L’Africa emigra al suo interno

Cresce anche il numero degli sfollati interni

di Fausta Speranza

L’Africa non è il maggiore “produttore” di migranti. Anzi è il continente con la più alta percentuale di rifugiati. E quello che soffre maggiormente del fenomeno degli sfollati interni. Dati Onu alla mano, è questo lo scenario che emerge guardando, non dall’esterno ma dall’interno, al rapporto tra migranti e Africa e tra migranti e guerre.

Il 65 per cento di quanti si muovono dall’Africa subsahariana restano all’interno del continente. Solo in Sud Africa, ogni anno entrano almeno 250.000 migranti.  Al di sotto del Sahara ci sono quasi 15 milioni di sfollati, all’incirca un terzo del totale mondiale.  Il campo profughi più affollato al mondo è in Kenya. È il campo di Dadaab, che circonda le città di Hagadera, Dogahaley e Kambios, non lontano dal confine con la Somalia, da cui provengono i disperati ospiti. Oltre 400.000 persone. Altri campi sfiorano queste cifre in altri Paesi.

Certamente se dici fame e guerre, dici Africa. Nel mondo, a vivere fuori dai confini nazionali sono 244 milioni di persone, pari al 3,3 per cento della popolazione. Sessanta milioni fuggono da conflitti, violenze, crisi umanitarie, emergenze naturali. E, di questi, ben il 25 per cento sono africani.

A ben guardare, però, le guerre tra vari Stati in Africa sono diminuite e quello che scatena le violenze sono soprattutto le disuguaglianze economiche. Negli anni Novanta, le crisi sono state provocate dai grandi conflitti in Africa occidentale, nella Repubblica Democratica del Congo, in Somalia, dalla tragedia in Rwanda, o dalla coda della guerra in Angola. E gli strascichi sono ancora tanti. Basti citare la situazione difficile dei rwandesi fuggiti in Zambia, dove vivono momenti di seri scontri con la popolazione locale.

Non mancano poi casi di xenofobia. I più gravi riguardano i cittadini dello Zimbabwe che hanno trovato rifugio in Sud Africa, dove sono al centro di  tensioni da 15 anni. Ci sono poi altre situazioni difficili anche se non esplosive, come ad esempio i 93.000 cittadini della Repubblica  Centroafricana fuggiti in Ciad, che ospita anche 360.000 profughi dal Sudan.

Non si può dire che non ci sia crescita economica. Il punto è che aumenta lo sviluppo solo per meno del 30 per cento della popolazione. Squilibri e tendenza all’urbanizzazione, in qualche caso selvaggia, producono l’esodo verso le grandi città, come Nairobi in Kenya, Lagos in Nigeria,  Johannesburg in Sud Africa, Addis Abeba in Etiopia, Lusaka in Angola. Assembramenti con tensioni sociali altissime.

Il tutto si unisce a un altro fenomeno che rende unica al mondo quest’area. La crescita demografica che non conosce curve di discesa. Si delineano così i contorni di una situazione in movimento da anni e anni.

In tutto questo quadro, è relativamente recente l’esodo massiccio verso l’Europa. C’è da dire che dai Paesi del Maghreb da tempo si parte verso il Vecchio Continente e verso il Medio oriente e che il flusso da Marocco e Tunisia in realtà si è fortemente ridotto con gli accordi tra Unione europea e governi locali. Certamente non ha funzionato l’accordo con la Libia,  Paese smembratosi alla caduta di Gheddafi.  Ma ci si chiede se bastino la destabilizzazione in Libia e la tragica guerra da cinque anni in Siria a giustificare le cifre della recente emergenza umanitaria sul Mediterraneo e sulla rotta balcanica.

C’è qualcuno, che studia da vicino il continente nero, che a questa interpretazione non ci sta. È il professor Aldo Pigoli, docente di Storia dell’Africa contemporanea all’Università cattolica del Sacro Cuore a Milano ci dice di essere certo che neanche lo stop al conflitto in Siria riuscirebbe a far diminuire il flusso, dovuto in realtà a una riorganizzazione del business del traffico di esseri umani senza precedenti. Business che, come mette in crisi le strutture dell’Unione europea, così mette in crisi i processi di integrazione delle macroregioni in Africa.

Osservatore Romano 8 Maggio 2016