Crisi venezuelana e organismi internazionali

Si intensifica il dialogo tra diversi Paesi delle Americhe sulla crisi in Venezuela. Tra i diversi ambiti di discussione, c’è il Trattato interamericano di assistenza reciproca (Tiar) che ospita tra gli altri anche il rappresentante degli Stati Uniti. Una presenza e un dibattito fortemente contestati da Maduro. Intervista con Francesco Cherubini, docente di Organizzazioni internazionali e diritti umani all’Università Luiss

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Condanna e pressioni sul presidente del Venezuela, Nicolàs Maduro: i Paesi membri del Trattato interamericano di reciproca assistenza (Tiar), riuniti ieri a Bogotà, a livello dei ministri degli esteri,  hanno stabilito sanzioni finanziarie e restrizioni di viaggio per una serie iniziale di “persone associate” al governo di Caracas. I delegati  hanno anche rinnovato l’appello  ai “rappresentanti permanenti” presso l’Organizzazione degli Stati americani (Osa) affinché continuino a seguire la situazione di crisi sociale, politica ed economica  del Venezuela assicurando “raccomandazioni”.

Diversi i tavoli di confronto regionali

Il Presidente eletto dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, ha reso noto  che il suo governo, che si insedierà in marzo 2020, abbandonerà il Meccanismo di Montevideo, messo a punto a febbraio con il Messico per contribuire alla soluzione della crisi in Venezuela.  Come tavolo di discussione della crisi venezuelana c’è anche il Gruppo di Lima, che riunisce periodicamente diversi Paesi dell’area più il Canada.  A Lima non partecipano gli Stati Uniti che invece fanno parte in queste ore del dibattito nella capitale della Colombia, tra rappresentanti di Argentina, Brasile, Cile, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Dominicana, Trinidad e Tobago, e un delegato dell’opposizione venezuelana.

Il ruolo dell’Osa

Al di là dei diversi organismi, potrebbe giocare un ruolo importante l’Organizzazione degli Stati Americani (Osa). Per capire il margine possibile di interventi, abbiamo intervistato Francesco Cherubini, docente di Organizzazioni internazionali e diritti umani all’Università Luiss:

Ascolta l’intervista con Francesco Cherubini

R. – Probabilmente serviranno degli interventi un po’ più incisivi rispetto a quelli iniziali con i quali si approccia normalmente un’organizzazione internazionale come l’Osa.

Può fare alcuni esempi, professore?

R. – Già che si muovano i meccanismi più soft che sono legati al rispetto sia della Convenzione americana di diritti dell’uomo sia alla Dichiarazione americana dei diritti dell’uomo – sono due strumenti diversi che ruotano attorno alla commissione dell’Osa – già sarebbe un passo più importante, più rumoroso, per così dire nei confronti di questi Stati. Arrivo a dire anche l’espulsione che è prevista nello Statuto ma che – questa è la preoccupazione delle organizzazioni in questo caso – potrebbe  addirittura contribuire a estremizzare di più la situazione. Lo Stato messo all’angolo, o addirittura espulso, a questo punto si sente di avere le mani più libere di quanto non le aveva in precedenza. Quindi le organizzazioni si muovono sempre su un territorio delicatissimo, perché un’azione blanda probabilmente sarebbe percepita dallo Stato, o dagli Stati in questione, come qualcosa alla quale si può tranquillamente non dare seguito. Però un’azione più incisiva potrebbe avere un effetto peggiorativo della situazione. Quindi è sempre molto difficile; è un equilibrio sempre molto delicato. Escludo possano essere messi in moto meccanismi proprio ad hoc, quelli pensati a questo scopo che sono appunto la Commissione e la Corte dell’Osa. In genere, in questi casi c’è un’opera diplomatica che viene svolta dall’organizzazione internazionale per riportare gli Stati in questione a più miti consigli ed è auspicabile che questo avvenga nell’organizzazione regionale che è più vicina agli Stati problematici. Non è detto, non è escluso, che si possano mettere in moto anche i meccanismi generali che sono quelli che trovano posto nelle Nazioni Unite. Lì la massima autorità – quella che detiene anche i poteri più penetranti anche in relazione ormai da tempo alla difesa dei diritti umani – è il Consiglio di sicurezza, però è sempre vero che di fronte a questi eventi, le dinamiche politiche, diplomatiche all’interno delle organizzazioni sono sempre molto delicate. Quindi non è detto che di fronte a tutto ciò la risposta delle organizzazioni sia quella che ci si attenderebbe. Potrebbe essere magari una risposta più flessibile all’inizio che poi diventa più rigida, senza utilizzare strumenti che pure avrebbe a disposizione e che comportano, come dicevo, fino all’espulsione dello Stato in questione. Nell’Osa questo vale anche per altro. Più facilmente si possono immaginare trattative di carattere negoziale, diplomatico volte a riportare a più miti consigli gli Stati in questione.

In America Latina si protesta contro il carovita, ma soprattutto contro la corruzione e le diseguaglianze. Ci si può aspettare un’azione più strutturale da parte dell’Osa su questi temi?
R. – Non credo. Secondo me, è ancora predominante, almeno in determinate aree, l’efficacia dell’azione di alcuni Stati verso altri Stati. Certo qui l’estensione è notevole, quindi non è escluso che possano esserci interventi diversi dell’Osa, per esempio, o come dicevo in precedenza, delle Nazioni Unite. Non è episodico e non riguarda soltanto uno Stato. Quindi è certamente possibile, però anche l’Osa si deve muovere su un terreno non strettamente legato ai meccanismi di controllo perché questi sono una cosa diversa; tra l’altro sono stati pensati più probabilmente per le violazioni individuali che non per quelle sistemiche, anche se non è escluso possano riguardare anche queste.

Nuove sanzioni al Venezuela mentre la popolazione è allo stremo

I Paesi del Trattato interamericano di reciproca assistenza (Tiar) impongono nuove sanzioni a Nicolás Maduro in Venezuela, mentre respingono le recenti accuse rivolte contro il presidente del Parlamento venezuelano, Juan Guaidó, accusato di malversazione dei fondi ricevuti per gli aiuti umanitari. Intanto la popolazione è allo stremo. Intervista con Luciano Bozzo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Nuova stretta dei Paesi latinoamericani contro il regime di Nicolás Maduro in Venezuela. I membri del Trattato interamericano di reciproca assistenza (Tiar), cioè Panama, Colombia, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Cile e Perù, hanno deciso  nuove sanzioni finanziarie e nuove restrizioni di viaggio contro “persone associate” al governo di Maduro, seguendo l’iniziativa intrapresa tempo fa dall’amministrazione di Donald Trump. La misura ha trovato la resistenza del governo di Panama, che si è astenuto durante il voto. Non sono stati ancora forniti i nomi dei 29 funzionari e famigliari del regime che saranno colpiti da queste sanzioni.

Cadute le accuse a Guaidó

Il Tiar ha anche respinto le recenti accuse rivolte contro il presidente del Parlamento venezuelano, Juan Guaidó, accusato di malversazione dei fondi ricevuti per gli aiuti umanitari. Queste denunce hanno fatto crollare la popolarità di Guaidó, dal 63 per cento al 42 per cento, secondo il sondaggio di Datanalisis, a poco meno di un anno dalla ribellione del 23 gennaio contro il potere di Maduro. Durante la riunione dei ministri degli Esteri dei Paesi del Tiar, si è disposto che nei riguardi di queste persone (legate a Maduro) “l’attivazione dei meccanismi di cooperazione e delle procedure necessarie, in sintonia con le legislazioni nazionali e i meccanismi esistenti di cooperazione in materia d’intelligence finanziaria”. Intanto la popolazione è allo stremo mentre è stallo sul piano politico, come conferma  Luciano Bozzo, docente di Studi strategici all’Università di Firenze:

Ascolta l’intervista con Luciano Bozzo

R. – Il Venezuela ha cercato di bypassare, anche recentemente, quelle sanzioni e questi limiti, in particolare utilizzando dei conti che ha aperto nella Repubblica popolare cinese con la quale più di 10 anni fa è stato stabilito un accordo per cui il petrolio veniva venduto ai cinesi e quindi acquistato in valuta cinese rimasta poi in questi conti nella Repubblica popolare. Ma la Cina sembra molto prudente sul punto e soprattutto non sembrano entusiaste quelle aziende, quelle ditte che dovrebbero essere pagate in valuta cinese. Se questa situazione economica dovesse peggiorare, diventerebbe preoccupante anche per gli Stati latinoamericani, in particolare quelli vicini.

Che dire del braccio di ferro politico in atto tra Maduro e Guaidó?

R. – Ci si trova adesso in una situazione veramente di stallo, in cui lo stesso Juan Guaidó non ha la forza per provocare un collasso del regime di Maduro con una sollevazione popolare generalizzata. Non credo che questa situazione sia destinata a mutare nel brevissimo termine, anche se sia da parte degli Stati Uniti sia da parte di alcuni portavoce dell’opposizione venezuelana si è dichiarato a più riprese che il Paese è veramente sull’orlo di un profondo cambiamento, di un collasso, di un sollevamento di natura rivoluzionaria – evidentemente – e questo potrebbe avvenire in qualsiasi momento: e questa, tra l’altro, è la speranza dell’attuale amministrazione americana, che tutto vuole meno che impegnarsi militarmente in Venezuela.

Intanto la popolazione è allo stremo …

R. – E’ davvero una popolazione allo stremo: penso che molti venezuelani abbiano davvero perso la speranza. D’altra parte, è anche vero – e non possiamo dimenticarlo – che comunque il regime gode ancora di sostegno – non so quanto diffuso a livello popolare – ma certamente branche importanti dello Stato, a comunicare dalle forze armate, di sicurezza, i servizi eccetera, sostengono Maduro, anche per timore di quelle che potrebbero essere le conseguenze a loro carico di un improvviso crollo del regime. E affianco di queste istituzioni e strutture pubbliche, evidentemente c’è anche una parte della società venezuelana che ha creduto in Maduro, che ha creduto nel sogno neo-bolivariano, che non si identifica con le altre classi sociali, in particolare media, alta borghesia, borghesia cittadina eccetera, che invece chiaramente sono schierate a favore di Juan Guaidó, quindi del cartello delle opposizioni.

 E’ una storia che poteva essere in qualche modo prevista?

R. – Indubbiamente, la crisi venezuelana si trascina da diversi anni, ormai – ormai è un decennio che il Paese in una maniera o nell’altra si trova in una situazione difficile: difficile da un punto di vista politico ma anche, appunto, con quei risvolti sociali ed economici di cui abbiamo parlato. Sicuramente era prevedibile uno o due anni fa, perché non c’erano i segnali per una rapida e pacifica risoluzione del conflitto politico interno. Che cosa poi però si dovesse fare per cercare di evitare quello che sta accadendo è difficile a dirsi perché, ripeto, soprattutto fino a non molto tempo fa il regime comunque godeva di un sostegno popolare.

Diversi i tavoli di confronto regionali

Il Presidente eletto dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, ha reso noto  che il suo governo, che si insedierà in marzo 2020, abbandonerà il Meccanismo di Montevideo, messo a punto a febbraio con il Messico per contribuire alla soluzione della crisi in Venezuela.  Come tavolo di discussione della crisi venezuelana c’è anche il Gruppo di Lima, che riunisce periodicamente diversi Paesi dell’area più il Canada.  A Lima non partecipano gli Stati Uniti che invece fanno parte in queste ore del dibattito nella capitale della Colombia, tra rappresentanti di Argentina, Brasile, Cile, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Dominicana, Trinidad e Tobago, e un delegato dell’opposizione venezuelana.

Il ruolo dell’Osa

Con il documento del Tiar si chiede ai rappresentanti permanenti dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa) di continuare a seguire la crisi venezuelana per formulare nuove raccomandazioni. Perché la situazione in cui si trova il Venezuela – si legge nel testo – non è indifferente ai Paesi della regione perché “rappresenta una minaccia per il mantenimento della pace e della sicurezza nel continente”.  Per capire il margine possibile di interventi, abbiamo intervistato Francesco Cherubini, docente di Organizzazioni internazionali e diritti umani all’Università Luiss:

Ascolta l’intervista con Francesco Cherubini

R. – Probabilmente serviranno degli interventi un po’ più incisivi rispetto a quelli iniziali con i quali si approccia normalmente un’organizzazione internazionale come l’Osa.

Può fare alcuni esempi, professore?

R. – Già che si muovano i meccanismi più soft che sono legati al rispetto sia della Convenzione americana di diritti dell’uomo sia alla Dichiarazione americana dei diritti dell’uomo – sono due strumenti diversi che ruotano attorno alla commissione dell’Osa – già sarebbe un passo più importante, più rumoroso, per così dire nei confronti di questi Stati. Arrivo a dire anche l’espulsione che è prevista nello Statuto ma che – questa è la preoccupazione delle organizzazioni in questo caso – potrebbe  addirittura contribuire a estremizzare di più la situazione. Lo Stato messo all’angolo, o addirittura espulso, a questo punto si sente di avere le mani più libere di quanto non le aveva in precedenza. Quindi le organizzazioni si muovono sempre su un territorio delicatissimo, perché un’azione blanda probabilmente sarebbe percepita dallo Stato, o dagli Stati in questione, come qualcosa alla quale si può tranquillamente non dare seguito. Però un’azione più incisiva potrebbe avere un effetto peggiorativo della situazione. Quindi è sempre molto difficile; è un equilibrio sempre molto delicato. Escludo possano essere messi in moto meccanismi proprio ad hoc, quelli pensati a questo scopo che sono appunto la Commissione e la Corte dell’Osa. In genere, in questi casi c’è un’opera diplomatica che viene svolta dall’organizzazione internazionale per riportare gli Stati in questione a più miti consigli ed è auspicabile che questo avvenga nell’organizzazione regionale che è più vicina agli Stati problematici. Non è detto, non è escluso, che si possano mettere in moto anche i meccanismi generali che sono quelli che trovano posto nelle Nazioni Unite. Lì la massima autorità – quella che detiene anche i poteri più penetranti anche in relazione ormai da tempo alla difesa dei diritti umani – è il Consiglio di sicurezza, però è sempre vero che di fronte a questi eventi, le dinamiche politiche, diplomatiche all’interno delle organizzazioni sono sempre molto delicate. Quindi non è detto che di fronte a tutto ciò la risposta delle organizzazioni sia quella che ci si attenderebbe. Potrebbe essere magari una risposta più flessibile all’inizio che poi diventa più rigida, senza utilizzare strumenti che pure avrebbe a disposizione e che comportano, come dicevo, fino all’espulsione dello Stato in questione. Nell’Osa questo vale anche per altro. Più facilmente si possono immaginare trattative di carattere negoziale, diplomatico volte a riportare a più miti consigli gli Stati in questione.

In America Latina si protesta contro il carovita, ma soprattutto contro la corruzione e le diseguaglianze. Ci si può aspettare un’azione più strutturale da parte dell’Osa su questi temi?
R. – Non credo. Secondo me, è ancora predominante, almeno in determinate aree, l’efficacia dell’azione di alcuni Stati verso altri Stati. Certo qui l’estensione è notevole, quindi non è escluso che possano esserci interventi diversi dell’Osa, per esempio, o come dicevo in precedenza, delle Nazioni Unite. Non è episodico e non riguarda soltanto uno Stato. Quindi è certamente possibile, però anche l’Osa si deve muovere su un terreno non strettamente legato ai meccanismi di controllo perché questi sono una cosa diversa; tra l’altro sono stati pensati più probabilmente per le violazioni individuali che non per quelle sistemiche, anche se non è escluso possano riguardare anche queste.

Fino ad ora ci sono state raccomandazioni dell’Osa al Cile e alla Bolivia, oltre che al Venezuela, per il rispetto dei diritti umani dei manifestanti. Hanno trovato terreno fertile?

R. – Non mi pare. I fatti smentiscono un po’ quello che era l’indirizzo dato per l’appunto a questi Stati. Mi pare che sia abbastanza quotidiana la violazione dei diritti – dei vari diritti – dei manifestanti, dei cittadini che scendono in piazza.

Questione migrazioni in America Latina alla luce delle proteste

Dal Venezuela al Perù, dalla Colombia al Cile: sono diversi i percorsi dei flussi migratori in America Latina e cresce la preoccupazione per le condizioni di rifugiati e sfollati nella fase attuale di continua esplosione di manifestazioni e disordini in vari paesi di questa area del mondo. Intervista con Alfonso Giordano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Viene definita la Ruta andina: è la rotta migratoria che venezuelani e colombiani seguono fino ad arrivare in Perù, Cile e Argentina. Insieme con le carovane di migliaia di persone che da ottobre 2018 abbiamo visto partire dal Centro America verso il Messico, per raggiungere gli Stati Uniti – salvo impattare con l’irrigidimento della frontiera – fotografano il fenomeno delle migrazioni in America Latina. In questa fase caratterizzata dall’esplodere di proteste e rivendicazioni in un paese dopo l’altro in questa area del mondo, c’è da chiedersi quali conseguenze ci siano o si possano immaginare. Abbiamo intervistato Alfonso Giordano, docente di geopolitica e flussi migratori all’Università Luiss:

R. – Bisogna dire che l’America Latina è sempre stata un luogo di immigrazione.  Diciamo che questo è accaduto più che altro alla fine del Novecento, inizio anni Duemila.  Da qualche anno però è diventata un posto di emigrazione. Solo che fino a qualche anno fa c’erano alcune mete che garantivano una certa circolarità di queste migrazioni in altri Paesi Latinoamericani e negli Stati Uniti e per quanto riguarda l’ex madre patria, in Spagna in particolare. Ora l’Europa per i latinoamericani non è più tra le mete preferite; gli Stati Uniti hanno un po’ serrato i cancelli e naturalmente i flussi migratori si sono rivolti verso altri Paesi Latinoamericani, in particolare il Brasile, l’Argentina e il Cile che però, a loro volta, hanno anche altre problematiche interne dovute anche a politiche degli ultimi anni che non hanno portato ottimi risultati. Circa il cinque percento dei 650 milioni di abitanti – quindi una trentina di milioni di persone – sono emigrate in altri posti rispetto al Paese natale. È un numero grande se si tiene conto che la media al mondo è del tre percento e che soprattutto, ad esempio, dall’Africa sono partite ugualmente una trentina di milioni di persone ma in Africa vivono circa un miliardo di persone. In America Latina siamo a 650 milioni. Quindi diciamo che la migrazione è aumentata negli ultimi dieci anni di circa il 40 percento.

Ci definisce i flussi principali?

Abbiamo tre flussi principali. Il primo flusso è quello all’interno dello stesso continente, una specie di mobilità circolare. Il Cile ad esempio è una delle mete preferite, anche se il Cile stesso sta avendo problemi interni. Poi c’è un altro flusso che riguarda il Centro America, Paesi come Honduras, Salvador, Guatemala, che hanno in realtà situazioni di estrema violenza, per cui queste sono persone che più che da condizioni di povertà o di crisi economica scappano da condizioni di violenza. Il terzo tipo di flusso riguarda un solo Paese in particolare che è il Venezuela, che ultimante ha registrato veramente un’impennata di migrazioni. Si calcola che ci siano almeno quattro- cinque milioni di persone che sono uscite da Paese. D’altra parte, più o meno il 90 percento della popolazione si trova in condizioni di povertà o comunque di insicurezza alimentare. Quindi, questo significa che c’è una polveriera ancora nel Paese malgrado la fuoriuscita di oltre quattro milioni di persone che in genere hanno trovato rifugio in Colombia, in Messico o negli Stati Uniti. In realtà la questione è ancora aperta. In ogni caso, i flussi come dicevo sono tre: circolare, all’interno che rientra un po’ nella normalità di quell’area geografica, cioè attrazione verso Paesi che stanno un po’ meglio, che sono più ricchi; un altro flusso che riguarda situazioni di violenza dal Centro America e il flusso, quello venezuelano, per le note vicende, come il calo del petrolio con la crisi economica e politiche economiche sbagliate dagli ultimi governi che hanno ridotto la popolazione in condizioni di povertà e insicurezza alimentare.

R. – Certo. Questo, per esempio, è ciò che sta accadendo in Venezuela, perché alcuni migranti si sono rivolti in un primo momento verso la Colombia e il Perù; altri adesso stanno transitando verso il Messico. Ma la cosa paradossale è che si scappa spesso da condizioni problematiche dove ci sono anche questioni di narcotraffico per arrivare in altri posti dove la situazione non è certo migliore. Insomma, c’è la differenza anche legata a quello che accade nel Mediterraneo dove tutto sommato chi riesce arriva in Europa. Lì invece con la chiusura anche di Trump alla migrazione – una specie di serrate le armi, i portoni – molta gente si trova a ricircolare in situazioni che non sono tra le migliori. Quindi un cambiamento di percorsi c’è e riguarda soprattutto la parte Nord del Sud America verso il Centro America, quindi Caraibi e Messico.

Ha citato il Messico, un Paese già in affanno per la questione migrazione, stretto tra il Centro America e gli Stati Uniti. Dobbiamo immaginare che si moltiplicheranno i problemi per il Paese?

R. – È probabile. Il Messico ha vissuto negli anni scorsi un momento di prosperità economica che in un certo senso ha un po’ frenato le migrazioni messicane verso gli Stati Uniti e lo stesso Messico era diventato un po’ un Paese di passaggio, un po’ quella che è la funzione dell’Italia nel Mediterraneo. In realtà, le condizioni economiche stanno nuovamente peggiorando e soprattutto l’essersi trovato tra la chiusura a Nord con gli Stati Uniti e questi flussi che gli arrivano dal Sud aggrava naturalmente la condizione messicana.

L’Ecuador tra tensione sociale latente e una legge finanziaria da votare

Dopo i difficili giorni di ottobre e la bocciatura nei giorni scorsi della finanziaria, l’Ecuador vive una fase di attesa per i prossimi sviluppi che potrebbero significare elezioni anticipate. La tensione sociale sfociata in 12 difficili giorni di sciopero generale è viva come sono vive le rivendicazioni di maggiore equità sociale. Intervista a Paolo Valvo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il fattore scatenante delle proteste in Ecuador è stato l’annuncio da parte del presidente Lenin Moreno, il primo ottobre scorso, delle nuove misure volute per dare una spinta all’economia. In realtà hanno scatenato  12 giorni di sciopero generale e di disordini, con epicentri  a Quito e Guayaquil.  Al centro della contestazione, l’aumento del costo del carburante e in particolare del diesel e della benzina “extra”, la più utilizzata nel Paese. L’aumento era dovuto all’eliminazione dei sussidi statali al prezzo del combustibile, misura in vigore dagli anni Settanta.  Il bilancio degli avvenimenti, riasunti nell’espressione gasolinazo, è stato disastroso: otto morti, circa 1.300 feritipiù di mille arresti e milioni di dollari di perdita economica e danni. Un accordo per la fine delle manifestazioni di piazza è arrivato nella notte del 13 ottobre. Poi, domenica 17 novembre, il governo dell’Ecuador ha provato a far approvare un’altra legge economica che però non è stata approvata in Parlamento, bensí negata e archiviata. Una sconfitta importante che non può restare senza conseguenze. L’appuntamento con le elezioni è fissato al 2021, ma si profila l’ipotesi  del voto anticipato.  Ne abbiamo parlato con Paolo Valvo, docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano:

Ascolta l’intervista con Paolo Valvo

R. – Questo è uno degli scenari che viene ritenuto più probabile. Il governo di Lenin Moreno si trova in una situazione difficile. Ricordiamo che le proteste, soprattutto quelle particolarmente violente del mese di ottobre, che hanno messo a ferro e fuoco l’Ecuador, nascono dalla decisione del governo di togliere alcuni sussidi statali al prezzo del combustibile che erano in vigore dagli Anni 70. Quindi, da 40 anni sostanzialmente la benzina veniva acquistata a prezzo agevolato. Questi sussidi, gradualmente hanno iniziato ad essere tolti dal 2015 – quindi già con il governo di Rafael Correa – e progressivamente per alcune categorie di benzine e di utenti, per cui c’era una discriminazione tra utenti privati ed imprese. A ottobre il progetto era quello di togliere tutti i sussidi a tutti i tipi di benzina, anche alla benzina “extra”, quella più usata nel Paese, per un motivo molto semplice: l’Ecuador a fronte di un debito pubblico oramai insostenibile e a un rallentamento molto grave dell’economia, a partire dalla fine del 2017, è dovuto ricorrere al Fondo Monetario Internazionale per aver dei prestiti, che ha ottenuto per un ammontare di oltre dieci miliardi di dollari. Il prezzo da pagare però, come sempre succede in questi casi, è la politica di austerità. Ora il governo si trova in una posizione molto delicata, perché all’interno ha un’opposizione che sicuramente si alimenta anche della tradizionale dialettica politica – tra i protagonisti della protesta, non a caso, c’è proprio l’ex presidente Rafael Correa che con il suo movimento “Révolution Ciudadana” ha animato molto le proteste di questi giorni – però, abbiamo anche l’emergere di una protesta a forte connotazione indigena. E   questo è un dato fondamentale che lega l’Ecuador ad altri Paesi, come ad esempio il Perù. C’è questa organizzazione, la “Conaie”, che letteralmente è la sigla che sta per Confederazione delle Popolazioni Indigene dell’Ecuador, che è stata uno dei leader di questa protesta e protagonista del negoziato che a metà ottobre ha permesso di interrompere le proteste e di ottenere da parte di Lenin Moreno un passo indietro rispetto a questa misura prevista.

In Ecuador c’è una fortissima componente indigena, anche se il tema della povertà è trasversale…

R. – C’è una protesta trasversale. Dire che c’è uno spiccato protagonismo indigeno non significa che questi siano i soli a protestare. Chiaramente il taglio dei sussidi alla benzina ha colpito molte categorie; sicuramente gli indigeni, ma anche i lavoratori agricoli, i sindacati dei trasporti, ci sono stati anche molto studenti. Poi, chiaramente queste proteste danno anche il “la” ad una contestazione nei confronti del sistema generale. Quindi come si diceva prima, ci sono micce, ci sono singoli episodi sicuramente molto gravi in sé, che però in qualche modo danno la stura ad un malcontento diffuso, che   affonda le proprie radici in dinamiche socio-economiche di più lungo periodo, di più ampia portata.

Poi, appunto, il lato che è stato rilevato da molti, è che questa protesta in Ecuador, ha visto, in una maniera mai vista rispetto a prima, questo protagonismo da parte delle organizzazioni indigene, che hanno mostrato una capacità inaspettata anche di organizzarsi e quindi di essere in qualche modo alla guida di questo processo. Ora la posizione del governo è estremante fragile, perché chiaramente il tema delle politiche di austerità rimane; è venuta meno la questione dei sussidi, ma in qualche modo, da qualche altra parte bisognerà tagliare. L’aumento dell’Iva, l’imposta sul valore aggiunto al dieci percento che era stata originariamente prevista, attualmente sembra impensabile, perché farebbe ripartire automaticamente lo stesso tipo di protesta. Allo stesso tempo però qualsiasi passo, qualsiasi negoziato tra il governo e le grandi organizzazioni internazionali rischia di essere letto da parte di un’opposizione così trasversale, ma anche così radicata come una sorta di tradimento. Quindi la prospettiva di elezione anticipata a questo punto potrebbe essere uno scenario altamente probabile.

Proteste a Bogotà anche dopo l’annuncio di riforme di Duque

Il messaggio di critica al governo resta vivo in Colombia anche se il presidente ha annunciato un piano di dialogo nazionale con i governatori locali. I movimenti di piazza trasversali alla società non si sentono rappresentati dalle istituzioni politiche. E’ quello che accade anche in Honduras. Intervista con Paolo Valvo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Non si fermano le manifestazioni di protesta dopo che il Presidente colombiano Iván Duque Márquez ha promesso ieri un processo di riforme, avviando ufficialmente a Bogotà il “dialogo Sociale nazionale”. Da giovedì centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in tutto il Paese contro il governo. Duque ha spiegato che il primo turno del dialogo passerà attraverso i governatori regionali appena eletti, quindi sarà la volta degli imprenditori e dei sindacati. Per capire se le dichiarazioni del Presidente vengono incontro alle richieste dei manifestanti, abbiamo intervistato Paolo Valvo, docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano:

R. – Sicuramente, l’annuncio del presidente colombiano Duque di avviare questo tavolo di consultazione un po’ a tutti i livelli della società e della politica, nazionale e locale, sembra un segnale incoraggiante in quella direzione. Va però tenuto conto del fatto che   già alcuni hanno fatto notare al presidente che i protagonisti delle proteste, che hanno messo a ferro e fuoco la Colombia negli ultimi cinque giorni, potrebbero sentirsi non rappresentati. E’ chiaro che la consultazione, come annunciato da Duque, dovrebbe coinvolgere soprattutto i governatori locali un po’ a tutti i livelli ma questo significa comunque che ancora una volta si parla al livello delle istituzioni politiche, legittimate dal punto di vista democratico ma pur sempre istituzioni politiche. Questi movimenti di piazza sono movimenti non totalmente riconducibili al dibattito politico, sono trasversali alla società e potrebbero non sentirsi rappresentati. Quindi, questo è un campanello d’allarme ed è sicuramente un segnale che da parte del governo si capisce la necessità di dover fare qualche passo concreto, ma potrebbe non essere considerato sufficiente.

La piazza chiede misure economiche nell’immediato: è così?

R. – Certamente. Rientra nell’ambito delle agitazioni popolari che, come sappiamo, stanno interessando quasi in simultanea la maggior parte dei Paesi dell’America Latina.

L’altro aspetto è quello contro la corruzione. Il malcontento è aumentato con i leader politici accusati di esercitare la regola del partito unico dal colpo di stato del 2009 e di essere collusi con la criminalità organizzata. Il presidente apre un dialogo politico essenziale, importante, fondamentale, ma è la risposta alla domanda di giustizia contro la corruzione che è emersa dalla piazza?

R. – Non credo. Se la risposta alla corruzione politica viene dalla politica in modo ancora autoreferenziale, per quanto – ripeto – coinvolgendo diversi livelli di governo, potrebbe rappresentare agli occhi di molti una contraddizione in termini. E’ una contestazione contro il sistema, è una contestazione molto radicale …

Guardando ad altri Paesi che sono stati invece al centro della cronaca settimane fa, per esempio, parliamo di Honduras: lì lo scontro politico risale al colpo di Stato del 2009, non c’è mai stata fino ad oggi una svolta. Crimine violento, povertà sono un po’ parole d’ordine di tutta l’America Latina e in particolare dell’Honduras…

R. – Esattamente. L’Honduras è uno dei Paesi, tra l’altro, che negli ultimi anni è stato in una classifica piuttosto spiacevole: è il terzo Paese latinoamericano in termini di violenza letale, quindi come tasso di omicidi segue solo il Venezuela ed il Salvador. Anche qui ci sono delle micce che vengono accese da episodi politici delle ultime settimane. L’ultimo elemento scatenante  è stato l’annuncio che il procuratore di New York, Jason Richman, aveva sostanzialmente accusato il presidente dell’Honduras, Juan Orlando Hernández, di avere ricevuto un milione di dollari in tangenti da parte di trafficanti di droga del narcotraffico internazionale, coinvolgendo tra l’altro anche il famoso capo clan Joaquín Guzmán, El Chapo. Questa è stata la contingenza politica che ha rinfocolato proteste e opposizioni. Ma l’Honduras ha un problema strutturale che è legato al tema   del narcotraffico, cioè questa violenza endemica che ormai ha penetrato la gran parte dei gangli anche dell’amministrazione, per cui quando parliamo di corruzione e di narcotraffico non parliamo di due temi distinti, ma parliamo di due facce della stessa medaglia. Il narcotraffico che si inserisce anche all’interno della politica, riesce anche a corrompere la politica e quindi sostanzialmente a costituirsi come Stato nello Stato.

Legato strettamente alla questione del narcotraffico c’è anche il traffico di esseri umani, la disperazione dei flussi migratori …

R. – Certamente. Anche qui ci sono dati spaventosi: teniamo conto che da ottobre 2018 alla fine dell’estate 2019, si calcola che le pattuglie di frontiera degli Stati Uniti abbiano arrestato oltre 240 mila honduregni che cercavano di attraversare le frontiere del Paese dal Messico. Stiamo parlando di qualcosa come il 2,5 per cento della popolazione dell’intero Honduras. Quindi, cifre che in proporzione sono spaventose. Chiaramente il problema delle migrazioni è strettamente connesso con il tema della violenza, sia perché la stessa migrazione è oggetto di continue vessazioni, di continui ricatti e soprusi da parte del narcotraffico, da parte dei cartelli, sia perché oramai la violenza è endemica nel Paese e rappresenta una delle cause principali per cui così tanta gente sceglie di emigrare, peraltro intraprendendo, appunto, cammini che sono estremamente pericolosi. Bisogna dire che, da questo punto di vista, il quadro internazionale non aiuta. Ad esempio, è evidente che la meta fondamentale di migrazione per tutti i Paesi centroamericani, e non solo, sono gli Stati Uniti d’America, i quali avrebbero la possibilità – e certamente la responsabilità – di fare degli investimenti concreti in Paesi come l’Honduras per cercare di risolvere a monte i problemi che poi generano flussi migratori così intensi. Consideriamo quello che è successo nelle ultime settimane, e quindi questo accordo tra gli Stati Uniti e l’Honduras: improvvisamente l’Honduras, pur essendo – ripeto – il terzo Paese più violento dell’America Latina, secondo i dati dell’anno scorso, è improvvisamente diventato, secondo gli Stati Uniti, secondo il Dipartimento di Stato, un Paese sicuro. E questo ci fa anche capire come queste crisi locali, queste proteste si inseriscano in uno sfondo che è uno sfondo necessariamente internazionale e transnazionale, da un punto di vista sia della grande politica, sia anche della proiezione transnazionale di questi gruppi di criminali che la fanno da padroni in Paesi come l’Honduras. Ma l’Honduras non è solo, evidentemente.

La globalizzazione delle imprese criminali

Sono sempre più gravi e sempre più a livello internazionale i danni che la criminalità provoca all’economia dei paesi. Non c’è solo la globalizzazione delle imprese legali, ma anche quella delle organizzazioni illecite, che non conoscono crisi o recessioni. Intervista con l’esperto di Analisi dell’economia del crimine Paolo Pinotti

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In una fase storica segnata dai processi di globalizzazione anche gli affari criminali viaggiano su scala globale. La crescita della corruzione e la sostituzione di investimenti privati con quelli pubblici meno produttivi sono i canali attraverso i quali la criminalità organizzata incide negativamente sull’economia. Delle implicazioni vecchie e nuove dei percorsi transnazionali della criminalità abbiamo parlato con Paolo Pinotti, docente di Analisi dell’economia del crimine all’Università Bocconi di Milano:

R. – Il fenomeno della globalizzazione porta all’internazionalizzazione delle imprese legali, delle multinazionali ma anche, purtroppo, a quella delle organizzazioni criminali. Sempre più spesso sono organizzazioni che operano su base transazionale. Alcune di queste sembrano anche essere immuni alla crisi, perché a differenza delle imprese illegali hanno accesso ai fondi illeciti che provengono notoriamente dal traffico degli stupefacenti o da altre attività criminose che chiaramente non si fermano, non rallentano durante i periodi di crisi. Fare confronti a livello internazionale, purtroppo, non è semplice nel senso che ci sono problemi di comparabilità tra le statistiche. Ad esempio il reato di associazione criminale di stampo mafioso in alcuni Paesi addirittura non è definito; basti pensare che non esisteva in Italia fino al 1982, parliamo di 35 anni fa, e in altri Paesi non esiste ancora. Quindi, è proprio difficile riuscire a valutare e a comparare la dimensione del fenomeno in diversi Paesi. Abbiamo diverse indagini, sondaggi di opinione che si occupano di capire, tramite interviste con imprenditori, leader politici, quanto sia diffuso il fenomeno; questo ci può dare l’idea della dimensione in vari Paesi, ma chiaramente riflettono anche alcune valutazioni soggettive. Quindi è un fenomeno per sua natura sfuggente come tutti i fenomeni illegali.

Gli ambiti principali li immaginiamo tutti: traffici di droghe, di armi e di esseri in umani…

R. – Assolutamente. Queste sono tre attività che tradizionalmente ricadono sotto l’influenza delle organizzazioni criminali. A un livello più elevato ci sono anche infiltrazioni nel settore degli appalti, nel tessuto economico, che servono sia per favorire il riciclaggio dei capitali illeciti – quindi per “ripulire” i capitali – che per generare ulteriori profitti e fonti di guadagno.

Anche la criminalità organizzata è esperta di geopolitica, in qualche modo quando ci sono delle aree di crisi si rimodulano, cambiano, si alterano anche i percorsi dei traffici…

R. – Sì, assolutamente. Anche perché alcune situazioni di crisi favoriscono sicuramente traffici illeciti. Si pensi alla tratta degli esseri umani che è diventata uno dei business più redditizi delle organizzazioni criminali, per esempio al confine tra Messico e Stati Uniti o nel Mediterraneo. In realtà abbiamo già assistito a questi fenomeni poche decine di anni fa, quando per esempio c’è stato il crollo del blocco sovietico e della cortina di ferro e quindi come conseguenza si è registrata l’emigrazione di massa dall’Albania e da altri Paesi sulle nostre coste adriatiche, specialmente in Puglia. Lì, esattamente in quegli anni si è assistito ad una sorta di proliferazione delle organizzazioni criminali. Fino a quel momento la Puglia era stata una regione generalmente priva di questo tipo di presenze.

In Occidente di recente mettiamo sotto processo la globalizzazione per tanti aspetti ma, nel frattempo, facciamo qualcosa per combattere la criminalità che si è organizzata a livello globale?

R. – Lo facciamo; dovremmo farlo di più. È chiaramente molto difficile anche per quei problemi di comparabilità, di armonizzazione degli istrumenti a livello legislativo e informatico di cui dicevo. Chiaramente noi sappiamo che l’organizzazione denominata ‘ndrangheta è una delle organizzazioni criminali che si è internazionalizzata con più successo negli ultimi anni. Non è sempre così veloce l’apparato legislativo, giudiziario e poliziesco nello stabilire lo stesso tipo di legami tra diversi Paesi, quindi tra l’Italia e la Germania o l’Australia e gli Stati Uniti e così via, Paesi che chiaramente adottano processi decisionali, sistemi legislativi molto diversi l’uno dall’altro. Quindi non è chiaramente un sistema semplice da gestire.

Sarà difficilissimo fornire dati e saranno comunque tutti per difetto, ma su scala internazionale o su scala territoriale, qualche cifra la può citare?

R. – Quello che noi studiosi abbiamo fatto in passato è stato provare a stimare il peso economico delle organizzazioni criminali. Lo abbiamo fatto nel caso particolare della Puglia che è una regione che si presta a questo tipo di esercizio, perché è stata libera dalla presenza di queste organizzazioni criminali fino alla metà degli Anni 70; come dicevamo, e  che ha invece conosciuto una forte espansione dopo. Quindi quello che abbiamo fatto è stato confrontare lo sviluppo economico della Puglia, prima e dopo questo periodo spartiacque, con quello delle regioni vicine. Facendo questo tipo di esercizio notiamo un forte rallentamento dell’economia di questa regione che possiamo quantificare su un arco di 30 anni con una perdita intorno ad un 20 percento del Pil. Pertanto se la Puglia non avesse conosciuto la presenza della criminalità organizzata oggi sarebbe il 20 percento più ricca di quello che è. Teniamo presente che la criminalità organizzata nella regione è stata, ed è tuttora, un fenomeno molto serio, ma comunque ancora non è ai livelli di Sicilia, Calabria e Campania. Quindi possiamo pensare che in queste tre regioni dove la criminalità organizzata è più radicata, più pervasiva ed è rimasta per più tempo, perché esiste più o meno dall’unità d’Italia, da 150 anni, i costi sono più seri.

Per quanto riguarda l’Italia si pensa sempre al Sud quando si parla di infiltrazioni mafiose, ma al Nord la criminalità organizzata è presente sia in ambiti finanziari che imprenditoriali…

R. – Certamente con modalità diverse. Nel Nord Italia, essendo soprattutto un mercato di sbocco per alcuni beni illeciti – prima di tutto gli stupefacenti – ed essendo un mercato di investimento – nel settore immobiliare, per esempio – le organizzazioni criminali hanno un interesse a mantenere una presenza non troppo rumorosa e non troppo allarmante, ma questo forse è ciò che la rende più insidiosa e più pericolosa.

Gravi tensioni e scontri in Colombia

Nella fase di attuazione degli accordi di pace, firmati tre anni fa, sono scoppiati disordini e scontri a Bogotà. Nella capitale colombiana è scattato il coprifuoco mentre si annunciano nuove manifestazioni. Intervista con lo studioso di studi strategici Luciano Bozzo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Almeno tre poliziotti sono rimasti uccisi e sette feriti in un attacco con esplosivi nella notte tra venerdì e sabato contro una stazione di polizia a Santander de Quilichao. Il coprifuoco è scattato a Bogotà per la persistenza di gravi incidenti – saccheggi e blocchi stradali – già dopo la giornata di sciopero nazionale di giovedì. Nuovi scontri si sono registrati mentre sono state annunciate altre mobilitazioni.

Sullo sfondo la questione politica

A tre anni dalla firma finale dell’accordo di pace tra governo colombiano e il gruppo guerrigliero delle Farc, sottoscritto a Bogotá il 24 novembre 2016 – dopo 53 anni di conflitto – restano tensioni di carattere politico sociale. Negli slogan dei manifestanti torna l’invito a difendere l’accordo con le Farc, ma le proteste si concentrano soprattutto contro le politiche economiche del presidente Ivan Duque. Sulla questione economica e la particolare fase politica, l’opininone di Luciano Bozzo, docente di relazioni internazionali e studi strategici all’Università di Firenze:

R. – La specificità del caso della Colombia rispetto ad altri casi dell’America Latina, credo che sia dovuta ad un difetto di gestione della situazione economico-politica nel Paese da attribuire ancora una volta alla classe dirigente, che aveva suscitato grandi speranze, ma che ad un certo punto non è stata in grado di affrontare un momento delicato per quello che è l’intero contesto internazionale e la stessa fase evolutiva dell’economia internazionale. In questi Paesi classi dirigenti – pur diverse dal punto di vista della loro estrazione politica, sociale e dal punto di vista delle ricette economiche – hanno in comune che non sono riuscite,  alla luce di quelle che sono le reazioni popolari, a far fronte ad un momento che probabilmente è di svolta per vari motivi. Non ultimo c’è il motivo dell’evoluzione tecnologica e per ciò che l’evoluzione tecnologica provoca a livello, ad esempio, di impiego nel mondo del lavoro. Le classi dirigenti non sono state in grado e non sembrano in grado di far fronte a questo mutamento. Credo che ciò sia vero in modi diversi per ciascuno dei Paesi considerati.

Per la Colombia è una questione più di economia o di risvolti politici? Sappiamo che è un Paese che ha affrontato il processo di pace e adesso sta vivendo il dopo-accordo. Ovviamente ci sono delle difficoltà. Le paure, dove si concentrano di più, secondo lei?

R. – Credo che il processo di pace colombiano sia apparso come una grande speranza evidentemente dopo decenni di conflitto interno, anche estremamente sanguinosi, violenti, brutali, ma allo stesso tempo fin dall’inizio è apparso fragile. Indubbiamente questo è un elemento che incide specificamente in maniera forte sulla questione colombiana, però credo che adesso si associ più in generale il discorso della difficoltà economica che non è semplice da gestire per Paesi molto più forti e molto più sviluppati della Colombia e quindi presenta degli aspetti addirittura di drammaticità nel caso colombiano.

Anche per la Colombia si parla di disuguaglianze sociali forti e di corruzione che la popolazione non sopporta più. È così?

R. – Credo soprattutto che il secondo elemento sia centrale. Evidentemente questo è un Paese dove la disuguaglianza è sempre stata forte e probabilmente in passato era persino peggiore di quanto non confermino i dati oggi. Il discorso della corruzione mi sembra molto più sensibile ed ha a che fare con quella crisi della politica cui facevo riferimento in precedenza: oggi le opinioni pubbliche anche in ragione del fatto che sono molto più informate rispetto all’attività, persino alla vita privata dei leader politici, sono estremamente sensibili al dato corruzione. Indubbiamente tutto ciò non è limitato al caso colombiano se guardiamo a tutta l’America Latina. Critiche analoghe sono state mosse alla classe dirigente in Cile, in Argentina, in Venezuela.

Cile e Bolivia: due focolai di tensione nel cuore dell’America Latina

L’Organizzazione degli Stati Americani (Osa) chiede rispetto dei diritti umani sia alle autorità del Cile che della Bolivia e raccomanda a La Paz la convocazione urgente di elezioni. Dopo settimane di proteste di piazza, i due Paesi dell’America Latina vivono una delicata fase politica. Intervista alla storica delle Americhe Tiziana Terracini

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Resta tesa la situazione sia in Cile sia in Bolivia, Paesi dell’America Latina accomunati nelle ultime settimane da accese proteste di piazza, anche se distinti nello specifico delle vicende politiche. Nelle ultime ore, l’Organizzazione degli Stati Americani si è pronunciata per entrambi.

A proposito del Cile, il segretario esecutivo della Commissione per i diritti umani dell’Osa, Paulo Abrão, ha confermato che “ci sono accuse e testimonianze molto chiare che comprovano violazioni dei diritti umani nelle azioni messe in atto dalle forze di sicurezza”. Per quanto riguarda la Bolivia, il Consiglio permanente dell’Osa, con una risoluzione, chiede alle autorità di “convocare urgentemente elezioni in conformità con il mandato costituzionale e legale boliviano”. La Presidente ad interim della Bolivia, Jeanine Áñez, ha presentato martedì a La Paz un progetto di legge per la formazione di un nuovo Tribunale supremo elettorale (Tse) e lo svolgimento di nuove elezioni generali, dopo quelle contestate del 20 ottobre scorso e praticamente annullate.  In tutti e due i casi, torna nei documenti dell’Osa la raccomandazione a tutte le parti di “mettere fine alla violenza” e di “garantire il rispetto e la protezione dei diritti umani”.

Dei punti in comune e delle differenze tra la situazione in Cile e quella in Bolivia, ne abbiamo parlato con Tiziana Terracini, docente di storia e istituzioni delle Americhe all’Università di Torino:

R. – Oggi sicuramente quello che accomuna è la forte disuguaglianza e la politica. Vengono creati nuovi poteri e questi nuovi poteri sono poi usati per aumentare quella che è una caratteristica comune dell’America Latina, la personalizzazione del potere, in pratica dell’esecutivo. Abbiamo visto il ruolo svolto dal tribunale costituzionale che agisce in favore dell’élite dominante. Si tratta di poteri autonomi creati in quella fase di riforme istituzionali nuove che sono state emanate in America Latina. Le transizioni che stiamo vedendo in realtà stanno formando un quadro regionale dove si inizia a parlare di autoritarismi elettorali, quindi non più vecchi colpi di Stato, ma forme autoritarie dentro un modello democratico si stanno in qualche modo riproponendo. Nel caso della Bolivia e di Evo Morales direi che il tutto inizia, anche se non è l’unica causa ovviamente, da un problema in fondo che possiamo riassumere definendolo di legittimità, ormai da molti anni, almeno dalle elezioni del 2013. Nel caso del Cile, la distanza con la politica è diventata grandissima. Le ultime manifestazioni, che sono diventate pluriclassiste e coinvolgono tutto il territorio, sono proprio contro la politica e i politici.

Fin qui, i punti in comune ma ci sono anche profonde distinzioni da fare…

R. – Sì, certo, le società sono profondamente diverse nel caso della Bolivia e del Cile. Forse noi qui abbiamo un’idea del Cile in progresso economico, per il fatto che economicamente è sempre cresciuto, si è visto un po’ come l’oasi in America Latina, la Svizzera in America Latina. In realtà, io mi soffermerei sul fatto che nell’ambito della regione mantiene un record di livello di disuguaglianza interno al Paese altissimo. E’ fra i 14 Paesi con maggiore disuguaglianza al mondo. La Bolivia si distingue per un altro aspetto. E’ uno dei paesi che ha più percentuale di popolazione indigena in America Latina e quindi anche la nuova costituzione del 2009 ha dato risalto a questo aspetto. Poi sappiamo, Evo Morales è stato il primo presidente indigeno. Anche qui nasce un problema, innanzitutto perché viene fatta una nuova costituzione che contempla meccanismi di democrazia diversi, tra cui uno che viene chiamato “comunitario” ma la stessa idea comunitarista in realtà frattura la società al suo interno, perché la divide in categorie, quindi se vogliamo lede anche il principio di uguaglianza. Ma soprattutto direi che in realtà la maggior parte della società è meticcia e quindi non c’è soltanto una differenza tra bianco e indio ma c’è tutto un discorso molto complicato tra chi non si identifica nell’uno e nell’altro.

In fasi storiche come queste è doveroso guardare ai giovani. Qual è il loro ruolo in questi Paesi?

R. – I giovani in America Latina, in linea generale, sono una categoria molto numerosa e che purtroppo si trova in una situazione molto difficile. I dati del Cile confermano il problema di migliaia di giovani tra i 15 e i 29 anni che non hanno né educazione né lavoro né formazione. Oltre ad essere in numero superiore alla media dell’area, fanno sì che il Cile risulti il sesto Paese al mondo con più “ninis”, ni trabajo ni estudio. Questi giovani ricevono poco aiuto da parte dello Stato, del Welfare e in Cile sono protagonisti della protesta. Ma lo sono in generale anche un po’ in tutta l’America Latina.

Gli Usa: legali gli insediamenti israeliani nei Territori

Le colonie israeliane nei Territori occupati non sono illegali. Il Presidente statunitense Trump cancella così la direzione della politica americana degli ultimi 40 anni sugli insediamenti nei Territori conquistati nella guerra del ’67. Una decisione che suscita il plauso di Israele e la rabbia dei palestinesi

Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano

Gli insediamenti israeliani nei territori della Cisgiordania non sono contrari al diritto internazionale. L’amministrazione Trump accantona così l’Hansell Memorandum del 1978 e riscrive il nuovo indirizzo della politica della Casa Bianca nei confronti di Israele. L’annuncio, fatto dal segretario di stato Mike Pompeo,  segna la vittoria per il premier israeliano uscente Netanyahu per il quale  la dichiarazione americana riflette una verità storica, approvazione anche dal premier incaricato Gantz.

La condanna dei palestinesi: decisione inaccettabile

“Nulla, inaccettabile e da condannare”: così viene invece definita la decisione degli americani dal portavoce del Presidente palestinese Abu Mazen, per il quale Washington non è qualificata o autorizzare a cancellare le risoluzioni di legittimità internazionale. Gli Stati Uniti hanno perso credibilità, sottolineano i palestinesi, e non hanno più alcun ruolo nel processo di pace, che per molti è ora seriamente messo a rischio.

L’Ue, gli insediamenti continuano ad essere illegali

La posizione dell’Unione Europea non cambia, precisa da Bruxelles Federica Mogherini, Alto commissario per gli affari esteri e le politiche di sicurezza, che prende le distanze da Washington continuando a ritenere illegali gli insediamenti nei Territori occupati. Questa decisione di Trump arriva dopo una serie di misure statunitensi a favore dello stato ebraico, come il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale, con lo spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv; la chiusura dell’ufficio dell’Olp a Washington; il riconoscimento dell’annessione delle alture del Golan.  E’ intanto allerta a Gerusalemme, dove l’ambasciata Usa ha già invitato gli americani presenti nell’area a “mantenere un alto livello di vigilanza”.

Per una riflessione su questo pronunciamento dell’amministrazione Trump, Fausta Speranza ha intervistato Antonello Biagini, pro-rettore dell‘Università La Sapienza con delega per la cooperazione e i rapporti internazionali:

R. – Una posizione vicina a Israele. Ma sappiamo tutti che il problema di questi insediamenti – che erano nati, se vogliamo storicizzare, sulla base di una dottrina di autodifesa dello Stato di Israele quando tutti i Paesi intorno non riconoscevano ed erano avversi allo Stato di Israele -, il processo che si doveva costruire e che alcune amministrazioni anche statunitensi avevano provato a costruire era quello di un dialogo progressivo. E qui rientra quella posizione del Congresso, in un certo senso, di facilitare il processo di pace. Con queste dichiarazioni è chiaro che tutto questo si allontana e rientra probabilmente nell’atteggiamento dell’attuale amministrazione statunitense di essere piuttosto netta e aggressiva nella politica estera.

L’Unione europea ribadisce che tutte le attività di insediamento sono illegali ai sensi del diritto internazionale, è così?

R. – E’ assolutamente corretto perché per il diritto internazionale nessuno può invadere un altro territorio manu militari e costruirci un insediamento che poi sarà sempre più difficile spostare. Non è un meccanismo che avviene in un momento di guerra. L’insediamento significa – il termine stesso lo dice – la volontà di costituire qualcosa che rimanga stabile nel tempo, quindi molto più difficile da rimuovere ove mai si facesse un processo di pace. E l’Unione europea, in questo senso, sicuramente è rispettosa di regole del diritto internazionale e ha una posizione corretta sul piano giuridico, sul piano formale e direi anche sul piano politico.

Da tempo ci si aspetta in questa fase un nuovo piano di pace proposto da Washington. Questa presa di posizione di Trump potrebbe essere una sorta di strategia di comunicazione prima di una proposta?

R. – Se diamo conto delle parole che si dicono, con queste premesse – il riconoscimento delle colonie – non sarebbe tecnicamente possibile, perché anzi la decisione allontana ancora di più. Se questa invece è una dichiarazione – come spesso accade ormai in tutta la politica internazionale, dove si fanno dichiarazioni “estremiste” per poi rimodularle nel momento in cui si fa una trattativa – allora è possibile anche che in questo modo l’amministrazione statunitense voglia lanciare un messaggio del tipo: noi continueremo a difendere Israele come abbiamo sempre fatto; se non aderite ad alcune trattative di pace, allora, noi consideriamo quegli insediamenti come perfettamente legali e quegli insediamenti rimarranno a vita. Quindi quello diventa un territorio di Israele. Questo è il problema di una politica estera che ormai viene fatta più sugli annunci che sulla sostanza delle cose… E questo credo sia anche il problema attuale che non riguarda solo gli Stati Uniti, ovviamente, ma particolarmente gli Stati Uniti. Teniamo conto di un’altra cosa. Gli Stati Uniti non sono più l’unico gestore della politica mondiale. Non lo sono più a livello economico, per esempio; lo sono in buona parte ancora a livello militare perché conservano una potenza militare di tutto rispetto ma non hanno più quell’influenza sulla politica mondiale come l’avevano fino agli anni ’90, 2000. Però, certo, con questi presupposti diventa anche un po’ difficile immaginare che si vada alla costituzione di un nuovo Stato mentre rimangono aperti questi problemi. Inoltre, intanto ci sono gli avvenimenti degli ultimi giorni, missili sparati da Gaza, la reazione israeliana… O sono ultime “scaramucce” – diciamo – prima che inizi un vero processo di pace, oppure temo che invece sia un aumentare l’area di crisi che rende ancora più difficile un processo di pace.