraverso la diffusione dei pc, ma soprattutto attraverso una scolarizzazione dell’informatica, anche per chi per andare a scuola non ha più l’età.
In definitiva, anche per quanto riguarda i media e i sistemi informativi,  la globalizzazione è un fenomeno ineluttabile che non va nè ostacolato nè osteggiato ma neanche subito. Piuttosto, va governato, che non significa censurato ma, piuttosto,  progettato, promosso e tutelato. Non può essere abbandonato a se stesso.

IL GUSTO DEI MEDIA PER LA CATASTROFE

IL GUSTO DEI MEDIA PER LA CATASTROFE
“Guerra e media: il gusto della catastrofe” è il titolo di un convegno organizzato dall’Università degli Studi Roma Tre e dall’Associazione Stampa estera, promotrice Marcelle Padovani, corrispondente de “Le Nouvelle Observateur”. Di fronte all’ennesimo dibattito, viene da chiedersi se è ancora utile riflettere sulla relazione guerra e media. La risposta è, senza dubbio alcuno, sì. Primo, perché la guerra non è finita e secondo, perché l’analisi di come i media si comportano all’interno dei grandi eventi dovrà diventare una delle nostre funzioni critiche fondamentali. Capire i media sarà nei prossimi anni vitale per la libertà dell’informazione e dei cittadini stessi. Anche la globalizzazione, infatti, altro non è che un fatto comunicativo.
Gli organizzatori di questo convegno hanno sottolineato una verità che è sotto gli occhi di tutti (basta lasciarsi andare alle serate in tv),  “questa è stata una guerra combattuta dai media, più che con i media, in cui l’uso dell’immagine da trasmettere ha giocato e gioca ancora un ruolo fondamentale”. Per l’appunto, dunque, potere mediatico sommato al potere delle immagini, cioè alla televisione.
Gli interventi di apertura sono stati affidati ad alcuni docenti, togliendo in questo modo al convegno la visuale degli storici del momento, anteponendo quella dei filosofi, che hanno dato così della guerra una visione più analitica e distaccata.
Hanno parlato con vivacità Franco Monteleone, docente di storia della Radio e della Televisione, Giacomo Marramao, docente di Filosofia Politica, Enrico Menduni, docente di Linguaggio Radiotelevisivo ed è poi intervenuto Giampiero Gamaleri, docente di comunicazioni di massa a Roma Tre. Molto interessanti per le informazioni che hanno dato e per il diverso punto di vista gli interventi di Samir Al Quariati della televisione araba Al Jaazira e di Francisco Arajo Neto, corrispondente per il brasiliano “O Globo”. Altri esponenti del giornalismo hanno portato la loro esperienza e riflessione:  Roberto Morrione, direttore di “Rainews 24”,  Guido Rampoldi, inviato di “Repubblica” e Fausta Speranza, di Radio Vaticana e collaboratrice di Comunicazione di Massa all’Università RomaTre, che ha parlato di “buchi neri dell’informazione” spiegando che nessuno poteva immaginare né prevedere l’11 settembre però non si giustifica  il silenzio e l’assenza di informazione nel prima. Nessuno parlava di Bin Laden e delle sue reiterate minacce, dei Taleban e delle efferate scelte di un regime che lanciava proclami di odio contro gli Stati Uniti, della Jihad, dell’Islam.   D’accordo con questa valutazione, Roberto Morrione ha aggiunto come nella disinformazione ci si ricade subito dopo l’effetto allarmismo da catastrofe, ricordando che l’Afghanistan è scomparso dalle pagine dei giornali  con i combattimenti ancora in atto e senza una conclusione del conflitto e, dunque, senza analisi o riflessioni.

La chiave della lettura di questa guerra è stata in questo convegno la parola “catastrofe”. Con l’aiuto del vocabolario leggiamo il senso profondo di questa parola che ha a che vedere con rivolgimenti, sciagure ed eventi gravissimi, qualcosa che attiene alla natura e sembra una calamità, senza soluzione nella sua negatività. Ma è qualcosa di più che la parola catastrofe sottolinea in questa guerra. Un po’ come nella tragedia greca l’accadimento così come viene proposto dai media è subito, più che spiegato o illustrato ai lettori, come dovrebbe. Questa guerra vista dai e sui giornali è stata chiamata da Franco Monteleone la cultura del disastro, una guerra tutta diversa dalle altre, senza un nemico identificabile, una guerra che ha creato il rischio della narcosi. Telespettatori e lettori sono stati vicini all’ assuefazione ad un dramma, come ha detto Giacomo Maramao, un dramma prigioniero di una estetica delle immagini televisive. Tanto da diventare simile ad una specie di serial del terrorismo, una narrazione a puntate trasmessa in diretta, come ha detto Enrico Menduni.  «Le gesta delle Brigate Rosse furono un cupo serial, così gli attentati dell’Eta». Un attentato diventa per la tv dunque un evento mediale. In altre parole, ha detto Menduni: «Il parlarne produce un effetto positivo sull’organizzazione che l’ha realizzato come la performance di una industria migliora i corsi borsistici delle sue azioni».
Ma le notizie sull’11 settembre davvero erano così catastrofiche e virtuali nella loro esposizione su giornali e tv? L’analisi critica della stampa italiana e straniera è stata realizzata da un gruppo di studenti del corso di Sociologia dei media, coordinati da Marina Loi, nel corso di una ricerca promossa da Marcelle Padovani e dal professor Meduni, per il corso di Studi “La comunicazione nella società della globalizzazione”. La ricerca ha dimostrato quanto il giornalismo italiano non sappia rinunciare allo spettacolo, creando consapevolmente o meno un’atmosfera di catastrofismo, come si diceva  in apertura. Cominciando con i grandi quotidiani, come “La Repubblica” (ricerca di Marco Tullio Liuzza), “Il Corriere della Sera” (Silvia De Feo, Davide Scafuro, Maria Chiara Di Felice), che troppo spesso cedono alla tentazione di trasformare ogni protagonista in personaggio e di enfatizzare le notizie e puntare al colore più che ai fatti, sino a giornali come il “Messaggero” (Valentina Proscio), che puntano decisamente i riflettori sul lato emotivo, enfatizzando uno stile da romanzo e da intrattenimento stile fiction tv, al “Mattino di Napoli” (Patrizia Corsaro) che ha evocato atmosfere da fine del mondo. Nessuno è esente da quello che oggi si chiama preziosamente infotainment, nemmeno l'”Espresso” (Luca Patrignani, Alessandro Marascia e Francesco Riccardi), tantomeno le televisioni, “Canale 5” (Simon Cittati, Pietro Bardelli, Diego Nannuzzi),  “Sciuscià” di Michele Santoro (Ilario PIagnerelli, Lucia Bracci, Maria Chiara Perugini, Raffaella Polselli).
E gli stranieri? Tutti più bravi di noi. La stampa francese (ricerca di D’Onofrio, Denti e Loi) si fregia di “Approfondimenti, sobrietà, rigore e toni poco inclini al sensazionalismo, di un rapporto misurato tra scrittura e immagini, meno grafici, meno virgolettati, meno fotografie”. Insomma più contenuti.
“Le Nouvel Observateur” (Silvia Tarquini) usa “toni pacati ma determinati, ha attenzione ai musulmani che hanno condannato l’attentato”, etc.. Serietà e accuratezza nelle fonti per “L’Economist” (Paola Taqruini); riflessivo l'”International Herald Tribune”. Elogi dunque alla stampa estera dagli studenti. Aggiungiamo noi una critica. Sono elogi facili, visto che partiamo da un confronto con un giornalismo notoriamente sensazionalista, come il nostro, viziato da uno strapotere e da una competizione difficile come quella della tv. Fausta Speranza, giornalista di Radio Vaticana e collaboratrice di Comunicazioni di Massa dell’università Roma Tre, che ha analizzato le tv ha sottolineato come dopo un iniziale impegno per un giornalismo serio, anche le tv abbiano ceduto al sensazionalismo scegliendo la strada dell’allarmismo, sia nelle immagini che nei contenuti.   Un comportamento che sembra ancora più colpevole perché quella professionalità,  che non manca anche in Italia e che scende in campo di fronte all’evento straordinario, viene poi sacrificata, in una seconda fase più ragionata, alle logiche di un giornalismo-spettacolo. Quell’allarmismo che di solito si nutre di delitti, di stupri, di incidenti, di ondate di immigrati, nei giorni successivi  all’11 settembre  è ritornato  sotto forma di terrore dell’antrace, accompagnato da vaiolo, peste, veleni chimici.  Salvo poi, ha sottolineato Fausta Speranza, non parlarne più dall’oggi al domani.

Interessantissimo e da ampliare lo spunto sui bambini che hanno visto la guerra in tv (Valentina Diaco). Ottima idea per una ricerca anche istituzionale. Tre milioni di piccoli telespettatori, dai 4 ai 10 anni, hanno visto la tv in prima serata: 40 mila bambini per “Porta a Porta”, 53 mila per “Sciuscià”, 180 mila per il “TG2” e 210 mila per il “TG1”. Gli effetti? Scontati: ansia, assuefazione e abbassamento della soglia della sensibilità. I lettori di domani saranno, dunque, potenzialmente meno critici di noi.