L’impatto della pandemia sulle democrazie latinoamericane

Intervista con la studiosa di America Latina Tiziana Terracini

di Fausta Speranza

L’America Latina, epicentro dell’infezione da coronavirus dalla fine di maggio, fa i conti con la crisi sanitaria ed economica ma anche con l’urto dell’emergenza sul già fragile equilibrio delle istituzioni democratiche. In realtà, i dati registrano una retrocessione da questo punto di vista da quattro anni e non è imputabile solo alle situazioni del Salvador o del Nicaragua. In Brasile, secondo Paese al mondo dopo gli Stati Uniti per i contagi, si sono aperti orizzonti di crisi politico-istituzionali, in Messico è braccio di ferro in tema di patto federale.

 La pandemia ha accentuato le criticità e i limiti delle democrazie latinoamericane. Si tratta di Paesi dove già nel corso del 2019 si erano registrate diffuse manifestazioni di forte scontento per le ingiustizie sociali, la corruzione, l’impunità. La diseguaglianza cronica della regione è stata aggravata dall’emergenza Covid-19 che ha toccato proprio i settori già precari: lavoro, salute, educazione. Il punto è che, oltre alla prevista perdita di Pil, come peraltro in tutti i Paesi del mondo, si è andato esasperando il nodo strutturale del continente: un rapporto tra crescita e sviluppo che riesce a penalizzare il secondo fattore anche quando non è mancato il primo.

       La permanente instabilità politica e alcuni meccanismi già imbrigliati di governance hanno aperto la strada a crisi politico–istituzionali. E’ accaduto in Brasile, tra tentazioni personaliste e l’implementazione di riforme che aprono interrogativi seri sull’aumento della discrezionalità dell’esecutivo. E’ cambiato per due volte il ministro della Sanità in piena brasilePresidente Jair Bolsonaro

esplosione dell’infezione da coronavirus, il primo è stato allontanato e il secondo si è dimesso sempre per contrasti con il presidente Bolsonaro. Ma è aspro il confronto anche in ambito di Corte Costituzionale dopo l’allontanamento, su decisione di Bolsonaro, del capo della polizia da sempre stretto collaboratore del noto giurista e politico, già ministro della giustizia Sérgio Moro, in relazione a presunte accuse di malversazione di fondi pubblici rivolte al figlio del capo di Stato Flavio Bolsonaro. Suo fratello Carlos è accusato solo di responsabilità per la diffusione di fake news. Ma tentazioni personaliste si ravvedono, anche se con grandi differenze, anche nell’atteggiamento del presidente Obrador in Messico, dove la questione della divisione dei poteri, tra patto federale e autonomie degli Stati, ha mostrato le sue fragilità. La decisione di non sospendere le tasse, ad esempio, voluta dal presidente Obrador  con il dichiarato intento di non far mancare aiuti ai più poveri, non è stata accolta a cuor leggero dagli imprenditori né dai governatori degli Stati del Nord più ricchi e produttivi, che hanno chiesto a gran voce la revisione del patto fiscale.

Nell’era più democratica del continente già da tempo si parla di una crescente rimilitarizzazione. Nel caso del Nicaragua, il ruolo delle forze armate è tra i fattori che hanno portato ad escludere il Paese dal rango delle democrazie. In generale, si riassume bene in un aumento delle spese di difesa in quasi tutti i contesti e, in particolare, con il fenomeno della militarizzazione delle frontiere a fronte dell’esodo venezuelano. Ma il fenomeno si capisce anche pensando che già nel pieno delle proteste popolari del 2019 abbiamo visto non solo il leader salvadoregno, ma anche i presidenti di Ecuador, Perù, Cile, comparire in televisione per parlare alla nazione indossando le rispettive uniformi militari. Senza dimenticare la delicata questione della violazione dei diritti umani, come in Salvador o in Nicaragua dove è stata autorizzata la “forza letale” nel caso dei manifestanti più “facinorosi” ed è stata anche assicurata assistenza legale in caso di denunce a forze di polizia. Ma anche in Colombia, nel processo che ha fatto seguito al decisivo processo di pace, ci sono stati episodi di repressione che hanno fatto molto discutere. Peraltro, va citato anche il ruolo che hanno avuto i militari in Bolivia nel passo indietro imposto a Morales.

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Tiziana Terracini, docente di storia e politiche dell’America Latina all’Universita’ di Torino

Sullo sfondo di queste argomentazioni, in una delle regioni più violente al mondo, la pandemia avvantaggia le organizzazioni malavitose, rafforzando ulteriormente il loro controllo territoriale e la governance criminale in Stati deboli e fortemente corrotti. Là dove i governi scarseggiano di risorse, i clan malavitosi non conoscono recessione e le situazioni di emergenza sono l’occasione per metterle in campo. Tra le varie modalità illecite, ci sono gli affari dell’usura ma c’è anche un impegno “sociale” di soccorso ai più bisognosi che inesorabilmente li legherà ai “donatori”.

del 14-06-2020

Proteste in Libano al crollo della lira. Bechara Rai, la Chiesa vicina alla gente

Centinaia di persone continuano a manifestare in Libano contro la gestione della crisi economica. La lira libanese ha perso il 70 per cento del suo valore da ottobre, quando sono iniziate le proteste contro il carovita e la corruzione. A gennaio si è formato il nuovo esecutivo che ha dovuto ben presto fronteggiare la pandemia. La crisi non è stata tanto sanitaria quanto economica. La testimonianza e l’appello del Patriarca di Antiochia dei Maroniti, il cardinale Bechara Boutros Rai

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Siamo certi che nonostante la situazione difficile la mano di Dio ci guiderà”: così il Patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Bechara Rai, ai nostri microfoni nella riflessione sulle condizioni attuali del Libano che versa in una crisi sociale e economica profonda. Il primo ministro Hassan Diab ha convocato una riunione del gabinetto di emergenza per discuterne. L’esecutivo ha quindi deciso di iniettare dollari nei mercati valutari e di abbassarne il valore nel tasso di cambio. “Il dollaro scenderà al di sotto di 4.000 lire libanesi e a 3.200 a partire da lunedì: la Banca centrale inietterà dollari nel mercato”, ha assicurato il presidente del ParlamentoNelle ultime ore al mercato nero il tasso di cambio era volato a oltre 5.000 lire libanesi per un dollaro. Dall’inizio delle protesta poplare che va avanti da tempo, la valuta locale si è deprezzata del 70 per cento. Si tratta della peggiore recessione dalla guerra civile scoppiata nel 1975 e conclusasi nel 1990.

Le proteste di piazza

Oltre agli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza, i dimostranti, nella città settentrionale di Tripoli, hanno cercato di occupare la sede locale della Banca centrale. Altre filiali nel Paese sono state vandalizzate. I manifestanti sono scesi in piazza e hanno dato fuoco ai copertoni e bloccato le strade, anche nella capitale Beirut. Gli slogan sono contro il governo, che è stato incapace di fermare il declino e anche contro il governatore della Banca centrale, Riad Salamé da anni in carica. Le manifestazioni sono iniziate ad ottobre scorso e hanno portato a fine mese alla caduta del governo di Saad Hariri. Solo a gennaio 2020 si è insediato il governo di Hassan Diab. Dopo settimane di tregua è scattata l’emergenza per il coronavirus che ha bloccato tante attività aggravando la situazione economica.

Sul piano finanziario

Le banche hanno cominciato a limitare il prelievo di dollari a settembre scorso. Nel Paese dal 1997 il tasso di cambio ufficiale e principale con la banconota verde è stato mantenuto in un intervallo quasi fisso tra 1.507,5 e 1.515. Il 7 marzo 2020, il Libano ha dichiarato per la prima volta nella sua storia la sospensione dei pagamenti sul debito estero, dichiarando di non essere in grado di soddisfare una scadenza in Eurobond di 1,2 miliardi di dollari.

L’impegno della Chiesa tra aiuti concreti e sostegno di fede

Da mesi il Patriarca, cardinale Bechara Rai, chiede ai politici di ascoltare i bisogni della gente.  E ai nostri microfoni rinnova l’appello nei loro confronti:

“Sul piano politico la questione non è facile – spiega il Patriarca – il problema è complesso sia internamente che esternamente. Quanto alla Chiesa  – precisa – stiamo affrontando il problema sociale costantemente, organizzandoci in tutto il territorio per non lasciare le famiglie morire di fame. Oggi la metà della popolazione è sotto il livello di povertà e di disoccupazione. Abbiamo potuto fare una catena di solidarietà in tutto il Paese”. Poi una parola sulla classe politica per rimarcare quanto le divisioni impediscano l’unità nazionale e facciano perdere alla popolazione fiducia e quanto tutto ciò influisca sulla crisi finanziaria e sulla vita economica.

Serve unità nel Paese e fiducia

“A noi importa l’unità de libanesi” ripete il cardinale, rilanciando tutta la fiducia riposta nei giovani, in cui è la speranza della ricostruzione. Sulle manifestazione ripete che c’è il diritto a chiedere lavoro e cibo,e spiega come le infiltrazioni e le strumentalizzazioni spesso rovinino la protesta pacifica delle fasce giovanili.  Per risolvere la crisi del Paese – precisa –  non serve un ulteriore capovolgimento politico, servono soluzioni giuste e spetta alla politica trovarle. Dunque fiducia in tal senso nella consapevolezza dell’estrema difficoltà del momento.

Nelle parole del Patriarca dunque gli aspetti più duri dell’emergenza economica, ma anche le potenzialità di un Paese che ha visto scendere in piazza insieme cristiani e musulmani, e poi la grande speranza che si rinnova nell’affidamento del Paese alla Vergine Maria. Una celebrazione in tal senso si svolge ogni anno ed è quanto è previsto domenica 13 giugno. Si tratta di “rinnovare la consacrazione del Libano e dei Paesi del Medio Oriente al Cuore Immacolato di Maria, secondo i suoi desideri”. Questo atto comporta il pentimento, l’impegno per fermare la guerra e consolidare la pace. A partire dal giugno 2013, il cardinale ogni anno ha consacrato il Libano e tutto il Medio Oriente alla Vergine Maria in quel di Harissa, sede di Nostra Signora del Libano, secondo la scelta maturata nel corso del Sinodo dei Vescovi del Medio Oriente dell’ottobre 2012.

da Vatican NEWS del 13 giugno 2020

Strage di donne nel naufragio al largo della Tunisia

E’ salito a 34 il numero dei cadaveri recuperati ieri dalla Marina tunisina al largo delle coste del Paese, dopo il naufragio di un barcone con 53 migranti subsahariani diretti verso le coste italiane

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Una strage soprattutto al femminile. Finora ritrovati senza vita da unità della Marina militare e della Guardia costiera della Tunisia i corpi di 22 donne, tra cui una donna incinta, e di una bimba di 2 anni. Ma anche 9 uomini e altri due minori. Alcuni sono tunisini, più di venti ivoriani, gli altri di vari paesi dell’Africa sub-sahariana. Sembra sia tunisino e originario di Sfax, l’uomo al timone. Proprio da Sfax, seconda città della Tunisia, ad est del Paese, sarebbe partito nella notte tra il 4 e il 5 giugno il peschereccio che al massimo avrebbe potuto prendere a bordo 20 persone e ne aveva caricate oltre 50. E’ affondato nell’area di mare tra El Louza (Jebeniana) e Kraten al largo delle isole Kerkennah, arcipelago tra i più suggestivi al mondo. Dove si dovrebbe andare per godere della bellezza e dove invece proseguono le ricerche dei dispersi di una tragedia già vista.

Al largo della Libia

Guardando al Mediterraneo, nella cronaca di questi giorni c’è anche il rientro forzato in Libia di 185 persone – tra cui molti bambini – che la guardia costiera aveva intercettato in mare su tre diverse imbarcazioni. E l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) è tornata a sottolineare la preoccupazione per le condizioni in cui si trovano le persone all’interno dei campi nel Paese nordafricano. Ad assistere ai respingimenti dall’alto anche l’aereo Moonbird della Ong Sea Watch, arrivata due giorni fa in zona Sar dopo aver avvistato tre imbarcazioni in difficoltà poi soccorse dai libici che hanno preso a bordo i migranti riportandoli indietro. La Ong ha accertato che fossero molti i bambini.

L’appello di Save the children

La notizia dell’ennesimo naufragio e della perdita di vite umane al largo della Tunisia – sottolinea  Raffaela Milano, Direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children  – ci ricorda drammaticamente che è necessario e urgente rimettere il tema del rispetto dei diritti umani al centro delle priorità nelle politiche europee sulla migrazione. E’ necessario attivare al più presto un meccanismo coordinato di soccorso e protezione tra gli Stati membri, creando vie di accesso legali e sicure dalle areedi crisi o di transito per proteggere chi ogni giorno rischia e troppo spesso perde la vita”. Inoltre, Milano ha commentato anche i rimpatri in Libia: “Consideriamo inaccettabile che donne, uomini, bambini, continuino a essere riportati in un Paese dove permangono e si sono acutizzate, a causa del conflitto tuttora in corso, continue violazioni dei diritti umani e dei diritti dell’infanzia”. “In nessun caso – ha sottolineato la rappresentante di Save the children –  la Libia può essere considerata un luogo sicuro, verso il quale, dunque, non vanno effettuati rimpatri o trasferimenti né di adulti né di minori. Nei centri di detenzione continua a consumarsi una terribile violazione dei fondamentali diritti di persone, tra le quali molti bambini e bambine, soggetti a forme di violenza di ogni tipo, così come peraltro acclarato dai rapporti delle Nazioni Unite e dalle testimonianze di chi riesce a lasciare il Paese”.

da Vatican News dell’ 11 giugno 2020

In Iraq vecchi e nuovi incubi per gli sfollati

Dopo 20 di conflitti e instabilità, l’Iraq deve far fronte all’emergenza pandemia. Non sono solo i bisogni sanitari a preoccupare, ma anche l’isolamento che mette in difficoltà l’impegno delle organizzazioni internazionali per gli sfollati in particolare nel campo di Mosul o nella zona di Niniwa. Molti non possono rientrare nei loro villaggi perché distrutti oppure perché pesa su di loro lo stigma sociale di presunti legami con l’Is. Con noi l’operatrice umanitaria Alessandra Sacchetti

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si moltiplicano i bisogni in termini di salute mentale  tra gli sfollati interni di Mosul, Sinjar e Dohuk (Zakho). Dopo la drammatica parentesi del sedicente Stato islamico, che si è ufficialmente conclusa a fine 2018, l’Iraq tenta di riprendere il completo controllo del territorio mentre resta una sorta di guerriglia da parte di alcuni gruppi sparsi di miliziani. Il governo centrale e i vari governatorati sono alle prese con una grave crisi economica dovuta a decenni di conflitti ma anche ai prezzi bassi del petrolio, risorsa principale del Paese. In questo contesto sono arrivati i contagi da coronavirus che hanno dilagato nel vicino Iran, così come in Pakistan aumentando i bisogni della gente e ostacolando l’arrivo di aiuti internazionali, come conferma Alessandra Sacchetti, coordinatrice dei programmi di salute mentale di Azione contro la fame in Iraq:

Sacchetti racconta dell’impegno della sua organizzazione umanitaria per contrastare alcuni fenomeni registrati da anni ma che si stanno accentuando in questa fase, come  i casi di depressione per i traumi subiti e per le difficoltà di vita, le vere e proprie  crisi di identità nell’impossibilità di rientrare nei luoghi di origine. A questo proposito, il pensiero va in particolare ai profughi fuggiti dai territori maggiormente colpiti dai combattimenti e dall’Is. Alcuni di loro non troverebbero case agibili, mentre altri sarebbero ormai condannati dalla gente del posto per legami veri o presunti di un componente della propria famiglia con alcuni miliziani. In alcuni casi, basta lo stupro subito da una donna a condizionare la vita di questa donna, vittima due volte, e di tutta la famiglia.  Inoltre, le misure restrittive per via del Covid-19 ostacolano anche  l’aiuto a  bambini rimasti soli o a donne in gravidanza o che allattano, perché sono i primi ad avere terrore di essere raggiunti e contagiati. Azione contro la Fame – racconta Alessandra – svolge attività promosse specialmente a Sinjar aiutando, ad esempio, gli Yazidi a tornare a provvedere ai propri mezzi di sussistenza e a sostenere le proprie famiglie.

Ultime tappe di una difficile normalizzazione politica

Sabato  6 giugno il Parlamento iracheno ha approvato le nomine di sette dei 22 ministeri del governo guidato dal primo ministro Mustafa al-Kadhimi – e in carica dal 7 maggio – ancora privi di un titolare. Alla cristiana caldea Evan Faeq Yakoub Jabro, insegnante di biologia, già distintasi in passato per l’attenzione alle emergenze sociali riguardanti i giovani, è andato il ministero per rifugiati e migranti. Sarà lei quindi a gestire le politiche del governo per l’emergenza migratoria ma anche per il ricollocamento degli sfollati interni.  Tra le competenze del nuovo ministro c’è anche il dossier riguardante le decine di migliaia di cristiani fuggiti nel 2014 da Mosul e dalla provincia di Ninive davanti all’avanzare dei jihadisti del sedicente Stato Islamico. Gran parte di loro trovarono rifugio a Erbil e nel Kurdistan iracheno e non hanno fatto più ritorno alle proprie case e ai propri villaggi.

Resta l’emergenza terrorismo

Le autorità locali hanno confermato, in questi giorni, che è in corso una campagna militare anti-Is condotta dalle forze irachene e dalle forze filo-iraniane irachene nelle limitrofe regioni dell’Iraq occidentale, mentre la Coalizione internazionale anti-Is e le forze curdo-siriane hanno lanciato, nelle ultime ore, una vasta operazione anti-terrorismo in diverse località della Siria nord-orientale e orientale. Media siriani e iracheni, citando fonti della Coalizione e dei vertici militari curdo-siriani e iracheni, riferiscono delle due operazioni in corso, coordinate dalla Coalizione internazionale creata nel 2014 e da allora guidata dagli Stati Uniti nelle regioni siriane di Hasake e Dayr az Zor e in quelle irachene di Anbar, Ninive, Kirkuk. Circa 20.000 unità partecipano tra la Siria e l’Iraq alle operazioni anti-Is.

da Vatican NEWS del 10 giugno 2020

Preghiera per la Pace nel Vicino Oriente e nel mondo

L’8 giugno 2014, papa Francesco accoglieva i leader di Israele e Palestina, Shimon Peres e Mahmud Abbas (Abu Mazen), e il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I in Vaticano per uno storico incontro. A sei anni di distanza, il Forum internazionale dell’Azione cattolica rinnova lo slancio a pregare per la pace e a diffondere il Documento sulla “Fratellanza umana” firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 dal Papa e dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il tempo della pandemia per il Covid-19 ha aumentato le difficoltà di sopravvivenza per molti popoli del mondo e ha acuito le tensioni sociali oltre ad aver rallentato la soluzione dei conflitti in corso. Si rafforza dunque l’intenzione della preghiera che in realtà si rinnova ogni anno dall’appuntamento in Vaticano nel 2014 tra i leader israeliano e palestinese, con il Papa e il Patriarca Bartolomeo, su iniziativa del Forum internazionale di Azione cattolica (Fiac), alla quale si uniscono ogni anno tante sigle cattoliche tra cui l’Unione delle organizzazioni femminili cattoliche (Umofc), l’Azione cattolica italiana, l’Azione cattolica argentina, la Commissione nazionale Giustizia e pace della Conferenza episcopale argentina”.  Si fa più accorato, dunque, l’appello alla preghiera, ma anche l’invito a diffondere lo storico Documento sulla “Fratellanza umana” firmato a febbraio dell’anno scorso da Papa Francesco e dal grande Imam Ahmad Al-Tayyeb.

Lo scenario nel mondo è preoccupante  per il numero dei conflitti in corso, anche perché la pandemia è purtroppo tempo di stallo di negoziati, proprio come succede nel contesto israelo-palestinese. Delle difficoltà e delle prospettive  abbiamo parlato con Daniele De Luca, docente di Storia delle Relazioni internazionali all’Università del Salento:

Le due parti in causa, quella israeliana e quella palestinese, vivono per diversi motivi situazioni difficili al loro interno e in sei anni è successo ben poco. E questo – spiega De Luca – non aiuta certamente a pensare di rilanciare il negoziato, oltre al fatto che l’emergenza coronavirus ha di fatto congelato ogni iniziativa. De Luca parla delle proteste, dei tentativi di annessione, della cristallizzazione della realtà dell’area e anche del ruolo che in questo ha svolto sia il conflitto siriano sia la parabola del presunto califfato.

La preghiera può farsi minuto di silenzio se non c’è credo religioso: il messaggio di fratellanza del Papa e del Grande Imam Al-Tayyeb resta potente per tutti gli uomini di buona volontà.

da Vatican NEWS dell’8 giugno 2020

La Bce raddoppia il suo impegno sul debito

La Banca centrale europea offre ulteriore sostegno alla liquidità, aumentando la dimensione e la durata del suo piano e il suo impegno a mantenere una politica monetaria accomodante fino a quando gli obiettivi di inflazione a medio termine saranno centrati. A parte il drammatico e insanabile bilancio in termini di perdite di vite umane, il Covid-19 potrebbe comportare una delle svolte più significative nel percorso di integrazione: un’Ue che viene incontro direttamente ai bisogni dei cittadini. Con noi il giurista Giampaolo Rossi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Ci voleva l’ombra della peggior recessione della storia moderna, perché l’Europa rompesse il tabù della messa in comune di un debito europeo e si ipotizzasse un piano di rilancio dell’economia come il Recovery Fund, elaborato dalla Commissione e in attesa del voto dei 27.

Raddoppia l’impegno della Bce

Il consiglio direttivo della Bce il 4 giugno ha aumentato di 600 miliardi il ‘Pepp’, il programma di acquisto di debito per l’emergenza pandemica da 750 miliardi di euro lanciato a marzo, che assicura la flessibilità di comprare una larga proporzione di titoli dei Paesi più colpiti, privilegiando i Paesi della sponda mediterranea. Il ‘Pepp’ sale così a 1350 miliardi di euro totali, un ammontare che fornirà ampia copertura alle forti emissioni di debito necessarie agli Stati per far fronte allo shock economico. Il programma, da una scadenza iniziale fissata a dicembre prossimo, viene ora esteso fino ad “almeno tutto giugno 2021”. Inoltre, la Bce ha lasciato invariati i tassi (a -0,50 per cento quello sui depositi e a zero quello sui rifinanziamenti principali).

La prospettiva del Recovery Fund

E’ in corso il negoziato tra governi per l’approvazione della proposta del cosiddetto Recovery Fund presentata il 27 maggio dall’esecutivo Ue. Ci si aspetta che la votazione avvenga nel summit del 18 giugno, che, vista la complessità del dossier, dovrebbe tenersi con la presenza fisica dei leader a Bruxelles. Sui media si discute delle perplessità dei Paesi che vengono definiti “frugali”, Austria, Danimarca, Svezia e Olanda, che finora si oppongono ai trasferimenti a fondo perduto, chiedono solo prestiti oltretutto vincolati ad austerità e a un piano di riforme più vicino a quello richiesto alla Grecia negli anni scorsi. I Paesi dell’Est, meno colpiti dalla crisi, chiedono di poter comunque accedere ai fondi. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha fatto sapere di voler concludere a giugno, anche se qualcuno ipotizza un rimbalzo a un secondo vertice a luglio.

Le tappe di un nuovo cammino

Ad aprire un varco è, il 19 maggio, la proposta franco-tedesca500 miliardi presi in prestito dalla Commissione sui mercati, a condizioni sicuramente più favorevoli di quelle cui ciascun singolo Stato avrebbe potuto ambire da solo in un momento in cui l’epidemia ha messo in ginocchio le economie di tutto il continente. La Commissione Ue il 27 maggio va oltre: il piano contiene 500 miliardi a fondo perduto e 250 miliardi di prestiti da restituire. In totale, il piano dovrebbe raggiungere i mille miliardi, aggiugendo un sistema di investimenti che moltiplicherà le risorse. A questi soldi si aggiungeranno i 1.000 miliardi del normale bilancio Ue 2021-2027. I soldi saranno distribuiti alle capitali con diversi strumenti. Il più ricco sarà la Recovery and Resilience Facility. Fin qui si è parlato di condizionalità per incassare i soldi. Ma non si tratta di vincoli alla greca, semmai di capacità e bontà della spesa. Per accedervi, infatti, i governi dovranno farsi approvare da Bruxelles un programma nel quale indicheranno come spendere i fondi guardando alle priorità Ue (Green deal e digitale), ai settori più colpiti dalla crisi (turismo e trasporti) e alle riforme che ogni anno Bruxelles raccomanda ai vari governi.  L’Italia sarà il maggior beneficiario dei fondi, incassando quasi un quarto dell’intero pacchetto, in quanto è stata definita dalla Ue “Paese maggiormente colpito” dal coronavirus e dalla recessione. Per quanto riguarda le riforme richieste, la Commissione chiede all’Italia di rinforzare il sistema sanitario, mitigare gli effetti sociali della crisi, migliorare l’istruzione e rendere più efficienti i settori della giustizia e della Pubblica amministrazione.

La vera novità

C’è un punto molto importante: i fondi non verranno ripartiti proporzionalmente in base alle contribuzioni dei Paesi membri, ma verranno usati per aiutare solo le regioni più colpite, in base ai loro bisogni. Ed è qui che la proposta segna un cambio di passo, un nuovo percorso comune, impensabile fino a poche settimane fa, come sottolinea Giampaolo Rossi, esperto di diritto amministrativo dell’Ue, con il quale abbiamo parlato di questa e di altri punti cruciali per l’Ue, come la questione fiscale o le politiche di sicurezza, ma anche della proposta di una struttura europea a cerchi concentrici e della generale impreparazione sui temi europei in tutti gli ambiti:

Secondo il professor Rossi, sta prendendo forma un’Ue che si fa carico dei bisogni dei cittadini. E questa, a suo dire, sarebbe una svolta epocale. Il punto è che si tratta di un momento delicato e bisogna essere certi che non si facciano passi indietro. Rossi sottolinea che il momento è critico: non avere il coraggio di compiere il passo di approvazione del Recovery Fund significherebbe votare l’Ue alla sconfitta. Se il percorso di integrazione delle politiche monetarie non fa passi in avanti nel senso di politiche economiche comuni, infatti, si rimane nella situazione attuale in cui, nonostante la moneta unica europea, le strutture comunitarie paradossalmente frenano e non aiutano gli Stati membri a mettere in campo decisioni economiche adatte ad ogni situazione. A proposito del ruolo politico che l’Europa deve ricoprire nel mondo, Rossi sottolinea che è fondamentale la riflessione di Papa Francesco, espressa in mille occasioni anche con ripetuti messaggi recenti, in linea con i Papi precedenti. E’ importante ascoltare i messaggi e gli appelli del Papa, afferma Rossi sottolineando  che servirebbe maggiore preparazione sui temi europei anche all’interno dell’universo della Chiesa, nelle diocesi, nelle parrocchie.

L’idea di un’Europa “a cerchi concentrici”

Con altri esperti di diritto, da tempo Rossi porta avanti l’idea di un’Europa “a cerchi concentrici”, cioè con diverse forme di adesione su diversi punti. Non si tratterebbe, a suo dire, di un’Europa a più velocità perché lo si potrebbe fare proprio “accentrando” su Bruxelles il compito di prendersi cura dei bisogni dei cittadini, e lasciando invece agli Stati la facoltà di esercitare altre responsabilità. Questo permetterebbe al treno di non marciare alla velocità dell’ultimo vagone ma di procedere portando l’Europa alla velocità delle sfide che la attendono. E a questo proposito Rossi è chiarissimo: il Vecchio continente ha la responsabilità, grazie al suo bagaglio culturale, di porre alternative ad un mondo in cui si accentua l’espansionismo nazionalistico di alcuni Paesi, come si vede in Siria e in Libia, e si tende a riproporre un processo di polarizzazione tra Stati Uniti e Cina.

da Vatican NEWS del 4 giugno 2020

Vescovi Usa: giustizia e non violenza per i fatti di Minneapolis

Dilagano proteste e scontri in diverse città statunitensi in seguito alla morte dell’afroamericano George Floyd durante l’arresto la settimana scorsa, e la Chiesa locale non smette di invocare giustizia e l’eliminazione di odio e razzismo dai cuori come anche lo stesso fratello di Floyd. Dura la reazione del presidente Trump che minaccia di usare l’esercito contro quello che definisce “un atto di terrorismo interno”. In almeno 14 Stati e nella capitale è mobilitata la Guardia nazionale

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Le immagini sono tra le più drammatiche della storia recente degli Stati Uniti. Nei disordini scoppiati dopo la morte di George Floyd, un uomo è stato ucciso a Louisville, in Kentucky, due le vittime e un ferito in una spartoria a Davenport, nell’ Iowa. Nelle ultime ore, quattro agenti di St-Louis sono stati colpiti con arma da fuoco da manifestanti, ma non sono in pericolo di vita. A Washington per mantenere l’ordine pubblico sono stati dispiegati anche agenti della Dea, l’Agenzia federale antidroga. In tutto il Paese finora in manette oltre 4.400 persone e il coprifuoco è in vigore in quasi 40 città di 20 Stati: da Los Angeles a Washington, da San Francisco a Minneapolis, passando per Atlanta, Chicago, Denver e Miami.  L’8 giugno è fissata la prima udienza per l’ormai ex poliziotto che ha colpito a morte, la settimana scorsa a Minneapolis, George Floyd, afroamericano accusato di spendere banconote false di 20 dollari. L’autopsia esibita dalla famiglia avrebbe accertato una morte per “asfissia causata da compressione al collo e alla schiena”.

Il razzismo tollerato troppo a lungo

“Un’uccisione brutale e insensata, un peccato che grida giustizia al cielo”. Sono parole del presidente della Conferenza episcopale statunitense, l’arcivescovo di Los Angeles monsignor José H. Gomez, che in un comunicato diffuso domenica ha sottolineato: “Prego per George Floyd e i suoi cari e a nome dei vescovi condivido l’indignazione della comunità nera e di chi è al suo fianco a Minneapolis e in tutto il Paese”. Insieme con tutto l’Episcopato, monsignor Gomez esprime l’auspicio che le autorità civili condurranno un’inchiesta che assicuri alla giustizia i responsabili, affermando di comprendere “la frustrazione e la rabbia” degli afroamericani che “ancora oggi subiscono umiliazioni, trattamenti che degradano la loro dignità e discriminazioni a causa della loro razza e del colore della loro pelle”. “Il razzismo è stato tollerato troppo a lungo”, afferma. Si deve andare “alla radice dell’ingiustizia razziale che ancora infetta tante aree della società statunitense”, sottolinea, avvertendo però che la violenza cui si è assistito in questi giorni non porta da nessuna parte ed è anzi “autodistruttiva”. Di qui il forte appello a proteste pacifiche: “Non dobbiamo permettere che sia detto che George Floyd è morto invano. Dobbiamo onorare il suo sacrificio eliminando il razzismo e l’odio dai nostri cuori e rinnovare il nostro impegno per realizzare la sacrosanta promessa della nostra nazione di essere una comunità che garantisce la vita, la libertà e l’uguaglianza a tutti”, conclude.

Le dichiarazioni di Trump e la reazione della Chiesa 

Dal Rose Garden di una Casa Bianca blindata dai militari e assediata dai manifestanti, Donald Trump definisce le proteste un “atto di terrorismo interno” e invoca l’Insurrection Act del 1807 che assicura al presidente il potere di dispiegare militari all’interno del territorio. “Io sono il presidente dell’ordine e della legalita’”, ha scandito Trump, mentre in sottofondo si udiva l’eco degli spari dei gas lacrimogeni lanciati dalla polizia militare contro i manifestanti che, sfidando il coprifuoco, stavano protestando pacificamente. “Non possiamo permettere che le proteste pacifiche vengano manipolate da anarchici di professione”, ha affermato il capo della Casa BIanca, che successivamente si è fermato davanti alla Saint John Epyscopal Church alzando un braccio e mostrando alle telecamere una Bibbia. Un gesto da cui ha preso immediatamente le distanze il vescovo episcopaliano di Washington, Mariann Edgar Budde, dicendosi “indignata” e tornando a denunciare l’uso della violenza in proteste pacifiche.

Dal fratello minore di Floyd l’appello contro altra violenza

Tra tanti cittadini che sfilano per sottolineare la propria richiesta di giustizia, si moltiplicano funzionari e agenti delle forze dell’ordine, bianchi e non, che si uniscono ai dimostranti in segno di solidarietà. Marciano insieme, a volte si inginocchiano ripetendo il gesto contro il razzismo del quarterback del football americano Colin Kaepernick, come si è visto nella capitale, a New York, a Miami, a Santa Cruz, a Ferguson. “Basta con i saccheggi, basta violenze. Bisogna chiedere giustizia, ma usando i metodi pacifici, e andare a votare a novembre per cambiare il nostro destino”. Sono parole che il fratello minore di George Floyd, Terrence, che vive a Brooklyn, pronuncia arrivando a Chicago Avenue a Minneapolis, dove suo fratello è morto. “E dopo che avremo distrutto le nostre comunità, le nostre case, i nostri negozi, cosa resterà?”: è l’interrogativo che Terrence lancia a tutti chiedendo che “si cambi strategia: basta altra violenza”.

I fatti di Minneapolis

La sera del 25 maggio l’afroamericano di 46 anni George Floyd si reca a comprare un pacchetto di sigarette in un negozio di Minneapolis porgendo però all’impiegato una banconota da 20 dollari falsa, l’impiegato se ne accorge e chiama il 911. La polizia arriva. Uno dei poliziotti, Derek Chauvin, ferma l’uomo, lo blocca: come si vede nei video girati da testimoni, per otto minuti spinge il suo ginocchio contro il petto di Floyd che ripete “non riesco a respirare”, il poliziotto non si ferma, Floyd muore. Il tutto è ripreso con i telefonini dei testimoni, il video finisce sul web, esplode il caso, poi la protesta, si riempiono le piazze, l’America è in rivolta al grido di “Black lives matter”, “le vite nere contano”.

da Vatican News del 2 giugno 2020

Senza tregua la questione migranti in Grecia

Tensione tra manifestanti e forze di polizia nei pressi della capitale greca per la situazione sempre più difficile nel campo profughi a pochi chilometri dalla città di Malakasa. Oltre a nuovi arrivi negli ultimi giorni, a preoccupare la popolazione locale è stato il rischio di contagio da Covid-19 dopo il riscontro nei giorni scorsi di un caso nel campo. Con noi l’esperto di flussi migratori Alfonso Giordano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Decine di residenti di un villaggio nei pressi di Atene hanno organizzato ieri una protesta lungo l’autostrada contro un campo che ospita centinaia di richiedenti asilo nella zona. La polizia in tenuta antisommossa ha sparato gas lacrimogeni contro i manifestanti che hanno bloccato la circolazione vicino alla città di Malakasa, circa 38 chilometri a nord della capitale greca. Alcuni feriti sono stati segnalati tra la polizia e la folla.

Le vicende del campo profughi

Il campo è cresciuto rapidamente in marzo per ospitare centinaia di nuovi migranti il cui arrivo è stato incoraggiato dalla confinante Turchia. In aprile il campo è stato posto in lockdown dopo che un cittadino afghano è risultato positivo al coronavirus ma, secondo il sindaco di Malakasa, molti residenti nel campo sono andati in giro senza rispettare il confinamento.

Di quanto sta accadendo nei pressi di Atene, dei complessi equilibri politici che stanno dietro la questione dei migranti che bussano alle porte d’Europa, abbiamo parlato con Alfonso Giordano, docente di Geopolitica e flussi migratori all’Università Luiss Guido Carli di Roma:

La Grecia e l’Ue : in prima linea con i migranti

La Grecia si è ritrovata in prima linea nella questione migranti sia per quanto riguarda la rotta nel Mediterraneo che per la rotta balcanica. La questione per Atene – sottolinea Giordano – va vista in particolare in relazione all’accordo dell’Ue con la Turchia per la gestione dei flussi. Di recente Ankara alterna momenti in cui rispetta tale intesa per la quale ha ricevuto 6 miliardi di euro da Bruxelles, a momenti in cui lascia passare migranti che dalla Siria, e non solo, hanno come approdo il territorio ellenico. Il punto è che governi e organismi internazionali, come la stessa Organizzazione internazionale per le migrazioni, hanno facoltà di intervenire per quanto riguarda il versante greco che collabora a tutti i livelli, mentre per il versante turco la gestione resta interamente in mano ad Ankara e al momento – spiega Giordano – non è chiaro quali flussi si preparino o meno verso la Grecia.

da Vatican NEWS dell’1 giugno 2020

Aria d’Italia

FRAMMENTI DI CULTURA ITALIANA

Un podcast a cura dell’Istituto Italiano di Cultura: una boccata d’aria italiana che spira da Lisbona e raggiunge anche altre città.

5ª puntata: intervista alla giornalista Fausta Speranza

L’inventiva italiana che racconta Napoli al mondo tra cultura e modernità

di Fausta Speranza

Creatività e arte del Bel Paese battono un record: si confermano milioni e milioni di visualizzazioni, con contatti da tutti i continenti, per il primo videogioco prodotto al mondo da un Museo, quello Archeologico di Napoli. E’ una storia accattivante che in sostanza propone un viaggio attraverso diverse epoche storiche, dall’Egitto all’età borbonica, dall’arte pompeiana ai vicoli di Forcella. In tempi di crisi, resta un esempio eccellente di inventiva e di scambio tra generazioni: si tratta, infatti, di un prodotto voluto dal direttore del Museo pensando ai ragazzi. Inoltre, si intitola ‘Father and Son’, lasciando subito immaginare uno scambio tra padre e figlio, che nella storia si conferma arricchente anche nell’impossibilità dell’incontro fisico.

Fabio Viola

       Tre chilometri di strade napoletane tratteggiate a mano sono uno dei tocchi artistici del videogioco firmato dal game-designer Fabio Viola. In realtà, tutta la storia è stata disegnata a mano da Sean Wenham, artista che ha precedentemente lavorato con Ubisoft e Sony e che in questo caso è stato affascinato dai giochi di luce che caratterizzano la capitale partenopea. Li ha ricreati nel centro storico, che diventa possibile rivivere in tre particolari ere storiche, sfruttando una serie di connessioni temporali che restano una delle caratteristiche peculiari Fabio Viola dell’innovativo prodotto. L’idea è stata del professor Ludovico Solima ed è stata subito sposata dal direttore del Museo Archeologico di Napoli (MANN) Paolo Giulierini. I due per primi si meravigliano piacevolmente del successo del prodotto che è on line dalla primavera del 2017 e che non smette di moltiplicare il numero di utenti dall’Europa all’America Latina, dall’Australia all’Asia.

       Realizzato in inglese e in italiano e rilasciato su Apple Store e Google Play gratuitamente e senza contenuti pubblicitari, il gioco narrativo 2D, cioè a due dimensioni, e a scorrimento orizzontale, racconta di un figlio alla scoperta dei segreti di un padre archeologo che non ha mai conosciuto. In questo percorso, che definiremmo di tipo esistenziale, il protagonista che si chiama Michael esplora il confine tra presente e passato all’interno dello spazio espositivo. Si reca al Mann per saperne di più della vita del genitore e degli insegnamenti che gli ha lasciato. Seguendolo nel gioco, ci si ritrova a Pompei nelle ventiquattro ore che precedettero la devastante eruzione del Vesuvio, per poi ritornare ai giorni d’oggi presso le rovine della città romana, nella veste di turista che scatta una foto. E qualcosa di analogo accade per l’era egizia e per quella borbonica, secondo un nuovo modo di fare storytelling che pone al centro il protagonista e chi gioca.

       Paolo Giulierini è uno studioso di Lettere classiche, impegnato negli anni in politiche di promozione dei beni culturali. Ludovico Solima è un economista, docente di gestione delle imprese. Fabio Viola insegna alla Nuova Accademia di Belle Arti di Pisa e gestisce la sua azienda di progetti digitali. Si evidenzia una felice collaborazione tra cultura e imprenditorialità moderna. E’ un bel messaggio per tutti i giovani appassionati di cultura, incoraggiati a pensare che l’amore per le suggestioni della storia e dell’arte si possa coniugare con l’impegno lavorativo, senza dimenticare la dimensione creativa della contemporaneità.

da Meridianoitalia.TV del 29 maggio 2020