Il vertice umanitario mondiale

Impegno per la pace

di Fausta Speranza

Seimila partecipanti, tra cui cinquanta leader mondiali. Prende il via, lunedì 23 maggio a Istanbul il primo vertice umanitario mondiale, voluto dal segretario generale dell’Onu, Ban-Ki-moon. Per due giorni, nella città turca si riuniranno  rappresentanti di governi, agenzie per gli aiuti umanitari, comunità colpite, società civile e settore privato.

Parteciperà anche la delegazione della Santa Sede presieduta dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, della quale faranno parte  l’Osservatore permanente presso le Nazioni Unite a New York, arcivescovo Bernardito Auza, e l’Osservatore permanente presso l’ufficio delle Nazioni Unite ed Istituzioni specializzate a Ginevra, arcivescovo Silvano Tomasi.

Lo scenario è drammatico e noto. Ogni giorno, le cronache  parlano di nuove vittime della violenza. Su dieci, nove di queste sono civili. E sono centoventicinque milioni le persone direttamente coinvolte in questa vera e propria guerra mondiale a pezzi.

L’obiettivo ultimo della mobilitazione che ha portato al vertice  è, in sostanza, tutelare l’umanità, mettendo in campo una cooperazione davvero mondiale. Dalle guerre più diverse ai disastri ambientali più dimenticati. Lo scopo è ambizioso e i piani di azione sono innumerevoli e complessi.

Per questo primo incontro, sono cinque le tematiche fondamentali indicate come chiavi di lettura. La prima è la priorità delle priorità: ridurre e prevenire i conflitti. Contestualmente viene l’impegno per garantire il rispetto del diritto umanitario.

Le leggi internazionali non mancano ma il punto è «far rispettare le norme che tutelano l’umanità», come è scritto nel titolo di una delle tavole rotonde. Oggi le guerre, che restano comunque drammatiche, sono asimmetriche, senza una contrapposizione precisa di eserciti o schieramenti di forze, e troppo spesso non c’è rispetto dei più basilari principi dei regolamenti internazionali.

In tema di umanità, un presupposto è fondamentale, anche se troppo spesso dimenticato. È l’idea che, per parlare di umanità nel suo complesso, nessuno debba essere lasciato indietro. Da qui, il dovere di assicurarsi che sempre meno persone siano penalizzate da un’economia globale che non conosce sostenibilità.

C’è poi una tavola rotonda dedicata a un tema sintetico quanto essenziale:  ridurre i rischi. Infine, il dibattito che appare più concreto di tutti, quello su come aumentare i finanziamenti.

L’appello, che emerge già prima del summit, arriva anche alle religioni e nello stesso tempo è lanciato proprio dalle religioni. A Istanbul infatti ci sarà un dibattito speciale proprio sull’impegno delle confessioni religiose.

C’è un antefatto: in vista del vertice umanitario mondiale, un anno fa, a Ginevra, i rappresentanti di quattro religioni hanno partecipato alla giornata di dibattito dedicata proprio al ruolo speciale svolto dalle istituzioni e organizzazioni religiose nelle zone di conflitto. All’incontro, promosso dall’Ordine di Malta, hanno partecipato cristiani, musulmani, ebrei, buddisti.

In quell’occasione Jemilah Mahmoud, per anni medico in prima fila in vari conflitti e scelto da Ban Ki-moon per guidare il team internazionale di preparazione del vertice di Istanbul,  ha ricordato che le organizzazioni a carattere religioso assicurano la maggior parte dell’assistenza umanitaria da cui attualmente nel mondo dipendono, per la stretta sopravvivenza, ben ottanta  milioni di persone. Le organizzazioni religiose sono  spesso le prime a intervenire sul campo nelle situazioni di emergenza umanitaria e per questo godono della fiducia delle comunità locali.  Un’altra caratteristica fondamentale è che il loro arrivo non è legato a interessi politici.

Ma anche i leader religiosi hanno  un obiettivo preciso da raggiungere, lavorandoci molto. Ed è far sì che tutti  si impegnino a giocare un ruolo nella battaglia contro i fondamentalismi.

Più in generale, da parte dei  leader politici, è necessaria una  doverosa assunzione di responsabilità affinché  cooperazione faccia rima con riconciliazione,  e perché l’impegno all’assistenza proceda di pari passo con un impegno serio per la pace.

In prima pagina, Osservatore romano 22 Maggio 2016

E’ morto il leader radicale Marco Pannella

Protagonista  della politica italiana

di Fausta Speranza

Marco Pannella è morto nella mattinata del 19 maggio a Roma dopo una lunga malattia. Pochi giorni fa aveva compiuto 86 anni. Nelle ultime settimane, con l’aggravarsi delle sue condizioni, moltissime sono state le dimostrazioni di interesse, di stima e di affetto giuntegli da ogni parte. Protagonista tra i più noti della vita politica italiana, è stato sempre in prima linea portando avanti battaglie appassionate contro la pena di morte, contro la fame nel mondo e per il miglioramento delle condizioni dei carcerati.

Il leader dei radicali, all’anagrafe Giacinto Pannella, era nato a Teramo il 2 maggio 1930. Il suo nome resta legato alla legge sul divorzio, introdotto in Italia nel 1970, e a quella sull’interruzione volontaria della gravidanza, che nel 1978 abolì il reato di aborto, limitandolo alle violazioni previste dal nuovo ordinamento. A queste battaglie si è aggiunto l’impegno contro il “proibizionismo”, cioè le innumerevoli iniziative e prese di posizione per la legalizzazione dell’uso della droga, e a sostegno dell’eutanasia.

Tra i più longevi personaggi della scena politica italiana, è stato deputato per i radicali dal 1976 al 1992. Dal 1979 è stato anche membro del Parlamento europeo per diversi mandati, accettando di ricoprire la carica di presidente di circoscrizione a Roma e in altre città.

Senza dubbio Pannella è stato uno dei protagonisti delle battaglie politiche, talvolta discutibili, in particolare a partire dagli anni Settanta, attraverso una mobilitazione senza precedenti della società civile. Come leader politico italiano, si è distinto per aver fatto costantemente ricorso al referendum e a metodi di lotta politica non violenti, come scioperi della fame e della sete, disobbedienza civile e sit-in. E durante l’ultimo digiuno aveva raccontato di aver ricevuto una telefonata dal Papa e di avere accettato di interromperlo come gesto di riconoscenza al Pontefice per il suo interessamento. Era il 25 aprile scorso.

Alla fine degli anni Ottanta, Marco Pannella aveva promosso la trasformazione dei radicali in partito “transnazionale”, un “transpartito”, che da allora concentrerà la sua azione politica verso gli obiettivi dell’abolizione della pena di morte in tutto il mondo, a iniziare da una moratoria, dell’affermazione universale dei diritti umani e della democrazia, dell’istituzione di un tribunale internazionale, nell’ambito delle Nazioni unite, contro i crimini di guerra e quelli contro l’umanità.

Pannella ha legato il suo nome ad alleanze con i più diversi schieramenti politici: con la sinistra, comunisti o socialisti, ma anche con il centrodestra. E ha sempre espresso opinioni liberiste in materia economica. Si è posto, dunque, al di fuori di una catalogazione precisa nel panorama politico italiano, abbracciando di volta in volta posizioni sostanzialmente “di sinistra”, sul piano dell’etica, e “di destra”, sul piano delle politiche economiche.

Una delle sue più significative battaglie è stata quella contro la “partitocrazia”, un sistema di fatto in cui l’eccessivo potere dei partiti arriva a sostituirsi a quello degli organi previsti dalla Costituzione. D’altra parte, Pannella non si riconosceva in una ideologia ben definita. «Una sete alternativa profonda, più dura, più radicale di altri»: così giustificava la scelta del nome Partito radicale.

Tra le sue prese di posizione, da ricordare quella durante il sequestro di Aldo Moro, quando si espose contro la linea della fermezza, e quella a difesa del giornalista e conduttore televisivo Enzo Tortora, arrestato su accuse di pentiti di mafia poi rivelatesi infondate.

Nel 1977 ha fondato l’emittente Radio radicale di cui è stato vivace animatore. La sua verve politica si è espressa anche con gesti al limite della legalità, come la provocatoria promozione di droghe leggere in tv, e con manifeste polemiche con i media, soprattutto quelli pubblici, ai quali rimproverava di dedicare a lui e al suo partito sempre troppo poco spazio.

Osservatore romano 20 Maggio 2016

Dal Mozambico in fuga verso il Malawi

Torna il clima da guerra dopo il ventennio di pace

di Fausta Speranza

Undicimila rifugiati in Malawi dal Mozambico, Paese dell’Africa orientale in cui, a 20 anni dal raggiungimento della pace, è tornato da tempo un clima di guerra.  L’Organizzazione internazionale per le migrazioni, Oim, conferma che da dicembre si registra un aumento degli arrivi con picchi di 250 persone al giorno.

Tanti arrivano come primo approdo nel campo di Kapise, nel distretto di Mwanza, a sud, ad appena 300 metri dalla frontiera con il Mozambico. Per mesi la maggior parte dei richiedenti asilo ha vissuto in condizioni di sovraffollamento in un’area di circa 100 chilometri a sud di Lilongwe, la capitale del Malawi, che in tutto conta 14 milioni di abitanti. Ad aprile, il governo del Malawi ha autorizzato l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’Unhcr, a ricollocare i richiedenti asilo in un’area che anni prima ospitava un campo per rifugiati a Luwani, a sud est, riutilizzata ora a questo scopo. Si tratta di un tragitto di 320 chilometri. Sono partiti solo i primi convogli. Non sono mancati e non mancano grandi disagi per i migranti.

Bisogna capire da cosa fuggono. In Mozambico si registrano scontri armati in aumento nelle province centro-settentrionali di Tete, Zambezia e Sofala. Soprattutto da lì fuggono gli sfollati.

A combattere sono i militari legati alla Renamo che sferrano attacchi all’esercito governativo, che risponde con azioni di dura repressione. La popolazione civile è fortemente coinvolta.

Bisogna tornare indietro e ricordare che  il Mozambico ha conosciuto la tragedia della guerra civile dal 1977 al 1992, con la contrapposizione tra il Frelimo, il partito di area socialista al governo dall’indipendenza dal Portogallo nel 1975, e la Renamo, il movimento politico di opposizione legato al blocco occidentale e protagonista della rivolta armata.  Il 4 ottobre 1992, dopo un’intensa opera di mediazione della Comunità di Sant’Egidio e della diplomazia italiana, le due parti hanno raggiunto l’accordo di pace.

Il punto è che dal 2013 è scoppiata una forte tensione che è sfociata da un anno in una grave crisi politica, che vede contrapposti esponenti del Frelimo, l’attuale partito al potere, ed esponenti della Renamo, l’ex movimento di guerriglia divenuto il principale partito d’opposizione.

I primi segnali di peggioramento del clima politico sono arrivati con la minaccia del vecchio leader della Renamo, Afonso Dhlakama, di raggiungere il suo piccolo esercito, che gli accordi di pace avevano mantenuto in vita, nella zona montuosa di Gorongosa, in provincia di Sofala, minacciando il ricorso alle armi. Sono seguite trattative tra il governo e la Renamo che, però, non hanno portato ad alcun risultato. Sono scoppiati i primi incidenti, che sono via via aumentati, fino a rendere la situazione esplosiva.

Alle sofferenze della popolazione guarda la chiesa locale, che chiede la collaborazione di tutti per la pacificazione. La Conferenza episcopale del Mozambico, Cem, ha indetto per  domenica 22 maggio, festa della Santissima Trinità, una giornata di preghiera.

La stabilizzazione del Paese sembrava un traguardo ormai raggiunto ma è improvvisamente rispuntata la minaccia di una nuova guerra fratricida. Questa volta sembra che più che le ideologie c’entrino le risorse minerarie.

A questo proposito ci racconta qualcosa Pietro De Carli, che per anni ha coordinato progetti  di ricostruzione in Paesi africani e poi in Afghanistan, autore di recente del volume Fuga a Occidente. Migrazioni nella globalizzazione, edito da Albatros, che invita ad andare al di là del focus su Mediterraneo e rotta balcanica.

Significative le scoperte di carbone, gas, petrolio e terre rare. Le tensioni, dunque, più che a rancori antichi sembra siano legate a nuove partite per il controllo dei proventi e delle royalty dei giacimenti.

La fase di sviluppo economico è stata vissuta dalla popolazione con un rialzo del Prodotto interno lordo, Pil, ma senza un sensibile miglioramento delle condizioni di vita.  Per non parlare di quanti sono stati coinvolti direttamente negli espropri delle ampie estensioni di aree agricole affidate in concessione a lobby internazionali, avvenuti di pari passo con la distruzione di vaste aree forestali. La corsa all’eldorado delle materie prime a basso costo tocca soprattutto il Nord del Paese e coinvolge multinazionali occidentali e Paesi emergenti, come Cina, India e Brasile. Un esempio, la multinazionale brasiliana “Vale” è assegnataria dell’enorme miniera di carbone di Moatize, in provincia di Tete, dove è avvenuto uno degli episodi di violenza, con la polizia che ha disperso un centinaio di manifestanti che rivendicavano la tutela dei diritti delle comunità locali.

Altri esempi di teatri di violenza. Il 27 aprile, racconta de Carli, un gruppo di contadini ha scoperto una fossa comune contenente 102 corpi in una zona denominata “76” del Monte Gorongosa, dove si concentrava il nucleo armato della Renamo, in prossimità di un cantiere stradale e degli scavi di una miniera abusiva.

In definitiva non sembra possibile pensare solo a una gestione dell’emergenza da parte dell’Unhcr.

Osservatore romano 17 Maggio 2016

Non chiamateli illegali

Monito del Consiglio d’Europa sui migranti irregolari

di Fausta Speranza

Irregolari ma persone. Irregolari, ma non illegali. Il Consiglio d’Europa lancia un forte monito a non dimenticare i più basilari diritti umani di migranti non regolari su territori europei. Lo fa con la raccomandazione pubblicata dalla  Commissione europea contro razzismo e intolleranza, Ecri, che innanzitutto invita i Governi ad «astenersi dal designare come “illegali” quei migranti che sono entrati o sono presenti in uno Stato membro senza il permesso di immigrazione».

Il messaggio comincia guardando il tutto dalla parte dei cittadini. La prima indicazione, infatti, riguarda chi, in qualche modo o a diverso titolo, assicura a migranti irregolari alcuni servizi che rientrano nei diritti fondamentali, riconosciuti come tali dal primo articolo della Convenzione internazionale. L’indicazione è precisa: non vanno discriminati. Precisamente si afferma che «chi fornisce cure, alloggio, istruzione, o protegge e assicura i diritti di donne, bambini e uomini presenti irregolarmente sul territorio del proprio Stato non deve essere punito e non deve essere tenuto a denunciare queste persone alle forze dell’ordine e le autorità migratorie».  L’affermazione non è da poco. C’è altro. Si legge nero su bianco che «gli Stati devono vietare per legge a chiunque fornisca servizi essenziali, nel pubblico e nel privato, di segnalare alle autorità migratorie i migranti sospettati di essere irregolarmente presenti sul territorio dello Stato, o trasmettere dati e informazioni su di loro».  Si parla esplicitamente di assistenza sanitaria, ma non solo.  Si legge di «opportuna assistenza amministrativa e giuridica».

L’organismo del Consiglio d’Europa, che più si occupa di combattere  razzismo e discriminazioni, ritiene che queste misure siano essenziali per assicurare che gli Stati garantiscano effettivamente, come sono tenuti a fare in base agli obblighi che hanno volontariamente sottoscritto, i diritti umani. L’Ecri sottolinea che i diritti di persone migranti sono violati ogni volta che una legge impone a chi li assiste di segnalare la loro presenza alle forze dell’ordine, perché questo impedisce direttamente o indirettamente a donne, bambini, e uomini di avere accesso ai servizi di cui hanno bisogno.

Nel testo di fa l’esempio di numerosi effetti negativi. Quelli più ovvi sono sotto il profilo della salute di tutta la popolazione. Si dice espressamente che la paura di essere denunciata può indurre una persona con una malattia contagiosa a non farsi curare, o a impedire la vaccinazione dei bambini. L’Ecri avverte che non solo c’è il rischio di rendere i migranti irregolarmente presenti più vulnerabili a forme di sfruttamento e abuso, ma si alimenta anche l’intolleranza e la discriminazione verso tutti gli immigrati.

Dalle indicazioni di principio alle misure concrete. Oltre a decriminalizzare l’assistenza ai migranti irregolarmente presenti sul territorio, ogni Stato deve assicurare che possano accedere a tutti i servizi essenziali senza dover presentare documenti inerenti al loro “status migratorio”. Non è tutto qui. L’Ecri va oltre affermando che le autorità devono «proibire alle forze dell’ordine di condurre controlli nelle immediate vicinanze di scuole, ospedali, servizi per l’alloggio, centri di assistenza, banche del cibo e istituti religiosi».  Questo il contenuto chiave della sedicesima “raccomandazione di politica generale” che l’Ecri rivolge ai Governi dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa.  Ricordiamo che le raccomandazioni non sono vincolanti, ma a volte vengono riprese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

In prima pagina, Osservatore Romano 13 Maggio 2016

Quando la legge aiuta il trafficante

La tratta frutta alla criminalità 150 miliardi di dollari all’anno

dalla nostra inviata a Strasburgo Fausta Speranza

Non solo vittime degli scafisti. Richiedenti asilo, rifugiati e migranti sono “particolarmente vulnerabili” alla tratta di esseri umani che in Europa frutta alla criminalita’ almeno 150 miliardi di dollari all’anno. Gia’ 10.000 minori non accompagnati sono scomparsi dal loro arrivo in Europa negli ultimi mesi e, nella terra di nessuno dell’illegalita’, restano sacche ben organizzate per sfruttamento sessuale, lavoro forzato, espianto di organi.

L’allarme e’ preciso. Viene da Europol, l’ufficio europeo di polizia. Se i Governi dell’Ue non fanno di piu’ e meglio, le vittime che oggi sono 30.000 possono crescere in modo esponenziale.

La prima indicazione concreta e’ quella di non fare dei cosiddetti hotspot un’occasione mancata per la prevenzione. I punti di crisi, voluti per gestire l’emergenza di flussi di migranti senza precedenti, sono pensati per la registrazione dei rifugiati, per assicurare loro servizi e assistenza. In realta’, avvertono le forze di polizia che si muovono sul piano europeo, sono il primo nodo critico in cui si gioca il futuro di tante potenziali vittime.

A cogliere l’allarme e’ il Parlamento europeo, che vota giovedi’ una risoluzione che richiama fortemente gli Stati membri Ue a superare divisioni che lasciano maglie larghe all’illegalita’. Si tratta di migliorare la raccolta dati e uniformare le legislazioni.

Innanzitutto, si chiarisce che “le differenze tra legislazioni degli Stati membri agevolano notevolmente le attivita’ dei gruppi appartenenti alla criminalita’ organizzata”. Inoltre, si legge che “il rischio di essere perseguiti penalmente e’ ancora troppo basso e le sanzioni comminate per prevenire il reato sono inadeguate rispetto ai potenziali profitti”.

Il pensiero va a norme differenti per esempio per il sanzionamento di clienti di prostitute. E infatti l’Europarlamento invita a uniformarsi sui canoni di severita’ del Nord Europa. Ma le distanze da colmare, per un’azione che si possa dire europea, sono a partire dal livello primario delle definizioni. Innanzitutto, la definizione di tratta di esseri umani e’ diversa Paese per Paese. E, ad esempio, in tema di minori, non c’e’ un’unica espressione per identificare il fenomeno criminale. Alcuni Stati membri considerano la tratta di minori una forma autonoma di sfruttamento, altri assimilano le vittime minorenni agli adulti. Cosi’, denuncia la risoluzione, “si ostacola la possibilita’ di creare un quadro globale di intelligence e definire le migliori risposte investigative a livello dell’Ue”.

Quando si parla di tratta, i settori sono tristemente tanti. Dall’agricoltura all’accattonaggio; dall’industria del sesso, al matrimonio forzato; dallo sfruttamento sessuale sulle strade, a quello on line; dalle adozioni illegali, al traffico di organi umani. Non puo’ esserci un’unica strategia valida per tutti. Ma si capisce quanto sia urgente che, a monte di tanti specifici settori di intervento, ci sia collaborazione transnazionale tra polizie e magistrature. Ci sono anche piani che ricongiungono tanti fili. Primo fra tutti, quello di Internet che, cosi’ come per il terrorismo, gioca un ruolo chiave nel reclutamento, in questo caso di vittime. Lo fa attraverso false offerte di lavoro, pubblicizzando “servizi” e favorendo lo scambio di informazioni tra reti criminali. Ci vuole collaborazione tra polizie ma anche un impegno politico perche’ Internet non sia solo questo, ma sia anche piattaforma per sensibilizzare e mettere in guardia le potenziali vittime. Ci vogliono programmi precisi.

Tutto si ricollega sul piano del denaro. Per questo l’appello ai Governi e’ forte. Si deve collaborare con maggiore efficacia a livello di polizie e strutture economiche per “indagare sugli aspetti finanziari e il riciclaggio del denaro”. Inoltre, si deve “rafforzare la cooperazione ai fini della confisca e del congelamento dei beni delle persone implicate nella tratta”.

In ogni caso, ci sono classificazioni che colpiscono e fanno pensare. Al momento la tratta e’ considerata “un’attivita’ a basso rischio e ad alto profitto”. Se non c’e’ un’azione efficace, con l’aumento di migranti irregolari, la stessa forbice semplicemente si allarghera’ ulteriormente. Nella risoluzione del Parlamento europeo, al di la’ degli interventi mirati suggeriti, c’e’ una raccomandazione generale quanto essenziale. Si legge: “Per prevenire la tratta di esseri umani e il traffico di persone e’ importante creare canali per l’immigrazione legale e sicura”.

Osservatore Romano 12 Maggio 2016

Grecia sotto la lente

Alla Plenaria dell’Europarlamento

dalla nostra inviata a Strasburgo Fausta Speranza

“Una revisione nell’ambito di aggiustamento economico per la Grecia e’ possibile”. E’ quanto ci dichiara Il vicepresidente della Commissione per l’Euro e il Dialogo sociale, Valdis Dombrovskis, dopo che l’Eurogruppo ha accolto positivamente il completamento del pacchetto di misure economiche varato da Atene. Il gruppo dei Paesi dell’euro tornerà a riunirsi il 24 maggio e potrebbe esserci in quella data il via libera alla prossima tranche di aiuti. Nel frattempo le misure di breve, medio e lungo periodo per il debito saranno discusse dai tecnici del gruppo.

Dombrovskis e il Commissario per gli Affari economici e finanziari, Pierre Moscovici, relazionano e discutono della situazione di Atene con gli eurodeputati a Strasburgo, nell’ambito della Plenaria del Parlamento europeo.

L’attenzione e’ tornata su Atene dopo che il Parlamento greco ha approvato la contestata riforma fiscale e delle pensioni. Si tratta di misure che hanno riacceso le proteste di piazza ma che il primo ministro, Tsipras, difende definendole “necessarie per rispettare gli accordi con i creditori”. In effetti si tratta di provvedimenti essenziali per sbloccare la seconda tranche del terzo piano di aiuti internazionali per 86 miliardi di euro, previsto nel periodo 2015 – 2018.

Il punto è che la Grecia chiede anche una ristrutturazione del debito, consapevole che altrimenti non uscirà mai dalla crisi. La decisione finale spetta all’Eurogruppo ma va detto che saranno fondamentali le riunioni del Fondo monetario internazionale, Fmi, la prossima settimana, a Washington. A questo proposito, Moscovici ci assicura che la questione della riduzione del debito sarà all’ordine del giorno.

Dombrovskis si puo’ dire che “i dati recenti mostrano che l’economia greca è più forte di quanto si poteva prevedere nell’inverno scorso e che in particolare dall’estate tanti passi in avanti sono stati fatti”. Ma ci dice anche che “non c’è tempo per l’autocompiacimento” e parla di “negoziati che devono continuare intensi e continui”. Gli fa eco Moscovici, che sostiene che l’obiettivo di bilancio per la Grecia rimane un avanzo primario del 3,5 per cento nel 2018. La maggior parte dei risparmi dovrebbe venire da una riforma globale del sistema pensionistico, dalle riforme fiscali sul reddito personale e le misure contro l’evasione fiscale altri risparmi. E Moscovici ammette: “La richiesta di ulteriori sforzi in questa fase, avrebbe un effetto negativo”.

In particolare le norme appena varate dal Parlamento di Atene riguardano la stabilizzazione, e i conseguenti risparmi, il sistema pensionistico ed un aumento delle tasse per complessivi 3,6 miliardi di euro. Sono misure che si inseriscono in un pacchetto più ampio da 5,4 miliardi di euro concordato con l’Ue e il Fmi.

Guardando al Fmi e alle riunioni cosiddette di primavera della prossima settimana viene da pensare che al momento stanno a Washington gli ostacoli maggiori. Il Fmi chiede di mettere sul tavolo la ristrutturazione del debito greco ma ritiene per altro irrealistico il raggiungimento del target di avanzo primario del 3,5 per cento fissato dall’Ue per il 2018. Secondo il Fmi, si fermerebbe all’1,5 per cento. Quindi, non sembra dare credibilita’ alle ‘misure di contingenza’ e al meccanismo per farle scattare, proposto invece da Atene con il sostegno della Commissione, per rassicurare i Paesi piu’ scettici, guidati dalla Germania.

A sollevare la discussione c’e’ la lettera che, secondo quanto riportato dal Financial Times, la direttrice del Fmi, Christine Lagarde, ha scritto ai ministri dell’Eurozona. Emerge la volonta’ di “discutere contemporaneamente le misure di contingenza, la ristrutturazione del debito e il rifinanziamento”. Nella lettera, Lagarde spiega che per dare il suo sostegno “è essenziale che il finanziamento e la ristrutturazione da parte dei partner europei della Grecia siano basati su target fiscali che siano realistici perché sono sostenuti da misure credibili per raggiungerli”. Appunto il Fmi non crede al raggiungimento del 3,5 per cento, “non adeguato per l’economia del Paese”, né alle misure di contingenza. La Commissione Ue, invece, sostiene Atene. Gia’ più volte il Commissario agli affari economici, Moscovici, ha ribadito che l’obiettivo dell’avanzo strutturale e’ realistico e raggiungibile e che il meccanismo di contingenza, in linea con le esigenze costituzionali greche che non consentono di adottare misure in anticipo, e’ una rassicurazione sufficiente.

Di fronte a tutto cio’, Moscovici ricorda che il processo decisionale non è soggettivo, piuttosto i negoziati si basano sul protocollo d’intesa raggiunto ad agosto dello scorso anno, che “fa da tabella di marcia per tutte le parti coinvolte”. Moscovici ci tiene anche a sottolineare l’importanza del coinvolgimento del Parlamento europeo. A gennaio la Conferenza dei presidenti del Pe ha approvato una serie di misure per rafforzare il controllo su tutte queste questioni dando vita al Gruppo di lavoro sull’assistenza finanziaria, indicato con la sigla Fawg. Moscovici spiega che la Commissione parla anche in base agli elementi raccolti dagli esponenti del gruppo in missione la scorsa settimana ad Atene. Un occhio in più, nel lavoro della cosiddetta Trojka, formata sostanzialmente da Commissione Ue, Banca centrale europea, Fmi.

Osservatore Romano 11 maggio 2016

Non più profughi ostaggio del regolamento di Dublino

Tutta aperta in ambito europeo la discussione in tema di revisione di  diritto di asilo. Dopo le proposte della Commissione, l’Europarlamento tenta di rilanciare con i suoi principi guida. Se ne discute alla Plenaria che prende il via a Strasburgo. La prospettiva che si intravede è quella di una sostanziale differenza di impostazione.

Per chi volesse fare domanda di asilo in uno dei Paesi europei, finora c’erano dei punti fermi comuni fissati dal regolamento di Dublino, che in realtà poi lasciava ai singoli Stati membri margine di manovra su alcuni aspetti anche importanti. Ma tra i paletti fissati, c’era l’obbligo per i richiedenti asilo di presentare la domanda nel Paese di primo ingresso. Questo, nella recente ondata migratoria, ha creato situazioni di blocco di profughi, praticamente sequestrati in territori di secondo o terzo approdo, senza poter presentare  domanda. Da qui, l’urgenza di una revisione, in realtà richiesta anche dalla  serie di differenze, nei tempi e nelle modalità scelti dai vari Stati in base al margine di manovra riconosciuto. In definitiva, la revisione non è messa in discussione da nessuno. Bisogna però capire cosa si voglia.

All’Assemblea parlamentare si discuterà di un sistema centralizzato, con domande d’asilo da presentare direttamente all’Ue e non al singolo Stato membro. L’Europarlamento vorrebbe superare l’impasse, in cui tanti si sono trovati, svincolando i richiedenti asilo dal territorio in cui sono e prevedendo  una responsabilità tutta europea nell’accoglimento o meno della domanda. In sostanza, è come dire che la richiesta si farebbe a Bruxelles, anche se finalizzata ad essere accolti in un Paese o in un altro.

Il principio alla base delle proposte già avanzate dalla Commissione, invece, è  lo stesso di sempre. I richiedenti asilo devono presentare domanda nel primo Paese di ingresso, salvo che non abbiano famiglia in un altro Paese. L’unico impegno di centralizzazione sta nel concepire un Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, EASO, pensato dalla Commissione come una vera e propria agenzia Ue. Dovrebbe nascere in rafforzamento di Eurodac, la banca dati delle impronte digitali dell’UE, che sappiamo voluta per contrastare la migrazione irregolare.

Si capisce che la distanza delle posizioni tra Esecutivo e Parlamento al momento non è da poco. Un punto fermo comune è la consapevolezza che i migranti continueranno ad arrivare alle frontiere e a chiedere asilo. La tragedia umanitaria  non può essere trattata come una emergenza transitoria, avendo acquisito ormai un carattere strutturale. Obbligo internazionalmente riconosciuto è garantire che chi necessita di protezione la riceva.

Da più parti continua ad arrivare la sollecitazione a assicurare una gestione più appropriata dei flussi migratori. E qui si torna ai punti chiave, cioè la gestione delle frontiere esterne, la cooperazione con i Paesi terzi, la lotta contro il traffico di esseri umani e i meccanismi di reinsediamento di rifugiati direttamente nell’Ue. Sappiamo che sono tutti fronti in discussione, aperti come lo è quello dei diritto di asilo. Su tutti l’Unione Europea sta faticosamente cercando una linea comune o un’azione concreta comune. Ognuno di questi punti ha il suo esempio scottante. Dal Brennero, con l’ipotesi di chiusura del valico con l’Italia da parte dell’Austria, alla questione dei fondi da trovare per i Paesi africani che devono collaborare per calmierare i flussi e dunque l’immigration compact proposto da Roma e approvato in tutto meno che nella concreta proposta di eurobond, senza che siano arrivate ancora altre idee di finanziamento. C’è poi la maggiore integrazione di forze  contro i trafficanti da attuare nei fatti e i meccanismi di reinsediamento da rispettare, che Grecia e Italia ancora non hanno visto attuati.

Di certo c’è che dalla crisi è emerso che alcuni Stati membri sono stati sottoposti a pressioni enormi a causa delle carenze di un sistema generale, che non era stato concepito per affrontare situazioni come quelle recenti. Su questo sembra proprio che non ci siano alternative possibili. Ogni qualvolta uno Stato membro sia eccessivamente sotto pressione, deve scattare la solidarietà e un’equa ripartizione delle responsabilità. Ma ancora si discute se debba significare accoglienza obbligata di un certo numero di migranti o se si possa ammettere che qualche Paese sia esentato, in virtù di un contributo monetario, che qualcuno ipotizza di quantificare in 250.000 euro per ogni profugo.

Dimitris Avramopoulos, commissario per la Migrazione e gli Affari interni ci dice che è fondamentale che la Commissione lavori <fianco a fianco> con il Parlamento europeo e gli Stati membri. Si vedrà quali raccomandazioni precisamente emergeranno dall’Europarlamento e quali saranno accolte. Una su tutte non dovrebbe essere dimenticata da nessuno. Qualunque riforma dovrebbe tenere conto del principio di solidarietà per i più bisognosi ben ribadito nei Trattati fondativi dell’Unione.

di Fausta Speranza

Osservatore Romano del 10 maggio 2016

L’Africa emigra al suo interno

Cresce anche il numero degli sfollati interni

di Fausta Speranza

L’Africa non è il maggiore “produttore” di migranti. Anzi è il continente con la più alta percentuale di rifugiati. E quello che soffre maggiormente del fenomeno degli sfollati interni. Dati Onu alla mano, è questo lo scenario che emerge guardando, non dall’esterno ma dall’interno, al rapporto tra migranti e Africa e tra migranti e guerre.

Il 65 per cento di quanti si muovono dall’Africa subsahariana restano all’interno del continente. Solo in Sud Africa, ogni anno entrano almeno 250.000 migranti.  Al di sotto del Sahara ci sono quasi 15 milioni di sfollati, all’incirca un terzo del totale mondiale.  Il campo profughi più affollato al mondo è in Kenya. È il campo di Dadaab, che circonda le città di Hagadera, Dogahaley e Kambios, non lontano dal confine con la Somalia, da cui provengono i disperati ospiti. Oltre 400.000 persone. Altri campi sfiorano queste cifre in altri Paesi.

Certamente se dici fame e guerre, dici Africa. Nel mondo, a vivere fuori dai confini nazionali sono 244 milioni di persone, pari al 3,3 per cento della popolazione. Sessanta milioni fuggono da conflitti, violenze, crisi umanitarie, emergenze naturali. E, di questi, ben il 25 per cento sono africani.

A ben guardare, però, le guerre tra vari Stati in Africa sono diminuite e quello che scatena le violenze sono soprattutto le disuguaglianze economiche. Negli anni Novanta, le crisi sono state provocate dai grandi conflitti in Africa occidentale, nella Repubblica Democratica del Congo, in Somalia, dalla tragedia in Rwanda, o dalla coda della guerra in Angola. E gli strascichi sono ancora tanti. Basti citare la situazione difficile dei rwandesi fuggiti in Zambia, dove vivono momenti di seri scontri con la popolazione locale.

Non mancano poi casi di xenofobia. I più gravi riguardano i cittadini dello Zimbabwe che hanno trovato rifugio in Sud Africa, dove sono al centro di  tensioni da 15 anni. Ci sono poi altre situazioni difficili anche se non esplosive, come ad esempio i 93.000 cittadini della Repubblica  Centroafricana fuggiti in Ciad, che ospita anche 360.000 profughi dal Sudan.

Non si può dire che non ci sia crescita economica. Il punto è che aumenta lo sviluppo solo per meno del 30 per cento della popolazione. Squilibri e tendenza all’urbanizzazione, in qualche caso selvaggia, producono l’esodo verso le grandi città, come Nairobi in Kenya, Lagos in Nigeria,  Johannesburg in Sud Africa, Addis Abeba in Etiopia, Lusaka in Angola. Assembramenti con tensioni sociali altissime.

Il tutto si unisce a un altro fenomeno che rende unica al mondo quest’area. La crescita demografica che non conosce curve di discesa. Si delineano così i contorni di una situazione in movimento da anni e anni.

In tutto questo quadro, è relativamente recente l’esodo massiccio verso l’Europa. C’è da dire che dai Paesi del Maghreb da tempo si parte verso il Vecchio Continente e verso il Medio oriente e che il flusso da Marocco e Tunisia in realtà si è fortemente ridotto con gli accordi tra Unione europea e governi locali. Certamente non ha funzionato l’accordo con la Libia,  Paese smembratosi alla caduta di Gheddafi.  Ma ci si chiede se bastino la destabilizzazione in Libia e la tragica guerra da cinque anni in Siria a giustificare le cifre della recente emergenza umanitaria sul Mediterraneo e sulla rotta balcanica.

C’è qualcuno, che studia da vicino il continente nero, che a questa interpretazione non ci sta. È il professor Aldo Pigoli, docente di Storia dell’Africa contemporanea all’Università cattolica del Sacro Cuore a Milano ci dice di essere certo che neanche lo stop al conflitto in Siria riuscirebbe a far diminuire il flusso, dovuto in realtà a una riorganizzazione del business del traffico di esseri umani senza precedenti. Business che, come mette in crisi le strutture dell’Unione europea, così mette in crisi i processi di integrazione delle macroregioni in Africa.

Osservatore Romano 8 Maggio 2016

Visti umanitari contro i viaggi della morte

Per dire Basta ai viaggi della morte

di Fausta Speranza

Visti umanitari, per dire basta ai viaggi della morte: è la proposta contenuta nella risoluzione che il Parlamento europeo vota martedì 12. Una presa di posizione in controtendenza rispetto alle ultime decisioni europee di chiusura delle frontiere e soprattutto in aperto contrasto con quella che la relatrice della risoluzione, Cecile Kyenge, chiama la «fabbrica della paura».

Visti umanitari perché ci sia riconoscimento dell’umanità, spiega, in un’intervista all’Osservatore Romano e a Radio Vaticana, l’eurodeputata Kyenge, sottolineando che «la via l’ha indicata Papa Francesco, quando a Lampedusa ha riconosciuto gli invisibili, ha portato un fiore ai morti in mare senza un nome». E ora va sull’isola greca di Lesbo, simbolo dell’emergenza sulla rotta balcanica, mentre, afferma Kyenge, l’Europa e l’Onu sembrano di nuovo aver smarrito la via.

Precisamente, la proposta di un visto umanitario significa dare la possibilità alle persone di fare richiesta di asilo direttamente nei Paesi dove si trovano, fuori dell’Unione europea e fuori anche dei Paesi confinanti come la Turchia, a casa loro, ovviamente in  ambasciate o consolati. L’ obiettivo è uno solo: evitare che salgano sui barconi della morte. In fondo sarebbe il modo più efficace di contrastare l’indegno traffico di esseri umani, che dalla via del Mediterraneo si è spostato sulla rotta balcanica, con il suo inesorabile prezzo in termini di vite umane spezzate o piegate.

A livello di vertici europei, si discute tanto su come superare o perfezionare il regolamento di Dublino, che finora ha vincolato le richieste di asilo al Paese di primo approdo, congestionando alcune frontiere e sequestrando di fatto migliaia di perone in un limbo. Esattamente quanto successo a Lesbo, dove Francesco si reca proprio perché l’isola dell’Egeo è divenuta simbolo delle condizioni disumane delle persone in fuga da Siria, Iraq, ma anche da Paesi africani, verso il nord Europa. A Lesbo, il 16 aprile, arriverà l’abbraccio umanitario del Papa, insieme con il Patriarca ecumenico di Costantinopoli e l’arcivescovo ortodosso di Atene.

L’abbraccio si fa appello alla politica, ma anche alle coscienze di tutti: leader e cittadini.

Il testo di cui parliamo è al voto dell’Europarlamento, che rappresenta direttamente i cittadini: quei cittadini che i media raccontano terrorizzati e arroccati su frontiere blindate.

Proprio dai loro rappresentanti arriva un segnale forte alla Commissione europea, esecutivo comunitario, e ai capi di Stato e di Governo. Si tratta della assise parlamentare più euroscettica della storia di Strasburgo.

Il punto è che emerge una proposta che va oltre l’emergenza e che tocca la radice dei problemi: conflitti e speculazioni. E qui risulta evidente che, al di là di qualunque euroscetticismo,  questa proposta va incontro agli interessi dei cittadini stessi, anche in termini di sicurezza.

Colpisce il numero di volte in cui nel testo della risoluzione torna la parola solidarietà. Non dovrebbe meravigliare perché nei Trattati fondativi dell’Europa unita è un termine cardine. A ben guardare, quello che stupisce è che non si tratta di una solidarietà declinata nell’emergenza, ma di una solidarietà che ragiona sull’arco ampio della prospettiva reale dei flussi migratori: decenni e non mesi o giorni. Anche questo è un modo per venire incontro ai bisogni reali dei cittadini: pensare politiche di ampio respiro. Si capisce che l’inganno di chi, con le parole di Kyenge, alimenta la <<fabbrica della paura>>, è anche quello di rubare lo spessore storico dei fatti migratori, appiattendo tutto su un piano falsato e illusorio, in cui sembra possibile sbarrare le porte senza una politica di lunga gittata.

A questo proposito, nel testo al voto, che certamente non rappresenta o racchiude la soluzione di tutto, si trova un altro elemento importante: oltre a concepire nuovi canali di migrazione legale attraverso i visti umanitari, si concepisce un progetto di accoglienza che vada oltre la direttiva comunitaria della Blue card, cioè della regolamentazione dell’immigrazione altamente qualificata.  In concreto, si chiede alla Commissione europea di non limitare il progetto a una categoria ristretta di persone, dagli ingegneri ai medici per capirci, ma di allargare la prospettiva, guardando anche ai nuovi bisogni del mercato. Dunque, categorie meno specializzate, lavori meno qualificati.

Non che non ci siano domanda e offerta su questo piano, ma troppo spesso sfuggono a certe politiche di integrazione.

Resta da dire delle incognite aperte dopo l’accordo, il mese scorso, tra Ue e Turchia per la gestione dei migranti, che prevede rimpatri, reinsediamenti di rifugiati. Il dubbio centrale è se l’intesa possa muoversi nel rispetto degli standard internazionali di diritti umani. Le convenzioni ci sono, viene ricordato da più parti, e bisogna applicarle. Su tutto, è fortissima l’attesa per le parole che a Lesbo saranno pronunciate dal Papa. Francesco, ci dice Cecile Kyenge, <<torna a indicarci la via>>.

di Fausta Speranza

Osservatore Romano dell’11 aprile  2016

Paura e speranza: in Ungheria tra i profughi

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Siriani, iracheni, afghani… Le storie dei disperati arrivati con ogni mezzo fin nel cuore dell’Europa. di Fausta Speranza

PAURA E SPERANZA: IN UNGHERIA TRA I PROFUGHI

Gli articoli del dossier

– Orban e gli ungheresi “traditi dalla storia”
– Il braccio di ferro tra Orban e la UE
– Anche nei Balcani, Italia in prima linea
– Wifi più che cibo e coperte

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Sair l’iracheno (sinistra) con padre e figlia incontrati lunga la strada (foto F. Speranza)

Sair è un ragazzo sui 25 anni. Cammina accanto al suo amico e si gira spesso a controllare che l’anziano dietro, sottobraccio a una ragazza, lo segua. Gli chiediamo se sono familiari, esita un attimo e poi ci dice: “Speriamo ci considerino tali e ci facciano salire sullo stesso autobus ma in realtà non lo siamo”. Sair ci racconta di provenire da Baghdad, capitale dell’Iraq infiammato ormai da oltre 20 anni di guerra e terrorismo e ci spiega che ha deciso di scappare quando uomini del sedicente Stato islamico lo hanno contattato chiedendogli di arruolarsi tra loro. “Uccidono innocenti – taglia corto –  non vorrei mai essere con loro, ma so che se rifiuti ti ammazzano e mio padre ha venduto qualcosa per darmi i soldi necessari al viaggio”. Sulla via – ci racconta – ha incontrato questo anziano e sua figlia, che invece vengono dalla Siria e, chiedendoci di non parlare a voce alta,  aggiunge che ormai non vorrebbero separarsi.

“Per gli ungheresi, noi parliamo la stessa lingua – sostiene – e dunque possono credere che siamo familiari”.  Sair sorride. E’ ben vestito e ci confida con fiducia che finora non ha speso tanti soldi, solo 2500 euro per la traversata dalla Turchia alla Grecia. Sorride soprattutto al pensiero di ritrovare suo fratello, partito dopo di lui, per la stessa tratta. “Appena potrò acquistare una sim telefonica che funziona in Europa – afferma – potrò parlarci e sapere che sta bene”.  “Sono sicuro che sta bene, e che non gli è successo come quelli partiti tre giorni prima di noi: affogati in 33”. “No, a mio fratello non è successo, sono sicuro”.  Ci saluta dicendo nel suo buon inglese: “Sai, la situazione a Baghdad è peggio di quanto raccontano tutte le news, non farti mai venire in mente di andarci”.
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Ragazzo che non parla inglese (foto F. Speranza).

Ha i capelli tinti di biondo e una maglietta un po’ attillata. Mentre ripete che avrà una nuova vita, ostenta un sorriso che definiremmo sfacciato se non fosse palese la reazione eccitata che segue una grande paura. Ha circa 40 anni e non vuole dirci il suo nome né farsi fotografare. Ci dice che vuole fare il parrucchiere e poi,  dopo qualche minuto di conversazione,  si para dietro un sorriso diverso, pacato e ci dice: “Sono afghano, per quelli come me non c’è proprio posto in Afghanistan”. Tamas Lederer di Migraion Aid ci spiega: “Dall’Afghanistan sono tanti gli uomini soli, senza famiglia, anche perchè sono tanti gli omosessuali che scappano”.

Una donna, al cenno di un poliziotto, fa un passo avanti ma il marito vicino reagisce in modo quasi scomposto e la trattiene. Lui ha capito che il poliziotto in inglese ha accompagnato il gesto di via con l’indicazione precisa che su quell’autobus c’è posto ancora solo per due persone. Loro sono quattro: ci sono le due figlie piccole. Abbiamo osservato la scena e l’uomo si gira a spiegarci che sono partiti dalla Siria in venti, tutti familiari. In Turchia si sono persi: sono rimasti loro quattro e mai – ci dice – potrebbe separarsi dalla moglie e dalle figlie. Tira un sorriso di sollievo quando il poliziotto capisce e  lascia tornare indietro la moglie che sembra persa.

Un altro uomo sui trent’anni ci passa davanti a testa bassa per accedere agli autobus. Gli sorridiamo e gli chiediamo in inglese se ha qualcosa da raccontarci perchè i cittadini europei conoscano di più le storie di chi chiede di essere accolto. Ci dice con un’espressione sofferente: “no English”. Riabbassa la testa. Poi la rialza e inizia a parlare nella sua lingua, che non conosciamo. Ci fermiamo ad ascoltarlo, con un auspicio nel cuore: che l’Europa sappia comprendere quello che c’è da capire al di là delle parole.

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Una mamma, troppo stanca per farsi intervistare (foto F. Speranza).

Una donna cammina accanto al marito con un bambino in braccio ma poi si avvicina a noi lasciando il marito un po’ indietro, con un gesto che si distingue dal modo di fare delle altre donne che non fanno un passo se non accanto ad un uomo. Ha capito che stiamo facendo interviste e in inglese ci dice: “Peccato che sono troppo stanca per parlare”. Un attimo dopo è di nuovo vicino al marito, avvolta nella coperta e – ci sembra – in una nuvola di dolore

Dalla fila si stacca un ragazzino di dieci anni suscitando la reazione immediata ma molto composta di un poliziotto austriaco. Il ragazzino raccoglie un marsupio da terra. Il poliziotto non lo perde di vista un attimo ma lo lascia esultare con un compagno di giochi.

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Una ragazza siriana in attesa di salire sull’autobus per un’altra destinazione europea (foto F. Speranza).

da Famiglia Cristiana del 29 settembre 2015