Gli Usa: legali gli insediamenti israeliani nei Territori

Le colonie israeliane nei Territori occupati non sono illegali. Il Presidente statunitense Trump cancella così la direzione della politica americana degli ultimi 40 anni sugli insediamenti nei Territori conquistati nella guerra del ’67. Una decisione che suscita il plauso di Israele e la rabbia dei palestinesi

Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano

Gli insediamenti israeliani nei territori della Cisgiordania non sono contrari al diritto internazionale. L’amministrazione Trump accantona così l’Hansell Memorandum del 1978 e riscrive il nuovo indirizzo della politica della Casa Bianca nei confronti di Israele. L’annuncio, fatto dal segretario di stato Mike Pompeo,  segna la vittoria per il premier israeliano uscente Netanyahu per il quale  la dichiarazione americana riflette una verità storica, approvazione anche dal premier incaricato Gantz.

La condanna dei palestinesi: decisione inaccettabile

“Nulla, inaccettabile e da condannare”: così viene invece definita la decisione degli americani dal portavoce del Presidente palestinese Abu Mazen, per il quale Washington non è qualificata o autorizzare a cancellare le risoluzioni di legittimità internazionale. Gli Stati Uniti hanno perso credibilità, sottolineano i palestinesi, e non hanno più alcun ruolo nel processo di pace, che per molti è ora seriamente messo a rischio.

L’Ue, gli insediamenti continuano ad essere illegali

La posizione dell’Unione Europea non cambia, precisa da Bruxelles Federica Mogherini, Alto commissario per gli affari esteri e le politiche di sicurezza, che prende le distanze da Washington continuando a ritenere illegali gli insediamenti nei Territori occupati. Questa decisione di Trump arriva dopo una serie di misure statunitensi a favore dello stato ebraico, come il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale, con lo spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv; la chiusura dell’ufficio dell’Olp a Washington; il riconoscimento dell’annessione delle alture del Golan.  E’ intanto allerta a Gerusalemme, dove l’ambasciata Usa ha già invitato gli americani presenti nell’area a “mantenere un alto livello di vigilanza”.

Per una riflessione su questo pronunciamento dell’amministrazione Trump, Fausta Speranza ha intervistato Antonello Biagini, pro-rettore dell‘Università La Sapienza con delega per la cooperazione e i rapporti internazionali:

R. – Una posizione vicina a Israele. Ma sappiamo tutti che il problema di questi insediamenti – che erano nati, se vogliamo storicizzare, sulla base di una dottrina di autodifesa dello Stato di Israele quando tutti i Paesi intorno non riconoscevano ed erano avversi allo Stato di Israele -, il processo che si doveva costruire e che alcune amministrazioni anche statunitensi avevano provato a costruire era quello di un dialogo progressivo. E qui rientra quella posizione del Congresso, in un certo senso, di facilitare il processo di pace. Con queste dichiarazioni è chiaro che tutto questo si allontana e rientra probabilmente nell’atteggiamento dell’attuale amministrazione statunitense di essere piuttosto netta e aggressiva nella politica estera.

L’Unione europea ribadisce che tutte le attività di insediamento sono illegali ai sensi del diritto internazionale, è così?

R. – E’ assolutamente corretto perché per il diritto internazionale nessuno può invadere un altro territorio manu militari e costruirci un insediamento che poi sarà sempre più difficile spostare. Non è un meccanismo che avviene in un momento di guerra. L’insediamento significa – il termine stesso lo dice – la volontà di costituire qualcosa che rimanga stabile nel tempo, quindi molto più difficile da rimuovere ove mai si facesse un processo di pace. E l’Unione europea, in questo senso, sicuramente è rispettosa di regole del diritto internazionale e ha una posizione corretta sul piano giuridico, sul piano formale e direi anche sul piano politico.

Da tempo ci si aspetta in questa fase un nuovo piano di pace proposto da Washington. Questa presa di posizione di Trump potrebbe essere una sorta di strategia di comunicazione prima di una proposta?

R. – Se diamo conto delle parole che si dicono, con queste premesse – il riconoscimento delle colonie – non sarebbe tecnicamente possibile, perché anzi la decisione allontana ancora di più. Se questa invece è una dichiarazione – come spesso accade ormai in tutta la politica internazionale, dove si fanno dichiarazioni “estremiste” per poi rimodularle nel momento in cui si fa una trattativa – allora è possibile anche che in questo modo l’amministrazione statunitense voglia lanciare un messaggio del tipo: noi continueremo a difendere Israele come abbiamo sempre fatto; se non aderite ad alcune trattative di pace, allora, noi consideriamo quegli insediamenti come perfettamente legali e quegli insediamenti rimarranno a vita. Quindi quello diventa un territorio di Israele. Questo è il problema di una politica estera che ormai viene fatta più sugli annunci che sulla sostanza delle cose… E questo credo sia anche il problema attuale che non riguarda solo gli Stati Uniti, ovviamente, ma particolarmente gli Stati Uniti. Teniamo conto di un’altra cosa. Gli Stati Uniti non sono più l’unico gestore della politica mondiale. Non lo sono più a livello economico, per esempio; lo sono in buona parte ancora a livello militare perché conservano una potenza militare di tutto rispetto ma non hanno più quell’influenza sulla politica mondiale come l’avevano fino agli anni ’90, 2000. Però, certo, con questi presupposti diventa anche un po’ difficile immaginare che si vada alla costituzione di un nuovo Stato mentre rimangono aperti questi problemi. Inoltre, intanto ci sono gli avvenimenti degli ultimi giorni, missili sparati da Gaza, la reazione israeliana… O sono ultime “scaramucce” – diciamo – prima che inizi un vero processo di pace, oppure temo che invece sia un aumentare l’area di crisi che rende ancora più difficile un processo di pace.

Hong Kong: ancora scontri e proteste degli studenti

Non si ferma il braccio di ferro tra forze dell’ordine e studenti. Il capo esecutivo Carrie Lam esclude l’intervento dell’esercito cinese mentre Pechino rivendica l’autorità esclusiva sulle questioni costituzionali di Hong Kong

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Gli scontri dei manifestanti con la polizia di Hong Kong sono andati avanti fino a tarda notte intorno ai punti d’accesso al Politecnico dove sono rimasti arroccati circa 700 studenti per la seconda notte di fila. Un’altra giornata di caos si è chiusa con l’ipotesi di un blitz delle forze dell’ordine dopo quello tentato senza successo all’alba di lunedì. “Non c’è la necessità di chiedere aiuto all’Esercito di liberazione popolare, le forze armate di Pechino, fino a quando le autorità di Hong Kong riusciranno a gestire la situazione”. E’ questa la posizione ribadita in conferenza stampa questa mattina da Carrie Lam. Il capo esecutivo ha invitato i cittadini a “non dare interpretazioni eccessive” al gesto dei soldati cinesi che sabato hanno aiutato a rimuovere mattoni e detriti dalle strade. Lam lo ha definito un gesto “non inconsueto”.

Pechino rivendica l’autorità esclusiva sulle questioni costituzionali di Hong Kong

Intanto, la Cina rivendica l’autorità esclusiva sulle questioni costituzionali di Hong Kong. E lo fa a proposito del divieto di indossare le maschere in pubblico, varato lo scorso mese per frenare le manifestazioni di massa e condannato ieri dall’Alta corte dell’ex colonia britannica. Precisamente il portavoce della Commissione Affari legislativi di Pechino ha affermato che “nessun’altra istituzione ha il diritto di giudicare o di prendere decisioni se non il Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo”.
L’Alta Corte di Hong Kong ha dichiarato l’incostituzionalità del divieto dell’uso delle maschere nelle manifestazioni voluto a ottobre da Carrie Lam che ha fatto leva sulla legislazione di emergenza. La sentenza ha fissato la sua “incompatibilità con la Basic Law”, la Costituzione locale, in risposta al ricorso promosso da 24 parlamentari. Il segretario per gli Affari costituzionali Patrick Nip ha ventilato l’ipotesi di rinviare le elezioni locali distrettuali del 24 novembre: “La situazione ha ridotto ovviamente le chance di poterle tenere come previsto e di questo sono molto preoccupato”.

Gli studenti del campus invitati alla resa

Per i ragazzi che restano asserragliati nel campus la polizia di Hong Kong ha lanciato l’ultimatum nel pomeriggio, dopo la rottura della tregua raggiunta in mattinata con il rettore dell’ateneo Teng Jin-Guang, per la resa incondizionata degli studenti, invitati ad ‘arrendersi’, a deporre le armi e a uscire in modo ordinato. Tutti, ha scandito un portavoce, saranno arrestati perché “sospettati di rivolta”. Il segretario alla Sicurezza dell’ex colonia britannica John Lee ha inviato all’interno del campus un team medico della Croce Rossa per soccorrere i feriti, mentre assistenti sociali e psicologi sono intervenuti per convincere i minori a mollare. Secondo le ultime cifre circolate nella notte, la polizia avrebbe eseguito in un giorno oltre 400 arresti, di cui molti fuori dall’Hotel Icon su Science Museum Road, vicino al PolyU.

Usa e Ue invitano le parti alla moderazione

Gli Stati Uniti hanno condannato l’uso della forza ingiustificato e hanno invitato le parti ad astenersi dalla violenza a favore di un dialogo costruttivo. Un invito alle parti alla moderazione, senza “l’inaccettabile violenza e l’uso della forza”, è arrivato dall’Unione Europea. Il governo britannico ha ribadito la sua grave preoccupazione per “l’escalation delle violenze” da parte dei manifestanti e della polizia. Secondo l’ambasciatore cinese a Londra, Liu Xiaoming, la protesta a Hong Kong non ha ormai “nulla a che fare con la cosiddetta democrazia, ma tende a minare il modello ‘un Paese, due sistemi'”. Abbiamo sufficiente determinazione e potere per mettere fine ai disordini”, ha affermato Liu, tornando a sollecitare il governo britannico, a “non interferire negli affari interni” della Cina.

Non ha retto la tregua su Gaza

Sirene di allarme e scuole chiuse nel sud di Israele: è durata poche ore la tregua stabilita ieri tra Israele e palestinesi di Gaza. Intervista con Daniele De Luca

Fausta Speranza – Città del Vaticano

E’ stato infranto il cessate il fuoco da entrambe le parti, dai miliziani della Striscia di Gaza e dall’esercito israeliano, e sono ritornati i razzi e i raid. Non è rientrata, dunque, la tensione dopo che Israele ha definito conclusa l’operazione “cintura nera” con la quale il 13 novembre ha ucciso il comandante militare della Jihad islamica Baha Abu al-Ata. Intanto emerge la notizia di una famiglia intera uccisa dalle bombe in una zona centrale della Striscia.

Nella notte, confermati attacchi contro obiettivi della jihad islamica a Gaza in conseguenza  della ripresa dei lanci di alcuni razzi contro Israele, ieri in giornata.  La tregua era giunta dopo due giorni di combattimenti in cui, secondo associazioni per i diritti umani, sono rimasti uccisi 34 palestinesi, tra cui 16 civili.

In particolare due sono stati lanciati da Gaza verso il sud di Israele, nelle zone adiacenti la Striscia, inclusa la cittadina di Sderot. E restano chiuse le scuole nel sud di Israele.

Intanto, poco fa fonti militari israeliane si sono pronunciate parlando di “errore” a proposito del  bombardamento  che ha provocato la morte di genitori e figli – otto persone – della famiglia Abu Malhus, nella notte tra mercoledì e giovedì a Deir el-Balah. Erano in un edificio che secondo il portavoce militare   di Tel Aviv risultava vuoto. Ieri la radio militare israeliana aveva detto che il capo di famiglia Ramsi Abu Malhus era il responsabile per conto della Jihad islamica del lancio di razzi. Oggi si parla di errore di identificazione.

Di fatto si ripete per Gaza l’alternanza tra attacchi e cessate il fuoco. Per parlare di negoziati bisogna allargare il discorso alla Cisgiordania, come spiega nell’intervista Daniele De Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento:

R. – Israele ha sempre detto che avendo l’opportunità di eliminare quantomeno alcuni dei capi militari – in questo caso parliamo della Jihad islamica, ma se fosse stato Hamas sarebbe stato lo stesso – lo avrebbe fatto. Il capo militare della Jihad è stato ucciso, è stato eliminato; sicuramente verrà sostituito da altri, ma la strategia militare di Jihad e di Hamas è sempre la stessa: fa parte del grande gioco mediorientale in cui si fa un passo avanti per farne due indietro ma fondamentalmente la tregua viene dichiarata e viola sistematicamente da una parte o dall’altra.

Ecco tregua e anche breve: per un negoziato che cos’altro ci vorrebbe? Ben altro …

R. – Qui dobbiamo distinguere, perché il negoziato con Hamas è praticamente impossibile; il negoziato è in stallo anche se ci sono poi sempre degli incontri sotterranei e segreti come con Fatah e con l’Autorità palestinese che si trova in Cisgiordania. E infatti, lì i problemi di tregua o di conflitto non ce ne sono. Le due parti sono completamente staccate: Gaza è una cosa e la Cisgiordania è un’altra, Gaza è veramente un problema anche per l’Autorità nazionale palestinese stessa. Quindi penso che nessuno immagini di poter arrivare a un accordo con i capi politici o militari di Gaza. Cosa diversa è invece con la Cisgiordania, e tutti ci auguriamo che finalmente ci si possa rimettere al tavolo delle trattative e arrivare alla soluzione dei due Stati.

Che cosa significa in questo momento all’interno di Israele una ripresa così alta di tensione, e che cosa invece significa per tutta l’area mediorientale?

R. – Io credo che le cose siano relativamente staccate. Anche se il capo militare della Jihad islamica faceva riferimento alle milizie filoiraniane, io credo che l’Iran non si assumerà la responsabilità di qualche azione di rappresaglia nei confronti di Israele: non conviene assolutamente a nessuno. Quindi la questione palestinese, mi dispiace dirlo, è una questione estremamente piccola e limitata nel grande gioco mediorientale.

“Piccola e limitata” in termini di conseguenze e di implicazioni?

R. – Ovviamente. Ci sono questioni molto più importanti. Si trovano, per esempio, al Nord di Israele: la Siria. La questione siriana è assolutamente fondamentale: per la sicurezza di Israele, per la sicurezza dell’Iran, per la sicurezza del Libano … E quindi è molto ma molto più importante risolvere quei problemi – o lasciare in stallo quei problemi, cioè non arrivare ad alcun conflitto – piuttosto che preoccuparsi di un piccolo conflitto, di un piccolo focolaio nella Striscia di Gaza.

Stiamo parlando del punto di vista delle grandi potenze internazionali e dei grandi attori regionali …

R. – Quello sicuramente. Delle grandi potenze internazionali nel Medioriente ormai è rimasta soltanto la Russia di Vladimir Putin; ci sono altre potenze regionali – due su tutte: l’Iran e Israele – e nessuno in questo momento credo abbia interesse a soffiare sul fuoco di un nuovo conflitto.

In Cile ancora manifestazioni e scioperi

Il Presidente ha annunciato che tutti gli esponenti delle forze dell’ordine in pensione saranno richiamati in servizio. Manifestazioni e scioperi restano parole d’ordine nel Paese, dove anche nei giorni scorsi migliaia di persone hanno sfilato nella capitale per lamentare disuguaglianza sociale e contestare il governo. Intervista al vescovo ausiliare di Santiago Alberto Lorenzelli

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il Presidente cileno Sebastián Piñera ha dichiarato che “l’ordine pubblico è stato violato” e che l’attuale contingente di polizia non è sufficiente a causa dell’escalation di incidenti, saccheggi e incendi in tutto il territorio. Il capo di Stato ha anche lanciato un appello parlando di possibili accordi di pace e una nuova Costituzione.

20 morti e 1.600 feriti dall’inizio delle proteste

    Le prime proteste sono scoppiate il 18 ottobre scorso e da allora si contano almeno 20 morti e 1.600 feriti. Dopo le testimonianze, le fotografie e i video dei soprusi con cui esponenti della polizia e dell’esercito cileno hanno tentato di reprimere le contestazioni, l’Onu ha avviato un’indagine che si è conclusa con la pubblicazione l’11 novembre di un rapporto molto duro. Gli esperti delle Nazioni Unite affermano che “l’alto numero di feriti e il modo in cui sono state utilizzate le armi sembrano indicare che l’uso della forza è stato eccessivo e ha violato il requisito di necessità e proporzionalità”. Emerge un allarme in particolare: “Siamo profondamente preoccupati per le notizie che ci arrivano circa gli abusi contro ragazzine e ragazzini; maltrattamenti e percosse che possono costituire fattispecie di tortura. Sono giunte altresì notizie di violenze sessuali subite da donne, uomini e adolescenti”.
Ventiquattro ore prima del report dell’Onu, il settimo tribunale penale di Santiago del Cile ha accolto una denuncia contro il presidente Sebastián Piñera per crimini contro l’umanità, avviando una indagine ad hoc.

La situazione resta tesa e caotica

Si continuano a registrare anche saccheggi e attacchi ad alcune chiese, dopo che la cattedrale di Valparaiso e la parrocchia dell’Assunzione di Maria a Santiago del Cile sono state nei giorni scorsi saccheggiate e profanate da manifestanti incappucciati. I vescovi sono intervenuti con un comunicato, firmato anche dal presidente della Conferenza episcopale, monsignor Santiago Silva, in cui si legge tra l’altro: “I violenti impediscono di guardare con la dovuta attenzione alle giuste pretese della maggioranza del popolo cileno che desidera soluzioni reali e pacifiche”.

Per un aggiornamento sulla crisi cilena Sofia Lobos ha raggiunto telefonicamente monsignor Alberto Lorenzelli, vescovo ausiliare di Santiago del Cile:

R. – La situazione in Cile in questo momento è piuttosto difficile, complessa, proprio per la realtà che si sta vivendo: da una parte le manifestazioni pacifiche, la richiesta di più uguaglianza, del bene comune, che si possa veramente tornare ad una vita in cui non ci sia troppa differenza tra i più ricchi e i più poveri – e questo è il momento in cui questo svegliarsi del Cile, queste manifestazioni, portano anche tutta la classe politica a prendere coscienza che c’è necessità di un grande cambiamento -; dall’altra parte purtroppo accanto a queste manifestazioni pacifiche, si generano anche forme di violenza, dove si distruggono le strade, si fanno barricate, purtroppo anche incendi e saccheggi anche delle nostre chiese.

I vescovi seguono con grande attenzione la situazione…

R. – In questo momento i vescovi cileni sono radunati; stiamo dialogando e affrontando questo tema. Abbiamo mandato un messaggio chiedendo a tutti i cileni l’uso della ragione e l’apertura ad un dialogo; lo abbiamo chiesto anche alla classe politica, agli imprenditori, a tutte le istituzioni. Anche la Chiesa si è messa a disposizione per poter collaborare in qualche maniera a questo dialogo per creare una situazione più pacifica. A tutti i cileni che hanno un’anima generosa, di pace, che hanno saputo affrontare momenti più difficili: che possano tirare fuori veramente tutto quello spirito che li caratterizza, non attraverso la violenza, ma attraverso la generosità, la disponibilità, la solidarietà e soprattutto quella pace che fa parte proprio del popolo cileno. Chiediamo a tutti di usare la ragione, aprirsi al dialogo, a quella cultura dell’incontro, alla quale spesso il Papa invita. Chiediamo, noi come Chiesa, come comunità cristiana, di metterci anche in preghiera, per rispondere veramente a questo momento particolare della nostra storia, difficile e complessa.

I “caschi blu della sanità” preparano il summit di settembre

L’obiettivo di una copertura sanitaria globale in discussione all’Assemblea generale

Se i Paesi ad alto reddito spendono circa 270 dollari pro-capite per la salute dei propri cittadini, quelli più poveri non arrivano a 20, lasciando milioni di persone senza alcuna copertura sanitaria. È il preoccupante dato che fa pensare che siamo ancora lontani dal raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdgs), che prevedono la copertura sanitaria globale minima per tutti. Per questo, il 23 settembre, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, i capi di stato e di governo si riuniranno per un High level Meeting sulla Copertura sanitaria universale (Universal Health Coverage), dopo mesi di preparazione portati avanti dagli esperti.

A New York in queste settimane si lavora: dopo una prima fase di elaborazione dei contenuti, in cui le diverse agenzie delle Nazioni Unite si sono occupate degli argomenti a loro più congeniali — con una supervisione generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) — si è aperto un periodo di consultazione pubblica, che si è chiuso a inizio luglio, per favorire la partecipazione della società civile e dei governi al processo. Il piano è ora sotto esame per poter essere presentato all’Assemblea tra poco più di un mese.

A poco più di dieci anni dallo scadere dell’Agenda 2030, le Nazioni Unite hanno deciso di mettere il tema al centro del dibattito di quest’anno e provare a mobilitare i cittadini a chiedere ai loro governi di investire adeguatamente sui servizi sanitari. I dati dell’Oms ci dicono che metà della popolazione mondiale può contare solo sul cinque per cento della spesa sanitaria globale, mentre appena nove dei 49 Paesi a basso reddito possono garantire ai propri cittadini servizi sanitari essenziali.

Sul tavolo di esperti e politici a settembre ci sarà un Global action plan: nelle ambizioni, non solo l’analisi, ma il piano di azione vuole essere globale. Implica, come abbiamo detto, che siano coinvolte tutte le agenzie specializzate dell’Onu, ma soprattutto significa che l’obiettivo è una copertura sanitaria globale. A ottobre 2018, su impulso dei governi di Germania, Norvegia e Ghana, 12 delle principali agenzie specializzate delle Nazioni Unite, inclusa l’Oms, la Banca mondiale e l’Unicef, hanno concordato una road map per massimizzare le convergenze e favorire l’efficienza degli interventi. Riconoscendo la grande distanza da colmare per raggiungere l’ambizioso obiettivo di sviluppo (Sdg3) sulla salute, queste organizzazioni hanno identificato sette principali tematiche su cui “accelerare”. Non è un caso che nella terminologia di lavoro inglese siano definite proprio «accelerators».

Le sette tematiche in questione coprono macroaeree, come il sistema di finanziamento per la salute, o argomenti più tecnici, come la ricerca per favorire l’innovazione e la produzione di nuovi farmaci. Hanno come filo rosso la necessità di semplificare la macchina burocratica internazionale per essere più rapidi e attrezzati a supportare i governi e la popolazione. L’efficacia e l’impatto del piano andranno di pari passo con la volontà politica, non solo delle Agenzie, ma di tutta la comunità internazionale, di cambiare finalmente un sistema che non sembra più «fit for purpose», come si legge nei documenti, cioè adeguarsi ai fenomeni in evoluzione. Basti pensare alla difficoltà dell’Oms nel contrastare la nuova crisi dell’ebola nella Repubblica Democratica del Congo.

Da parte sua, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha stilato una lista che raccoglie i dieci problemi legati alla salute a livello mondiale che richiedono un’attenzione speciale da parte della comunità internazionale e dei singoli Paesi.

Al primo posto si parla di inquinamento atmosferico. Nove persone su dieci respirano aria inquinata ogni giorno. In particolare, quest’anno è considerato dall’Oms il maggior rischio ambientale per la salute. Gli inquinanti microscopici nell’aria possono penetrare nei sistemi respiratorio e circolatorio, danneggiando i polmoni, il cuore e il cervello, uccidendo sette milioni di persone prematuramente ogni anno da malattie come cancro, ictus, malattie cardiache e polmonari. Circa il 90 per cento di questi decessi avviene in Paesi a basso e medio reddito, con elevati volumi di emissioni da industria, trasporti e agricoltura, oltre a fornelli e combustibili sporchi nelle case. La causa principale dell’inquinamento atmosferico da combustione di combustibili fossili è anche uno dei principali fattori che contribuiscono ai cambiamenti climatici, che hanno a loro volta impatto sulla salute delle persone in diversi modi. Tra il 2030 e il 2050, si prevede che causeranno 250.000 decessi aggiuntivi all’anno, a causa di malnutrizione, malaria, diarrea e stress da calore. Nell’ottobre 2018, l’Oms ha tenuto la sua prima conferenza mondiale sull’inquinamento atmosferico e la salute a Ginevra. Paesi e organizzazioni hanno assunto oltre 70 impegni per migliorare la qualità dell’aria. Il vertice di settembre traccerà un bilancio.

Il secondo capitolo comprende le patologie non trasmissibili, come il diabete, il cancro e le malattie cardiache, che sono responsabili di oltre il 70 per cento di tutti i decessi nel mondo per malattie. Ciò include 15 milioni di persone che muoiono prematuramente, di età compresa tra 30 e 69 anni. Oltre l’85 per cento di questi decessi prematuri è nei Paesi a basso e medio reddito. L’aumento di queste malattie è stato guidato da cinque principali fattori di rischio: uso del tabacco, inattività fisica, uso dannoso di alcol, diete malsane e inquinamento dell’aria. Questi fattori di rischio esacerbano anche i problemi di salute mentale, che possono avere origine in tenera età: la metà di tutte le malattie mentali inizia all’età di 14 anni, ma la maggior parte dei casi non viene rilevata e non curata. In discussione arriva tra tanti un dato particolarmente drammatico: il suicidio è la seconda causa di morte tra i 15-19 anni.

C’è poi un tema per il quale conta più di tutto la prevenzione. Gli esperti sanno che il mondo dovrà affrontare un’altra pandemia di influenza: l’unica cosa che non sanno è quando colpirà e quanto sarà grave. Il punto è che difese globali sono efficaci solo quanto l’anello più debole nel sistema di preparazione e risposta alle emergenze sanitarie di qualsiasi Paese. La parola d’ordine nei documenti è monitoraggio: l’Oms monitora costantemente la circolazione dei virus dell’influenza per rilevare potenziali ceppi di pandemia: 153 istituzioni in 114 Paesi sono coinvolte nella sorveglianza e nelle risposte globali. A settembre si farà il punto anche su questo. Ampio spazio poi viene dedicato alle emergenze per ebola e per dengue, che non si riesce a superare.

C’è anche la sfida di “rincorrere” l’evoluzione degli agenti patogeni e dei farmaci. Lo sviluppo di antibiotici, antivirali e antimalarici è uno dei maggiori successi della medicina moderna. Ora, praticamente il tempo con questi farmaci sta per scadere. La resistenza antimicrobica — la capacità di batteri, parassiti, virus e funghi di resistere a questi medicinali — minaccia di rimandarci indietro nel tempo in cui non eravamo in grado di trattare facilmente infezioni come polmonite, tubercolosi, gonorrea e salmonellosi.

La questione vaccini è fondamentale e perfino aggravata: non c’è più solo il problema di raggiungere persone in aree isolate o di conflitto, ma c’è anche quello di contrastare le resistenze psicologiche in Paesi ricchi: nell’ordine del giorno della riunione di settembre compare l’urgenza di una strategia per diffondere meglio i dati degli studi scientifici che attestano che la vaccinazione attualmente previene 2-3 milioni di decessi all’anno e altri 1,5 milioni potrebbero essere evitati se la copertura globale migliorasse.

Dopo tante considerazioni specialistiche, nei documenti colpisce una raccomandazione: la priorità deve essere l’assistenza sanitaria di base che rappresenta il primo step per qualunque intervento. E purtroppo proprio qui emerge il primo vulnus: molti Paesi non dispongono di adeguate strutture sanitarie primarie.

L’Osservatore Romano, 10 agosto 2019

25 novembre, una Giornata per dire basta alla violenza alle donne

R. – C’è molta più consapevolezza sulla violenza alle donne ora rispetto a dieci anni fa. Perfino rispetto a due anni fa. Ci sono più denunce. Inoltre, dati i cambiamenti molto  veloci che ci sono nel mondo veniamo a contatto anche con forme di violenza che prima non sapevamo,  che in Europa non conocevamo.  Anche questo dà l’impressione di maggiore diffusione della violenza. Ma fondamentalmente però dobbiamo ammettere che il punto è che nel cresce la violenza, si esasperano i conflitti e quindi aumentano anche le violenze contro le donne, così come quelle contro i bambini. Fanno parte di quella catena di reazioni che la violenza porta con sé tra società e all’interno di ogni società.
Cresce la violenza contro le donne. Se ne è parlato a Strasburgo, in vista della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne istituita dall’Onu. In aumento anche le denunce. L’impegno delle organizzazioni e delle Chiese

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Crescono conflitti e violenze nel mondo e aumenta il numero di femminicidi, stupri, abusi e discriminazioni nei confronti delle donne. E’ il drammatico dato emerso al Forum mondiale sui diritti umani organizzato in questi giorni a Strasburgo dal Consiglio d’Europa, in coincidenza con la Giornata internazionale della violenza contro le donne che ricorre il 25 novembre.

In aumento le denunce, ma anche le forme di violenza

Una donna su tre nel mondo ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Aumenta il coraggio di denunciare ma si moltiplicano anche le violenze, denuncia Feride Acar, presidente della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul).

I casi di femminicidio in Europa

Solo in Italia, sono 3100 le donne uccise dal 2000 a oggi, più di 3 a settimana. E da gennaio a ottobre 2018 sono 70 quelle assassinate dagli uomini. L’Italia, poi, non è neanche tra i Paesi europei con medie più alte. Picchi si registrano in Bulgaria, Romania e Lettonia, ma anche in Finlandia e Francia. Oggi il termine femminicidio è ormai entrato nell’uso comune e secondo i dati dell’Onu la maggior parte dei casi avvengono per mano di partner o ex partner delle vittime, dunque in contesti familiari.

Dati drammatici in India

C’è poi il caso eclatante dell’India dove si registrano sei stupri al giorno e dove dall’inizio dell’anno si contano 5 casi di donne violentate e bruciate vive. E’ ancora forte lo sconcerto per la giovane brutalizzata su un autobus il 16 dicembre del 2012 da un gruppo di giovani, ma del 2018 si racconterà anche il caso della neonata di otto mesi violentata da un cugino di 28 anni a New Delhi a metà gennaio. La violenza contro le donne in India non fa differenza tra zone rurali o cittadine e infatti i progetti dell’organizzazione Church’s Auxiliary for Social Action (CASA) si muovono in tutti i 27 Stati dell’India. Ai nostri microfoni la responsabile Joycia Thorat:

Violenza alle donne: il caso dell’India

R. – Lavoriamo come coordinamento delle chiese indiane e operiamo in tutto il Paese. Attraversiamo i 27 Stati dell’India per raggiungere le situazioni più marginalizzate, anche se le donne non hanno problemi solo nelle zone rurali. Arriviamo dove c’è più bisogno di ristabilire il principio che la donna è degna dello stesso rispetto dell’uomo. Parliamo dell’orrore dei femminicidi e spieghiamo che Dio ha creato l’uomo e la donna con gli stessi diritti alla vita e ad essere rispettati. Agli occhi di Dio uomini e donne sono uguali. Cerchiamo di sensibilizzare l’intera comunità a considerare doveroso rispettarsi gli uni con gli altri, convivere e lavorare insieme. Anche per assicurare alle donne le stesse opportunità di studio, sviluppo, lavoro e poi ruoli nella sfera politica, da dove possono incidere sulla società. Esistono delle quote per le elezioni – il 33 per cento di seggi alle donne – ma ci devono essere donne preparate e supportate, perché possano presentarsi alle elezioni.

Quale il contributo che la Chiesa offre a favore delle donne?

R. – La Chiesa ha molte risorse per portare sviluppo. Il messaggio della Fede e dei testi sacri è un messaggio che promuove amore e rispetto. E’ fondamentale assicurare che sia questo quello che arriva alla gente. In alcuni casi le religioni vengono strumentalizzate. Ma testimoniare la fede vera significa testimoniare che Dio ama uomini e donne ed è contrario a qualunque forma di violenza. Organizzazioni come la nostra cercano proprio di coordinare gli sforzi per diffondere la Bibbia. Lavorare in gruppi religiosi può essere molto importante come fonte di conoscenza e di riflessione e per superare eventuali interpretazioni distorte, perché Dio non discrimina, i testi sacri non discriminano. E tutto questo aiuta anche la Chiesa stessa ad “alzarsi”, a rigenerare energie per sostenere le donne, ad essere solidale con le donne, ad incoraggiarle a prendere posizioni importanti.

L’importanza dei mass-media

Fondamentale per il contrasto alla violenza alle donne, il ruolo dei media: lo ribadisce il vicesegretario del Consiglio d’Europa, Gabriella Battaini-Dragoni:

Violenza alle donne: il ruolo dei media

La Giornata internazionale dal 1999

Il 17 dicembre del 1999 con la risoluzione 54/134, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha deciso di celebrare il 25 novembre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ricordando la data del 25 novembre 1960 quando i corpi di tre sorelle – Patria, Minerva e Maria Mirabal – furono ritrovati in fondo a un precipizio con segni evidenti di violenze sessuali e torture subite da uomini delle forze dell’ordine dell’allora dittatura nella Repubblica Dominicana.

Messico dei paradossi

Violenza, corruzione e bellezza

“Messico in bilico. Viaggio da vertigine nel Paese dei paradossi”, questo il titolo di un libro pubblicato di recente, che descrive un Paese dalle mille contraddizioni e un popolo che, dal nuovo Presidente, attende riforme sociali e sicurezza

Stefano Leszczynski e Adriana Masotti – Città del Vaticano

Il Messico promette di diventare uno degli scenari geopolitici ed economici più interessanti dei prossimi anni. Sono pronti a scommetterci i principali analisti internazionali, come Lucio Caracciolo – direttore della rivista Limes – e Paolo Magri, direttore dell’ISPI. Entrambi concordano sulle peculiarità di quello che viene definito anche il più meridionale degli Stati nordamericani.

Le speranze dei messicani dopo il voto

Il Messico è un Paese grande sei volte l’Italia, che ospita 130 milioni di abitanti e che condivide ben 3.201 chilometri di confine con gli Stati Uniti, la cui popolazione è rappresentata per circa l’11% da messicani. Il primo dicembre di quest’anno, si insedierà alla presidenza Andres Lopez Obrador, 64 anni leader della sinistra messicana, uscito vincitore alle presidenziali di luglio, succedendo al Presidente Enrique Pena Nieto.

Insicurezza, corruzione e bellezza

Sarà Obrador a doversi confrontare con i paradossi messicani che sprofondano il Paese in un infinito orrore e lo innalzano al contempo verso un’insostenibile bellezza. Di tutto questo si parla nel libro di Fausta Speranza, giornalista alla redazione esteri dell’Osservatore Romano: “Messico in bilico – Viaggio da vertigine nel Paese dei paradossi” pubblicato da Infinito Edizioni, con il patrocinio di Amnesty International, e presentato nella sede della Federazione Nazionale della stampa italiana a Roma. Un libro che, passando dalle dimensioni umane e sociali ai versanti politici e geopolitici, offre un biglietto per un itinerario sulle “montagne russe” messicane.

Violenza e turismo tra povertà e grandi ricchezze

La violenza in Messico è drammaticamente paragonabile solo a uno scenario di guerra, ma il Paese è meta preferita di milioni di turisti. Dagli anni Novanta è in continua crescita economica e si è ridotto il numero dei poveri, ma resta un Paese con zone in cui si registrano indici di sviluppo pari alla Germania e aree paragonabili al Burundi. Lo spagnolo è lingua ufficiale, ma ci sono 62 idiomi amerindi riconosciuti, tra i quali nahuatl e maya, entrambi parlati da circa 1,5 milioni di persone.

I tanti paradossi messicani

Fausta Speranza racconta nel suo libro la difficoltà di muoversi in Messico da cronista per andare in cerca delle persone e delle storie vere che incrociano criminalità e narcotraffico. Quando però le ha trovate, soprattutto tra le donne, l’impatto è stato scioccante. Il quadro generale che emerge è quello di un Paese che sconvolge per la vivezza dei suoi colori, “ma quasi ti assuefà agli intrecci tra smerci di droga, armi ed esseri umani”. Ti conquista con la piacevolezza della cucina, “ma ti colpisce con un pugno allo stomaco per la familiarità con la corruzione”. Da una parte la generosa accoglienza della gente, dall’altra una fortissima omertà. L’incontro con un popolo con una radicata spiritualità e una fede viva, insieme alla diffusa “banalizzazione del valore della vita umana”.

Il G7 e la guerra dei dazi

A conclusione del vertice del G7 in Canada (9 e 10 giugno 2018), il gruppo dei paesi più industrializzati sottoscrive un documento di accordo, Donald Trump lo firma e poi ci ripensa. Stefano Leszsczynki parla con   l’economista Prof. Paolo Guerrieri, in collegamento telefonico, e Fausta Speranza, in studio,  delle prospettive di una guerra commerciale e del ruolo dell’Europa: