In Libano confermata l’inchiesta sulle forze di pace ONU

Caschi blu sotto accusa per il mercato nero di cibo

di Fausta Speranza

Si indaga sui caschi blu in Libano, perché c’è il forte sospetto di traffici illeciti di prodotti alimentari. Dopo la denuncia da parte del quotidiano «El Pais», che parla espressamente di coinvolgimento di militari del Ghana, dell’Italia, del Nepal, della Malaysia e dell’Indonesia, il portavoce della missione delle Nazioni Unite in Libano, Andrea Tenenti,  conferma che le indagini sono in corso «da tempo» ma «al momento non ci sono ancora prove che possano confermare una sistematica operazione legata al traffico d’alimenti o ancor meno il coinvolgimento di alcuni contingenti».

La frode, che sarebbe andata avanti dal 2010 al 2015, viene stimata in oltre 4 milioni di euro.  In sostanza venivano rivenduti a commercianti locali  prodotti destinati alle forze di pace, tra cui riso e biscotti, ma non solo, anche  frutta e verdura comprata localmente e prodotti surgelati, tra cui gamberi che sembra andassero a ruba. Parte delle 80 tonnellate di cibo messe a disposizione dei caschi blu settimanalmente.

Si sa che a indagare non è solo l’Onu ma anche il Governo libanese. Da Roma, lo stato maggiore della Difesa, dopo aver sentito il comando delle Nazioni Unite in Libano, afferma che «al momento il personale del contingente militare italiano risulta estraneo a tale vicenda». Da parte sua, la Procura militare fa sapere di essere impegnata a «verificare» la notizia, per stabilire se vi siano reati di rilevanza penale.

Si parte da un dato di fatto confermato da testimoni: la vendita in alcuni negozi in Libano, e anche nella capitale Beirut, di prodotti alimentari che riportano l’etichetta Unifil, l’acronimo di United Nations Interim Force in Lebanon.  Parliamo della  forza militare di interposizione creata il 19 marzo 1978, con le risoluzioni 425 e 426 del Consiglio di sicurezza, e che ha il suo quartier generale nella cittadina meridionale di Naqoura.  Il mandato della missione è stato rinnovato in seguito all’invasione israeliana del Libano nel 1982, poi del ritiro delle truppe israeliane nel 2000 e dell’intervento israeliano nel 2006. Attualmente si tratta di oltre 12.300 militari, che collaborano con circa 300 civili di provenienza internazionale e 600 civili locali.  Una presenza significativa, in termini di numeri e di lunghezza del mandato.

Nonostante codici di identificazioni e bolle controfirmate, parti delle derrate alimentari finivano nel  mercato nero.

L’inchiesta di «El Pais» parte da 21 centri di distribuzione in base alle rivelazioni di alcuni operatori, con la testimonianza chiave di un dipendente di un’impresa subappaltrice. Questa persona, che «El Pais» identifica con le iniziali  R.D. aveva l’incarico di supervisionare la distribuzione. A suo dire, quando si è accorto della truffa, ha riferito a qualcuno e poi ha cercato di entrare nell’affare per raccogliere prove. Oggi è sospeso dall’incarico in attesa di accertamenti.

Fa male il sospetto di trovarsi di fronte all’ennesimo caso di coinvolgimento di forze di peacekeeping in scandali. Finora ce ne sono stati soprattutto a sfondo sessuale.

Solo nove mesi fa, è stato eclatante l’allontamento, richiesto dallo stesso segretario generale, Ban Ki-moon, del senegalese Babacar Gaye da capo della missione nella Repubblica Centrafricana. Non erano solo voci le denunce di stupri e induzione alla prostituzione anche di minorenni, di cui si erano macchiati soldati francesi della missione stessa. Il comandante, pur non essendo coinvolto nei fatti, è stato ritenuto direttamente responsabile di mancata sorveglianza sui suoi soldati. Primo caso del genere.

A giugno 2015  c’era stato l’annuncio dell’Onu di un rinnovato impegno alla tolleranza zero. Solo in quell’anno e solo ad Haiti, erano stati 225 i casi di donne sfruttate sessualmente, di cui un terzo giovanissime. Ma  guardando indietro, dai 150 casi documentati nel 2005  in Congo non c’è mai stata tregua. L’Oios, il servizio di  investigazione interna del Palazzo di vetro, nei suoi dossier ha pagine drammatiche anche su Liberia e Sud Sudan. Si legge, tra l’altro, di «pretese in modo abituale di prestazioni sessuali, in cambio di cibo, denaro, telefonini vecchi, profumi».

Ma se gli scandali sessuali indignano particolarmente, non possiamo non ricordare il caso Oil for food, la questione dei fondi neri, che ha coinvolto funzionari dell’Onu e del Governo iracheno. Il programma, letteralmente “petrolio in cambio di cibo”, attivato dall’Onutra il 1995 e il 2003, intendeva permettere all’Iraq di vendere petrolio sul mercato mondiale in cambio di necessità umanitarie per la popolazione, evitando guadagni per eventuali spese militari. Si parla di illeciti per 50 miliardi di euro.

Ci si aspetta davvero una svolta in termini di tolleranza zero nei fatti, su tutti i fronti. Chi porta pace, chi deve assicurare il mantenimento della pace, non può macchiarsi di azioni criminose contro la popolazione. Azioni che, non solo vanno contro la dignità di ogni persona, ma seminano anche discredito, ostilità, odio.

Osservatore romano 28 maggio 2016