Non dimenticare l’obiettivo della copertura sanitaria globale

A dieci anni dal 2030, data fissata dalle Nazioni Unite per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdgs), sembra ancora più difficile soddisfare il punto che riguarda la copertura sanitaria globale dopo la pandemia. Il numero di persone in difficoltà si è moltiplicato in modo esponenziale ed è diventato doveroso ragionare sui sistemi sanitari nel mondo, nelle aree povere dove sono carenti e nelle zone ricche dove la salute rischia di diventare una questione di potere a scapito del diritto di tutti, riconosciuto in Europa, alle cure. Con noi il presidente della European Medical Association, Vincenzo Costigliola

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Metà della popolazione mondiale può contare solo sul cinque per cento della spesa sanitaria globale, mentre appena nove dei 49 Paesi a basso reddito possono garantire ai propri cittadini servizi sanitari essenziali. Già prima della pandemia, l’Onu denunciava che nei Paesi ad alto reddito si spendeva circa 270 dollari pro-capite per la salute dei propri cittadini, in quelli più poveri non si arrivava a 20 dollari, e che milioni di persone restavano senza alcuna copertura sanitaria. Si tratta dei dati emersi all’High level Meeting sulla Copertura sanitaria universale (Universal Health Coverage) svoltosi – a livello di capi di Stato e di governo – il 23 settembre 2019, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. Ci si chiede quali saranno i dati se ci si riunirà a settembre prossimo, esattamente a dieci anni dal fatidico 2030, indicato per il raggiungimento dei cosiddetti Obiettivi del Millennio.

La road map indicata prima del Covid-19

Mentre le Nazioni Unite chiedevano ai governi di investire adeguatamente sui servizi sanitari, è arrivata la pandemia a mettere drammaticamente il tema al centro del dibattito. L’emergenza non è ancora finita ma è importante non dimenticare il Global action plan, il documento presentato circa un anno fa che andava oltre l’analisi per proporre un piano di azione davvero globale, che implicava il coinvolgimento di tutte le agenzie specializzate dell’Onu, per una copertura sanitaria globale. A ottobre 2018, su impulso dei governi di Germania, Norvegia e Ghana, 12 delle principali agenzie specializzate delle Nazioni Unite, inclusa l’Oms, la Banca mondiale e l’Unicef, avevano concordato una road map per massimizzare le convergenze e favorire l’efficienza degli interventi.

Sette le questioni su cui accelerare

Riconoscendo la grande distanza da colmare per raggiungere l’ambizioso Obiettivo di sviluppo (Sdg3) sulla salute, queste organizzazioni avevano identificato sette principali tematiche su cui “accelerare”. Non è un caso che nella terminologia di lavoro inglese siano definite proprio “accelerators”. Le sette tematiche in questione coprono macroaeree, come il sistema di finanziamento per la salute, o argomenti più tecnici, come la ricerca per favorire l’innovazione e la produzione di nuovi farmaci. Hanno come filo rosso la necessità di semplificare la macchina burocratica internazionale per essere più rapidi e attrezzati a supportare i governi e la popolazione.

Dopo lo tsunami della pandemia

La pandemia ha aggravato la situazione e ha anche messo in luce l’urgenza di intervenire su diversi livelli. L’efficacia del piano, dopo il drammatico impatto dell’infezione da Covid-19 e delle conseguenze economiche, andrà di pari passo con una rinnovata volontà politica, non solo delle Agenzie, ma di tutta la comunità internazionale, di cambiare finalmente il sistema. Intanto, la pandemia ha messo in luce le discrepanze anche tra sistemi sanitari diversi nell’ambito dell’Occidente più ricco, mentre la salute dovrebbe essere un bene di tutti, come sottolinea ai nostri microfoni Vincenzo Costigliola, presidente dell’Associazione Medici Europei:

Nella stessa Unione europea non c’è un sistema sanitario europeo, ma tanti diversi, sottolinea Costigliola spiegando che ognuno fa riferimento a impostazioni differenti. Sostanzialmente una differenza sta nel presupporre che tutti in assoluto debbano essere curati o preoccuparsi di assicurare le cure mediche ai lavoratori o ad altre categorie di cittadini. Nel frattempo, mentre i Paesi dell’est cercavano di uniformarsi allo standard minimo europeo  – spiega – si sono fatte strade ovunque le assicurazioni mediche, sullo stile di un’impostazione statunitense. La pandemia certamente ha risvegliato l’attenzione al tema e, secondo Costigliola, nel Vecchio continente si deve tornare a immaginare un sistema europeo unico. Il presidente dell’Associazione di medici europei ribadisce, infatti, che serve una regia unica europea e che questo è stato evidente quando i vari Paesi hanno dovuto dare una risposta all’infezione e lo hanno fatto in ordine sparso perché non c’era l’uniformità che permettesse una risposta unitaria. Nell’immediato, in particolare, una risposta unitaria sarebbe stata invece fondamentale, sostiene. Castigliola poi afferma che in ogni caso in Europa c’è un presupposto per tutti: il diritto alla salute di ogni persona. Cita il contesto degli Stati Uniti dove invece una qualche assicurazione è necessaria per chiedere di essere curati. E raccomanda che il mondo guardi al modello europeo. Con tutti i limiti che ci sono e con le differenze tra Stati dell’Ue, Costigliola sottolinea che in Europa la salute non è fondamentalmente un business ma un servizio alla persona. E questo non deve cambiare. Anzi dovrebbe essere il modello per tutte le regioni del mondo.

Al centro la salute e la persona

A proposito dell’obiettivo di copertura sanitaria comune, Costigliola, tra l’altro, sottolinea che la pandemia ha reso evidente che purtroppo le strutture non sono sufficienti ovunque. E ribadisce che la comunità internazionale deve impegnarsi sempre di più per raggiungere l’obiettivo della copertura sanitaria globale e deve farlo cercando di svincolare il più possibile la logica del diritto alle cure dalle dinamiche politiche tra Stati. Per esempio, a partire dalla partecipazione all’interno dell’Oms o di altre organizzazioni internazionali. Il criterio dominante dovrebbe essere la difesa del diritto di ognuno ad essere curato e il dibattito dovrebbe essere aperto a tutti. Inoltre, Costigliola afferma che nessuna logica politica dovrebbe prevalere sul diritto alla salute. La cura delle persone è quello per cui giurano i medici, ricorda Costigliola che raccomanda che la salute “non cada in pasto ai politici”, non sia vittima della logica che fa della questione della salute una questione di potere.  Castigliola, da medico, chiede che si permetta ai medici e ai sanitari di mettere la persona e la salute sempre al centro.

da Vatican NEWS del 7 luglio 2020

Ue: urgenza dell’accordo sul Recovery Fund

Il cancelliere tedesco, signora Angela Merkel, torna a sollecitare un negoziato veloce in Europa sui provvedimenti economici per far fronte alla crisi determinata dalla pandemia, riassunti nel cosiddetto Recovery fund. Dopo la conferenza stampa, ieri, con Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ribadisce oggi che “la strada è dissestata e servirà molta disponibilità al compromesso”, in vista del Consiglio Europeo del 17 luglio prossimo. Con noi lo studioso Giorgio Banchieri

Fausta Speranza

“Deve esserci comunque per questa estate un accordo, non so immaginare un’altra variante”: con queste parole il cancelliere tedesco, Angela Merkel, nel corso della sua prima conferenza stampa nella veste di presidente di turno dell’Ue, ha ribadito ieri la determinazione a “raggiungere un accordo rapido e ambizioso sul piano di rilancio europeo”, parlando di “massima priorità dell’Ue per le prossime settimane”.  Le ha fatto eco il presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen.

La proposta del Consiglio Europeo

Charles Michel, il presidente del Consiglio Europeo, dopo il suo primo giro di consultazioni con un colloquio con il presidente francese, Emmanuel Macron, ha fatto sapere che nella seconda metà della prossima settimana  presenterà il cosiddetto negobox, cioè una proposta in cui, secondo indiscrezioni di stampa, confermerà lo stanziamento di 750 miliardi proposto dalla Commissione per il piano NextgenerationEu (il Recovery fund) e ridurrà di qualche decina di miliardi, rispetto ai 1.094 dello scorso febbraio, la dotazione del bilancio pluriennale 2021-2027 (tecnicamente chiamato Quadro finanziario pluriennale, Qfp). Quest’ultima mossa vorrebbe dare soddisfazione al gruppo dei cosiddetti Paesi “frugali” (Olanda, Austria, Danimarca e Svezia). Così come in favore dei quattro più forti oppositori dei trasferimenti a fondo perduto gioca l’idea di confermare loro i rebates, cioè gli sconti sul bilancio Ue. Novità dovrebbero arrivare  anche sul fronte dei criteri di allocazione dei fondi europei previsti per sostenere la ripresa. L’idea è quella di dividere il totale in due tranche. Per la ripartizione della prima, pari al 70 % del totale, saranno presi come riferimento il Pil e il tasso di disoccupazione degli ultimi anni passati. Per la seconda, nel 2022 si prenderanno come riferimento i dati del 2020 e 2021, numeri che – spiegano gli addetti ai lavori – certificheranno non solo l’impatto dell’emergenza Covid-19, ma anche quello della Brexit. Resta tra le altre un’incognita a proposito di un’intesa sulle quote di fondi destinati ai prestiti e ai trasferimenti, ora pari rispettivamente a 250 e 500 miliardi di euro. Un argomento che sembra tra i più ostici per il primo ministro olandese, Mark Rutte.

L’impegno della Commissione e Europarlamento

La Presidente von der Leyen ha deciso di attivare l’art.324 del Trattato, che prevede di convocare, su iniziativa della Commissione, incontri tra i presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione nell’ambito delle procedure di bilancio. Nel frattempo la Conferenza dei presidenti dei gruppi politici è chiamata a negoziare i termini per un accordo ambizioso. L’obiettivo è proprio quello di stabilire il punto di vista di Commissione ed Europarlamento prima della riunione del Consiglio Europeo del 17/18 luglio. Questo consentirà ai capi di Stato e di Governo di avere chiare le condizioni irrinunciabili del Parlamento per poter esprimere un voto favorevole”.  In definitiva, nei prossimi giorni, l’attività negoziale e diplomatica, finalizzata al raggiungimento di un’intesa, deve registrare un’ulteriore accelerazione. Degli obiettivi, delle prospettive di accordo e compromesso abbiamo parlato con Giorgio Banchieri, docente di Scienze Sociali e di Economia all’Università Luiss:

Lo studioso Banchieri, che innazitutto spiega i due piani di discussione – il Recovery Fund e il Bilancio – afferma che il margine di compromesso tra Paesi del Sud Europa, con l’Italia in prima linea, e i Paesi del Nord, in primis l’Olanda, c’è. L’importante, a suo avviso, è che l’Italia in particolare possa accogliere le richieste che arrivano per colmare alcune lacune strutturali, come i problemi della burocrazia e le lungaggini della giustizia, che rendono difficile agli investitori credere che le risorse fornite possano servire a rilanciare il Paese.

da Vatican NEWS del 3 luglio 2020

Il tramonto del nucleare inizia dalla Francia

di Fausta Speranza

Mentre in Francia i Verdi assaporano il trionfo alle municipali, segnato dal secondo turno tenutosi domenica scorsa, chiude la centrale simbolo del nucleare in Francia e si discute sui rischi dell’impianto attualmente più importante d’Europa, con sede sempre in territorio francese a Gravelines. Si tratta dell’inizio di una nuova era, e non solo politica, ma a ben guardare il declino del nucleare è segnato più da motivi economici che da ragioni ecologiste, come ci spiega nella nostra intervista Romolo Infusino, già ricercatore dell’Enea e attuale membro del direttivo scientifico dell’associazione Ambientevivo, sottolineando che è tempo di nuove scommesse. Resta la sfida delle sfide indicata da Papa Francesco: una tecnologia a dimensione umana.

Il successo senza precedenti dei leader ecologisti segna un cambio di sensibilità, che bisognerà valutare quanto legato all’allarme pandemia. In ogni caso, la percezione dell’urgenza di ripensare il rapporto tra uomo e natura, come invocato cinque anni fa dall’enciclica di Papa Francesco Laudato si’, sembra farsi strada un po’ ovunque.

Proprio due giorni dopo il voto, con una di quelle combinazioni che la storia regala — le municipali infatti si sarebbero svolte ad aprile se non ci fosse stato il lockdown — la Francia assiste alla seconda operazione, dopo quella di febbraio, destinata a chiudere l’impianto per la produzione di energia nucleare più emblematico del Paese: la struttura di Fessenheim, in Alsazia, con due reattori Pwr da 880 Mw ognuno, i due più vecchi finora funzionanti nel Paese. E solo pochi giorni fa è arrivato l’avvertimento per l’impianto in piena funzione di Gravelines, nella regione di Hauts-de-France. È stata definita «a rischio esplosioni di origini esterne». È stata l’autorità francese di sicurezza nucleare (Asn) ad avvertire la Edf Energy, che gestisce l’impianto, del fatto che un potenziale incendio al vicino terminal del gas di Dunkerque, o su una nave che trasporti gas in mare nelle vicinanze, potrebbe compromettere i meccanismi di raffreddamento della centrale nucleare, portare al suo surriscaldamento e scatenare un disastro. Il richiamo è a proteggere meglio i reattori che devono essere resi «in grado di far fronte a un’esplosione esterna ad alta intensità». Un avvertimento del genere era già stato fatto nel 2015. Ci si chiede come si esprimeranno i candidati ecologisti che hanno conquistato grandi città come Lione, Bordeaux e Strasburgo, ma hanno vinto di fatto anche a Parigi e Marsiglia, seppure in modo indiretto imponendosi in accordi di governo.

In ogni caso, sembra proprio si debba parlare di tramonto del nucleare, che ha fatto la storia dell’energia in parte del dopoguerra. Dopo la crisi di Hiroshima, sono state avviate le centrali per produrre energia elettrica in primis negli Stati Uniti, poi la Francia ha sviluppato un sistema energetico — anche perché funzionale al relativo progetto militare — basato proprio sul nucleare che ha prodotto una grande quantità di energia. Il punto è che l’investimento ha presentato il suo conto. Si è partiti infatti dall’ipotesi che l’energia nucleare fosse più economica rispetto all’energia da combustibili fossili. Lo era se non si prendeva in considerazione il decommissioning, lo smantellamento, la chiusura del ciclo nucleare, che — ricorda Infusino — ha dei costi esorbitanti. Per cui il messaggio del ricercatore è chiaro: «L’energia nucleare va in pensione, oltre che per motivi di sicurezza, soprattutto perché non è più vantaggiosa dal punto di vista economico». Chiude il suo ciclo sulla base della valenza, della convenienza e dell’economicità.

A Infusino abbiamo chiesto in che modo questa sorta di evento-spartiacque del covid-19 abbia riportato l’attenzione sull’ambiente. Ricorda che sembra accertato che il coronavirus sia stato scatenato dal cattivo utilizzo di risorse alimentari di origine animale selvatica e sottolinea, quindi, che «l’attenzione all’ambiente è fondamentale per la salvaguardia della salute mondiale». Considerando che le realtà sono interconnesse, non si può dimenticare che qualsiasi pandemia in qualsiasi parte del mondo si diffonde ormai a una velocità inimmaginabile rispetto alle pandemie storiche che ci sono state.

E dunque Infusino focalizza la sfida centrale: «Il problema che si pone adesso è ripartire dal punto di vista economico, ridisegnare un nuovo progetto economico a livello nazionale e anche mondiale, basato sulla sostenibilità. Il covid-19 è un acceleratore di questo processo di cambiamento del sistema energetico e anche del sistema di produrre». Lo sguardo è di speranza: «Ritengo che d’ora in poi in qualsiasi organizzazione industriale, in qualsiasi rilancio di progetto industriale, venga fatta una valutazione su base delle sostenibilità, l’unica base che può dare un futuro al pianeta e anche al sistema produttivo industriale perché l’impatto non sia letale».

In definitiva, Infusino esprime una consapevolezza: «Il covid-19 è uno spartiacque. È stato una sciagura per l’umanità, ma è un momento di riflessione per ripensare una nuova umanità più rispettosa dell’ambiente, che possa progettare i suoi servizi — perché di servizi ne ha bisogno — nell’ambito di una convivenza con gli equilibri naturali anche sulla base di quanto il Santo Padre ha detto nella sua Enciclica Laudato si’, con la sua tanta attenzione sull’ambiente come rilancio di una nuova umanità».

Se l’orizzonte deve essere umanistico, la ricerca deve essere più concreta che mai. Infusino ci chiarisce le attuali potenzialità: «Le nuove tecnologie ci permettono orizzonti soft. Ciò che era pesante non ha più ragione di esistere. Le tecnologie informatiche faranno una rivoluzione su altre tecnologie soft, leggere, praticamente immateriali». E poi il già ricercatore dell’Enea indica una via precisa da imboccare: «Dal punto di vista energetico ritengo che vada valorizzato il progetto idrogeno, che vuol dire produrre energia senza inquinare l’ambiente. Ci sono progetti di ricerca per la produzione di idrogeno da fonti fotovoltaiche o da fonti rinnovabili ed è prevista la sua utilizzazione nel ciclo energetico, per uso industriale e nella mobilità». Si parla di auto elettrica e Infusino assicura: «Sta facendo progressi inimmaginabili prima. Ritengo che l’auto a idrogeno possa avere un futuro molto interessante per una mobilità a dimensione umana».

L’apertura alla tecnologia è confermata dalla stessa Laudato si’, in cui però Papa Francesco riprende il tema fondamentale della capacità della tecnologia di modificare la nostra percezione della realtà e il nostro rapporto con le persone e con la conoscenza. Il Papa avverte che all’origine di molte difficoltà c’è il fatto che il mondo occidentale utilizza il pensiero tecnico-scientifico come «paradigma di comprensione» per spiegare «tutta la realtà, umana e sociale». Spiega che «la specializzazione propria della tecnologia implica una notevole difficoltà ad avere uno sguardo d’insieme» e sebbene consenta di ottenere applicazioni concrete, «spesso conduce a perdere il senso della totalità, delle relazioni che esistono tra le cose». Non manca l’indicazione della via da percorrere pensando o ripensando qualunque tecnologia: «Ciascuna specializzazione — chiarisce Papa Francesco — dovrebbe tener conto di tutto ciò che la conoscenza ha prodotto nelle altre aree del sapere», riconoscendo anche gli «orizzonti etici di riferimento», senza i quali «la vita diventa un abbandonarsi alle circostanze condizionate dalla tecnica, intesa come la principale risorsa per interpretare l’esistenza».

da L’Osservatore Romano del 30 giugno 2020

Chiude la centrale simbolo del nucleare in Francia

E’ prevista per oggi la seconda operazione destinata a chiudere l’impianto per la produzione di energia nucleare più vecchio della Francia. Si tratta della struttura di Fessenheim, nel dipartimento dell’Alto Reno. Un’occasione in più per riflettere sulle risorse energetiche e sul rapporto tra uomo e natura. Con noi il ricercatore Romolo Infusino

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A confermare la decisione è stata la compagnia elettrica Edf, che ha in gestione l’impianto, ricordando che la chiusura del primo reattore è avvenuta il 22 febbraio 2020. Una centrale situata presso la città di Fessenheim, in Alsazia, con due reattori PWR da 880 MW ognuno, che sono i due più vecchi finora funzionanti in Francia. La centrale è sorta presso una centrale idroelettrica fluviale, questo le ha consentito di non dover utilizzare torri di refrigerazione in caso di basso apporto di acqua dal bacino. Ma le considerazioni che hanno portato in particolare alla chiusura di questo impianto, ormai vecchio, sono l’occasione per altre considerazioni in un momento in cui diventa sempre più urgente un ripensamento serio del rapporto tra uomo e natura, come chiesto dalla Laudato si’ di Papa Francesco, pubblicata cinque anni fa, e come drammaticamente evidenziato dall’emergenza sanitaria causata dalla pandemia di Covid-19. Ne abbiamo parlato con Romolo Infusino, già ricercatore dell’Enea e membro del consiglio scientifico di Ambientevivo:

R. – Dal mio punto di vista è l’avvio verso una nuova epoca e il tramonto del nucleare. Il nucleare ha fatto la storia dell’energia in parte del Dopoguerra. Dopo la crisi di Hiroshima, sono state avviate le centrali per produrre energia elettrica in primis negli Stati Uniti. Poi la Francia ha sviluppato un sistema energetico basato sul nucleare, anche perché funzionale al progetto nucleare-militare francese, che ha prodotto una grande quantità di energia. Questa energia, comunque, ha presentato il suo conto. Si è partito dall’ipotesi che l’energia nucleare fosse più economica rispetto all’energia da combustibili fossili; questo non era del tutto vero, nel senso che non si prendevano in considerazione i costi del decommissioning, dello smantellamento, della chiusura del ciclo nucleare, che ha dei costi esorbitanti. Per cui l’energia nucleare va in pensione, oltre che per motivi di sicurezza, soprattutto perché non è più vantaggiosa dal punto di vista economico. Quindi la tecnologia chiude il suo ciclo sulla base della valenza, della convenienza e dell’economicità. Le fonti rinnovabili si stanno facendo strada, c’è una grande speranza per il futuro. Sono convinto che nel futuro si possa fare a meno dell’energia nucleare, soprattutto perché non conviene più economicamente.

In che modo questa sorta di evento spartiacque del Covid-19 ha riportato l’attenzione sull’ambiente, sul rapporto tra uomo e ambiente e sul nucleare in particolare?

R. – Il rapporto fra uomo e ambiente è fondamentale. Sembra accertato che il coronavirus sia stato scatenato dal cattivo utilizzo di risorse alimentari di origine animale selvatica. Quindi l’attenzione all’ambiente è fondamentale per la salvaguardia della salute mondiale. Considerando che le realtà sono interconnesse, non si può dimenticare che qualsiasi pandemia in qualsiasi parte del mondo si diffonde ormai a una velocità inimmaginabile rispetto alle pandemie storiche che ci sono state. Il problema che si pone adesso è ripartire dal punto di vita economico, ridisegnare un nuovo progetto economico a livello nazionale e anche mondiale, basato sulla sostenibilità. Quindi il Covid-19 è un acceleratore di questo processo di cambiamento del sistema energetico e anche del sistema di produzione. Ritengo che d’ora in poi in qualsiasi organizzazione industriale, in qualsiasi rilancio di progetto industriale, venga fatta una valutazione su base delle sostenibilità, l’unica base che può dare un futuro al pianeta e anche al sistema produttivo industriale perché l’impatto non sia letale. Il Covid è uno spartiacque. È stato una sciagura per l’umanità, ma è un momento di riflessione per ripensare una nuova umanità più rispettosa dell’ambiente, che possa progettare i suoi servizi – perché di servizi ne ha bisogno – nell’ambito di una convivenza con gli equilibri naturali anche sulla base di quanto il Santo Padre ha detto nella sua enciclica Laudato sì, con la sua tanta attenzione sull’ambiente come rilancio di una nuova umanità.

Dottor Infusino, lei vede in questo momento una ricerca, in senso globale nel mondo e in particolare in Europa, attenta, basata sulla consapevolezza che vada recuperato un equilibrio uomo-natura diverso?

R. – Le nuove tecnologie ci permettono orizzonti soft. Ciò che era pesante non ha più ragione di esistere. Intanto le tecnologie informatiche faranno una rivoluzione su altre tecnologie soft, leggere, praticamente immateriali. Dal punto di vista energetico ritengo che vada valorizzato il progetto “idrogeno”, che vuol dire produrre energia senza inquinare l’ambiente. Ci sono progetti di ricerca per la produzione di idrogeno da fonti fotovoltaiche o da fonti rinnovabili ed è prevista la sua utilizzazione poi nel ciclo energetico, per uso industriale e nella mobilità. L’auto elettrica sta facendo progressi inimmaginabili prima. Ritengo che l’auto a idrogeno possa avere un futuro molto interessante per una mobilità a dimensione umana, per esempio.

da Vatican NEWS del 30 giugno 2020

Il valore della relazione madre-bambino da difendere

“Finché non sorsi come madre”: questa espressione, tratta dal Libro dei Giudici, è il titolo scelto dalla collega Debora Donnini per il suo volume, edizione Chirico-Cantagalli, che propone un viaggio dalle origini del pensiero cristiano ai testi degli ultimi Papi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In modo giornalistico, preciso nelle citazioni della Bibbia e dei testi di San Giovanni Paolo II e di Papa Francesco in tema di donne e madri, il libro di Debora Donnini propone un percorso di tipo culturale e spirituale che lascia emergere la specificità del pensiero delle madri e che chiede alla società di ascoltarlo. Di come sia nata l’esigenza di scriverlo, delle tante sollecitazioni proposte, abbiamo parlato con l’autrice, che fa parte della nostra redazione di Vatican News:

R. – Ho respirato a un certo punto, nel  2018,  un  attacco  alla madre  trasversale e su  piani  differenti. Questo  mi  ha  preoccupato e mi sono chiesta dapprima “perché”, poi ho voluto confrontarmi con il magistero, con  il  pensiero  cristiano. Dunque ho intrapreso  un  “viaggio”  alle  radici  del  pensiero  cristiano che nella sua  fecondità ha  portato  nei secoli, in modi diversi, a concepire la  tutela  di donne e bambini. Ho riletto il  pensiero dei  Papi con quella ricchezza e quella difesa netta della maternità che ritenevo assimilata, ma forse non ancora sufficientemente.

Dalla lettura del libro emerge  la consapevolezza che il  pensiero  della  madre  può  dare  un  contributo  essenziale  allo  sviluppo  sociale. In che modo?

R. – La  nostra  società  è  fatta  di nuclei e il primo nucleo è la famiglia che è quello che permette di allevare i  bambini e sostenere gli anziani. E le madri sono coloro che,  più di ogni altra  persona, si devono  necessariamente abituare a un pensiero sistemico, devono esercitarlo per far funzionare queste relazioni. Penso al  mettere insieme il lavoro  e la crescita  dei  figli,  e  così via. Svolgono un ruolo centrale nel welfare,  che forse è troppo poco riconosciuto. Si ritrovano non sostenute, spesso lacerate in qualche modo, fra le esigenze della famiglia e quelle del  lavoro. Ecco  penso  che  in un  mondo  complesso  come  il  nostro,  anche con le nuove sfide che ha portato ad esempio la pandemia, sia importante sentire, ascoltare, prendere  in  seria considerazione quello che chiamo “il  pensiero  della  madre”. Faccio un esempio concreto: la  questione  del lavoro a casa durante il  lockdown non è un problema da poco con le scuole chiuse. In questo senso ascoltare  le  madri aiuterebbe ad affrontare i nodi e le sfide che ci  troviamo davanti. Affinché il mondo sia più  fecondo  e perché  non  siamo  monadi.  Poi ovviamente c’è la questione dell’apporto delle donne sulla tenerezza e la pace – come  ricorda  spesso  Papa  Francesco  – e sull’amore  viscerale  che  richiama anche la  fonte  della  misericordia di cui parla don Francesco Giosuè Voltaggio nella postfazione del libro.

Tutto questo  lancia  un  messaggio  potente  alla  politica  perché  si  occupi   di  ascoltare  di  più  la  voce  delle  madri. Però il tuo libro va oltre…

R. –  Sottolineo che non è un  libro “politico”. Voglio  fare un  discorso  culturale. Mi  piacerebbe che i cristiani e non solo,  potessero leggere questo libro per comprendere più profondamente quello che appunto proprio  Papa Francesco e San Giovanni Paolo II suggeriscono in tema di  tutela  delle  madri e delle donne. Faccio  un  esempio ricordando quello  che  Papa  Francesco  ha  detto  in  una  catechesi  dell’udienza generale del  2015  dedicata  proprio  alla  madre:  “La madre, però, pur essendo molto esaltata dal punto di vista simbolico, – tante poesie, tante cose belle che si dicono poeticamente della madre – viene poco ascoltata e poco aiutata nella vita quotidiana, poco considerata nel suo ruolo centrale nella società. Anzi, spesso si approfitta della disponibilità delle madri a sacrificarsi per i figli per ‘risparmiare’ sulle spese sociali”. Questa riflessione è interessante,  bisogna  partire   da  qui. Dice  anche  che bisognerebbe comprendere di più la lotta quotidiana per essere  efficienti al lavoro e affettuose in  famiglia. Credo che queste parole di Papa Francesco siano molto importanti e che debbano, però, essere  assimilate  di  più,  a  360 gradi. Penso che i giovani dovrebbero conoscerle e rileggerle, così come un po’ tutto il magistero in materia.

Puoi dirci qualcosa del titolo del libro?

R. – “Finché non sorsi come madre” è  una  frase  di Debora nel Libro dei Giudici,  una figura del Vecchio Testamento  molto  interessante. Era una donna giudice già secoli prima di Cristo  e questo la dice lunga sulla profondità di un pensiero che nasce già con il popolo di  Israele e viene espresso con Gesù Cristo con  una  chiarezza  estrema. Se da allora guardo ad oggi, mi colpisce molto anche la  questione  della  violenza  sulle  donne e,  seguendo  l’attività di Papa Francesco, ho  percepito tutta la sua preoccupazione e il suo dolore nel  vedere la donna  attaccata in modo tanto  brutale. Nell’omelia del primo gennaio 2020 ha detto che “ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna”. E se ci confrontiamo con la triste  attualità siamo portati a riflettere su questo. Credo che dobbiamo ritrovare un pensiero e un agire nuovi, per fare qualcosa concretamente. Francesco ha anche  sottolineato che da come trattiamo il corpo della donna si comprende il nostro livello di umanità. Ed è tanto più grave la violenza se ad assistere ci sono bambini. Quanto male può fare loro! Ecco, mi ha colpito tanto tornare anche alla Mulieris  Dignitatem di San Giovanni Paolo II,  proprio sul tema della relazione madre-bambino che  vedo  minacciata. Come dicevo, il libro nasce proprio da  questa sensazione di minaccia che c’è.

San Giovanni Paolo II sottolinea poi il ruolo fondamentale della madre. E scrive: “Si ritiene comunemente che la donna più dell’uomo sia capace di attenzione verso la persona concreta e che la maternità sviluppi ancora di più questa disposizione. L’uomo – sia pure con tutta la sua partecipazione all’essere genitore – si trova sempre «all’esterno» del processo della gravidanza e della nascita del bambino, e deve per tanti aspetti imparare dalla madre la sua propria «paternità». Questo – si può dire – fa parte del normale dinamismo umano dell’essere genitori, anche quando si tratta delle tappe successive alla nascita del bambino, specialmente nel primo periodo. L’educazione del figlio, globalmente intesa, dovrebbe contenere in sé il duplice contributo dei genitori: il contributo materno e paterno. Tuttavia, quello materno è decisivo per le basi di una nuova personalità umana”. Anche io lo credo e specialmente per quanto riguarda i bambini piccoli, il primo sviluppo. Ovviamente questo non vuol dire che la figura del padre non resti fondamentale. Ritengo che, proprio a  partire  anche da  questa  riflessione,  le  donne oggi vadano sostenute. Aggiungo che senza le madri non c’è  futuro per l’umanità. Se ad esempio guardiamo all’Italia, il numero medio di figli per donna è di 1,29 nel 2019. In questo modo non può esserci nemmeno sostenibilità delle pensioni, se parliamo di dati anche solo strettamente economici. E poi al di là dei numeri, anche in un’ottica di ecologia integrale, va recuperata la  cura  per il rapporto madre-bambino.  E’ ancora Papa Francesco a dire che “una società senza madri sarebbe una società disumana”.

da Vatican NEWS del 27 giugno 2020

Preghiera per la pace in Corea a 70 anni dallo scoppio della guerra

Dal Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) l’invito a pregare per una vera pace nella Penisola coreana. Si tratta di un messaggio diffuso in occasione del settantesimo anniversario dell’inizio della guerra di Corea. E’ stato diramato nel corso di un evento online, ieri, sugli impegni ecumenici per la pace in Corea, promosso dai consigli di Chiese di tutto il mondo.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Guarigione” e “futuro comune” sono le parole chiave del messaggio per la Penisola, sottoscritto dalle Chiese di Corea, America, Canada, Australia, Europa, Asia, Africa. La guerra di Corea viene ricordata come un “terribile conflitto distruttivo”, dopo il quale non è mai stato firmato alcun trattato di pace. L’appello è chiaro: “Sette decenni dopo, è tempo di riconoscerne la fine”.  Nel frattempo, sono sorte nuove sfide per la pace e la stabilità nella regione. La convinzione che emerge dal comunicato è che “questi processi non saranno facilitati finché resterà aperto quel conflitto vecchio di 70 anni”.

Occasioni particolari di preghiera

Per tutto il 2020, il Consiglio ecumenico delle Chiese e il Consiglio nazionale delle Chiese in Corea osservano una Campagna di preghiera globale. Tutte le Chiese e tutti i cristiani sono invitati a pregare per una fine formale della guerra di Corea, attraverso la sostituzione dell’accordo di armistizio del 1953 con un vero e proprio trattato di pace.

A Seoul

Si sono celebrate oggi messe in tutta la Corea del Sud.   Nell’arcidiocesi di Seoul, la più grande con 1,52 milioni di fedeli,  nella cattedrale di Myeongdong,  il cardinale Andrew Yeom Soo-jung, arcivescovo di Seoul, ha detto che “sebbene raggiungere la vera pace che tutti desideriamo sia una cosa molto difficile, non è assolutamente impossibile”.  Il vescovo Lee Ki-heon, capo del Comitato per la riconciliazione del popolo coreano della Conferenza episcopale coreana, ha rilasciato una dichiarazione in cui chiede al governo della Corea del Sud di trovare modi per compiere passi in avanti nelle relazioni intercoreane.  “Ma prima di ogni cosa – ha detto il presule – occorre adottare un trattato di pace e ciò può essere stabilito solo con una dichiarazione di fine guerra”.

Prospettive concrete dalla Dichiarazione di Pyongyang

Il messaggio ricorda l’importanza di rispettare la sospensione e la cancellazione di esercitazioni militari e poi chiede che si realizzino gli intenti di tutti gli accordi che hanno dato importanti speranze di progresso verso la pace nella penisola coreana.  E poi nella preghiera è forte l’intenzione “per la realizzazione di una Penisola coreana e di un mondo completamente liberi dalle minacce nucleari”. In particolare il 2018 è stato un anno  promettente:  ad aprile c’è stata la dichiarazione di Panmunjom, seguita a settembre dalla Dichiarazione congiunta di Pyongyang. Il Presidente della Commissione Affari di Stato della Repubblica Popolare Democratica di Corea Kim Jong Un e il Presidente della Repubblica di Corea Mun Jae In, infatti, hanno tenuto un vertice nella capitale della Corea del Nord dal 18 al 20 settembre 2018. Dopo la storica Dichiarazione di Panmunjom, sono stati registrati  passi in avanti sulla via del dialogo, negoziati tra le autorità del nord e del sud, scambi e cooperazione multilaterali tramite Ong e misure per la distensione militare. Nella Dichiarazione si legge che “il nord e il sud si sono impegnati a dirigere il termine delle ostilità militari nell’area dello scontro, ivi inclusa la Zona Demilitarizzata, fino alla rimozione fondamentale di ogni sostanziale pericolo di guerra e di ostilità nell’intera penisola coreana”. Il nord e il sud hanno condiviso il programma di rendere la penisola coreana una zona di pace libera dalle armi nucleari e dalla minaccia nucleare e di assicurare una necessaria avanzata pratica a tale scopo. La parte nord ha concordato di chiudere permanentemente la piattaforma di test di motori e missili di Tongchang-ri, con la partecipazione di esperti dei relativi Paesi, come prima cosa.

Il conflitto

La guerra scoppiò nel 1950 a causa dell’invasione della Corea del Sud, stretta alleata degli Stati Uniti, da parte dell’esercito della Corea del Nord comunista. Per tutta risposta, su mandato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, gli Stati Uniti, affiancati da altri 17 Paesi, intervennero militarmente nella penisola per impedire una rapida vittoria delle forze comuniste. Dopo grandi difficoltà iniziali, le forze statunitensi, comandate dal generale Douglas MacArthur, respinsero l’invasione e proseguirono l’avanzata fino a invadere gran parte della Corea del Nord. A questo punto, però, intervennero nel conflitto anche le forze di altri Paesi e le truppe statunitensi furono costrette a ripiegare in Corea del Sud. La guerra, quindi, si arrestò sulla linea del 38esimo parallelo dove continuò con battaglie di posizione e sanguinose perdite per altri due anni fino all’armistizio di Panmunjom, che confermò la divisione della Corea senza stabilire un vero e proprio accordo di pace. Durante il conflitto coreano la guerra fredda raggiunse uno dei suoi momenti più critici.

da Vatican NEWS del 25 giugno 2020

La Serbia verso l’Unione europea:nuovi passi dopo il voto

Nel nuovo parlamento unicamerale serbo, uscito dalle elezioni di domenica 22 giugno, il Partito del progresso serbo (Sns, conservatore) del presidente Aleksandar Vučić, trionfatore del voto con oltre il 63,4 per cento dei consensi, avrà la maggioranza assoluta. Si parla del leader più a favore dell’avvicinamento all’Ue. Con noi lo storico Daniele De Luca

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Subito dopo l’annuncio dei risultati entusiasmanti per il suo partito, il presidente Vučić ha detto che per la formazione del nuovo governo si consulterà e parlerà con un ampio spettro di forze politiche, senza alcuna arroganza o volontà discriminatoria e nell’intento di arrivare a un largo consenso, scegliendo le personalità migliori e più valide. Il ministro degli Esteri e leader del Partito socialista Ivica Dačić dal canto suo, dicendosi soddisfatto del risultato, ha annunciato la volontà di proseguire nella collaborazione con l’Sns di Vučić.

L’equilibrio politico in Parlamento

All’indomani del voto, stando alle elaborazioni effettuate dagli istituti Ipsos e Cesid, l’Sns disporrà verosimilmente di 189 seggi sul totale di 250; al Partito socialista (Sps) di Dačić , che ha ottenuto poco più del 10 per cento, andranno 32 seggi; mentre ne otterrà 12 il movimento Spas dell’ex pallanuotista Aleksandar Šapić , al quale è andato circa il 4 per cento, poco al di sopra della soglia di sbarramento del 3 per cento. Entrano in parlamento anche quattro liste in rappresentanza delle minoranze, l’Alleanza degli ungheresi di Vojvodina con nove seggi, la lista di Muamer Zukorlić con 3, l’Alternativa democratica albanese con 3 e l’Sda del Sangiaccato di Sulejman Ugljanin con 2.

Le tappe dell’avvicinamento all’Ue

La Serbia ha firmato l’accordo di stabilizzazione e associazione (Asa) con l’Unione europea a Lussemburgo il 29 aprile 2008; i negoziati per l’Asa erano iniziati il 10 ottobre 2005, quando era ancora confederata con il Montenegro, e l’accordo è entrato in vigore il primo settembre 2013. Belgrado ha presentato domanda di adesione all’Ue il 22 dicembre 2009. I negoziati per l’adesione vera e propria sono iniziati il 21 gennaio 2014. I vari dossier procedono. Tra gli ambiti in cui Belgrado è chiamata da Bruxelles a significative riforme c’è quello dei diritti fondamentali, quello della giustizia, libertà, sicurezza, e la distanza è notevole in tema di ambiente. E c’è la questione dei rapporti tra Serbia e Kosovo che l’Ue chiede sia risolta prima di qualunque passo di adesione.

Nuove prospettive nei rapporti tra Belgrado e Pristina

In Kosovo, dove il nuovo governo guidato da Avdullah Hoti, nato a inizio giugno tra varie polemiche, ha annunciato di voler eliminare i dazi che il Kosovo aveva imposto alla Serbia del 100 per cento in seguito ad alcune decisioni di Belgrado come quella di ostacolare l’ingresso di Pristina nell’Interpol. Si potrebbe dunque riaprire la via alla ripresa delle relazioni diplomatiche.

Del risultato elettorale in Serbia, del cammino verso l’Ue, ma anche del contesto regionale e dei rapporti con la Russia, e del’imminente anniversario di 25 anni dagli Accordi di Dayton, Fausta Speranza ha parlato con Daniele de Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento:

De Luca ricorda che prima del voto di domenica in Serbia è stata dibattuta la legge elettorale in particolare a proposito del punto sullo sbarramento e spiega che la vittoria di Vučić ha confermato un grande consenso a suo favore proprio dopo tale dibattito sollevato dall’opposizione. Lo storico sottolinea il grande distacco di punti tra il partito del presidente, ben oltre il 60 per cento, e il secondo partito, quello socialista che ha ottenuto poco più del 10 per cento di voti. Questo significa che la stabilità di governo – tra i punti chiave richiesti dall’Ue per soddisfare i requisiti di ingresso nell’Ue – viene assicurata. De Luca, dunque, cita la questione del Kosovo, spiegando che in questo momento ci sono buone prospettive di progresso nella normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina, ribadendo che è questo un altro dei punti fondamentali per Bruxelles.

Lo storico poi parla del contesto politico regionale e dei rapporti, da sempre molto stretti, tra la Serbia e la Russia, citando l’imminente visita di Vučić a Bruxelles e a Mosca. E c’è anche un contesto storico: De Luca ricorda che a novembre saranno passati 25 anni dagli Accordi di Dayton, seguiti poi a dicembre dal piano di pace. A fine 1995 si mise fine così alla guerra in Bosnia, dopo che a luglio era avvenuto il terribile massacro di Srebrenica, per il quale si è parlato dapprima di 6000 vittime mentre più di recente si è accertata la morte di almeno 8000 persone.

da Vatican NEWS del 22 giugno 2020

Coscienza e libertà: 80 anni fa la testimonianza di de Sousa Mendes

 

 

 

 

di Fausta Speranza
La libertà di coscienza sia rispettata sempre e dovunque. Con queste parole Papa Francesco ha ricordato il diplomatico portoghese Aristides de Sousa Mendes che tra il 16 e il 18 giugno del 1940, disobbedendo alle leggi del suo dittatore, salvò la vita a migliaia di ebrei e altri perseguitati. A ottant’anni di distanza, restano preziose la sua lezione di umanità e la sua testimonianza di libertà interiore.

 “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”. E’ quanto si legge nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. E, sul piano giuridico, la libertà di coscienza viene definita come la libertà di coltivare convinzioni interiori e di comportarsi di conseguenza.Coscienza, dunque, fa rima con coerenza, e non è solo questione di sonorità. Se non c’è adesione tra i valori riconosciuti in coscienza e i propri comportamenti non può esserci nessuna vera forma di libertà, piuttosto si è schiavi di qualcuno o qualcosa ai quali si obbedisce più di quanto si risponda a se stessi.
Le scelte di Aristides de Sousa Mendes appaiono, dunque, non solo una grandissima testimonianza di umanità, ma anche una lezione di vera libertà. Il diplomatico portoghese, nato nel 1855 a Cabanas de Viriato in una famiglia aristocratica, dopo una brillante carriera segnata da una significativa esperienza in Belgio, nel 1940, poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, viene nominato console di Bordeaux, in Francia. Si trova presto di fronte alla miriade di profughi, tra cui molti ebrei, in cerca di scampo dalla furia omicida nazista. Il governo di Lisbona è guidato in quel momento da António de Oliveira Salazar, amico di Mussolini che nel 1932 aveva instaurato il cosiddetto “Estado Novo”, un regime di stampo fascista. L’ordine è di negare il visto a “stranieri di nazionalità indefinita, contestata o disputata”, o ad apolidi e “ad ebrei, che sono stati espulsi dal Paese di origine o dallo stato di cui hanno la cittadinanza”. In ballo c’è la possibilità di entrare in un Paese neutrale come il Portogallo, che significava la salvezza dalla follia nazifascista.

de Sousa Mendes Aristides de Sousa Mendes

Il 16 giugno del 1940 il console prende la sua decisione: dare un visto a tutti i rifugiati che lo richiedano senza riguardo a nazionalità, razza o religione. Aiutato dai più stretti collaboratori e dai suoi figli e nipoti, timbra passaporti, assegna visti, usando tutti i fogli di carta disponibili. Organizza una vera e propria catena di montaggio: alcuni addetti sono incaricati di riempire i moduli, altri di apporre la foto per poi passare il documento al dilomatico per la firma e infine al segretario Jose Seabra per il timbro. In tre giorni rilascia 30.000 visti. Tra quanti vengono aiutati dal diplomatico portoghese c’è anche il rabbino di Anversa, Jacob Kruger che a sua volta darà il suo contributo per aiutare gli altri.
Yehuda Bauer, storico contemporaneo, scrive che quel giorno è cominciata “la più grande operazione di salvataggio effettuata da una persona durante la Shoah”. Numericamente non raggiunge quella compiuta dal diplomatico svedese Raoul Wallenberg che strappò alla morte 100.000 ebrei. Ma in questo caso, c’era il pieno sostegno del governo di Stoccolma.
Nel caso di de Sousa Mendes, arrivano presto i primi richiami da Lisbona. Il diplomatico portoghese dichiara a familiari e conoscenti: “Se devo disobbedire, preferisco che sia agli ordini degli uomini piuttosto che agli ordini di Dio e della mia coscienza”. L’8 luglio del 1940 torna in Portogallo e viene punito dal governo di Salazar: viene rimosso dal suo incarico, sospeso per un anno e poi riprende un lavoro di ufficio con uno stipendio dimezzato. La sua patente di guida, rilasciata all’estero, viene ritirata. Aristides e la sua famiglia sopravvivono grazie alla solidarietà della comunità ebraica di Lisbona. Pianificano di raggiungere gli Stati Uniti ma la moglie si ammala e il diplomatico resta a Lisbona. Solo alcuni dei suoi numerosi figli si recano a studiare oltre Oceano e due di loro parteciperanno allo sbarco di Normandia. Aristides muore in povertà il 3 aprile del 1954 nell’ospedale dei Francescani di Lisbona. Nel 1966 gli viene riconosciuto dall’istituto Yad Vahem il titolo di “Giusto tra le nazioni”.
Perché sia riabilitato in Portogallo ci vorrà tempo e una sorta di revisione del processo che si concluderà con una assoluzione per aver “disobbedito per fini umanitari”. Il 13 marzo 1988, quarantotto anni dopo gli avvenimenti di Bordeaux e quattordici anni dopo la fine della dittatura, il Parlamento all’unanimità approva la riabilitazione del console, promuovendolo ambasciatore.
Nel 1990 la città di Montreal, in Canada, gli intitola un parco, seguita l’anno successivo da Bordeaux. Nel 1998 in Francia viene pubblicato il libro “Le Juste de Bordeaux”, e in quello stesso Bordeauxanno il Parlamento europeo onora de Sousa Mendes, conferendogli un’importante onorificenza.

parcoSousa Mendes

Statue d’Aristides de Sousa Mendes – Bordeaux

Seguono altri riconoscimenti e il 23 febbraio 2000 a Lisbona viene istituita la Fondazione Aristides de Sousa Mendes, alla quale il governo dona un contributo di 50.000 euro. Va ricordato un altro atto significativo: nel 1987, all’ambasciata portoghese a Washington, il presidente della Repubblica portoghese, Mario Soares, consegna ai figli di de Sousa Mendes la decorazione dell’Ordine della libertà. Le imputazioni di allora, “abuso di potere, emissione di visti falsi, non rispetto delle direttive ministeriali” sono cadute. La testimonianza di umanità e di libertà di coscienza di Aristides de Sousa Mendes resta. Ad interpellare altre coscienze.

da Meridianoitalia.TV del 16 giugno 2020

 

Le rimesse dei migranti nella pandemia, Ifad: una risorsa importante

Sono diminuite del 20 per cento le risorse che i migranti assicurano alle loro famiglie di origine: nell’odierna Giornata mondiale delle Rimesse familiari, che coincide con la crisi sanitaria globale, la Banca mondiale calcola le conseguenze negative della crisi economica e l’Onu lancia un appello ai governi per sostenere i migranti, che sono uno dei motori dell’economia globale e contribuiscono in maniera decisiva alla creazione di benessere. Con noi Mauro Martini dell’Ifad

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Le proiezioni della Banca Mondiale prevedono un calo delle rimesse di circa il 20 per cento, ossia 110 miliardi di dollari. E questo si traduce in aumento della fame, diminuzione dell’accesso scolastico e deterioramento della salute per decine di milioni di famiglie, con un impatto particolarmente dannoso su donne e ragazze.

Le richieste delle Nazioni Unite

Il Segretario generale dell’Onu, Antònio Guterres, nel suo messaggio, chiede espressamente di rendere merito alla determinazione di 200 milioni di migranti che inviano regolarmente denaro a casa, e agli 800 milioni di membri familiari che vivono in comunita’ nei Paesi in via di sviluppo e che da tali risorse dipendono, adottando misure concrete. Ricorda anche che il Patto globale per un’emigrazione sicura, ordinata e regolare offre per tutto questo una piattaforma d’azione cruciale. Dell’ammontare e dell’importanza delle risorse delle rimesse e delle misure da adottare abbiamo parlato con Mauro Martini, del Dipartimento Finanziamenti per le rimesse dell’Ifad, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo:

Mantenere i flussi delle rimesse

Martini ricorda che lo scorso anno le risorse inviate verso i Paesi a basso e medio reddito hanno raggiunto il livello record di 554 miliardi di dollari, cioè più di tre volte l’ammontare dell’assistenza pubblica allo sviluppo e più del livello di investimento diretto estero. E’ per questo che diversi Stati e organizzazioni internazionali invocano il mantenimento del flusso delle rimesse, sollecitando i responsabili politici a dichiarare proprio le rimesse come un servizio essenziale e a facilitare il perfezionamento di piattaforme digitali. Questo serve – spiega – ad assicurare che i soldi arrivino direttamente alle famiglie, escludendo più possibile eventuali intermediari, e nel caso dell’emergenza  della pandemia di quest’anno, significherebbe concretamente assicurare che gli aiuti arrivino perché, in particolare con il lockdown, è stato difficile appoggiarsi a uffici di qualunque tipo.

Ma la raccomandazione – sottolinea Martini – vale anche per le infrastrutture: in alcuni casi, nei Paesi è difficile accedere a internet direttamente da casa. Bisognerebbe adottare misure per ridurre i costi di transazione delle rimesse, fornire servizi finanziari ai migranti e alle loro famiglie anche nelle aree rurali e promuovere l’inclusione finanziaria per un futuro piu’ sicuro e stabile. Si tratta di cercare di non interrompere il processo che deve portare al raggiungimento dei cosiddetti obiettivi del millennio di sviluppo sostenibile.

da Vatican NEWS del 16 giugno 2020

Emergenza Libia. Padre Baggio: c’è bisogno di attenzione e di garanzie

Interpella le coscienze l’esortazione del Papa, ieri all’Angelus, perchè si mettano a punto strategie di dialogo per la pace in Libia e percorsi di assistenza per le vittime di violenze e sfruttamento. Un richiamo politico e umanitario proprio mentre scontri si concentrano intorno alla città di Sirte e l’Onu torna a raccomandare rispetto e indagini per le fosse comuni ritrovate a Tarhuna. La riflessione di padre Fabio Baggio, sottosegretario del Dicastero per lo sviluppo umano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Nelle parole di Papa Francesco, rivolte domenica scorsa dopo la preghiera dell’Angelus, a chi muove i fili della politica e a tutti – introdotte e scandite dall’espressione semplice ma accorata “Per favore” – ci sono attenzione e umanità ma anche grande concretezza. Dell’appello e del richiamo possibile all’ultimo rapporto dell’Onu sulla Libia di maggio, abbiamo parlato con padre Fabio Baggio, sottosegretario del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale:

Padre Baggio ricorda il rapporto che l’Onu ha pubblicato a maggio, in cui – spiega – ci sono punti che convergono con l’attenzione richiesta dal Papa. Si tratta di mettere in atto propositi di dialogo tra le parti per arrivare a una riconciliazione, mentre però si agisca a favore delle persone che, anche a causa della pandemia, sono sempre più esposte a violenze e sfruttamento o bisogni essenziali estremi. Padre Baggio sottolinea che bisogna ricordare – come ha fatto il Papa e come fa il rapporto Onu – che ci sono le situazioni e le condizioni difficili e drammatiche dei migranti, ma ci sono anche le emergenze di libici che sono sfollati interni al Paese, a causa dell’avanzare o dello spostarsi dei combattimenti. Per quanto riguarda la responsabilità alla quale Papa Francesco ha richiamato tutti, padre Baggio mette in luce la differenza di ruoli. Ovviamente chi ha ruoli politici o militari è chiamato ad un tipo di intervento che non può essere lo stesso per tutti. Nel caso dei credenti, tutti possiamo pregare. Ma anche nel caso dei non credenti c’è un richiamo possibile: alla responsabilità, ad esempio, di non assuefarsi a contesti di violenza e a scene di “crudeltà”. Anche questo può dare un contributo prezioso: spronare le nostre società a cercare qualcosa di diverso, a procedere sulla via del progresso dell’umanità che significhi superare tali situazioni di mancanza di dignità e di futuro per le persone. E tenere alta l’attenzione mediatica aiuta a tenere deste le coscienze. Padre Baggio ricorda come alcune immagini, ad esempio, di bimbi migranti affogati, abbiano suscitato grande sdegno, maanche  che dopo qualche giorno sembrava già che nessuno se ne ricordasse più.

Il contenuto dell’intervento del Papa

Il Papa ha esortato “gli Organismi internazionali e quanti hanno responsabilità politiche e militari” a rilanciare “con convinzione e risolutezza la ricerca di un cammino verso la cessazione delle violenze, che porti alla pace, alla stabilità e all’unità” in Libia.” E poi è tornato ad assicurare la sua preghiera per tutti i civili coinvolti, in particolare ricordando “le migliaia di migranti, rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni”. Anche su questo piano si è espresso con grande concretezza: anche in questo caso ha detto “per favore” dopo aver messo il mondo davanti a una verità innegabile: “C’è crudeltà”. Il Papa ha ricordato quello che sappiamo tutti: “La situazione sanitaria ha aggravato le loro già precarie condizioni, rendendoli più vulnerabili da forme di sfruttamento e violenza”. Da qui l’invito alla comunità internazionale “a prendere a cuore la loro condizione, individuando percorsi e fornendo mezzi per assicurare ad essi la protezione di cui hanno bisogno, una condizione dignitosa e un futuro di speranza”. E poi il richiamo: “tutti abbiamo responsabilità, nessuno si può sentire dispensato. Preghiamo per la Libia in silenzio, tutti.”

Gli ultimi sviluppi della conflittualità in Libia

Il Governo di accordo nazionale libico (Gna) ha annunciato che dal Consiglio militare di Zuwara sono arrivati nuovi rinforzi militari per partecipare ai combattimenti nella città di Sirte controllata dal generale Khalifa Haftar. Si combatte ad ovest della città di Sirte “per partecipare alla liberazione dell’intera area dalle forze di Haftar”. Intanto, dalle file di Haftar, che ha il suo centro di potere a Bengasi, il portavoce dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), Ahmed al Mismari ha accusato la Turchia – principale alleato del Gna – di aver “schierato sette navi da guerra al largo delle coste libiche, oltre a inviare nuovi gruppi di mercenari, soldati turchi e ufficiali con l’obiettivo di controllare l’area della mezzaluna petrolifera dove si trovano gli investimenti della maggior parte delle compagnie straniere in Libia”.  L’ufficiale di Bengasi ha aggiunto: “Abbiamo registrato crimini commessi dalle milizie che violano le alleanze internazionali a Tarhuna, Al Asabia e in diverse città libiche”.

La drammatica questione delle fosse comuni

Accuse sono state rivolte alle milizie di Bengasi per il ritrovamento di “fosse comuni” nella località di Tarhuna, che nelle settimane scorse è stata riconquistata dalle forze di Al Serraj.  Da parte sua, l’Lna ha invitato la missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) ad accelerare le proprie indagini in merito, oltre a indagare sulle mine collocate intorno a Tripoli dopo che le forze di Haftar si sono ritirate. In una dichiarazione ufficiale, l’Lna ha negato qualsiasi responsabilità per questi crimini, chiedendo un’indagine imparziale e indipendente da parte delle organizzazioni internazionali sulle fosse comuni, rilevando che “le Nazioni Unite hanno chiesto indagini che l’esercito accoglie con favore”. Da parte sua, la Commissione per i diritti umani del parlamento libico di Tripoli, dissidente rispetto a quello riconosciuto di Tobruk, ha precisato che sono undici le fosse comuni trovate dalle forze del Gna nelle aree della Tripolitania dalle quali si sono ritirati di recente gli uomini di Khalifa Haftar. La Commissione ha concordato con un gruppo di donne della società civile un “piano d’azione comune” per documentare tutti i “crimini di guerra” commessi dalle forze di Haftar. La denuncia è avvenuta durante un incontro tenuto dalla commissione presieduta dal deputato Luay Najib Al-Ghawi con un gruppo di donne della società civile interessate ai diritti umani, secondo una dichiarazione pubblicata dal Parlamento sulla sua pagina Facebook.

da Vatican NEWS del 15 giugno 2020