Consiglio d’Europa: migranti, è emergenza minori non accompagnati

Piccolo migrante sul confine tra Ungheria e Serbia - AFPPiccolo migrante sul confine tra Ungheria e Serbia – AFP

Si allarga e in qualche caso si aggrava il fronte delle emergenza emigrazione: nel Canale di Sicilia, nella ‘giungla’ di Calais in Francia, ma anche sulla rotta balcanica. Fausta Speranza ne ha parlato con il rappresentante speciale del segretario generale del Consiglio d’Europa per le migrazioni e i rifugiati, Tomáš Boček, appena tornato da una missione in queste zone:

R. – Well, in the hotspot I went yesterday – I was in Pozzallo hotspot, where I think there are around 200 …
Nell’hotspot nel quale sono stato a Pozzallo, dove ci sono circa 200 posti, quello che mi ha colpito maggiormente è la stragrande maggioranza di minori non accompagnati. Gli hotspot sono concepiti per ospitare le persone al massimo per 24/48 ore, mentre lì le persone rimangono per molto più tempo: settimane se non addirittura mesi. E i luoghi non sono adatti a permanenze così lunghe, e in particolare non lo sono per i minori.

D. – Quali raccomandazioni presenterà alla fine della sua missione?

R. – My recommendations …
Le mie raccomandazioni dovrò scriverle con calma, ovviamente, e poi presentarle al Consiglio dei Ministri. Ma ciò che posso esprimere nell’immediato è che questi minori non dovrebbero essere ‘detenuti’, non dovrebbero trovarsi in questo luogo; dovrebbero esistere molte istituzioni in più, dedicate ai minori non accompagnati e ai minori come tali. So che il governo italiano ci sta lavorando, io ho verificato un approccio molto positivo alla ricerca di soluzioni: c’è una vera volontà di affrontare la situazione. Ma i numeri sono molto alti, e quindi l’unico modo che intravedo per poter veramente affrontare la situazione è la cooperazione con altri Stati: questo non è un problema solo italiano o greco; questo è un problema europeo.

D. – In realtà, di fatto, una questione internazionale…

R. – Yes … I am speaking now only from the European perspective; but in the whole … yes, yes. …
Sì, ora parlavo dalla prospettiva europea, ma nell’insieme, certo: questo è un problema della comunità internazionale, perché dovrebbe esserci solidarietà tra tutti i membri della comunità internazionale; e io aspetto la messa in opera e l’implementazione delle dichiarazioni a conclusione del Summit sui migranti che si è svolto a settembre a New York.

D. – Ci dice qualcosa di Calais, il campo di accoglienza nel nord della Francia, definito “la giungla”: un nome tristissimo…

R. – Yes, again: this is very much linked to the non-accompanied minors, because …
Anche qui, il problema è fortemente legato ai minori non accompagnati; quasi tutti vorrebbero essere ricollocati presso le famiglie che si trovano già in Gran Bretagna. Qualche passo avanti è stato fatto, anche se molto rimane ancora da fare.

D. – L’emergenza resta anche nel Mediterraneo centrale, nel Canale di Sicilia. Dopo l’Accordo tra Unione Europea e Turchia, parliamo di chiusura della rotta balcanica, ma in realtà i problemi non sono affatto risolti: non è così?

R. – You’re are talking about the horrific – I call it like this – and of course dramatic decrees …
Lei sta parlando di accordi orribili: in sé sarebbe positivo aver ridotto i flussi, ma sono accordi orribili – così come io li definisco – e drammatici, che riguardano un gran numero di persone. Ora che tante, tante frontiere sono chiuse, queste persone sono rimaste incastrate in quei Paesi, e quei Paesi non sono pronti a fare i conti con un numero così grande di profughi: e mi riferisco in particolare alla Grecia, che ospita ormai oltre 60 mila profughi, soprattutto sulle isole.

24 ottobre 2016

La Golden Coast, crocevia di interessi

Il Ghana, terra di antiche tratte di schiavitù, oggi è crocevia di interessi tra Africa, Usa, Europa, Cina. Tra mille contraddizioni e il rischio estremismo islamico. di Fausta Speranza

Gli articoli del dossier:

Donne, tutelate solo a parole
I cinesi e la corsa all’oro del Ghana
I piccoli schiavi che sostengono l’economia del Ghana
Ghana: Obloboshie, la discarica dell’Occidente
Ghana, quelle bare creative

Nell’Africa alle prese con l’emergenza Ebola, l’espandersi del fondamentalismo islamico e la nuova colonizzazione cinese, c’è un Paese che spicca per assenza di conflitti, sviluppo economico e legame con l’Occidente: è il Ghana, che, però, visitato da vicino si fa cartina tornasole di tragiche contraddizioni.

Il Ghana è diventato il centro logistico dell’Onu per portare avanti la battaglia contro l’epidemia di ebola in Africa occidentale. Accra è l’hub, il centro di smistamento, di tutte le forniture e gli aiuti alla regione subsahariana, in particolare quelli destinati ai paesi più colpiti come Liberia, Guinea, Nigeria e Sierra Leone.  Si sa bene che Accra ha ristretto di molto le misure sulle migrazioni, volendo evitare l’espandersi dell’epidemia, ma non si sa abbastanza sul numero di contagiati al suo interno. E soprattutto sui possibili effetti di questo isolamento.

Il Ghana mette in atto le più moderne policy dell’Onu sul genere femminile, ma perpetua forme vecchie e nuove di schiavitù. Segna una crescita del PIL del 7,5%, ma tollera un pericoloso livello di povertà nel nord musulmano. Vanta i media più indipendenti del continente, ma non racconta al mondo che si fa discarica dei materiali elettronici di Usa e Europa. Si gloria di non avere conflitti interetnici ma non combatte l’espandersi inquietante di sette protestanti che sfruttano l’ignoranza delle persone per fare soldi, come denuncia a Famiglia Cristiana il segretario generale della Conferenza Episcopale locale.

Nel cuore dell’Africa nera, sul Golfo di Guinea, il Ghana è stato il primo paese del continente che si è reso indipendente dopo secoli di colonizzazione del continente. Nel 1957 ha scelto l’autonomia rispetto alla Gran Bretagna e da allora ha attraversato decenni di pace. C’è stato nei primi anni il controllo stretto da parte della classe militare, un colpo di Stato, ma mai episodi cruenti. E piano piano il Paese dell’Africa occidentale si è incamminato in un percorso verso una forma sempre più compiuta di democrazia. Oggi al Ghana si riconosce un meccanismo di governo democratico, libere elezioni, e grande attenzione alle linee guida delle Nazioni Unite. Non meraviglia, considerato che dal 1 gennaio 1997 al 31 dicembre 2006, il ghanese Kofi Annan è stato segretario generale del Palazzo di Vetro.

C’è poi il legame stretto con gli Stati Uniti. Nel 2009, il presidente Obama ha scelto il Ghana per la sua prima visita nel Continente nero. Non a caso. Il Ghana è stato il principale crocevia della schiavitù. Nella famigerata fortezza di Cape Coast, tra il XVII e il XIX secolo, sono passati in catene tra i 12 e i 20 milioni di persone. Uomini schiavi di altri uomini. Da lì il primo presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti d’America ha lanciato il suo grido di dolore per un passato tanto pesante. Ma basti dire che tra i meandri più corrotti dell’amministrazione di Accra passano i passaporti falsi ghanesi con cui tante prostitute nigeriane arrivano, non su barconi ma in aereo, fino in Europa. Il toccante discorso di Obama da Cape Coast sul cammino di un’umanità dolente che prende coscienza di abissi di disumanità non può essere tutto quello che gli Usa e l’Occidente possono fare.

E poi c’è l’Europa, che figura come primo donatore tra quanti sostengono economicamente il Ghana, che, nonostante la recente scoperta del petrolio, continua a dipendere dall’assistenza internazionale. Proprio dalla delegazione dell’Unione Europea ad Accra arriva l’allarme. Lo sviluppo dell’area sul Golfo, dove si trova la capitale, e il boom di scambi commerciali non deve ingannare: non c’è solo la faccia del sud in via di progressi economici e sociali, c’è anche l’altra faccia del nord povero e musulmano. Incontriamo il consigliere politico Ue nel suo ufficio ad Accra. Si chiama Judikael Regnaut ed è chiarissimo: “C’è il forte rischio che il dilagare dell’estremismo islamico si nutra dell’arretratezza del nord e attecchisca anche nel pacifico e avanzato Ghana”.

Onu, Usa e Ue non possono accontentarsi della faccia più presentabile per cantare vittoria. In Ghana, simbolo dell’Africa in sviluppo, ci si muove in realtà sul terreno ormai obbligato della globalizzazione. Si avverte di viaggiare sì nel cuore dell’Africa nera ma anche su piani intersecanti tra Africa, Europa, Stati Uniti, Cina. In questo senso parliamo di un paese simbolo.

da Famiglia Cristiana del 16 ottobre 2014

Ghana: quelle bare creative

Gli articoli del dossier: Ghana,crocevia di interessi

Donne, tutelate solo a parole
I cinesi e la corsa all’oro del Ghana
I piccoli schiavi che sostengono l’economia del Ghana
Ghana: Obloboshie, la discarica dell’Occidente
Ghana, quelle bare creative

la-bara-per-un-coltivatore-di-caffe_1112304  per un coltivatore di caffè

Il Ghana terra di contraddizioni ma anche di suggestiva vitalità: non ha rivali in tema di creatività delle bare per defunti.

la-bara-per-un-sarto_1112324  per un sarto

Nel cuore dell’Africa non meravigliano né i colori accesi né i suoni intensi né le voci animate. In Ghana la popolazione conta 100 etnie e 47 idiomi, oltre all’ufficiale lingua inglese. Non sorprende dunque la ricchezza e la varietà di tradizioni. Tra queste, una ci ha colpito più di altre. Ci siamo imbattuti in un laboratorio di costruzione di bare.

Tra pezzi di legno e pitture più o meno naturali, abbiamo incontrato giovanissimi artigiani che mettevano a punto, con grande creatività, bare pensate non per esaltare l’importanza del defunto, come spesso accade tra legni pregiati e fregi particolari in Occidente, ma piuttosto figurate per richiamare l’attività che la persona defunta ha svolto o la sua passione. Si vedono allora bare a forma di automobili, di macchina da cucire, di chicco di caffè, ma anche di lattina di bibita, di animali etc etc. Emerge una cura e una simpatia che colpiscono.

Sembra rappresentata un’altra concezione della morte e, dunque, di riflesso anche della vita. Resta una sensazione di leggerezza, di accettazione, che allarga il cuore.

da Famiglia Cristiana del 16 ottobre 2014

I piccoli schiavi che sostengono l’economia del Ghana

7000 baby pescatori in catene per assicurare pesce da esportare.

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Gli articoli del dossier: Ghana,crocevia di interessi

Donne, tutelate solo a parole
I cinesi e la corsa all’oro del Ghana
I piccoli schiavi che sostengono l’economia del Ghana
Ghana: Obloboshie, la discarica dell’Occidente
Ghana, quelle bare creative

Appena si lascia la capitale Accra nel più prosperoso sud e, faticosamente sulle impervie strade, ci si dirige verso il centro-est e si riesce a superare la coltre di omertà, ci si imbatte nel fenomeno dei baby pescatori, sfruttati sulle rive del fiume Volta e del Lago Volta. Spesso sono legati alle imbarcazioni perché non si distraggano.

A Kumasi abbiamo incontrato Bernard Fianku, direttore della casa Abram Kessy, a un’ora e mezzo dalla città in una zona di foresta tropicale. Il centro è sorto su iniziativa delle Onlus americana Touch a life e della italiana Una chance, fondata da Patrizia Contri. Da un anno il timone del centro è passato al ghanese Bernard Fianku, segno di un passaggio di responsabilità significativo.

Fianku, che ha un curriculum di alto livello in tema di questioni sociali e pedagogiche, ci racconta dei 46 ragazzini tra gli 8 e i 13 anni che sono faticosamente riusciti a strappare al sistema di schiavitù, che cattura circa 7000 minori in Ghana. Sono ospiti del Centro a Kumasi. Visi segnati dalla sofferenza ma anche illuminati da un amore che fino a poco tempo fa non sapevano esistesse. Fianku ci dice della difficoltà di combattere contro i gruppi organizzati malavitosi ma anche della grande difficoltà di sradicare una mentalità diffusa. In alcuni casi, ci racconta, bambini riscattati dagli schiavisti e restituiti alle famiglie sono stati di nuovo venduti dalle famiglie stesse a nuovi schiavisti.

da Famiglia Cristiana del 16 ottobre 2014

I cinesi e la corsa all’oro del Ghana

Gli articoli del dossier: Ghana,crocevia di interessi

Donne, tutelate solo a parole
I cinesi e la corsa all’oro del Ghana
I piccoli schiavi che sostengono l’economia del Ghana
Ghana: Obloboshie, la discarica dell’Occidente
Ghana, quelle bare creative

In Ghana i cinesi invadono ma non hanno affatto la vita facile che hanno in altri Paesi africani. di Fausta Speranza

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Si chiamano galamsey operator, sono i cercatori d’oro illegali. Sono soprattutto cinesi. Arrivati in Ghana in numero massiccio negli ultimi tre anni: almeno 35.000, provenienti in particolare dalla regione cinese di Guangxi Zhuang. Non si sa come siano entrati illegalmente nel Paese ma si sa che 4500 sono stati espatriati nel solo 2013. Le autorità hanno provveduto all’espatrio per le gravi tensioni sociali che si erano create con la popolazione. Di fatto sono stati i pacifici ghanesi a dichiarare guerra a questo esercito di illegali arrivato con materiale tecnologico all’avanguardia per l’estrazione dell’oro.

In particolare parliamo della regione dello Ashanti, a nord di Accra ma ancora in zona quasi centrale del Paese. Gli episodi di violenza sono avvenuti soprattutto nei villaggi intorno a Obuasi, ma anche nella zona di Nsuaem Kyekyewere, che sta nella cosiddetta regione centrale che, a dispetto del nome, penetra nella zona nord del Ghana. In modo fraudolento, ignorando le autorizzazioni governative necessarie per lo sfruttamento delle miniere nel Paese, i cinesi fanno fortissimi ricavi. Ma sono stati oggetto di veri e propri attacchi da parte della popolazione che si è vista colpita in quella che da sempre è la prima risorsa del Ghana, l’oro. Basti ricordare che il tratto di costa ghanese sul Golfo di Guinea è stata denominata dai colonizzatori inglesi la Gold Coast.

In Ghana ti raccontano che i cinesi, asserragliati nelle foreste e impegnati solo di notte nell’estrazione furtiva nelle miniere, assaltano i villaggi e stuprano le donne.

Ma si capisce presto che sono storie raccontate per alimentare l’odio. In realtà risulta che controllino ormai la metà delle oltre 100 tonnellate di oro ricavate all’anno. E questo basta per essere invisi. All’inizio, in realtà, sono stati accolti con favore e stupore perchè avevano macchinari che semplificavano di gran lunga le metodologie locali. Ma poi la gente si è accorta che a beneficiarne erano solo i cinesi. Una consapevolezza presto assunta che colpisce, pensando ai tanti Paesi dell’Africa che consegnano risorse e terre a personale cinese che non chiede tutti i vincoli che l’Europa pretende in termini di diritti umani e rispetto dell’ambiente e che paga in contanti.

Ma bisogna ben focalizzare che la reazione delle autorità è arrivata in Ghana solo dopo fortissima pressione dal basso. I governi di Accra e Pechino firmano accordi significativi per investimenti in costruzioni e infrastrutture. Come dire, Accra ha accompagnato alla frontiera tanti illegali mentre prepara ben più numerosi legittimi visti. In barba al legame preferenziale e d’eccezione con Usa, Europa, Onu.

da Famiglia Cristiana del 16 ottobre del 2014

La Somalia e la sfida del futuro

Dopo il rinvio delle elezioni

di Fausta Speranza

La Somalia non ce la fa ad affrontare la prova delle elezioni. Il voto per il rinnovo del parlamento, previsto in questi giorni e in qualche modo atteso da decenni, è stato rimandato a data da destinarsi. Cade così anche la possibilità di scegliere il nuovo presidente entro il 30 ottobre. Per il paese del Corno d’Africa è una sconfitta sulla via di una difficile stabilizzazione politica. Resta il valore della testimonianza di Fadumo Dayib, emigrata in Finlandia e laureata ad Harvard, che è ritornata in Somalia per candidarsi alla presidenza, scommettendo contro conflitti, corruzione, povertà, e sfidando gli altri candidati uomini.

Da parte delle autorità somale non è stata data una spiegazione ufficiale alla decisione di rimandare le consultazioni. Ma da settimane divergenze sullo svolgimento del processo elettorale si sono mostrate con sempre maggiore evidenza. In base al calendario, concordato solo il mese scorso, 14.000 delegati designati dal governo avrebbero dovuto eleggere i componenti della Camera alta e quelli della Camera bassa fra il 24 settembre e il 10 ottobre. Nulla di tutto questo si è però messo in moto.

Dopo la dura guerra civile degli anni novanta, seguita al rovesciamento del presidente Siad Barre e costata la vita a 500.000 persone, in Somalia si è aperto un periodo di transizione. E nonostante la formazione nel 2012 di un governo federale il processo di normalizzazione non è ancora giunto a compimento. Non si parla di conflitto aperto, ma non si può parlare nemmeno di vera pacificazione.

L’appuntamento elettorale ormai mancato avrebbe potuto segnare la svolta. Per la prima volta dal 1969 il paese sarebbe stato chiamato a partecipare a elezioni regolari. E l’attesa era forte. Anche se sulle aspettative di molti pesava la preoccupazione per le minacce dei miliziani legati soprattutto al gruppo degli Al Shabaab che hanno intensificato gli attentati nella capitale, Mogadiscio, allo scopo di di intralciare il processo elettorale. Al Shabaab è un gruppo collegato ad Al Quaeda, che continua a mietere violenza facendo proseliti tra i giovani economicamente più vulnerabili e senza istruzione. In Somalia l’85 per cento della popolazione è al di sotto dei 35 anni e cinque milioni di persone soffrono la fame. La carenza alimentare si sta aggravando anche per il rientro, in queste settimane, delle decine di migliaia di somali che si erano rifugiati nel campo di Dadaab in Kenya, chiuso dalle autorità.

Per quanto riguarda il meccanismo di voto, va sottolineato che, al momento, l’accesso ai seggi è consentito solo all’un per cento della popolazione, che è di 12 milioni di abitanti. Quell’un per cento consiste nei capi anziani dei principali clan riconosciuti nel paese. A loro, infatti, spetta il compito di scegliere i 14.000 delegati, ai quali spetta poi il compito di indicare i membri del parlamento. In questo modo si vorrebbe consentire un’equa ripartizione dei seggi: 61 seggi ai clan principali e i restanti 31 suddivisi tra i clan minori. Il timore evidenziato dagli analisti internazionali è comunque quello che, attraverso questo sistema elettorale, gli interessi dei clan più piccoli finiscano in secondo piano a tutto vantaggio di una specifica élite politica.

Il suffragio universale è ancora un miraggio. Ma al momento l’obiettivo più sentito è quello di superare l’avvicendamento di governi di transizione, dando stabilità alle istituzioni. In questo modo sfuma anche la speranza di avere a breve un nuovo presidente. Entro il 30 ottobre si dovrebbe infatti svolgere l’elezione del capo dello stato. Ma, considerata la situazione, non saranno necessari annunci ufficiali per annullare anche questo importante appuntamento. L’elezione del presidente rientra infatti tra i compiti istituzionali del parlamento.

Tra i candidati alla massima carica istituzionale c’è Fadumo Dayib, una donna nata in Kenya da genitori somali 43 anni fa e che ha trascorso la maggior parte della vita in nord Europa. Sua madre, che già aveva perso undici figli per banali malattie, nel 1990 è scappata insieme con la figlia nella speranza di salvarla dalla denutrizione. Fadumo ha chiesto asilo in Finlandia e, 26 anni dopo, è tornata nel suo paese, con l’obiettivo di partecipare alle prime  elezioni libere, vincerle e diventare presidente.

Nel suo programma elettorale ha messo al centro lo scardinamento di alcune pratiche tribali e la lotta alla corruzione. Ha ammesso di ricevere in continuazione minacce di morte. Laureata in Pubblica amministrazione alla Harvard Kennedy School of Government, degli Stati Uniti, ha ottenuto un dottorato presso l’università di Helsinky, occupandosi di sanità e diritti umani. Fadumo incarna la speranza di chi sogna una Somalia profondamente rinnovata.

E che questo fosse possibile lo aveva in certo modo annunciato il vertice dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo dei paesi dell’Africa orientale (Igad) che la Somalia ha recentemente ospitato per la prima volta in trent’anni. Il fatto che Mogadiscio abbia accolto i capi di stato e di governo di Uganda, Kenya, Sudan, Sud Sudan, Etiopia, ha significato un attestato di fiducia da parte del blocco regionale. Ora, a solo due settimane da quel summit, la battuta di arresto per le elezioni. Una delusione per molti sulla quale resta comunque la scelta significativa di Fadumo che, per far fare balzi in avanti al suo paese, è tornata sui suoi passi, in un percorso decisamente controcorrente.

L’Osservatore Romano,  29 Settembre 2016

Europa e questione fiscale

Dopo la multa miliardaria inflitta alla Apple

di Fausta Speranza

Si fa presto a dire ricorso. L’annunciato appello dell’Irlanda sul caso Apple non è così scontato come è sembrato. Dopo la decisione presa dalla Commissione europea di dichiarare illegittimo l’accordo fiscale di Dublino con l’azienda di Cupertino, che per questo dovrebbe rimborsare almeno 13 miliardi, il Governo di minoranza di Fine Gael ne sta discutendo. Ma quello che emerge davvero è il nodo di un’Europa che procede indecisa e zoppa sulla questione fiscale, con una sorta di tabù di cui nessuno parla.

La vicenda nasce dall’accordo stipulato tra Irlanda e Apple tra il 2003 e il 2014, che abbatteva di molto la già favorevole tassazione irlandese. Gli accordi particolari tra azienda e autorità fiscale sono legali. Si chiamano tax ruling. Ma in questo caso, secondo Bruxelles, si sono configurate le premesse di uno sbilanciamento in quello che le normative europee identificano come aiuti di Stato, vietati perché contro il principio di libera concorrenza. Una normativa votata e accettata da Dublino come da tutti gli altri partner europei.

Guardandola dal punto di vista dell’Irlanda, il rimborso per tasse non pagate, tutto considerato compreso interessi, potrebbe arrivare a 18 miliardi. Una somma pari alla spesa sanitaria del Paese in un anno. A Dublino qualcuno la vorrebbe accettare senza appello, anche se andrebbe a scontare il debito pubblico e non sarebbe spendibile sul piano sociale. Vista la crisi scoppiata nel 2010 e il debito con la comunità internazionale, la somma farebbe comunque comodo.

C’è chi difende, invece, in ogni caso il ricorso alla Corte europea per contestare la decisione di Bruxelles. Si tratta del fronte che sostiene che, presi questi soldi, si comprometterebbe il rapporto con le multinazionali che in Irlanda investono molto. Ma è proprio questo fronte, che sembrava il più compatto, a perdere proseliti: si considera infatti che accordi di questo genere non saranno comunque più possibili. E, in realtà, ad attrarre investitori già basta quel 12,5 per cento di aliquota che distingue il Paese dalla media europea del 20 per cento circa. Senza citare l’Italia dove si arriva al 60 per cento.

È questo, dunque, per sommi capi il dibattito in Irlanda. Ci sono poi anche questioni interne ai partiti e agli equilibri nel Governo di minoranza guidato da Fine Gael ma sostenuto da Alleanza indipendente. In ogni caso, si capisce che è un dibattito ben più complesso rispetto all’annuncio di ricorso sicuro.

Dal punto di vista della Commissione, il trattamento spuntato in Irlanda ha permesso ad Apple di evitare la tassazione su quasi tutti i profitti generati dalla vendita di suoi prodotti nel mercato unico europeo. I profitti non venivano registrati laddove si producevano, ma erano allocati ad un head office di due società possedute al 100 per cento dal gruppo Apple: la Apple Operation International (Aoi), per le vendite in America; e la Apple Sales International (Asi), per i prodotti in Europa e altri Paesi. Così, solo una piccola percentuale veniva tassata in Irlanda e il resto sfuggiva. Un esempio concreto: nel 2011, su 16 miliardi di profitti, soltanto 50 milioni sono stati considerati tassabili in Irlanda. Prima dei commissari europei, a denunciare le stesse irregolarità era stato un rapporto di indagine del Senato di Washington, datato 21 maggio 2013.

Non è la prima battaglia sul piano della concorrenza illecita. La Commissione europea ha multato Microsoft nel 2008, per abuso di posizione dominante. E Google, accusata di «abuso del diritto» — cioè di operazioni che, pur nel rispetto formale delle norme, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti — ha dovuto risarcire l’Italia di 320 milioni di euro, a febbraio 2015, per 800 milioni di imponibile prodotto e non registrato in cinque anni.

Il mondo riconosce che su questo l’Europa è avanti. Ma ci si chiede come si possa pensare di procedere ancora tutti insieme sulla normativa sulla concorrenza, gli aiuti di Stato e l’antitrust e andare avanti in ordine sparso sul piano fiscale. L’esperto di diritto europeo, Giandonato Caggiano, docente all’università Roma tre, parlando con «L’Osservatore Romano», denuncia una «asimmetria assurda». E sottolinea che, nel dare la notizia del pronunciamento della Commissione europea, i media hanno presentato la vicenda come il solito braccio di ferro tra i burocrati di Bruxelles e uno Stato membro che cerca la crescita economica come può. Il braccio di ferro è invece con le multinazionali, che sicuramente portano guadagni e indotto, ma viaggiano su sfere tutte loro di profitto e di diritto.

Caggiano denuncia quello che definisce il «tabù della politica fiscale», che resta affidata ai singoli Stati membri, «in modo sorprendente e inaccettabile». Paolo Guerrieri, docente di economia internazionale all’Università La Sapienza, sostiene che si tratta di un generale «processo incompiuto». Parlando con «L’Osservatore Romano», fa il paragone con l’euro e spiega che «quando è stata adottata la moneta unica, non si sono adottate le necessarie conseguenti politiche economiche e finanziarie comuni». Solo con la crisi, scoppiata nel 2008, si è capita, ad esempio, l’urgenza di un’unione bancaria. Ora, di fronte alla Brexit, emerge l’urgenza di affrontare i nodi che restano. Proprio a partire dalla questione fiscale.

L’Osservatore Romano, 11 Settembre 2016

Lo sciame della solidarietà

Tra le offerte di aiuto quella di un centro per anziani dell’Aquila e di un gruppo di rifugiati afghani

di Fausta Speranza

«Abbiamo sentito che L’Aquila veniva colpita di nuovo. Ci è sembrato di avvertire la stessa scossa del 2009». Poche, semplici parole usa il presidente di un centro per anziani del Comune dell’Aquila per spiegare la scelta di aprire le porte della struttura a persone più avanti nell’età colpite dal terribile terremoto di mercoledì notte. Il capoluogo d’Abruzzo rivive il dramma di sette anni fa con l’angoscia nel cuore, ma con tanta voglia di restituire la solidarietà ricevuta allora, che nessuno può dimenticare.

Venanzio Gizzi è il presidente del Centro servizi anziani (Csa) aquilano intitolato al cardinale Corradino Bafile. Racconta all’Osservatore Romano che dopo le 3.36 di mercoledì scorso si è ritrovato con tutti gli operatori e tante persone accorse per strada. Tutti un po’ increduli, perché «la scossa sembrava la stessa di quella distruttiva di pochi anni prima ma danni non ce n’erano». Gizzi in qualche modo cerca di spiegarselo: «Forse è stata diversa la profondità di diffusione o la reazione degli edifici». In definitiva, dopo tanta paura, «ci si è resi conto presto che le case in periferia, costruite dopo il sisma, avevano tutte retto e che tutti gli anziani ospiti del centro non avevano problemi, salvo il bisogno di un po’ di incoraggiamento». Ma Gizzi racconta che nessuno è riuscito ad andare a dormire e che, con il passare dei minuti, man mano che ci si rendeva conto che il dramma questa volta era al di fuori dell’Abruzzo, tra Lazio e Marche, in tanti hanno preso la macchina e si sono diretti verso le zone colpite, ricordando i volti di chi arrivava a portare un qualche aiuto nella notte di quel 6 aprile 2009 che ha cancellato il centro storico dell’Aquila. «Chi ha ricevuto aiuto, ora non può stare fermo», dice Gizzi.

E, nel 2009, l’aiuto per il Csa dell’Aquila è stato molto concreto. L’edificio era crollato e 50 anziani sopravvissuti sono stati accolti nell’ospedale privato di San Camillo a Sora, nel Lazio. Sono stati lì fino all’inizio del 2015, quando il centro ha riaperto all’Aquila. La struttura, che poggia su 15.000 metri quadri di terreno, conta oggi 80 stanze. Trenta saranno messe a disposizione «degli anziani terremotati, non importa da dove provengano, tra Amatrice o Accumoli, o tra Arquata e Pescara del Tronto». Si tratta di stanze che erano state appena predisposte per quello che in termini medici si chiama il servizio di «ospedale di comunità», cioè un’accoglienza per chi dal punto di vista sanitario potrebbe essere curato a casa ma logisticamente non riesce. Tutto era pronto per valutare alcuni casi, ma ora, afferma Gizzi, tutti concordano sulla priorità di accogliere alcuni dei tanti anziani sfollati, dopo il crollo delle proprie case.

La disponibilità è stata espressa ed ora, riferisce Gizzi, al centro ci si appresta a preparare le stanze, certi che qualcuno accoglierà l’offerta. Il Centro è dotato anche di una palestra, una piscina, un teatro e una cappella. Proprio oggi avrebbe dovuto essere inaugurata l’area del parcheggio, l’ultima ad essere allestita, ma «il festeggiamento non ci sarà» dice Gizzi. Tutto è rimandato «a quando tornerà un po’ di normalità».

Il caso dell’Aquila non è isolato. C’è ancora chi promette prefabbricati dal Friuli ricordando la tragedia del 1976. E, senza il tono accorato di chi ancora rivede davanti a sé le scene di distruzione, sono in tanti, da diverse regioni, a chiamare la protezione civile o i comuni per offrire un tetto. Ci sono le iniziative di singoli, come quella di due albergatori di Rimini che hanno offerto alcune delle loro stanze o di un altro che si è offerto da Salerno. E ci sono anche iniziative di categoria, come quella dell’associazione Turismo verde, che fa capo alla Confederazione italiana agricoltori: nelle prossime ore pubblicherà la lista degli agriturismi pronti ad aprire la porta.

Ci sono anche tante storie di aiuto e impegno che restano nell’ombra. Come quella di sette giovani rifugiati afghani che fanno parte di un progetto di assistenza del sistema Protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) ad Amatrice. Sono rimasti illesi ma hanno rifiutato il trasferimento in altre strutture di accoglienza e si sono impegnati, con gli altri soccorritori, in particolare per cercare due mediatrici culturali che li hanno assistiti e che ancora risultano disperse.

E ci sono le centinaia di autovetture private che portano tende e coperte. Lo conferma la Croce rossa. Un suo operatore ad Amatrice — che non vuole essere citato perché «non importano i nomi ma solo il servizio» — spiega che «la gente sa che questi posti colpiti dal sisma sono paesini ad una certa altitudine, circa 1000 metri, e che dunque, dopo il giorno assolato, la temperatura di notte scende» e ha pensato di dare coperte e tende. Poi, con un mezzo sorriso dice che «un sacco di gente arriva anche con macchine piene di generi alimentari, che servono meno perché le provviste ci sono». Ma aggiunge: «Qualunque cosa che sa di aiuto comunque fa bene al cuore di questa gente».

Osservatore romano 26 Agosto 2016

Mani tese tra le macerie

 

Insieme ai volontari preti e parroci per prestare soccorso

di Fausta Speranza

Ragazzi, tanti ragazzi che continuano a scavare. Sono arrivati dai paesi vicini ad Amatrice subito dopo la terribile scossa, in piena notte. Tanti li ha chiamati a raccolta don Fabio Cammarata, parroco di Cittareale, a pochi chilometri da Amatrice. Ci racconta subito del dramma e di questa immagine di speranza: giovani saltati giù dal loro letto, in altre aree appena interessate dal sisma, per arrivare a dare una mano. È solo uno dei sacerdoti che troviamo impegnato in prima linea a scavare.

All’Osservatore Romano don Fabio parla rubando minuti al suo impegno a rimuovere pietre e calcinacci e ad ascoltare persone che gli vanno incontro. È gentile e disponibile a raccontare, ma con l’essenzialità di chi ha a che fare con persone tra la vita e la morte. È stato sacerdote ad Amatrice e si sente, mentre parla al telefono, che qualcuno lo riconosce. Chiedono notizie di parenti, di amici e chiedono che cosa si può fare. Don Fabio cerca di indirizzare tutti nei centri di raccolta disposti dalle autorità. È l’unica cosa da fare, ci conferma, oltre a offrire le proprie braccia per strappare vite umane alle macerie. Don Fabio descrive quello che torna in tutte le cronache: «Intere zone della cittadina completamente crollate». Anche proprio là dove si doveva svolgere la sagra della pasta cucinata secondo la tradizione locale, sabato prossimo. Per questo, la città era al suo pieno stagionale, tra parenti che risiedono altrove ma tornano d’estate come affezionati villeggianti, e veri e propri turisti appassionati di arte culinaria. Il sacerdote ci dice che in faccia ai suoi giovani si legge la voglia di piangere di fronte allo scempio, ma prevale in tutti, ragazzi e ragazze, la forza di lottare contro il tempo. Le prime ore sono determinanti per salvare più vite umane possibile. Don Fabio dice che «non c’è bisogno di ricordarlo a nessuno». È il pensiero non espresso di tutti.

Sono passate già molte ore dall’arrivo in piena notte e la polvere taglia la voce. Si sente nelle parole di don Savino D’Amelio, parroco di Sant’Agostino, ad Amatrice. Anche lui corre tra un punto e l’altro della cittadina. Con affanno riferisce della preoccupazione di tutti: «Ognuna delle persone che si muove tra gli spazi ingombri delle vie, ha almeno una persona cara da piangere, perché ritrovata morta, o da piangere perché ferita o perché ancora sepolta da pietre e architravi». E don Savino riferisce che «tre delle sei suore dell’ordine delle Sorelle Ancelle, che si trovavano nella struttura dell’Opera Don Minozzi ben conosciuta in paese, sono irraggiungibili sotto le macerie». Si tratta di suore anziane ospiti per questo periodo estivo.

Ma tutti esprimono grande preoccupazione per quanto può essere successo ad Accumoli, il paese che risulta isolato ma che dall’alto si presenta devastato. Dopo ore di apprensione, dalla diocesi di Rieti si è riusciti a contattare don Cristoforo, parroco dei Santi Pietro e Paolo. Sta bene anche se provato dal disastro generale e impossibilitato a muoversi tra i vicoli intasati di detriti. Anche lui non riesce ad avere una visione d’insieme di quello che davvero è accaduto nella località dove neanche gli elicotteri riescono ad atterrare.

Le diocesi coinvolte sono due: quella di Rieti, nel Lazio, colpita al cuore ad Amatrice e ad Accumoli; e la diocesi di Ascoli Piceno, nelle Marche, terribilmente ferita nel paese di Arquata e in particolare nella frazione di Pescara del Tronto, quasi rasa al suolo. La testimonianza di don Francesco Armandi, parroco di Santa Croce a Pescara del Tronto, che si è svegliato coperto di polvere e pezzi di intonaco, si riassume nell’espressione «desolante». Gli fa eco don Alessio Cavezzi, direttore della Caritas locale, il quale assicura che quanti sono rimasti vivi stanno preparando il terreno ai soccorsi. Non è facile. Tra l’altro, tutte le utenze sono state interrotte.

Anche dalla diocesi di Ascoli Piceno sono partiti gruppi di aiuto. Uno si distingue. Si tratta di venti richiedenti asilo, quasi tutti nordafricani, che sono ospiti di una struttura nel paese di Monteprandone. Appena si sono resi conto che nella vicina cittadina di Amandola c’era bisogno di soccorsi, hanno chiesto e ottenuto di recarsi a prestare aiuto. Sono seguiti dalla protezione civile comunale. Amandola è un altro dei centri che non si citano perché i danni non sono paragonabili alle quattro comunità colpite al cuore, ma che presenta, come altri, ferite, tra gli edifici e tra la popolazione.

In generale, il direttore delle comunicazioni sociali della diocesi di Rieti, David Fabrizi, che raggiungiamo al telefono mentre cerca disperatamente di arrivare ad Accumoli, afferma che «ancora non è stata scattata la vera fotografia di quanto accaduto». Ancora «non ci può essere piena consapevolezza. Ci potrà essere solo nelle prossime ore». Fabrizi riferisce dell’apprensione di monsignor Domenico Pompili, vescovo di Rieti che, appena arrivato a Lourdes martedì, dopo pochissime ore, ha ripreso il primo volo a disposizione per essere già nel primo pomeriggio tra la gente della sua diocesi. Trovandosi in vescovado, arrivare nei centri più colpiti di Pescara del Tronto e di Arquata è quello che ha fatto monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno.

Intanto, i vescovi italiani hanno stanziato un milione di euro dei fondi dell’otto per mille. È la prima immediata risposta della Conferenza episcopale. Inoltre la Cei ha promosso una colletta nazionale per il 18 settembre. La raccolta avverrà in concomitanza del ventiseiesimo Congresso eucaristico nazionale. Coinvolgendo parrocchie, istituti religiosi e aggregazioni laicali, si vuole assicurare un contributo nell’immediato, e poi si vuole raccogliere offerte da inviare alla Caritas italiana.

Osservatore Romano 24 Agosto