Nel dramma della tratta l’orrore del traffico di organi

In ricordo di santa Giuseppina Bakhita, la Giornata di preghiera e sensibilizzazione contro l’ignobile sfruttamento di esseri umani. Dalla prostituzione al caporalato, fino all’indicibile crimine del traffico di organi. Con noi il criminologo Antonio Leggiero

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Una Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di esseri umani. Ricorre l’8 febbraio, nel giorno che ricorda la memoria liturgica di santa Giuseppina Bakhita, suora di origini sudanesi che era stata resa schiava a sette anni. L’ignobile sfruttamento di 40 milioni di persone nel mondo si declina in diverse modalità. Ne abbiamo parlato con il criminologo Antonio Leggiero, tra i docenti e collaboratori dell’Amministrazione Penitenziaria italiana:

R. – La questione del traffico di esseri umani che per la verità non è un fenomeno criminologico esclusivo della nostra era ma purtroppo c’è sempre stato. Basti ricordare le odiose tratte dei neri, le tratte degli schiavi, fenomeno antico come l’essere umano. Oggi chiaramente è tra l’altro maggiormente evidente perché è l’era delle comunicazioni globali.

Professor Leggiero, la questione dei trafficanti di esseri umani è complessa, presenta aspetti di disumanità, di crudeltà configurabili in reati e crimini. Ci aiuta a mettere a fuoco, quali siano proprio i crimini da denunciare?

R. – E’ indubbiamente un crimine ripugnante, estremamente ripugnante. Si parte da un crimine di base che è quello della tratta, la compravendita – è duro dirlo e a maggior ragione è duro comprenderlo – è un po’ il punto di partenza. Poi vi sono ulteriori sviluppi criminosi. Si evolve in varie fenomenologie: la fenomenologia criminosa della schiavitù, quella della prostituzione che come è noto riguarda trasversalmente un po’ tutti i Paesi del mondo e a varie latitudini; poi c’è quella dell’utilizzo di “manodopera” per lo spaccio di stupefacenti; poi ancora il fenomeno del collegamento con i caporalati. E poi c’è la punta dell’iceberg in una ipotetica escalation di nefandezze che è il traffico di organi. Chiaramente è la punta dell’iceberg della ripugnanza del fenomeno della tratta.

Professor Leggiero, cerchiamo di chiarire: accade il prelievo di organi per la vendita, con ricatti o violenze su persone in vita ma anche da persone decedute, pensiamo ai naufragi o altre morti sui percorsi della disperazione dei migranti, ad esempio…

R. – Sì c’è anche questa tipologia. In generale si predilige il trapianto di organi dal corpo di soggetti che si tengono “in disponibilità”, intendo magari sequestrati per diversi giorni e tenuti in condizioni tali da preservare nelle migliori condizioni l’organo che si vuole asportare. E’ terribile ma è così: al momento deciso si procede con l’espianto. E’ invece più difficile per le complesse tecniche operatorie lo scenario dell’asportazione da soggetti non più in vita, in particolare per quelli morti in mare. E’ più “facile” tenere poveri esseri umani sequestrati per diverse settimane, appunto alimentarli anche bene per tutelare l’utilità e l’efficacia degli organi e poi procedere all’espianto.

Professore,  da criminologo lei sa che ci sono stati casi in cui criminali sono arrivati tempestivamente sulla scena del naufragio per prelevare organi? … Non parliamo di casi ipotetici…

R. – Casi sporadici di sciacallaggio estremo, quale è quello appunto dell’asportazione di organi e quindi del prelievo da cadaveri in queste terrificanti sciagure marittime, ci sono stati. Casi isolati. Su questo ci sono scenari internazionali che si aprono.

C’è anche lo scenario di chi queste persone le trattiene nei lager per prelevare organi la cui asportazione non è compatibile con il restare in vita di queste persone….

R. – Certo, certo questo è un altro aspetto. Diciamo che è una realtà effettivamente molto composita, poliedrica da definire sullo sfondo di una tragicità estrema.

In particolare, dobbiamo anche parlare di minori che scompaiono. Quando sentiamo le cifre di quanti sfuggono al controllo dopo essere stati ad esempio registrati al termine di un viaggio dall’Africa all’Europa, dobbiamo pensare anche a questo indicibile scenario?

R. – Sicuramente. C’è un’aliquota rispetto alle cifre sui minori scomparsi in qualunque tratta nel mondo. Ovviamente in particolare in Paesi e zone del mondo dove i controlli sono molto labili. C’è un’aliquota di minori che scompare e che purtroppo è destinata al traffico di organi.

da Vatican NEWS dell’8 febbraio 2020

Coronavirus e fake news

Rischio “infodemia”: a coniare il termine è stata l’Organizzazione Mondiale della Sanità. In questi giorni ha denunciato la diffusione, troppo spesso incontrollata, di notizie false in relazione alla pandemia del coronavirus. Le notizie oggettive di vittime sono accompagnate dalle più varie fake news. Con noi il generale Giuseppe Morabito, analista della Nato

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Sono almeno 565 i morti per il coronavirus nel mondo mentre i contagi a livello globale ammontano a oltre 28.000 casi e le persone guarite sono già 1.147. Sono quasi tremila i nuovi casi nella provincia di Hubei, dove si sono registrate 70 nuove vittime. La diffusione non arretra in molte zone, mentre, nonostante gli scambi ormai planetari, in tanti altri Paesi si è riusciti a porre un argine.  Intanto, è stato reso noto che sulla nave da crociera  della Carnival Japan in quarantena nella baia di Yokohama, al largo del Giappone, ci sono anche 35 italiani di cui 25 membri dell’equipaggio: venti persone sono risultate positive al test.  Le autorità sanitarie nipponiche hanno sottoposto a test 273 dei circa 3.700 passeggeri, oltre all’equipaggio. Il Giappone aveva messo due giorni fa la nave in quarantena perché alcune persone avevano sviluppato i sintomi del morbo dopo lo sbarco di un contagiato a Hong Kong il 25 gennaio scorso.

Oltre i dati le fake news

In ogni caso, sono tante le falsità circolate soprattutto sui social: casi di contagio inesistenti, cure miracolanti alla candeggina, presunte infezioni attraverso il cibo. E poi c’è chi ha ipotizzato che il virus sia stato pensato come arma batteriologica: sarebbe una versione potenziata della Sars realizzata in un laboratorio di Wuhan a scopo militare. La struttura effettivamente esiste e si chiama Wuhan National Biosafety Laboratory. Il centro è stato realizzato nell’ottica di un memorandum tra Cina e Francia e si occupa di biosicurezza. Ma per capire cosa significhi parlare davvero di armi batteriologiche, abbiamo intervistato il generale Giuseppe Morabito, membro del Direttorato della Nato Defence College Foundation:

R. – Le armi batteriologiche non sono facili da trovare: vanno “costruite”, sintetizzate in laboratorio. E vanno anche conservate in un certo modo. Ci sono tre tipi di armi da considerare in questo contesto: le armi nucleari, le armi chimiche, le armi batteriologiche. Non è facile procurarsi   nessuna di queste armi. Quelle batteriologiche sono le più infide perché può andare in tutto il mondo: non c’è possibilità reale di controllo sulla diffusione, come può essere per quelle chimiche che originano in un’area e lasciano immaginare l’espansione.  La diffusione del contagio è molto meno prevedibile. O non c’è una direzione data dal vento per esempio come per l’arma nucleare o dal fall out. L’arma batteriologica può andare ovunque. Ma sono armi di difficile “fabbricazione” ma ancora di più di difficile trasporto e utilizzazione. Bisogna essere esperti. Un’arma batteriologica si contamina in breve tempo, facilmente anche solo per sbalzi di temperatura: bisogna dunque essere in grado di proteggere in un certo modo la sostanza e chi la trasporti. Non è facile.

Generale, parliamo di processi verso il disarmo considerando le armi più o meno  “tradizionali” – con tappe in avanti ma anche passi indietro – ma ci sono strategie di cooperazione a livello internazionale anche in tema di armi batteriologiche?

R. – Ci sono convenzioni internazionali che pongono regole e limitazioni. Le convenzioni ci sono ma bisogna vedere se la singola nazione o la singola organizzazione le rispettano. Non è sempre detto che una nazione che firma una convenzione poi la rispetti.

Generale, una sua riflessione a proposito di questa espressione “infodemia” coniata dall’Oms…

R. – E’ una parola nuova con la quale l’Oms ha voluto lanciare un messaggio. Certamente l’informazione si è moltiplicata, in particolare su internet e sui social, a proposito dell’infezione, la pandemia da coronavirus. Ma dobbiamo ricordarci che il fenomeno riguarda una parte del mondo ma non tutto. Parliamo di informazione e dunque di infodemia per le zone dove arrivano le connessioni digitali e internet, dove arrivano   anche tv e giornali. Ma non è così dappertutto. Possiamo essere sicuri che in Africa, in India, o anche in alcune zone della Cina, sia arrivata la stesa informazione? Possiamo immaginare che in tutte le zone del mondo ci sia la stessa informazione o ci siano le stesse strutture di risposta ad una pandemia? Pensiamo a territori agricoli a ridosso di zone equatoriali dove le informazioni di cui parliamo non sono arrivate: né fake news ma neanche la corretta informazione. Non possiamo dimenticare, ad esempio, che il continente che vive la maggiore penetrazione da parte della Cina è l’Africa: si tratta di penetrazione economica, sfruttamento delle materie prime, commercio. Ci sono scambi commerciali continui con la Cina e anche con la città cinese di Wuhan. Speriamo che non ci siano stati contagi. Per non parlare delle zone del Sahel,   del Corno d’Africa, ma anche ad esempio dell’Afghanistan. Ci sono aree del mondo dove ad esempio le radio non possono essere diffuse per restrizioni imposte. Ecco, dobbiamo parlare di infodemia, delle fake news, ma ricordandoci che in alcune zone del mondo il problema è opposto: non troppa informazione ma troppo poca.

da Vatican NEWS del 6 febbraio 2020

Jeffrey Sachs: non arrendersi alle distorsioni dell’economia

In un tempo di disuguaglianze sociali, è necessario recuperare la solidarietà tra i popoli, i governi e le organizzazioni internazionali. E’ la sfida di cui si discute all’incontro tra esponenti del mondo economico in corso alla Casina Pio IV in Vaticano. Con noi l’economista Jeffrey Sachs

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Solidarietà e finanza speculativa: sono tra i termini che tornano al workshop in corso in Vaticano intitolato “Nuove forme di fraternità solidale, di inclusione, integrazione e innovazione” cui oggi è intervenuto anche Papa Francesco con un lungo e articolato discorso. Si parla di regole del gioco economico internazionale che generano disuguaglianze e si cerca di indicare la via per correggere le distorsioni strutturali del sistema. La solidarietà è uno dei tre pilastri della Dottrina Sociale della Chiesa, assieme alla sussidiarietà e al bene comune. Ma anche da altri punti di vista dovrebbe essere evidente la non sostenibilità di un’economia in cui – sono dati Onu – l’1 per cento della popolazione di 18 Paesi detiene oltre il 20 per cento della ricchezza mondiale. Tra i tanti relatori, esponenti della politica o accademici, abbiamo intervistato Jeffrey Sachs, economista e saggista statunitense:

R. – La strada da percorrere inizia con una presa di coscienza a livello globale, con la comprensione della necessità di un quadro morale per l’economia. Papa Francesco ha convocato centinaia di giovani economisti da tutto il mondo ad Assisi, alla fine di marzo, per “l’economia di Francesco”: questa sarà un’opportunità importante per stabilire nuove basi morali per la scienza e l’insegnamento dell’economia, che è una cosa di cui abbiamo veramente bisogno. E la Pontificia Accademia delle Scienze sociali insieme alla Pontificia Accademia delle Scienze hanno ospitato già molti incontri ai quali hanno partecipato capi dell’industria, e Papa Francesco ha parlato, per esempio, con i rappresentanti dell’industria del petrolio e ha detto loro: “Voi avete una responsabilità nei riguardi della Creazione, della tutela dell’umanità”, e io so che molti di loro gli hanno dato ascolto – purtroppo, non tutti in maniera sufficiente – ma molti l’hanno ascoltato.

Secondo lei, abbiamo più bisogno di idee o di intenzioni?

R. – Le idee sono estremamente importanti; è importante che le idee siano idee valide che contribuiscano alla formazione dei giovani. La Chiesa lo definisce “discernimento” mentre Aristotele lo definiva “coltivare le virtù”. Credo che le idee e l’insegnameno ai giovani svolgano un ruolo molto importante.

Ma in concreto, cosa possiamo fare? Quali sono gli scopi e quali le sfide?

R. – Lo scopo è quello che la Chiesa definisce “sviluppo umano integrale” e che l’Onu definisce “sviluppo sostenibile”. Significa che le nostre economie dovrebbero essere non soltanto produttive ma anche socialmente inclusive. L’Onu dice: “Non lasciare indietro nessuno”, e la Chiesa chiede “dignità per tutte le persone”, e certamente rispetto in tema ambientale. Abbiamo quindi un’agenda veramente impegnativa, come ad esempio l’Accordo di Parigi sul clima che Papa Francesco aveva sostenuto con tanta forza e alla cui realizzazione ha contribuito. Potrebbe guidarci in maniera molto pratica indicandoci cosa dobbiamo fare.

Ci sono tanti dibattiti economici nel mondo: c’è un valore aggiunto in questo dibattito?

R. – Questo dibattito è profondamente segnato dal Magistero sociale della Chiesa, ispirato da Papa Francesco e avviene riflettendo sulla “Laudato si’”. Per questo, è una discussione di carattere unico. E’ un contributo veramente molto, molto alto offerto al mondo. E’ significativo quello che disse Papa Francesco quando pubblicò la Laudato si’: “Non è soltanto per i credenti, per i fedeli della nostra Chiesa: questa [enciclica] è intesa a originare un dialogo globale” – perché – egli disse ancora – l’interdipendenza ci obbliga a pensare ad un progetto comune e questo è al servizio del dialogo globale.

da Vatican NEWS del 5 febbraio 2020

Siria: la drammatica situazione nella provincia di Idlib

Si intensifica lo scontro nel nord ovest della Siria tra forze di Damasco e truppe di Ankara. E si aggrava la crisi umanitaria. Centinaia di migliaia gli sfollati, in maggioranza donne e bambini. Delicata la posizione di Mosca, da sempre alleata della Siria e impegnata con la Turchia nella strategia di de-escalation. Con noi l’esperto di geopolitica Daniele De Luca

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Un grave scontro diretto tra le forze siriane e quelle turche è in atto nel nord ovest della Siria. L’escalation si è scatenata nella notte nel cuore della provincia  di Idlib, dove da settimane si è concentrata l’offensiva di Damasco contro le forze ribelli. Sembra aver provocato decine di morti su entrambi i fronti.

Tensione tra Ankara e Mosca

Il pattugliamento congiunto tra forze siriane e truppe russe previsto oggi a Kobane è stato annullato. Secondo Mosca, Ankara non ha comunicato in tempo i suoi movimenti, mentre l’esercito turco assicura di essersi coordinato come sempre. La Russia, alleata della presidenza Assad, continua a esprimere “preoccupazione” per la presenza di “terroristi” nell’area ma intende confermare il suo impegno di garante dell’area di de-escalation concordata a Sochi e Astana. Da parte sua, il Presidente Recep Tayyip Erdoğan chiede a Mosca di rispettare “i suoi obblighi. I colloqui nella capitale del Kazakhstan hanno visto protagonisti proprio la Turchia, la Russia e l’Iran.

Sempre più allarmante la crisi umanitaria

Da quando l’offensiva è aumentata di intensità, nelle ultime tre settimane, circa 200.000 persone hanno dovuto abbandonare le loro case o i campi profughi dove si erano rifugiati. E David Swanson, portavoce dell’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite (Ocha), ha confermato che dall’inizio di dicembre, circa 520.000 persone sono sfollate, di cui l’80% circa sono donne e bambini.  Secondo la Turchia, gli sfollati da Idlib solo nell’ultima settimana sono stati 151.000, andando ad alimentare la nuova ondata migratoria, finora contenuta, nelle zone sotto controllo turco del nord della Siria, specie nella provincia di Aleppo. Peraltro, in queste ore il presidente turco Erdoğan ha ribadito che non intende farsene carico.

Il conflitto da non dimenticare

A quasi nove anni dallo scoppio della guerra in Siria, si può parlare di sconfitta del sedicente Stato islamico (Is) ma non di conclusione imminente del conflitto, come conferma nella nostra intervista, Daniele De Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento:

Ascolta l’intervista al professor Daniele De Luca

R. – Assolutamente sì. Mi dispiace dirlo ma l’attenzione si è spostata su altri problemi dando quasi per scontato la guerra in Siria che dura da tantissimo tempo, da nove anni. Magari si potesse considerare conclusa con la sconfitta del presunto califfato! Almeno sul terreno è stato sconfitto, ma la guerra in Siria continua.

Se l’Is è stato sconfitto chi sono queste forze che le truppe siriane combattono?

R. – Sono sacche di resistenza dell’opposizione all’interno del territorio siriano. Le rivolte in Siria nulla avevano a che fare con le cosiddette primavere arabe, ma nascevano da una questione di sovra-rappresentazione della minoranza alawita a fronte di una sotto-rappresentazione – di poco potere – per la maggioranza di sunniti e sciiti.

In ogni caso a questo punto è – come dire – un braccio di ferro tra potenze per capire quale influenza avrà ognuna sul territorio nel futuro: parliamo di porti, di pozzi petroliferi e così via…

R. – Ormai credo sia sotto gli occhi di tutti che quell’area – e direi anche un’area più allargata del cosiddetto Medio Oriente – è sotto il controllo turco-russo. Gli Stati Uniti su quell’area sembrano non voler più avere un contatto diretto, un’influenza diretta. Si sono “spostati” più a sud nel tentativo di risolvere l’annoso conflitto tra palestinesi e israeliani, quindi lasciando praticamente il terreno a un controllo turco e russo, con una fortissima ingerenza anche da parte dell’Iran.

Ricordiamo che i colloqui ad Astana, capitale del Kazakistan – paralleli a quelli a Ginevra – erano tra Turchia, Russia e Iran. Il ruolo di Teheran resta, dunque, fondamentale per quanto riguarda la Siria?

R. – E’ assolutamente fondamentale. Bisogna considerare una cosa: la minoranza alawita in Siria è una minoranza che i sunniti considerano come una sorta di cugini diretti degli sciiti e la maggioranza sunnita non l’ha mai accettato. Quindi il ruolo dell’Iran è fondamentale, in questi equilibri. Ed è importante anche in Libano dove ci sono le forze di Hezbollah che potrebbero ricominciare a premere sul confine settentrionale di Israele. Si potrebbe mettere a forte rischio l’area di pacificazione e l’area di salvaguardia e potrebbero essere coinvolte tra l’altro le truppe internazionali presenti, tra cui ci sono forze Italiane.

da Vatican NEWS del 4 febbraio 2020

Un’Europa unita senza Londra

Via libera dal Parlamento europeo al piano di uscita del Regno Unito dall’Ue. A oltre tre anni e mezzo dal referendum, i britannici si preparano alla Brexit effettiva

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dal 1 febbraio inizia il periodo di transizione che durerà fino alla fine del 2020. Almeno fino al 31 dicembre di quest’anno, il Regno Unito continuerà a operare in base alle norme europee e non sono previsti cambiamenti immediati nella libera circolazione delle persone. I cittadini europei potranno, quindi, continuare a entrare e uscire dal Regno Unito come sempre, con passaporto o carta d’identità. Le patenti di guida, ad esempio, manterranno la propria validità. Per quanto, invece, accadrà alla fine del periodo di transizione restano incertezze. Bisognerà capire se Londra e Bruxelles raggiungeranno un nuovo accordo commerciale o meno. Delle prospettive concrete e delle incognite, abbiamo parlato con Carlo Altomonte, docente di Politiche economiche all’Università Bocconi:

R. – Abbiamo sicuramente la necessità di chiudere un accordo con il Regno Unito per evitare una serie di costi molto alti, sia per quel che riguarda la Gran Bretagna sia anche per quello che riguarda l’Europa, in particolare la Germania. Diciamo che ci sono in ballo diverse centinaia di migliaia di posti di lavoro tra l’Europa e il Regno Unito, qualcuno in più ancora nel Regno Unito. Sicuramente la questione è quella di provare a chiudere il negoziato commerciale che generi un’area di libero scambio da qui a dicembre di quest’anno, perché, se non si chiude questo negoziato commerciale, avremo quella che chiamiamo “hard Brexit”, cioè l’uscita dal Regno Unito comunque, senza un accordo e quindi con le tariffe che l’Unione Europea applica normalmente a tutti i Paesi del mondo.

Che cosa succede in questo anno di transizione?

R. – Fino a dicembre 2020 non cambia niente; l’unico problema è che, appunto, questa scadenza non sembra rinviabile: un po’ perché le parti non hanno più intenzione di rinviare la questione e un po’ perché comunque nel nuovo accordo che è stato fatto dev’essere il governo britannico a chiedere il rinvio e deve farlo entro giugno di quest’anno. E, a quanto ne sappiamo, il premier Boris Johnson ha detto che non ci sarà assolutamente nessun rinvio e che quindi o si chiude un accordo commerciale con l’Unione Europea entro dicembre 2020, quindi durante il periodo di transizione, oppure il Regno Unito uscirà: uscirà dall’accordo con l’Unione Europea, perché in realtà è già uscito dall’Ue.

Abbiamo visto alcune aziende spostare la propria sede centrale, il quartier generale dalla City. Di fatto, che cosa è successo dal punto di vista economico?

R. – Sì, sì: tante aziende statunitensi e non solo hanno già lasciato la City soprattutto per la parte relativa a quei servizi finanziari che non si potranno comunque più fare da Londra nel momento in cui il Regno Unito esce dall’Unione Europea: quindi in realtà abbiamo già avuto diverse migliaia di persone che hanno lasciato la City di Londra per spostarsi a Parigi, Francoforte e Dublino: sono queste tre le città che hanno ricevuto i “fuoriusciti” dalla City di Londra. Ovviamente, in funzione del tipo di accordo che andremo a scrivere con l’Unione Europea, potranno seguire altre aziende. Punto chiave del negoziato è: in che misura, oltre al libero scambio con gli altri e le abolizioni delle tariffe, l’Ue consente al Regno Unito di avere in qualche modo una continuità legislativa con il mercato interno europeo? Cioè, nei prossimi anni il Regno Unito si impegna o no all’armonizzazione delle regole con il mercato europeo, o vuole andare per la sua strada? L’Unione Europea chiede che ci sia questo impegno legislativo in maniera tale che gli standard e tutto il nostro commercio avvenga sulla stessa base giuridica. Il Regno Unito sembra meno disposto a concedere questa cosa; vorrebbe solo zero-tariffe ma poi seguire i suoi standard. Su questo punto si determinerà quanto commercio effettivo poi si potrà fare tra i due Paesi, perché dal punto di vista manifatturiero io posso esportare un bene e non avere nessuna tariffa, ma da un punto di vista, per esempio, di un servizio finanziario devo essere sicuro che lo standard di produzione di quel servizio sia lo stesso, come dal punto di vista dell’Ict, del software o quant’altro: c’è tutta una serie di requisiti che devono essere in qualche modo corroborati tra le due sponde della Manica.

Chi ci perde e chi ci guadagna?

R. – Dal 31 gennaio non succede niente, quindi siamo “amici” come prima. Da fine dicembre 2020, se non ci sarà l’accordo, nel breve periodo ci perderà il Regno Unito, nel medio periodo ci perdiamo tutti e due.

All’ombra dell’odio nazista, luci di umanità e di fede

Nell’incubo delle persecuzioni antisemite, una madre di famiglia ebrea trova la mano tesa di una sconosciuta e di un collaboratore di Pio XII. Dopo oltre 75 anni, i figli dei protagonisti di tanto coraggio e tanta generosità raccontano la “scelta obbligata” dei genitori fedeli al messaggio cristiano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il 27 gennaio di 75 anni fa le truppe dell’Armata Rossa entravano nel campo di concentramento di Auschwitz, trovando decine di persone. Erano i sopravvissuti che non erano stati in grado di mettersi in marcia con i soldati tedeschi che, pochi giorni prima, avevano abbandonato il campo trascinando via centinaia di prigionieri e tentando di cancellare le prove del piano messo in atto per lo sterminio degli ebrei. Su iniziativa dell’Onu, dal 2005, il 27 gennaio viene celebrata nel mondo la Giornata della Memoria.

Scampati ad Auschwitz

A scrivere pagine di storia da non dimenticare, c’è anche chi ad Auschwitz era destinato, ma non c’è mai arrivato perché sottratto alla furia nazista dalla generosità di alcune persone. Parliamo della famiglia Terracina – padre, madre e quattro figli – tratta in salvo dalla signora Anita Tana, incontrata per la prima volta solo pochi giorni prima. Tutti sono stati accolti nella sua semplice e piccola casa. Il padre, la madre e il bimbo che lei portava nella pancia sono rimasti dalla signora Tana per oltre un anno. Il bimbo di sei anni, invece, è stato accolto dopo poche settimane dalla famiglia Cencelli, mentre le due ragazzine di sette e di quattro anni sono state poi nascoste nel convento delle Suore Dorotee al Gianicolo. Tutte queste persone si sono esposte al rischio della rappresaglia di fascisti e nazisti che non avrebbe lasciato scampo a chi nascondeva ebrei.

Nei giorni della tragica retata al Ghetto di Roma

La vicenda, che rivive nelle interviste ai testimoni ancora vivi, si è svolta nei giorni intorno al 16 ottobre 1943, passato alla storia per il feroce rastrellamento al ghetto e in altre zone di Roma. Nella retata vennero prese 1259 persone, di cui 1023  furono deportate al campo di sterminio di Auschwitz.  Soltanto 16 di loro sopravvissero, 15 uomini e una donna.

La signora Letizia Terracina, morta alcuni anni fa all’età di 105 anni, ha raccontato di aver bussato inizialmente alla porta di amici per chiedere aiuto, ma di aver trovato muri di paura. Poi, un giorno, incontrando in una macelleria la signora Anita Tana, ha trovato il coraggio di rivolgerle il suo disperato appello per la vita dei suoi figli e del bimbo che aspettava, ormai all’ottavo mese. Forse gli occhi di quella signora originaria di Ferrara avevano tradito lo spessore del cuore: la signora Anita, che oggi quei bambini di allora definiscono “una donna molto buona e molto molto religiosa”, viveva con il marito, gravemente invalido in conseguenza della Prima guerra mondiale, in un appartamento di due stanze. Ha aperto la porta di casa a quella famiglia perseguitata, perché nessuna logica razziale poteva oscurare il messaggio cristiano di fratellanza di cui si era sempre nutrita. In un’intervista rilasciata dalla signora Letizia Terracina nel 1996 alla Fondazione Yad Vashem di Tel Aviv, quando aveva 92 anni, sottolinea un particolare: lasciare il loro letto a quella coppia di disperati, dormendo su un divano fino a quando non sono arrivati gli Alleati a liberare Roma.

I ricordi di chi allora era bambino

Quel bimbo in pancia oggi ha poco più di 75 anni. Si chiama Fernando e ci racconta che la signora Tana, nei suoi ultimi momenti di vita, lo ha voluto accanto a sé.

Fernando Terracina

L’emozione di Fernando Terracina è forte quando racconta di essere stato il più “fortunato” dei fratelli perché “inconsapevole delle atrocità che stavano avvenendo e perché mai separato dalla mamma”. Ma ci  confida anche di aver fatto spesso incubi nel sonno all’età di sei, otto anni, quando ha saputo che suo nonno paterno e alcuni cugini sono morti ad Auschwitz e ha capito qualcosa dell’angoscia e dei rischi vissuti dai suoi familiari. Sogni in cui deve “affannosamente cercare di scappare dai tedeschi”. Sono tanti anche i ricordi delle due sorelle, Milena e Bettina, che raccontano della serenità respirata nel convento e di come “è stato difficile venir via”. Bettina, la più grande, non riesce a parlare di quel passato: a stento racconta dell’inquietudine che avverte ancora oggi se sente sgorgare copiosamente acqua da un rubinetto. La mente torna a un episodio preciso: soldati tedeschi avevano fatto irruzione nella casa della signora Tana che, per coprire le voci delle bambine e del neonato lasciati nella stanza di bagno, ha aperto il rubinetto dell’acqua con la massima potenza. La piccola Milena non ha capito il rischio, ma quella bimba di nove anni, istruita dai genitori, ha provato terrore. Le piccole sono state poi accolte dalle suore che le hanno “confuse” tra le loro ragazze educande di buona famiglia. Tra tante sensazioni, Milena ricorda, con un sorriso, il senso di pace che quelle religiose hanno trasmesso loro.

Milena Terracina

L’impegno della famiglia Cencelli e del Vaticano

A portare le due sorelle dalle suore è stato il signor Armando Cencelli, un dipendente vaticano, che con la moglie Luisa si è preso in casa il maschietto, Leone, che oggi sottolinea di essere stato trattato proprio come un figlio.

Leone Terracina

Il figlio dei Cencelli, Massimiliano, era figlio unico e si è visto arrivare un “fratellino” della sua età dall’oggi al domani, con il quale ha dovuto condividere tutto. Dopo tanti anni ci  racconta, oggi, di aver pianto quando lo ha visto andar via. Ma soprattutto ci  parla, oggi a 75 anni dalla liberazione di Auschwitz, della scelta dei suoi genitori come fosse invece una decisione “normale, scontata per due persone profondamente credenti e toccate dal messaggio di Cristo”. Ribadisce che “il gesto dei genitori si inserisce in uno sforzo notevole di salvare ebrei che in quel momento si faceva in tutto il Vaticano, per volontà di Pio XII.

Massimiliano Cencelli

Massimiliano Cencelli ha speso la sua vita impegnato in ruoli politici e passa alla storia per il cosiddetto Manuale Cencelli con cui ha descritto i meccanismi di spartizione di incarichi e ruoli politici. Di suo padre, collaboratore di Pio XII, ricorda l’estrema semplicità. Ci  racconta di aver spesso ascoltato in casa storie di tanti altri salvataggi di ebrei voluti e messi in atto dallo stesso Pio XII, a partire dalle centinaia di uomini nascosti come guardie palatine o delle donne accolte in palazzi del Vaticano o in conventi. Descrive il Papa di quegli anni bui come un uomo essenziale, che cenava in quei tempi con un bicchiere di latte, e che tradiva con i suoi collaboratori il dolore per quanto accadeva.

Quando parliamo di umanità e di diversità religiose, Massimiliano Cencelli  afferma con decisione che “in ogni caso esiste una sola razza umana, il resto sono invenzioni di potere”. E delle religioni ci dice: “Non possono definirsi tali se non conservano umanità”.

Uno degli attestati di riconoscimento di Israele per la famiglia Cencelli

Resta il dramma dell’odio razziale e dei lager raccontato dal sopravvissuto Primo Levi come “qualcosa che è accaduto e che dunque può accadere di nuovo”. Ma resta anche il gesto d’amore di chi ha accolto in casa sua dei perseguitati, dividendo le poche risorse dei tempi di guerra e mettendo a repentaglio la propria esistenza. Quel gesto ha lasciato un’altra impronta: quella di un moto di umanità e di una profondissima testimonianza di fede.

Nell’incubo delle persecuzioni antisemite, una madre di famiglia ebrea trova la mano tesa di una sconosciuta e di un collaboratore di Pio XII.      Oltre 75 anni, i figli dei protagonisti di tanto coraggio e tanta generosità raccontano con semplicità la “scelta obbligata” dei genitori

da Vatican News del 27 gennaio 2020

L’appello del Papa nella Giornata dei migranti

Nella Giornata mondiale dei diritti dei migranti, l’appello del Papa, in un tweet, per l’accoglienza, la protezione, l’integrazione. Domani giovedì 19 dicembre Francesco incontra i rifugiati arrivati da Lesbo. Se si parla di migranti le situazioni sono tante e diverse. In ogni caso, gli esperti raccomandano uno studio serio e storicizzato del fenomeno. Intervista con la demografa esperta di flussi migratori Laura Terzera

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La risposta alla sfida posta dalle migrazioni contemporanee si può riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Così scrive il Papa nel tweet nella Giornata internazionale per i diritti dei migranti.  Se li mettiamo in pratica – aggiunge il Papa –  contribuiamo a costruire la città di Dio e dell’uomo.

Dal Papa i migranti di Lesbo arrivati in Italia

All’indomani della Giornata, domani, al termine delle udienze della mattina, il Papa Francesco incontrerà i rifugiati arrivati recentemente da Lesbo con i corridoi umanitari e farà posizionare una croce – nell’accesso al Palazzo Apostolico dal Cortile del Belvedere – in ricordo dei migranti e dei rifugiati.

La difesa del diritto di asilo nelle raccomandazioni dell’Onu

Ieri, il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha chiesto di difendere il diritto di asilo che – ha spiegato –   è sotto attacco in un momento in cui tante frontiere e porte vengono chiuse ai rifugiati, perfino bambini. Secondo l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, sono oltre 70 milioni le persone al mondo costrette a fuggire dal proprio Paese. Un numero senza precedenti. Tra le vere emergenze, c’è la tragedia delle detenzioni in campi come quelli in Libia, dove quest’anno sono state riportate circa 9000 persone che avevano tentato la traversata verso l’Europa e dove l’Onu denuncia “condizioni indicibili”. In generale la tendenza non è quella dell’accoglienza. La studiosa Laura Terzera, docente dell’Università Bicocca di Milano:

Ascolta l’intervista con Laura Terzera
R. – È un fenomeno di cui non si può fare una fotografia, ma di cui bisogna conoscere un po’ la storia a seconda del Paese in cui ci si trova. La mobilità può essere studiata molto meglio attualmente attraverso il passato perché, pur avendo una carenza di dati, ne abbiamo di più rispetto al passato.

Sembra anche che il fattore mediatico amplifichi molto questa realtà …

R. – Semplicemente perché oggi sappiamo le cose. Abbiamo una forma di comunicazione che è immediata e che è più accessibile a tutti. Pensiamo semplicemente alla grande migrazione che c’è sta tra l’Ottocento e il Novecento fino alla Prima Guerra Mondiale; se ne veniva a conoscenza soltanto per passaparola. Si alzano molti più muri rispetto a quanti ce ne erano nel passato. Ci sono alcuni dati interessanti che mostrano proprio come l’aumento di frontiere sia dovuto in qualche modo al fatto che ogni territorio sembra avere una bandierina. È più difficile muoversi rispetto al passato.

In parallelo con il fenomeno delle migrazioni, c’è il fenomeno di una conflittualità che – sono dati Onu – cresce in tutto il mondo …

R. – Le conflittualità portano ad una certa tipologia di movimento che è quella forzata, cioè persone che non avrebbero scelto di migrare, ma che lo hanno fatto perché costrette, forzate per la sopravvivenza. Quindi si devono muovere perché c’è una carestia, una catastrofe naturale, una guerra, dei conflitti. E’ ovvio che quelle in qualche modo sono delle emergenze, quindi l’aspetto della mobilità di tipo economico, di tipo famigliare è più gestibile, perché più programmabile. Questa, è ovvio, per sua definizione è improvvisa, è un’emergenza.

Si parla tanto di politiche per alzare muri per chiudere le frontiere. Ma di politiche invece per contrastare quei fenomeno come guerre, carestie che provocano tanta mobilità forzata se ne parla meno. Le pare?

R. – È più facile costruire un muro che non mettersi intorno ad un tavolo con teste diverse, con obiettivi diversi. Interessante per esempio è anche l’opinione pubblica che si crea nei diversi Appesi. Per esempio, l’euro-barometro Eurostat che misura i dati europei, mette a confronto quella che è la percezione della popolazione sulla dimensione della migrazione, quindi della popolazione straniera, con il dato reale. L’Italia è il Paese in cui lo scarto è maggiore, quasi un venti percento in più, cioè si ha la sensazione che ci sia molta più presenza. Ci sono Paesi come la Germania in cui invece la presenza è sicuramente consistente – se non uguale, maggiore dell’Italia – la precisone è molto più ridotta. Quindi sicuramene come viene presentato il fenomeno nel Paese può portare anche a politiche che siano più coerenti con quella che è la realtà, cioè capire esattamente qual ‘è la realtà, secondo me, è il primo passo, non ignorare qual è veramente la realtà. In qualche modo ci si concerta in quello che in quel momento mediaticamente attira insomma.

Da ricordare che in un mondo in cui ogni due secondi una persona è costretta ad abbandonare la propria casa a causa di conflitti o persecuzioni, milioni di persone restano apolidi: viene negata la nazionalità oltre all’accesso a diritti fondamentali quali istruzione, salute, lavoro e libertà di movimento.

Con Lucio Trojano

Una giornata di preghiera per la pace in Colombia

Alla scommessa di pace che si vive in Colombia, la Chiesa colombiana ha voluto dedicare la Giornata di preghiera nella festa odierna della Vergine di Guadalupe. A Bogotà, un momento di incontro ufficiale per parlare di riconciliazione e giustizia, nella difficilissima fase di attuazione dell’Accordo di pace raggiunto nel 2016. Intervista con Leonardo Morlino docente di America Latina all’Università Luiss

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Conferenza episcopale colombiana (Cec) invita alla riflessione e alla preghiera “per chiedere la riconciliazione, la pace e l’unione” della nazione. L’iniziativa –  si legge nella nota della Conferenza episcopale – “si svolge nell’ambito della festa di Nostra Signora di Guadalupe, patrona d’America e in sintonia con l’invito del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) ad assumere uno sguardo cristiano e una posizione di semina basata sulla speranza e con i costanti messaggi di Papa Francesco sulla riconciliazione e la pace di tutte le nazioni”. Il momento d’incontro ufficiale, a Bogotà nell’auditorium Regina Apostolorum della sede Cec, viene trasmesso anche per televisione, radio e su web.  Sui social network, gli hashtag: #OremosPorColombia #AméricaLatinaRezaPorLaPaz.

Il cammino verso la pace

A tre anni dall’Accordo di pace tra il governo e le Forze armate rivoluzionarie colombiane-Esercito del popolo (Farc-Ep), la Colombia vive una fortissima tensione sociale e continue mobilitazioni popolari.  Dal 21 novembre migliaia di persone sono scese in piazza contro il pacchetto di misure economiche  varato dal presidente Iván Duque e non hanno fermato le proteste neanche dopo l’annuncio, giorni fa, di una piattaforma di dialogo sociale denominata   «conversazione nazionale».  Delle sfide che vive la Colombia, abbiamo parlato con Leonardo Morlino, docente di America Latina all’Università Luiss:

R. – La tensione, le dimostrazioni e le proteste che abbiamo oggi in America Latina – dal Cile fino ad Haiti, compresa la Bolivia e altri Paesi – sono il sintomo di fenomeni differenti che non devono essere confusi. Ad esempio, se parliamo di Cile, parliamo di una democrazia tutto sommato consolidata e quindi si tratta di rispondere a proteste che incidono poi sulla vita specifica. Ma il Cile è un Paese democratico. Se parliamo della Colombia, invece parliamo di un Paese che noi definiamo a regime “ibrido”, cioè non ancora completamente democratico, non ancora con gli aspetti essenziali della democrazia ma con problemi piuttosto seri di limitazione delle libertà individuali.  C’è la combinazione di due fattori: da una parte, la novità di tutti gli immigrati che sono arrivando dal Venezuela, ma soprattutto, dall’altra, il fatto che l’accordo con le Farc non sia stato accettato, come si è visto poi dal risultato del referendum, da una buona maggioranza dei colombiani, e quindi il paese si trova in una situazione molto difficile.

Arrivare comunque all’accordo e chiudere decenni di conflitto è stata una scommessa importante di pace…

R. – Importantissima. E non solo, qualche atteggiamento più moderato dovrebbe portare all’accettazione di questo accordo. E’ vero anche che una parte della popolazione ha sofferto troppo in questi anni e non è disposta a perdonare e dimenticare.

C’è anche tanta voglia di pace, di tranquillità…

R. – Non c’è dubbio e questa può essere la leva per giungere a una qualche soluzione, però i problemi ci sono ancora e credo che soprattutto nell’atteggiamento, almeno vedendo alcuni dati di sondaggio, nell’atteggiamento dei cittadini c’è voglia di pace, ma c’è al tempo stesso il ricordo ancora vivo di tutto quello che è successo con la guerriglia.

Quanto ha inciso, nel momento delicatissimo dell’attuazione dell’accordo, lo scossone del Venezuela in crisi?

R. – Esattamente, sì, secondo me, ha inciso a peggiorare un quadro che era già molto incerto e problematico. Sì, indubbiamente ha inciso.

E quanto può incidere la destabilizzazione un po’ in tutta l’America Latina…

R. – Questo di meno, proprio perché, come dicevo, hanno diverse caratterizzazioni e diverse origini.

Se vogliamo cercare di individuare i punti di forza perché il Paese possa avere uno sviluppo positivo, cosa possiamo citare?

R.  – Non è semplice per il coinvolgimento della polizia… In ogni caso, probabilmente il punto di forza è proprio quello che diceva lei: la necessità, la necessità della pace. Cioè la Colombia ormai  ha la necessità che esca dalla sua tradizione di violenza e di guerra interna. Alla fine, psicologicamente si giunge a un punto che non è possibile andare avanti. E’ necessaria la pace. Solo una percezione piena di questo aspetto, sia a livello di élite sia a livello della gente, può dare una svolta.

L’Algeria al voto ma senza l’opposizione

Dopo l’uscita di scena di Bouteflika e mesi di incessanti manifestazioni, è arrivato l’appuntamento con le urne in Algeria. L’opposizione non riconosce nei candidati personalità capaci di vero cambiamento, mentre la società civile resta protagonista di una eccezionalmente pacifica protesta. Intervista con Luciano Ardesi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Giovedì 12 in Algeria si vota per eleggere un nuovo presidente per la prima volta dalle dimissioni di Abdelaziz Bouteflika, costretto di fatto a lasciare il suo incarico all’inizio di aprile scorso per la pressione di milioni di algerini. Ma il movimento di opposizione, che si chiama Hirak, boigotta il voto ritenendo che i candidati non rispondano alla domanda di vero cambiamento. Abbiamo intervistato Luciano Ardesi, esperto di paesi del Maghreb:

R. – Il movimento Hirak, come si chiama in arabo, contesta le elezioni di domani. Vorrebbe che si tenessero elezioni   solo e soltanto dopo il ricambio del sistema di potere. Quindi chiede che se ne vadano tutto il governo e tutto il parlamento. Vorrebbe le elezioni dopo un rinnovo delle istituzioni attraverso un percorso di transizione, che però non è ancora molto chiaramente disegnato dai manifestanti.

Tra i candidati ci sono ex politici già con altre cariche significative…

R. – Sì, ci sono cinque concorrenti, due ex ministri, due ex primi ministri e altri tre ministri, ex esponenti di precedenti governi. Quindi questo anche ha lasciato perplesso il movimento di protesta perché di fatto, qualunque sarà il vincitore, non ci sarà un vero e proprio ricambio di personalità politiche.

Intanto in tutto questo il ruolo dell’esercito qual è?

R. – L’esercito più che mai è il perno del sistema di potere in Algeria. L’esercito ha preso in mano la situazione, in modo particolare il capo delle forze armate, il generale Gaid Salah che in un primo momento aveva promosso la candidatura del presidente Bouteflika ad un quinto mandato e che poi sotto la pressione del movimento popolare invece ha costretto alle dimissioni lo stesso Bouteflika e poi ha disegnato il percorso che ha condotto, dopo due rinvii, alle elezioni presidenziali. Quello dell’esercito è praticamente un ruolo che si conferma ininterrottamente, fin dall’indipendenza del Paese. Diciamo che la repressione è aumentata nel corso dei mesi; oggi ci sono circa 150 rappresentanti del movimento di protesta che sono in prigione, detenuti con o senza processo e a parte questo c’è stato un tentativo in qualche modo di ripulire il sistema attraverso denunce di scandali, di corruzione … Proprio in queste ultime ore  sono state pronunciate  sentenze di condanna nei confronti di due ex primi ministri, di imprenditori privati e di altri ex ministri, nel tentativo di presentare elezioni presidenziali sotto una nuova veste come una possibilità di rinnovamento del Paese. Questi processi sono sembrati a molti organizzati in tempo opportuno proprio per mascherare invece la repressione sotterranea nei confronti del movimento, che l’esercito continua soprattutto in questi ultimi mesi ad attaccare e a presentare come un nemico del popolo.

In tutto questo le manifestazioni si sono distinte assolutamente per l’impronta pacifica …

R. – È una cosa straordinaria, quella del movimento non violento in Algeria, se pensiamo che si tratta di un Paese che si è liberato dal colonialismo attraverso una lunga lotta armata e che ha subito in un decennio di terrorismo diffuso nel Paese. Forse proprio queste esperienze hanno proprio convinto il movimento ad adottare una non violenza assoluta. Certo c’è preoccupazione nel movimento, il timore che delle provocazioni possano deviare il loro impegno verso strade invece violente.