Balcani d’Europa

  Al giro di boa il processo di integrazione dell’Albania nell’Ue

di Fausta Speranza

La questione dei Balcani in Europa torna di primo piano e l’attenzione è puntata sull’Albania. Dopo l’inverno segnato dalla pressione migratoria proprio sulla rotta balcanica, a Bruxelles ci si è resi conto che il processo di sempre maggiore avvicinamento deve essere una priorità delle politiche europee e non un dossier minore. Proprio in questi giorni arrivano sollecitazioni a Tirana perché sblocchi la riforma della giustizia necessaria per procedere verso l’adesione all’Ue. Ma arrivano, oltre che da Bruxelles, anche da Washington.

A vent’anni dagli Accordi di Dayton, che con la firma a novembre 2005 mettevano fine al conflitto nella ex Jugoslavia, lo scenario è cambiato di molto. Dal 2004 la Slovenia fa parte dell’Ue e dal 2013 la Croazia è a tutti gli effetti il ventottesimo Stato membro. Ma c’è di più. Albania, ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Montenegro e Serbia sono ufficialmente Paesi candidati all’adesione all’Ue. E sono riconosciuti come «candidati potenziali» la Bosnia ed Erzegovina e il Kosovo. Tra l’altro, non si può dimenticare lo storico accordo tra Serbia e Kosovo, raggiunto nel 2013, con la mediazione europea.

Oggi, dopo mesi di difficili flussi trasnazionali e l’accordo sulle migrazioni con la Turchia che in alcuni momenti vacilla e che lascia aperte diverse incognite, risulta obbligato uno sguardo rinnovato al dossier Balcani. Un dossier che suscita interesse non solo ad ovest. Oltre alla storica influenza della Russia, c’è l’interesse sempre crescente dei Paesi del Golfo e della Cina. In quest’ottica si capisce anche meglio il pressing degli Stati Uniti. Nelle ultime ore, da Washington è arrivato l’invito a Tirana perché le parti politiche trovino un accordo sulla riforma del sistema giudiziario. Bruxelles chiede all’Albania un sistema che possa respingere la corruzione e rafforzare lo stato di diritto arginando le pressioni politiche.

In Albania, dopo mesi di stallo, potrebbe essere decisivo l’atteso incontro a inizio settimana tra il presidente del Consiglio, Edi Rama, del Partito socialista d’Albania, e il capo dell’opposizione di centro destra Lulzim Basha, del Partito democratico. Dopo l’ammissione a candidato all’ingresso, due anni fa, Tirana potrebbe ottenere quest’anno l’avvio dei colloqui per la piena adesione.

Alla vigilia del grande allargamento di dieci Paesi ad est, avvenuto nel 2004, a Salonicco i leader europei si pronunciavano solennemente firmando una dichiarazione in cui asserivano: «Il futuro dei Balcani è in Europa». Da allora si cerca di costruire quel futuro nei nuovi scenari di un’Europa fiaccata dalla crisi economica, indebolita da spinte nazionaliste proprio ad est e impaurita da flussi migratori, sicuramente consistenti ma che il continente, ormai a oltre mezzo miliardo di abitanti, dovrebbe poter gestire senza perdenti ripiegamenti.

Osservatore Romano 6-7 Giugno 2016

In Libano confermata l’inchiesta sulle forze di pace ONU

Caschi blu sotto accusa per il mercato nero di cibo

di Fausta Speranza

Si indaga sui caschi blu in Libano, perché c’è il forte sospetto di traffici illeciti di prodotti alimentari. Dopo la denuncia da parte del quotidiano «El Pais», che parla espressamente di coinvolgimento di militari del Ghana, dell’Italia, del Nepal, della Malaysia e dell’Indonesia, il portavoce della missione delle Nazioni Unite in Libano, Andrea Tenenti,  conferma che le indagini sono in corso «da tempo» ma «al momento non ci sono ancora prove che possano confermare una sistematica operazione legata al traffico d’alimenti o ancor meno il coinvolgimento di alcuni contingenti».

La frode, che sarebbe andata avanti dal 2010 al 2015, viene stimata in oltre 4 milioni di euro.  In sostanza venivano rivenduti a commercianti locali  prodotti destinati alle forze di pace, tra cui riso e biscotti, ma non solo, anche  frutta e verdura comprata localmente e prodotti surgelati, tra cui gamberi che sembra andassero a ruba. Parte delle 80 tonnellate di cibo messe a disposizione dei caschi blu settimanalmente.

Si sa che a indagare non è solo l’Onu ma anche il Governo libanese. Da Roma, lo stato maggiore della Difesa, dopo aver sentito il comando delle Nazioni Unite in Libano, afferma che «al momento il personale del contingente militare italiano risulta estraneo a tale vicenda». Da parte sua, la Procura militare fa sapere di essere impegnata a «verificare» la notizia, per stabilire se vi siano reati di rilevanza penale.

Si parte da un dato di fatto confermato da testimoni: la vendita in alcuni negozi in Libano, e anche nella capitale Beirut, di prodotti alimentari che riportano l’etichetta Unifil, l’acronimo di United Nations Interim Force in Lebanon.  Parliamo della  forza militare di interposizione creata il 19 marzo 1978, con le risoluzioni 425 e 426 del Consiglio di sicurezza, e che ha il suo quartier generale nella cittadina meridionale di Naqoura.  Il mandato della missione è stato rinnovato in seguito all’invasione israeliana del Libano nel 1982, poi del ritiro delle truppe israeliane nel 2000 e dell’intervento israeliano nel 2006. Attualmente si tratta di oltre 12.300 militari, che collaborano con circa 300 civili di provenienza internazionale e 600 civili locali.  Una presenza significativa, in termini di numeri e di lunghezza del mandato.

Nonostante codici di identificazioni e bolle controfirmate, parti delle derrate alimentari finivano nel  mercato nero.

L’inchiesta di «El Pais» parte da 21 centri di distribuzione in base alle rivelazioni di alcuni operatori, con la testimonianza chiave di un dipendente di un’impresa subappaltrice. Questa persona, che «El Pais» identifica con le iniziali  R.D. aveva l’incarico di supervisionare la distribuzione. A suo dire, quando si è accorto della truffa, ha riferito a qualcuno e poi ha cercato di entrare nell’affare per raccogliere prove. Oggi è sospeso dall’incarico in attesa di accertamenti.

Fa male il sospetto di trovarsi di fronte all’ennesimo caso di coinvolgimento di forze di peacekeeping in scandali. Finora ce ne sono stati soprattutto a sfondo sessuale.

Solo nove mesi fa, è stato eclatante l’allontamento, richiesto dallo stesso segretario generale, Ban Ki-moon, del senegalese Babacar Gaye da capo della missione nella Repubblica Centrafricana. Non erano solo voci le denunce di stupri e induzione alla prostituzione anche di minorenni, di cui si erano macchiati soldati francesi della missione stessa. Il comandante, pur non essendo coinvolto nei fatti, è stato ritenuto direttamente responsabile di mancata sorveglianza sui suoi soldati. Primo caso del genere.

A giugno 2015  c’era stato l’annuncio dell’Onu di un rinnovato impegno alla tolleranza zero. Solo in quell’anno e solo ad Haiti, erano stati 225 i casi di donne sfruttate sessualmente, di cui un terzo giovanissime. Ma  guardando indietro, dai 150 casi documentati nel 2005  in Congo non c’è mai stata tregua. L’Oios, il servizio di  investigazione interna del Palazzo di vetro, nei suoi dossier ha pagine drammatiche anche su Liberia e Sud Sudan. Si legge, tra l’altro, di «pretese in modo abituale di prestazioni sessuali, in cambio di cibo, denaro, telefonini vecchi, profumi».

Ma se gli scandali sessuali indignano particolarmente, non possiamo non ricordare il caso Oil for food, la questione dei fondi neri, che ha coinvolto funzionari dell’Onu e del Governo iracheno. Il programma, letteralmente “petrolio in cambio di cibo”, attivato dall’Onutra il 1995 e il 2003, intendeva permettere all’Iraq di vendere petrolio sul mercato mondiale in cambio di necessità umanitarie per la popolazione, evitando guadagni per eventuali spese militari. Si parla di illeciti per 50 miliardi di euro.

Ci si aspetta davvero una svolta in termini di tolleranza zero nei fatti, su tutti i fronti. Chi porta pace, chi deve assicurare il mantenimento della pace, non può macchiarsi di azioni criminose contro la popolazione. Azioni che, non solo vanno contro la dignità di ogni persona, ma seminano anche discredito, ostilità, odio.

Osservatore romano 28 maggio 2016

Migliaia di minori si perdono all’arrivo in Europa

Senza lasciare traccia

di Fausta Speranza

Si contano ma non si trovano. Sono i minori migranti che affollano i barconi della disperazione, ma che poi non lasciano traccia. Nel 2015 sono stati diecimila quelli scomparsi una volta arrivati in Europa.

Ogni anno nel mondo spariscono otto milioni di bambini. Per loro ha lanciato un appello il Papa lo scorso 8 maggio. Ed è l’unico a denunciare questa tragedia, sottostimata perché si minimizzano il numero dei minori perduti e i motivi della loro scomparsa. Bergoglio ha ben chiaro, sin da quando era vescovo, che le cause di questo tremendo fenomeno sono principalmente lo sfruttamento sessuale e il mercato di organi, entrambi molto redditizi.

«È un dovere di tutti — ha detto Papa Francesco— proteggere i bambini, soprattutto quelli esposti ad elevato rischio di sfruttamento, tratta e condotte devianti». Con l’auspicio che «le autorità civili e religiose possano scuotere e sensibilizzare le coscienze, per evitare l’indifferenza di fronte al disagio di bambini soli, sfruttati e allontanati dalle loro famiglie e dal loro contesto sociale».

In particolare, per quanto riguarda i minori stranieri in Europa, accade che perdano i familiari nel lungo tragitto che li porta dai loro Paesi di origine in altri Paesi, tra varie vicissitudini, prima di arrivare su un barcone. Ma più spesso si tratta di bambini e ragazzini ai quali i genitori vogliono assicurare un futuro diverso da quello che intravedono nella loro situazione di morte e violenza, anche senza poterli seguire.

Vogliono vedere fuggire questi figli anche a costo di affidarli a scafisti senza scrupoli o lasciarli in balia delle acque imprevedibili del mare. Questi genitori, disperati al punto di fare quello che nessun genitore vorrebbe fare, cioè rinunciare a proteggere e accompagnare i propri figli, non immaginano gli abusi che avvengono sulla via. Certamente, non devono avere idea del traffico organizzato che, secondo la forza europea di polizia Europol, sta ad aspettare questi minori.

Sono soprattutto bambini che non si ricongiungono ai genitori o che li hanno persi durante il viaggio, bambini rimasti senza protezione che non sanno dove andare né con chi. Ad attenderli c’è un «business organizzato» che, secondo i dati di Europol, frutta milioni e milioni di euro ogni anno.

Il lavoro minorile incide di meno rispetto al mercato del sesso e, su scala mondiale, a quello degli organi. Bisogna capire da quali maglie,  di un sistema che dovrebbe assicurare assistenza e che invece spesso è corrotto, sfuggano questi piccoli e giovanissimi.

Il problema riguarda in particolare l’Italia, Paese di approdo. Ma non solo. Ernesto Caffo, fondatore e presidente di Telefono azzurro, non esita a  parlare di «fallimento del sistema di integrazione per questa fascia di minori». Un fallimento che «incide in modo significativo sulla loro scomparsa». Gli operatori del settore lamentano buchi neri nella burocrazia, che interviene nel coordinamento tra enti locali coinvolti e varie comunità di accoglienza, che si trovano sul territorio italiano.

Ma bisogna riflettere anche sul coordinamento tra Paesi europei. Ci sono differenze normative tra Stati membri che giocano a sfavore di un impegno comune di contrasto al fenomeno. Un solo esempio: non c’è un’unica espressione per identificare il fenomeno criminale sui vari territori. Alcuni Stati considerano la tratta di minori una forma autonoma di sfruttamento, altri assimilano le vittime minorenni agli adulti. Questo, secondo Europol, rappresenta un primo ostacolo al lavoro coordinato di intelligence.

Infine, va ricordato che quando si parla di vittime di sfruttamento e di tratta, più in generale di più vulnerabili, con i bambini vanno citate sempre le donne, minori e non. Il copione, seppure in diversi contesti, è spesso simile.

In prima pagina, Osservatore romano 27 Maggio 2016

Il vertice umanitario mondiale

Impegno per la pace

di Fausta Speranza

Seimila partecipanti, tra cui cinquanta leader mondiali. Prende il via, lunedì 23 maggio a Istanbul il primo vertice umanitario mondiale, voluto dal segretario generale dell’Onu, Ban-Ki-moon. Per due giorni, nella città turca si riuniranno  rappresentanti di governi, agenzie per gli aiuti umanitari, comunità colpite, società civile e settore privato.

Parteciperà anche la delegazione della Santa Sede presieduta dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, della quale faranno parte  l’Osservatore permanente presso le Nazioni Unite a New York, arcivescovo Bernardito Auza, e l’Osservatore permanente presso l’ufficio delle Nazioni Unite ed Istituzioni specializzate a Ginevra, arcivescovo Silvano Tomasi.

Lo scenario è drammatico e noto. Ogni giorno, le cronache  parlano di nuove vittime della violenza. Su dieci, nove di queste sono civili. E sono centoventicinque milioni le persone direttamente coinvolte in questa vera e propria guerra mondiale a pezzi.

L’obiettivo ultimo della mobilitazione che ha portato al vertice  è, in sostanza, tutelare l’umanità, mettendo in campo una cooperazione davvero mondiale. Dalle guerre più diverse ai disastri ambientali più dimenticati. Lo scopo è ambizioso e i piani di azione sono innumerevoli e complessi.

Per questo primo incontro, sono cinque le tematiche fondamentali indicate come chiavi di lettura. La prima è la priorità delle priorità: ridurre e prevenire i conflitti. Contestualmente viene l’impegno per garantire il rispetto del diritto umanitario.

Le leggi internazionali non mancano ma il punto è «far rispettare le norme che tutelano l’umanità», come è scritto nel titolo di una delle tavole rotonde. Oggi le guerre, che restano comunque drammatiche, sono asimmetriche, senza una contrapposizione precisa di eserciti o schieramenti di forze, e troppo spesso non c’è rispetto dei più basilari principi dei regolamenti internazionali.

In tema di umanità, un presupposto è fondamentale, anche se troppo spesso dimenticato. È l’idea che, per parlare di umanità nel suo complesso, nessuno debba essere lasciato indietro. Da qui, il dovere di assicurarsi che sempre meno persone siano penalizzate da un’economia globale che non conosce sostenibilità.

C’è poi una tavola rotonda dedicata a un tema sintetico quanto essenziale:  ridurre i rischi. Infine, il dibattito che appare più concreto di tutti, quello su come aumentare i finanziamenti.

L’appello, che emerge già prima del summit, arriva anche alle religioni e nello stesso tempo è lanciato proprio dalle religioni. A Istanbul infatti ci sarà un dibattito speciale proprio sull’impegno delle confessioni religiose.

C’è un antefatto: in vista del vertice umanitario mondiale, un anno fa, a Ginevra, i rappresentanti di quattro religioni hanno partecipato alla giornata di dibattito dedicata proprio al ruolo speciale svolto dalle istituzioni e organizzazioni religiose nelle zone di conflitto. All’incontro, promosso dall’Ordine di Malta, hanno partecipato cristiani, musulmani, ebrei, buddisti.

In quell’occasione Jemilah Mahmoud, per anni medico in prima fila in vari conflitti e scelto da Ban Ki-moon per guidare il team internazionale di preparazione del vertice di Istanbul,  ha ricordato che le organizzazioni a carattere religioso assicurano la maggior parte dell’assistenza umanitaria da cui attualmente nel mondo dipendono, per la stretta sopravvivenza, ben ottanta  milioni di persone. Le organizzazioni religiose sono  spesso le prime a intervenire sul campo nelle situazioni di emergenza umanitaria e per questo godono della fiducia delle comunità locali.  Un’altra caratteristica fondamentale è che il loro arrivo non è legato a interessi politici.

Ma anche i leader religiosi hanno  un obiettivo preciso da raggiungere, lavorandoci molto. Ed è far sì che tutti  si impegnino a giocare un ruolo nella battaglia contro i fondamentalismi.

Più in generale, da parte dei  leader politici, è necessaria una  doverosa assunzione di responsabilità affinché  cooperazione faccia rima con riconciliazione,  e perché l’impegno all’assistenza proceda di pari passo con un impegno serio per la pace.

In prima pagina, Osservatore romano 22 Maggio 2016

E’ morto il leader radicale Marco Pannella

Protagonista  della politica italiana

di Fausta Speranza

Marco Pannella è morto nella mattinata del 19 maggio a Roma dopo una lunga malattia. Pochi giorni fa aveva compiuto 86 anni. Nelle ultime settimane, con l’aggravarsi delle sue condizioni, moltissime sono state le dimostrazioni di interesse, di stima e di affetto giuntegli da ogni parte. Protagonista tra i più noti della vita politica italiana, è stato sempre in prima linea portando avanti battaglie appassionate contro la pena di morte, contro la fame nel mondo e per il miglioramento delle condizioni dei carcerati.

Il leader dei radicali, all’anagrafe Giacinto Pannella, era nato a Teramo il 2 maggio 1930. Il suo nome resta legato alla legge sul divorzio, introdotto in Italia nel 1970, e a quella sull’interruzione volontaria della gravidanza, che nel 1978 abolì il reato di aborto, limitandolo alle violazioni previste dal nuovo ordinamento. A queste battaglie si è aggiunto l’impegno contro il “proibizionismo”, cioè le innumerevoli iniziative e prese di posizione per la legalizzazione dell’uso della droga, e a sostegno dell’eutanasia.

Tra i più longevi personaggi della scena politica italiana, è stato deputato per i radicali dal 1976 al 1992. Dal 1979 è stato anche membro del Parlamento europeo per diversi mandati, accettando di ricoprire la carica di presidente di circoscrizione a Roma e in altre città.

Senza dubbio Pannella è stato uno dei protagonisti delle battaglie politiche, talvolta discutibili, in particolare a partire dagli anni Settanta, attraverso una mobilitazione senza precedenti della società civile. Come leader politico italiano, si è distinto per aver fatto costantemente ricorso al referendum e a metodi di lotta politica non violenti, come scioperi della fame e della sete, disobbedienza civile e sit-in. E durante l’ultimo digiuno aveva raccontato di aver ricevuto una telefonata dal Papa e di avere accettato di interromperlo come gesto di riconoscenza al Pontefice per il suo interessamento. Era il 25 aprile scorso.

Alla fine degli anni Ottanta, Marco Pannella aveva promosso la trasformazione dei radicali in partito “transnazionale”, un “transpartito”, che da allora concentrerà la sua azione politica verso gli obiettivi dell’abolizione della pena di morte in tutto il mondo, a iniziare da una moratoria, dell’affermazione universale dei diritti umani e della democrazia, dell’istituzione di un tribunale internazionale, nell’ambito delle Nazioni unite, contro i crimini di guerra e quelli contro l’umanità.

Pannella ha legato il suo nome ad alleanze con i più diversi schieramenti politici: con la sinistra, comunisti o socialisti, ma anche con il centrodestra. E ha sempre espresso opinioni liberiste in materia economica. Si è posto, dunque, al di fuori di una catalogazione precisa nel panorama politico italiano, abbracciando di volta in volta posizioni sostanzialmente “di sinistra”, sul piano dell’etica, e “di destra”, sul piano delle politiche economiche.

Una delle sue più significative battaglie è stata quella contro la “partitocrazia”, un sistema di fatto in cui l’eccessivo potere dei partiti arriva a sostituirsi a quello degli organi previsti dalla Costituzione. D’altra parte, Pannella non si riconosceva in una ideologia ben definita. «Una sete alternativa profonda, più dura, più radicale di altri»: così giustificava la scelta del nome Partito radicale.

Tra le sue prese di posizione, da ricordare quella durante il sequestro di Aldo Moro, quando si espose contro la linea della fermezza, e quella a difesa del giornalista e conduttore televisivo Enzo Tortora, arrestato su accuse di pentiti di mafia poi rivelatesi infondate.

Nel 1977 ha fondato l’emittente Radio radicale di cui è stato vivace animatore. La sua verve politica si è espressa anche con gesti al limite della legalità, come la provocatoria promozione di droghe leggere in tv, e con manifeste polemiche con i media, soprattutto quelli pubblici, ai quali rimproverava di dedicare a lui e al suo partito sempre troppo poco spazio.

Osservatore romano 20 Maggio 2016

Dal Mozambico in fuga verso il Malawi

Torna il clima da guerra dopo il ventennio di pace

di Fausta Speranza

Undicimila rifugiati in Malawi dal Mozambico, Paese dell’Africa orientale in cui, a 20 anni dal raggiungimento della pace, è tornato da tempo un clima di guerra.  L’Organizzazione internazionale per le migrazioni, Oim, conferma che da dicembre si registra un aumento degli arrivi con picchi di 250 persone al giorno.

Tanti arrivano come primo approdo nel campo di Kapise, nel distretto di Mwanza, a sud, ad appena 300 metri dalla frontiera con il Mozambico. Per mesi la maggior parte dei richiedenti asilo ha vissuto in condizioni di sovraffollamento in un’area di circa 100 chilometri a sud di Lilongwe, la capitale del Malawi, che in tutto conta 14 milioni di abitanti. Ad aprile, il governo del Malawi ha autorizzato l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’Unhcr, a ricollocare i richiedenti asilo in un’area che anni prima ospitava un campo per rifugiati a Luwani, a sud est, riutilizzata ora a questo scopo. Si tratta di un tragitto di 320 chilometri. Sono partiti solo i primi convogli. Non sono mancati e non mancano grandi disagi per i migranti.

Bisogna capire da cosa fuggono. In Mozambico si registrano scontri armati in aumento nelle province centro-settentrionali di Tete, Zambezia e Sofala. Soprattutto da lì fuggono gli sfollati.

A combattere sono i militari legati alla Renamo che sferrano attacchi all’esercito governativo, che risponde con azioni di dura repressione. La popolazione civile è fortemente coinvolta.

Bisogna tornare indietro e ricordare che  il Mozambico ha conosciuto la tragedia della guerra civile dal 1977 al 1992, con la contrapposizione tra il Frelimo, il partito di area socialista al governo dall’indipendenza dal Portogallo nel 1975, e la Renamo, il movimento politico di opposizione legato al blocco occidentale e protagonista della rivolta armata.  Il 4 ottobre 1992, dopo un’intensa opera di mediazione della Comunità di Sant’Egidio e della diplomazia italiana, le due parti hanno raggiunto l’accordo di pace.

Il punto è che dal 2013 è scoppiata una forte tensione che è sfociata da un anno in una grave crisi politica, che vede contrapposti esponenti del Frelimo, l’attuale partito al potere, ed esponenti della Renamo, l’ex movimento di guerriglia divenuto il principale partito d’opposizione.

I primi segnali di peggioramento del clima politico sono arrivati con la minaccia del vecchio leader della Renamo, Afonso Dhlakama, di raggiungere il suo piccolo esercito, che gli accordi di pace avevano mantenuto in vita, nella zona montuosa di Gorongosa, in provincia di Sofala, minacciando il ricorso alle armi. Sono seguite trattative tra il governo e la Renamo che, però, non hanno portato ad alcun risultato. Sono scoppiati i primi incidenti, che sono via via aumentati, fino a rendere la situazione esplosiva.

Alle sofferenze della popolazione guarda la chiesa locale, che chiede la collaborazione di tutti per la pacificazione. La Conferenza episcopale del Mozambico, Cem, ha indetto per  domenica 22 maggio, festa della Santissima Trinità, una giornata di preghiera.

La stabilizzazione del Paese sembrava un traguardo ormai raggiunto ma è improvvisamente rispuntata la minaccia di una nuova guerra fratricida. Questa volta sembra che più che le ideologie c’entrino le risorse minerarie.

A questo proposito ci racconta qualcosa Pietro De Carli, che per anni ha coordinato progetti  di ricostruzione in Paesi africani e poi in Afghanistan, autore di recente del volume Fuga a Occidente. Migrazioni nella globalizzazione, edito da Albatros, che invita ad andare al di là del focus su Mediterraneo e rotta balcanica.

Significative le scoperte di carbone, gas, petrolio e terre rare. Le tensioni, dunque, più che a rancori antichi sembra siano legate a nuove partite per il controllo dei proventi e delle royalty dei giacimenti.

La fase di sviluppo economico è stata vissuta dalla popolazione con un rialzo del Prodotto interno lordo, Pil, ma senza un sensibile miglioramento delle condizioni di vita.  Per non parlare di quanti sono stati coinvolti direttamente negli espropri delle ampie estensioni di aree agricole affidate in concessione a lobby internazionali, avvenuti di pari passo con la distruzione di vaste aree forestali. La corsa all’eldorado delle materie prime a basso costo tocca soprattutto il Nord del Paese e coinvolge multinazionali occidentali e Paesi emergenti, come Cina, India e Brasile. Un esempio, la multinazionale brasiliana “Vale” è assegnataria dell’enorme miniera di carbone di Moatize, in provincia di Tete, dove è avvenuto uno degli episodi di violenza, con la polizia che ha disperso un centinaio di manifestanti che rivendicavano la tutela dei diritti delle comunità locali.

Altri esempi di teatri di violenza. Il 27 aprile, racconta de Carli, un gruppo di contadini ha scoperto una fossa comune contenente 102 corpi in una zona denominata “76” del Monte Gorongosa, dove si concentrava il nucleo armato della Renamo, in prossimità di un cantiere stradale e degli scavi di una miniera abusiva.

In definitiva non sembra possibile pensare solo a una gestione dell’emergenza da parte dell’Unhcr.

Osservatore romano 17 Maggio 2016

Non chiamateli illegali

Monito del Consiglio d’Europa sui migranti irregolari

di Fausta Speranza

Irregolari ma persone. Irregolari, ma non illegali. Il Consiglio d’Europa lancia un forte monito a non dimenticare i più basilari diritti umani di migranti non regolari su territori europei. Lo fa con la raccomandazione pubblicata dalla  Commissione europea contro razzismo e intolleranza, Ecri, che innanzitutto invita i Governi ad «astenersi dal designare come “illegali” quei migranti che sono entrati o sono presenti in uno Stato membro senza il permesso di immigrazione».

Il messaggio comincia guardando il tutto dalla parte dei cittadini. La prima indicazione, infatti, riguarda chi, in qualche modo o a diverso titolo, assicura a migranti irregolari alcuni servizi che rientrano nei diritti fondamentali, riconosciuti come tali dal primo articolo della Convenzione internazionale. L’indicazione è precisa: non vanno discriminati. Precisamente si afferma che «chi fornisce cure, alloggio, istruzione, o protegge e assicura i diritti di donne, bambini e uomini presenti irregolarmente sul territorio del proprio Stato non deve essere punito e non deve essere tenuto a denunciare queste persone alle forze dell’ordine e le autorità migratorie».  L’affermazione non è da poco. C’è altro. Si legge nero su bianco che «gli Stati devono vietare per legge a chiunque fornisca servizi essenziali, nel pubblico e nel privato, di segnalare alle autorità migratorie i migranti sospettati di essere irregolarmente presenti sul territorio dello Stato, o trasmettere dati e informazioni su di loro».  Si parla esplicitamente di assistenza sanitaria, ma non solo.  Si legge di «opportuna assistenza amministrativa e giuridica».

L’organismo del Consiglio d’Europa, che più si occupa di combattere  razzismo e discriminazioni, ritiene che queste misure siano essenziali per assicurare che gli Stati garantiscano effettivamente, come sono tenuti a fare in base agli obblighi che hanno volontariamente sottoscritto, i diritti umani. L’Ecri sottolinea che i diritti di persone migranti sono violati ogni volta che una legge impone a chi li assiste di segnalare la loro presenza alle forze dell’ordine, perché questo impedisce direttamente o indirettamente a donne, bambini, e uomini di avere accesso ai servizi di cui hanno bisogno.

Nel testo di fa l’esempio di numerosi effetti negativi. Quelli più ovvi sono sotto il profilo della salute di tutta la popolazione. Si dice espressamente che la paura di essere denunciata può indurre una persona con una malattia contagiosa a non farsi curare, o a impedire la vaccinazione dei bambini. L’Ecri avverte che non solo c’è il rischio di rendere i migranti irregolarmente presenti più vulnerabili a forme di sfruttamento e abuso, ma si alimenta anche l’intolleranza e la discriminazione verso tutti gli immigrati.

Dalle indicazioni di principio alle misure concrete. Oltre a decriminalizzare l’assistenza ai migranti irregolarmente presenti sul territorio, ogni Stato deve assicurare che possano accedere a tutti i servizi essenziali senza dover presentare documenti inerenti al loro “status migratorio”. Non è tutto qui. L’Ecri va oltre affermando che le autorità devono «proibire alle forze dell’ordine di condurre controlli nelle immediate vicinanze di scuole, ospedali, servizi per l’alloggio, centri di assistenza, banche del cibo e istituti religiosi».  Questo il contenuto chiave della sedicesima “raccomandazione di politica generale” che l’Ecri rivolge ai Governi dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa.  Ricordiamo che le raccomandazioni non sono vincolanti, ma a volte vengono riprese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

In prima pagina, Osservatore Romano 13 Maggio 2016

Quando la legge aiuta il trafficante

La tratta frutta alla criminalità 150 miliardi di dollari all’anno

dalla nostra inviata a Strasburgo Fausta Speranza

Non solo vittime degli scafisti. Richiedenti asilo, rifugiati e migranti sono “particolarmente vulnerabili” alla tratta di esseri umani che in Europa frutta alla criminalita’ almeno 150 miliardi di dollari all’anno. Gia’ 10.000 minori non accompagnati sono scomparsi dal loro arrivo in Europa negli ultimi mesi e, nella terra di nessuno dell’illegalita’, restano sacche ben organizzate per sfruttamento sessuale, lavoro forzato, espianto di organi.

L’allarme e’ preciso. Viene da Europol, l’ufficio europeo di polizia. Se i Governi dell’Ue non fanno di piu’ e meglio, le vittime che oggi sono 30.000 possono crescere in modo esponenziale.

La prima indicazione concreta e’ quella di non fare dei cosiddetti hotspot un’occasione mancata per la prevenzione. I punti di crisi, voluti per gestire l’emergenza di flussi di migranti senza precedenti, sono pensati per la registrazione dei rifugiati, per assicurare loro servizi e assistenza. In realta’, avvertono le forze di polizia che si muovono sul piano europeo, sono il primo nodo critico in cui si gioca il futuro di tante potenziali vittime.

A cogliere l’allarme e’ il Parlamento europeo, che vota giovedi’ una risoluzione che richiama fortemente gli Stati membri Ue a superare divisioni che lasciano maglie larghe all’illegalita’. Si tratta di migliorare la raccolta dati e uniformare le legislazioni.

Innanzitutto, si chiarisce che “le differenze tra legislazioni degli Stati membri agevolano notevolmente le attivita’ dei gruppi appartenenti alla criminalita’ organizzata”. Inoltre, si legge che “il rischio di essere perseguiti penalmente e’ ancora troppo basso e le sanzioni comminate per prevenire il reato sono inadeguate rispetto ai potenziali profitti”.

Il pensiero va a norme differenti per esempio per il sanzionamento di clienti di prostitute. E infatti l’Europarlamento invita a uniformarsi sui canoni di severita’ del Nord Europa. Ma le distanze da colmare, per un’azione che si possa dire europea, sono a partire dal livello primario delle definizioni. Innanzitutto, la definizione di tratta di esseri umani e’ diversa Paese per Paese. E, ad esempio, in tema di minori, non c’e’ un’unica espressione per identificare il fenomeno criminale. Alcuni Stati membri considerano la tratta di minori una forma autonoma di sfruttamento, altri assimilano le vittime minorenni agli adulti. Cosi’, denuncia la risoluzione, “si ostacola la possibilita’ di creare un quadro globale di intelligence e definire le migliori risposte investigative a livello dell’Ue”.

Quando si parla di tratta, i settori sono tristemente tanti. Dall’agricoltura all’accattonaggio; dall’industria del sesso, al matrimonio forzato; dallo sfruttamento sessuale sulle strade, a quello on line; dalle adozioni illegali, al traffico di organi umani. Non puo’ esserci un’unica strategia valida per tutti. Ma si capisce quanto sia urgente che, a monte di tanti specifici settori di intervento, ci sia collaborazione transnazionale tra polizie e magistrature. Ci sono anche piani che ricongiungono tanti fili. Primo fra tutti, quello di Internet che, cosi’ come per il terrorismo, gioca un ruolo chiave nel reclutamento, in questo caso di vittime. Lo fa attraverso false offerte di lavoro, pubblicizzando “servizi” e favorendo lo scambio di informazioni tra reti criminali. Ci vuole collaborazione tra polizie ma anche un impegno politico perche’ Internet non sia solo questo, ma sia anche piattaforma per sensibilizzare e mettere in guardia le potenziali vittime. Ci vogliono programmi precisi.

Tutto si ricollega sul piano del denaro. Per questo l’appello ai Governi e’ forte. Si deve collaborare con maggiore efficacia a livello di polizie e strutture economiche per “indagare sugli aspetti finanziari e il riciclaggio del denaro”. Inoltre, si deve “rafforzare la cooperazione ai fini della confisca e del congelamento dei beni delle persone implicate nella tratta”.

In ogni caso, ci sono classificazioni che colpiscono e fanno pensare. Al momento la tratta e’ considerata “un’attivita’ a basso rischio e ad alto profitto”. Se non c’e’ un’azione efficace, con l’aumento di migranti irregolari, la stessa forbice semplicemente si allarghera’ ulteriormente. Nella risoluzione del Parlamento europeo, al di la’ degli interventi mirati suggeriti, c’e’ una raccomandazione generale quanto essenziale. Si legge: “Per prevenire la tratta di esseri umani e il traffico di persone e’ importante creare canali per l’immigrazione legale e sicura”.

Osservatore Romano 12 Maggio 2016

Grecia sotto la lente

Alla Plenaria dell’Europarlamento

dalla nostra inviata a Strasburgo Fausta Speranza

“Una revisione nell’ambito di aggiustamento economico per la Grecia e’ possibile”. E’ quanto ci dichiara Il vicepresidente della Commissione per l’Euro e il Dialogo sociale, Valdis Dombrovskis, dopo che l’Eurogruppo ha accolto positivamente il completamento del pacchetto di misure economiche varato da Atene. Il gruppo dei Paesi dell’euro tornerà a riunirsi il 24 maggio e potrebbe esserci in quella data il via libera alla prossima tranche di aiuti. Nel frattempo le misure di breve, medio e lungo periodo per il debito saranno discusse dai tecnici del gruppo.

Dombrovskis e il Commissario per gli Affari economici e finanziari, Pierre Moscovici, relazionano e discutono della situazione di Atene con gli eurodeputati a Strasburgo, nell’ambito della Plenaria del Parlamento europeo.

L’attenzione e’ tornata su Atene dopo che il Parlamento greco ha approvato la contestata riforma fiscale e delle pensioni. Si tratta di misure che hanno riacceso le proteste di piazza ma che il primo ministro, Tsipras, difende definendole “necessarie per rispettare gli accordi con i creditori”. In effetti si tratta di provvedimenti essenziali per sbloccare la seconda tranche del terzo piano di aiuti internazionali per 86 miliardi di euro, previsto nel periodo 2015 – 2018.

Il punto è che la Grecia chiede anche una ristrutturazione del debito, consapevole che altrimenti non uscirà mai dalla crisi. La decisione finale spetta all’Eurogruppo ma va detto che saranno fondamentali le riunioni del Fondo monetario internazionale, Fmi, la prossima settimana, a Washington. A questo proposito, Moscovici ci assicura che la questione della riduzione del debito sarà all’ordine del giorno.

Dombrovskis si puo’ dire che “i dati recenti mostrano che l’economia greca è più forte di quanto si poteva prevedere nell’inverno scorso e che in particolare dall’estate tanti passi in avanti sono stati fatti”. Ma ci dice anche che “non c’è tempo per l’autocompiacimento” e parla di “negoziati che devono continuare intensi e continui”. Gli fa eco Moscovici, che sostiene che l’obiettivo di bilancio per la Grecia rimane un avanzo primario del 3,5 per cento nel 2018. La maggior parte dei risparmi dovrebbe venire da una riforma globale del sistema pensionistico, dalle riforme fiscali sul reddito personale e le misure contro l’evasione fiscale altri risparmi. E Moscovici ammette: “La richiesta di ulteriori sforzi in questa fase, avrebbe un effetto negativo”.

In particolare le norme appena varate dal Parlamento di Atene riguardano la stabilizzazione, e i conseguenti risparmi, il sistema pensionistico ed un aumento delle tasse per complessivi 3,6 miliardi di euro. Sono misure che si inseriscono in un pacchetto più ampio da 5,4 miliardi di euro concordato con l’Ue e il Fmi.

Guardando al Fmi e alle riunioni cosiddette di primavera della prossima settimana viene da pensare che al momento stanno a Washington gli ostacoli maggiori. Il Fmi chiede di mettere sul tavolo la ristrutturazione del debito greco ma ritiene per altro irrealistico il raggiungimento del target di avanzo primario del 3,5 per cento fissato dall’Ue per il 2018. Secondo il Fmi, si fermerebbe all’1,5 per cento. Quindi, non sembra dare credibilita’ alle ‘misure di contingenza’ e al meccanismo per farle scattare, proposto invece da Atene con il sostegno della Commissione, per rassicurare i Paesi piu’ scettici, guidati dalla Germania.

A sollevare la discussione c’e’ la lettera che, secondo quanto riportato dal Financial Times, la direttrice del Fmi, Christine Lagarde, ha scritto ai ministri dell’Eurozona. Emerge la volonta’ di “discutere contemporaneamente le misure di contingenza, la ristrutturazione del debito e il rifinanziamento”. Nella lettera, Lagarde spiega che per dare il suo sostegno “è essenziale che il finanziamento e la ristrutturazione da parte dei partner europei della Grecia siano basati su target fiscali che siano realistici perché sono sostenuti da misure credibili per raggiungerli”. Appunto il Fmi non crede al raggiungimento del 3,5 per cento, “non adeguato per l’economia del Paese”, né alle misure di contingenza. La Commissione Ue, invece, sostiene Atene. Gia’ più volte il Commissario agli affari economici, Moscovici, ha ribadito che l’obiettivo dell’avanzo strutturale e’ realistico e raggiungibile e che il meccanismo di contingenza, in linea con le esigenze costituzionali greche che non consentono di adottare misure in anticipo, e’ una rassicurazione sufficiente.

Di fronte a tutto cio’, Moscovici ricorda che il processo decisionale non è soggettivo, piuttosto i negoziati si basano sul protocollo d’intesa raggiunto ad agosto dello scorso anno, che “fa da tabella di marcia per tutte le parti coinvolte”. Moscovici ci tiene anche a sottolineare l’importanza del coinvolgimento del Parlamento europeo. A gennaio la Conferenza dei presidenti del Pe ha approvato una serie di misure per rafforzare il controllo su tutte queste questioni dando vita al Gruppo di lavoro sull’assistenza finanziaria, indicato con la sigla Fawg. Moscovici spiega che la Commissione parla anche in base agli elementi raccolti dagli esponenti del gruppo in missione la scorsa settimana ad Atene. Un occhio in più, nel lavoro della cosiddetta Trojka, formata sostanzialmente da Commissione Ue, Banca centrale europea, Fmi.

Osservatore Romano 11 maggio 2016

Non più profughi ostaggio del regolamento di Dublino

Tutta aperta in ambito europeo la discussione in tema di revisione di  diritto di asilo. Dopo le proposte della Commissione, l’Europarlamento tenta di rilanciare con i suoi principi guida. Se ne discute alla Plenaria che prende il via a Strasburgo. La prospettiva che si intravede è quella di una sostanziale differenza di impostazione.

Per chi volesse fare domanda di asilo in uno dei Paesi europei, finora c’erano dei punti fermi comuni fissati dal regolamento di Dublino, che in realtà poi lasciava ai singoli Stati membri margine di manovra su alcuni aspetti anche importanti. Ma tra i paletti fissati, c’era l’obbligo per i richiedenti asilo di presentare la domanda nel Paese di primo ingresso. Questo, nella recente ondata migratoria, ha creato situazioni di blocco di profughi, praticamente sequestrati in territori di secondo o terzo approdo, senza poter presentare  domanda. Da qui, l’urgenza di una revisione, in realtà richiesta anche dalla  serie di differenze, nei tempi e nelle modalità scelti dai vari Stati in base al margine di manovra riconosciuto. In definitiva, la revisione non è messa in discussione da nessuno. Bisogna però capire cosa si voglia.

All’Assemblea parlamentare si discuterà di un sistema centralizzato, con domande d’asilo da presentare direttamente all’Ue e non al singolo Stato membro. L’Europarlamento vorrebbe superare l’impasse, in cui tanti si sono trovati, svincolando i richiedenti asilo dal territorio in cui sono e prevedendo  una responsabilità tutta europea nell’accoglimento o meno della domanda. In sostanza, è come dire che la richiesta si farebbe a Bruxelles, anche se finalizzata ad essere accolti in un Paese o in un altro.

Il principio alla base delle proposte già avanzate dalla Commissione, invece, è  lo stesso di sempre. I richiedenti asilo devono presentare domanda nel primo Paese di ingresso, salvo che non abbiano famiglia in un altro Paese. L’unico impegno di centralizzazione sta nel concepire un Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, EASO, pensato dalla Commissione come una vera e propria agenzia Ue. Dovrebbe nascere in rafforzamento di Eurodac, la banca dati delle impronte digitali dell’UE, che sappiamo voluta per contrastare la migrazione irregolare.

Si capisce che la distanza delle posizioni tra Esecutivo e Parlamento al momento non è da poco. Un punto fermo comune è la consapevolezza che i migranti continueranno ad arrivare alle frontiere e a chiedere asilo. La tragedia umanitaria  non può essere trattata come una emergenza transitoria, avendo acquisito ormai un carattere strutturale. Obbligo internazionalmente riconosciuto è garantire che chi necessita di protezione la riceva.

Da più parti continua ad arrivare la sollecitazione a assicurare una gestione più appropriata dei flussi migratori. E qui si torna ai punti chiave, cioè la gestione delle frontiere esterne, la cooperazione con i Paesi terzi, la lotta contro il traffico di esseri umani e i meccanismi di reinsediamento di rifugiati direttamente nell’Ue. Sappiamo che sono tutti fronti in discussione, aperti come lo è quello dei diritto di asilo. Su tutti l’Unione Europea sta faticosamente cercando una linea comune o un’azione concreta comune. Ognuno di questi punti ha il suo esempio scottante. Dal Brennero, con l’ipotesi di chiusura del valico con l’Italia da parte dell’Austria, alla questione dei fondi da trovare per i Paesi africani che devono collaborare per calmierare i flussi e dunque l’immigration compact proposto da Roma e approvato in tutto meno che nella concreta proposta di eurobond, senza che siano arrivate ancora altre idee di finanziamento. C’è poi la maggiore integrazione di forze  contro i trafficanti da attuare nei fatti e i meccanismi di reinsediamento da rispettare, che Grecia e Italia ancora non hanno visto attuati.

Di certo c’è che dalla crisi è emerso che alcuni Stati membri sono stati sottoposti a pressioni enormi a causa delle carenze di un sistema generale, che non era stato concepito per affrontare situazioni come quelle recenti. Su questo sembra proprio che non ci siano alternative possibili. Ogni qualvolta uno Stato membro sia eccessivamente sotto pressione, deve scattare la solidarietà e un’equa ripartizione delle responsabilità. Ma ancora si discute se debba significare accoglienza obbligata di un certo numero di migranti o se si possa ammettere che qualche Paese sia esentato, in virtù di un contributo monetario, che qualcuno ipotizza di quantificare in 250.000 euro per ogni profugo.

Dimitris Avramopoulos, commissario per la Migrazione e gli Affari interni ci dice che è fondamentale che la Commissione lavori <fianco a fianco> con il Parlamento europeo e gli Stati membri. Si vedrà quali raccomandazioni precisamente emergeranno dall’Europarlamento e quali saranno accolte. Una su tutte non dovrebbe essere dimenticata da nessuno. Qualunque riforma dovrebbe tenere conto del principio di solidarietà per i più bisognosi ben ribadito nei Trattati fondativi dell’Unione.

di Fausta Speranza

Osservatore Romano del 10 maggio 2016