Su L’Osservatore romano

Libano, fortezza del dialogo

La recensione di Elisa Pinna su L’Osservatore romano

Una nuova immagine del Paese dei cedri nel libro della giornalista Fausta Speranza

Nell’antica lingua siriaca, era il “cuore di Dio”. Da millenni snodo di incontri, di commerci, di scambi culturali tra civiltà diverse, oggi il Libano per molti aspetti è anche il cuore del Medio oriente. Nel biblico Paese dei cedri, una striscia di terra tra il mare e catene imponenti di montagne, stretta tra Israele e Siria, si rispecchiano infatti le tensioni, i drammi, le speranze, le occasioni mancate e la storia recente di un’intera regione che va dal Mediterraneo al Golfo Persico. Il libro Fortezza Libano, scritto da Fausta Speranza, giornalista inviata dei media vaticani, e pubblicato a luglio per i tipi di Infinito Edizioni, traccia con passione e ricchezza di dati politici, religiosi, culturali, storici — aggiornati fino all’attualità della bancarotta finanziaria e delle proteste di piazza — il quadro di un Paese dilaniato tra «tensioni interne e ingerenze esterne», come recita il sottotitolo di copertina. Il Libano è una democrazia araba, in una regione di sceicchi, teocrati, rais. Già questo lo rende un Paese pressoché unico nel panorama locale, ma anche uno spazio aperto dove le potenze regionali e globali — come osserva l’autrice — si prendono reciprocamente le misure e fanno le prove per regolamenti di conti futuri. È inoltre una Nazione in cui la matassa sociale è aggrovigliatissima, basti pensare che vi abitano 18 confessioni religiose: «Non c’è — scrive Fausta Speranza — un solo Occidente o una sola chiesa occidentale e non c’è soltanto un Oriente arabo o un solo mondo musulmano, né un solo modo di praticare l’Islam. Né una sola Chiesa orientale. Il Libano è un riflesso della formidabile diversità del mondo ma anche delle sue contraddizioni e dei suoi dolori». A complicare ancora di più le cose, vi è stato l’arrivo negli ultimi dieci anni di oltre un milione di rifugiati dalla Siria, che si sono aggiunti ai 300-400 mila palestinesi dei campi profughi del 1948, ed hanno sconvolto le dinamiche e i rapporti sociali in un Paese di quattro milioni e mezzo di cittadini libanesi. Per fare un paragone, sarebbe come se l’Italia avesse accolto — osserva Fausta Speranza — 20 milioni di rifugiati. A regolare i rapporti tra le diverse componenti vi è, dal 1943, un Patto nazionale che attribuisce ai cristiani la presidenza della Repubblica, ai musulmani sunniti l’incarico di primo ministro e, ai musulmani sciiti, la presidenza del Parlamento. Fino agli anni Settanta, il Libano era sinonimo di un Paese ricco, moderno, laico, modello di società plurireligiosa. In molti lo consideravano una Svizzera del Medio oriente, con il lungomare di Beirut affollato di bar, ristoranti, locali all’ultima moda. Lo scenario è mutato quando il Paese è stato risucchiato — spiega l’autrice — nell’orbita dei conflitti tra Israele, l’Olp di Yasser Arafat, la Siria, l’Arabia Saudita, l’Iran della post-rivoluzione khomeinista. Due invasioni israeliane: la prima nel 1982 (contro i palestinesi e i loro sostenitori libanesi), la seconda nel 2006 (contro gli sciiti di Hezbollah filoiraniani); nel mezzo, una guerra civile durata dal 1975 al 1990 innescata e pilotata soprattutto dalle vicine potenze regionali. Dal 2011 poi, il conflitto siriano è tracimato attraverso i porosi confini libanesi, non solo per la massa dei rifugiati in fuga ma anche — da un lato — per le incursioni dei miliziani del sedicente stato islamico (Is) nel Paese dei cedri e — dall’altro — per l’intervento diretto a fianco del presidente siriano Assad e dell’Iran da parte delle milizie sciite libanesi di Hezbollah. Spesso il Libano è percepito come un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. In realtà, Fausta Speranza ne parla come di una fortezza che ha retto di fronte ad una sequenza ininterrotta di guerre, distruzioni, pressioni, attentati. «È sorprendente — scrive — come il Paese abbia tenuto testa all’egemonia siriana sui Paesi limitrofi, abbia resistito, psicologicamente oltre che militarmente al suo vicino Israele, liberando territori occupati, e poi come abbia respinto l’orrore del sedicente Stato islamico nel nord-est». In Libano inoltre, la convivenza di popolo tra cristiani e musulmani, nonostante i conflitti delle milizie e le tensioni istituzionali, non è mai venuta meno, come dimostra l’affluenza incessante di pellegrini non solo cattolici ma anche musulmani al santuario mariano di Nostra Signora del Libano ad Harissa. Il libro conduce il lettore in un viaggio pieno di riferimenti culturali, religiosi, storici, archeologici, persino culinari, oltre che ovviamente politici e sociali, mostrando anche gli aspetti meno conosciuti di quel piccolo-grande laboratorio a cielo aperto che il Libano rappresenta nel Medio oriente. Ad esempio ci svela il primo Giardino dei Giusti in terra libanese, uno spazio aperto per la preghiera individuale e la discussione collettiva in mezzo alla natura, creato nel villaggio di Kfarnabrakh nel 2019 dall’associazione Annas Linnas, guidata dal padre grecomelchita-basiliense Abdo Raad. Sull’esempio del museo ebraico dello Yad Vashem, anche qui vi è un’area che ricorda “i giusti dell’umanità”, nella quale è reso omaggio a donne e uomini di tutte le fedi che hanno scelto il bene, in situazioni molto diverse: dall’epoca della “pulizia etnica” degli armeni nell’Anatolia della prima guerra mondiale all’olocausto ebraico, dai massacri interetnici in Rwanda alle mamme di Plaza de Mayo in Argentina. L’autrice affronta anche l’ultima fase che si è aperta con le proteste scoppiate nel 2019: cristiani delle diverse denominazioni e musulmani sciiti e sunniti si sono ritrovati insieme in piazza contro il carovita e la corruzione, chiedendo il conto al governo per aver fatto sprofondare il Paese in una spirale di povertà, disoccupazione. Il premier Saad Hariri, erede di una famiglia di primi ministri sunniti tradizionalmente legati all’Arabia Saudita, è stato costretto alla dimissioni. Nel nuovo governo, presieduto — come previsto dal Patto nazionale — da un nuovo premier sunnita, Hassan Diab, sono entrati rappresentanti di Hezbollah. La pandemia di covid-19 ha poi rimescolato e complicato tutto. L’esecutivo ha dichiarato la bancarotta e sta rinegoziando il proprio debito con il Fondo monetario internazionale. La rivolta non si è fermata: ha caratteristiche nuove, a protestare ci sono soprattutto i giovani libanesi che — come si legge anche nell’introduzione del libro firmata da Pasquale Ferrara, ambasciatore italiano esperto dei Paesi del Mediterraneo — vogliono «prendere in mano il loro futuro».

su L’Osservatore romano 23 luglio 2020:

https://media.vaticannews.va/media/osservatoreromano/pdf/quo/2020/07/QUO_2020_166_2307.pdf

 

Sull’Avvenire, il Libano «laboratorio politico» di fratellanza

Avvenire 22 Luglio 2020

IL LIBRO

Il Libano un «laboratorio politico» di fratellanza

Il Libano, un Paese che resiste, e per questo la sua maggiore virtù è la resistenza. Le manifestazioni contro la corruzione e il carovita, esplose nell’autunno del 2019, «sono state una interessantissima espressione popolare, trasversale rispetto a qualunque confessionalismo o settarismo». E per questo “Fortezza Libano. Tra tensioni interne e ingerenze straniere” di Fausta Speranza (Infinito edizioni, euro 14) è una ricognizione storica e culturale del Libano, nella ricerca di una nuova possibilità di sviluppo.
«La maggiore virtù del suo popolo – scrive nella introduzione Pasquale Ferrara – è la resilienza ed è per questo che esso ha diritto a una nuova opportunità di sviluppo umano, di cittadinanza partecipativa, di inclusione sociale, soprattutto per i suoi giovani, scesi in piazza per prendere in mano il loro futuro». Una chance che, secondo Fausta Speranza, ora va cercata nel Documento sulla fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 da papa Francesco e dal grande imam di alAzhar, al-Tayyeb: «Uno strumento nuovo e straordinario perché non è solo l’espressione di propositi di convivenza e di pace», afferma l’inviata de L’ Osservatore Romano. Nel Libano, «Cuore di Dio» in siriaco, da sempre esposto alle tensioni culturali e geopolitiche dell’intero Medio Oriente, in modo concreto questo documento apre «al concetto di cittadinanza, in linea con l’affermarsi di una comune identità nazionale che superi la logica di minoranze alla ricerca di protettori politici». Il Libano, laboratorio politico della fratellanza. ( L.Ger.) RIPRODUZIONE RISERVATA.

Al voto in Siria

 Tra  violenze e crisi economica

Domani, domenica 19 luglio, si vota per le legislative in Siria, dove, dopo nove anni di guerra non si muore più come prima, ma non si può ancora parlare di completa pacificazione. In particolare, le armi non tacciono nel nord ovest del Paese e anche nell’est resta molto alta la tensione. Intanto, l’80 per cento della popolazione è caduto sotto la soglia di povertà. Con noi l’esperto dell’area Lorenzo Trombetta

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Circa 19 milioni di siriani sono chiamati alle urne domani, domenica 19 luglio, in 7.313 seggi elettorali distribuiti in tutto il Paese per eleggere 250 deputati tra 2.100 candidati. Sono stati creati seggi elettorali anche per le province di Idlib, Raqqa e parti della campagna settentrionale, di Aleppo che non sono ancora completamente sotto il controllo delle forze governative per la presenza di sacche di forze ribelli. Di questo appuntamento elettorale e della situazione del Paese abbiamo parlato con l’inviato dell’Ansa nel Vicino Oriente Lorenzo Trombetta:

In questi anni – ricorda Trombetta – si sono svolte altre elezioni e il governo centrale di Damasco, in particolare dopo la proclamazione tra il 2018 e il 2019 della sconfitta del sedicente Stato islamico, rivendica non solo la legittimità del suo potere, ma anche di aver ripreso il controllo del territorio. In realtà, se nella provincia di Idlib è ancora confronto aperto tra le varie potenze straniere che sono entrate in campo, anche nell’est restano alti la tensione e il rischio che possano riesplodere violenze per la presenza di forze legate al sedicente Stato Islamico. Trombetta ricorda il ruolo delle varie potenze interessate da questo conflitto ormai al decimo anno e descrive poi la situazione sociale. La popolazione – spiega – risente della forte frantumazione del tessuto sociale e comunitario ed è stremata, oltre che dal dramma della morte vissuta da vicino in questi anni, anche dalla crisi economica che è stata perfino aggravata dalle misure restrittive dovute alla pandemia. Tanto che – ricorda Trombetta – nei rapporti dell’Onu si parla dell’80 per cento della popolazione che ormai si trova sotto la soglia di povertà.

Il dramma della provincia di Idlib

Gli investigatori delle Nazioni Unite denunciano crimini contro la popolazione civile di Idlib, ultimo territorio nelle mani della rivolta, nella provincia nord occidentale del Paese. Secondo un rapporto dell’Onu pubblicato la settimana scorsa si tratta di crimini di guerra, e forse crimini contro l’umanità, in particolare se si considera le conseguenze sulla popolazione civile dell’offensiva lanciata tra novembre 2019 e aprile di quest’anno dall’esercito di Damasco e dalle forze russe alleate. Il rapporto, che si basa su materiale fotografico e video, parla di almeno 52 attacchi di questo tipo e riporta oltre 300 testimonianze. In particolare, nei mesi sui quali ha indagato l’Onu sono stati colpiti 17 presidi sanitari, 14 scuole, 9 mercati e 12 edifici civili, la maggior parte dei quali dalle forze del regime e dai loro alleati di Mosca. E il punto è proprio che sono stati “sistematicamente attaccati ospedali, scuole, mercati”. Stando al rapporto, inoltre, le forze governative hanno anche usato bombe a grappolo. Secondo Paulo Sérgio Pinheiro, presidente della commissione d’inchiesta Onu sulla Siria, “alcuni bambini sono stati bombardati mentre erano a scuola,  civili sono stati bombardati mentre facevano la spesa al mercato, pazienti sono stati bombardati nei loro letti d’ospedale e alcune famiglie sono state colpite mentre fuggivano verso luoghi più sicuri”. L’offensiva delle forze del presidente Bachar al-Assad ha provocato un milione di profughi e più di 500 morti secondo il rapporto. “Nel corso di questa campagna le forze del regime hanno violato in modo flagrante le leggi della guerra e dei diritti dei civili siriani”, dice ancora Pinheiro. Mentre, sempre secondo il rapporto, alcuni “bombardamenti indiscriminati”, in particolare quelli su Maarat Al-Nouman, “potrebbero rientrare nella categoria dei crimini contro l’umanità”. Gli autori del rapporto hanno anche accusato la milizia islamista Hayat Tahrir al Sham (Hts), che controlla parte di Idlib, di bombardamenti nelle aree sotto il controllo del governo, nei quali hanno perso la vita oltre 200 civili. I miliziani, inoltre, si sono macchiati di crimini di guerra come saccheggi, rapimenti, torture e omicidi di civili.

L’appello delle Nazioni Unite

In questi giorni si è svolta a Ginevra la 44esima Sessione del Consiglio dei Diritti Umani ed è emerso l’appello alle parti in conflitto a rispettare pienamente il diritto internazionale umanitario e proteggere la popolazione e le infrastrutture civili, incluso scuole ed ospedali. Inoltre, è stata sottolineata l’importanza che le forniture di aiuti umanitari siano garantite in maniera imparziale e senza discriminazioni, attraverso il pieno utilizzo di tutti i canali assistenziali possibili, inclusi i meccanismi emergenziali “crossborder”.

La questione aiuti

Il consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato la settimana scorsa una risoluzione che proroga la fornitura degli aiuti umanitari alla Siria dalla Turchia, ma solo attraverso un solo punto di passaggio. E’ quanto ha chiesto la Russia, che nei giorni scorsi insieme con la Cina aveva messo il veto a tutte le proposte per mantenere i due ‘crossing point’ previsti nella risoluzione scaduta venerdì scorso. Secondo Mosca sarebbe stata una violazione della sovranità di Damasco.

L’incubo pandemia

Il coronavirus è arrivato anche a Idlib: un medico di 30 anni è risultato positivo due giorni fa e sono in corso accertamenti su coloro che sono entrati in contatto con lui. L’ospedale è stato temporaneamente chiuso. Già a marzo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) aveva inviato un team per monitorare un’area potenzialmente esplosiva: su tre milioni di abitanti, oltre un milione di persone sono ammassate in tende e alloggi di fortuna, tra malnutrizione e malattie, con un sistema sanitario notevolmente decimato.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-07/siria-guerra-pandemia-crisi-economica-armi.html

Le misure legali che creano povertà

La denuncia della Caritas Internationalis

Cancellare il debito dei Paesi poveri e rivedere le sanzioni che colpiscono i civili senza portare altri frutti: è l’appello della Caritas Internationalis, emerso nella conferenza stampa streaming di presentazione del suo Rapporto annuale. Il presidente, cardinale Tagle, ha auspicato una nuova speranza di solidarietà per il futuro, oltre l’emotività della crisi sanitaria, chiedendo che si lavori per “un cessate il fuoco globale”.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Debito e restrizioni commerciali tagliano i ponti delle possibilità di riscatto di intere popolazioni ben oltre i confini dei Paesi direttamente colpiti. Un esempio è sotto gli occhi di tutti: il Libano, che certamente paga anni di politiche economiche miopi, si trova però sotto scacco anche per le ripercussioni delle sanzioni imposte al governo siriano, che da anni mortificano gli scambi commerciali. Per Beirut, Damasco rappresentava il primo partner commerciale della regione. E’ solo uno dei risvolti di cui si è parlato nella conferenza stampa streaming di presentazione del Rapporto annuale di Caritas Internationalis che si è svolta ieri pomeriggio. Hanno partecipato il presidente, il cardinale Luis Antonio Gokim Tagle; il segretario generale di Caritas Internationalis, Aloysius John; il cardinale Wilfrid Fox Napier, presidente di Caritas Sud Africa e Rita Rhayem, direttore di Caritas Libano.

Un orizzonte nuovo nelle parole del cardinale Tagle

Il cardinale Tagle ha mandato un messaggio di speranza, nella convinzione che “i tanti cambiamenti che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo siano un’occasione per il futuro” per costruire una “nuova connessione di solidarietà”. Siamo “una sola famiglia umana” – ha ricordato il presidente di Caritas Internationalis – e la sensazione di vicinanza che ha suscitato la pandemia, colpendo tutti, non può essere dimenticata senza lasciare un segno: e quel segno dovrebbe essere la capacità di dare nuove risposte. Non solo emotività nel momento della crisi sanitaria – è il messaggio del cardinale Tagle –  ma anche capacità di combattere con forza condizioni drammatiche come la fame nel mondo, le guerre, le violenze, che calpestano vite umane e la dignità delle persone. E dunque – ha spiegato – significa recuperare lo sguardo inclusivo di Papa Francesco nella Laudato Si’ e adoperarsi per azioni concrete come quella di “un cessate il fuoco globale”.

Lo sguardo particolare al Medio Oriente

Ad illustrare il quadro che emerge dal Rapporto Caritas Intrnationalis 2019 è stato il segretario generale dell’organizzazione, Aloysius John, che ha sottolineato come “la situazione in Medio Oriente è peggiorata drasticamente negli ultimi sei mesi e le sanzioni economiche e l’embargo sulla Siria hanno contribuito ad aggravare la tendenza”. La convinzione di Aloysius John è chiara: “Le sanzioni unilaterali senza dialogo o negoziati non sono mai servite allo scopo, al contrario, sono state controproducenti”. Ha spiegato che gli effetti delle sanzioni come strumento politico non hanno sortito gli effetti sperati e piuttosto hanno dimostrato un enorme potere di distruzione delle vite delle persone più vulnerabili”. I prezzi sono saliti alle stelle, le persone non hanno i mezzi per comprare cibo, la malnutrizione si sta diffondendo e c’è una crescente rabbia contro la comunità internazionale. La situazione è peggiore per i più vulnerabili, in particolare i bambini, le donne e gli anziani, già profondamente colpiti da guerre, tensioni, fondamentalismo e dal Covid-19. “I più poveri – ha ricordato – sono quelli che pagano sempre il prezzo più alto”. In questi giorni “guardiamo tutti con particolare preoccupazione al Libano, che è sempre stato un modello di equilibrio per l’intero Medio Oriente”, ha sottolineato Aloysius John. Un Paese che è sempre stato un “messaggio di libertà e un esempio di pluralismo per Oriente e Occidente”, come diceva San Giovanni Paolo II.

Significativi i dati sul Libano

Oggi in Libano – ha ribadito Rita Rhayem, direttore della Caritas del Paese dei cedri – il 75 per cento della popolazione ha bisogno di assistenza e la valuta locale ha perso l’80 per cento del suo valore. “Ma – ha proseguito Aloysius John – questo non è l’unico motivo per cui siamo fortemente preoccupati per la crisi libanese”, aggiungendo: “Il Libano è sempre stato un centro essenziale per l’invio di aiuti umanitari a Paesi come la Siria e l’Iraq, e se la situazione non migliora, le conseguenze per l’intera regione saranno catastrofiche”.

Le richieste concrete

Essenziale il richiamo al Papa: più volte Papa Francesco ha invitato le nazioni ricche a riconsiderare la cancellazione dei debiti per le nazioni più povere, ha ricordato il segretario generale. Il debito delle nazioni più povere è spesso pagato dal sudore e dalla fatica dei più poveri. Sono altamente vulnerabili e sono facili prede di tutti i tipi di problemi di salute a causa della loro fragilità. La Caritas chiede la riduzione del debito delle nazioni più povere e la riallocazione dei fondi alle organizzazioni affidabili che lavorano con queste comunità. “Solo la riduzione del debito e la sua riallocazione per lo sviluppo alla base – è stato ribadito durante l’incontro telematico – consentiranno il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile e garantiranno la dignità dei più poveri”. “È inconcepibile – ha affermato Aloysius John – che misure affrettate messe in atto senza alcun dialogo con gli attori regionali siano fatali per i più poveri”. Dunque, i rappresentanti della Caritas si sono uniti al grido del Papa, “per fermare qualunque violenza e  conflitto” e chiedere “l’immediata sospensione delle sanzioni”.

Parole dure contro le sanzioni

Aloysius John ha affermato che le sanzioni opprimono i più poveri e sono, in sostanza, strumenti per “l’uccisione passiva di civili innocenti”.  Ha definito le sanzioni “misure ingiuste che colpiscono le persone più vulnerabili, soprattutto in questo momento del Covid-19” e ha affermato che “stanno creando terreno fertile per il terrorismo”. “Le persone che fuggono da situazioni difficili diventano migranti illegali che vengono respinti dai Paesi vicini e dall’Europa”. In sostanza, Aloysius John ha ricordato che “la lotta contro la fame, la povertà e l’ingiustizia è l’obiettivo principale della confederazione in quanto garantisce il benessere e la dignità umana dei più vulnerabili”.

L’impegno dell’organismo ecclesiale in tempo di pandemia

Per fronteggiare l’emergenza Covid, la Caritas Internationalis ha finanziato 23 progetti e altri 14 sono già stati approvati. Grazie ad essi, le famiglie sono state aiutate con l’assistenza alimentare di base, kit per l’igiene, sapone, pannolini e assistenza in contanti per pagare l’affitto e altri bisogni urgenti. E’ solo un esempio di centinaia di azioni piccole, ma molto importanti, che contribuiscono alla prevenzione della propagazione del virus. Al momento, Caritas Internationalis sta aiutando quasi 9 milioni di persone in 14 Paesi, inclusi Ecuador, India, Palestina, Bangladesh, Libano e Burkina Faso. Sono circa 2 milioni di persone, inoltre, i beneficiari dei programmi di fondi per un totale di 9 milioni di euro in differenti parti del mondo. Purtroppo però i responsabili della Caritas sanno bene che ci sono altre centinaia di migliaia di persone che hanno bisogno di aiuto.

L’allarme del Fmi in vista del G20

E’ stato ricordato che il lockdown a diverso titolo ha paralizzato l’economia globale, con forti ripercussioni in Europa, Stati Uniti, Cina, Giappone. Il punto è che la Caritas torna a richiamare tutti ad una consapevolezza: quella di essere davanti a un’emergenza atipica in cui Paesi che normalmente sono tra i maggiori donatori sono anche i più colpiti dal virus. Anche per questo motivo, l’utilizzo degli aiuti internazionali per rispondere ai bisogni nazionali “non rappresenta la giusta soluzione”, non può essere sufficiente. L’incertezza resta alta anche se qualche segnale di ripresa c’è. E’ quanto afferma il Fondo monetario internazionale (Fmi) nel documento preparato per il G20 dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali, che si terrà virtualmente il 18 luglio. Al G20 il Fondo chiede “sforzi collettivi”: “Sono essenziali per mettere fine alla crisi finanziaria e rilanciare la crescita”. Anche l’Europarlamento chiede un approccio nuovo. Nel comunicato pubblicato la settimana scorsa durante la Plenaria, si legge che in Siria, dopo un decennio di conflitto, è giunto per l’Europa il momento di ripensare i propri interessi e la propria politica. Oltre al sostegno al rinnovo del meccanismo delle Nazioni Unite (che fornisce aiuti transfrontalieri alla Siria), “l’Europa dovrebbe sviluppare delle politiche parallele che possano gradualmente andare oltre la semplice fornitura di aiuti umanitari”. Questo “potrebbe consistere nell’autorizzare gli attori locali a realizzare progetti di recupero attraverso un sostegno diretto, utilizzare istituti di microfinanza per erogare prestiti agli agricoltori e alle cooperative agricole o sostenere le capacità delle piccole aziende farmaceutiche per soddisfare le esigenze locali”.

A rischio fame 230 milioni di persone

Secondo il World Food Program, il numero di persone che rischia la fame nel mondo per le conseguenze della pandemia potrebbe raddoppiare fino ad arrivare a 230 milioni di persone. In Africa manca il cibo e in molti Paesi si stanno aggiungendo inondazioni, siccità, invasioni di locuste e raccolti scarsi. In alcuni Stati del Medio Oriente, dell’America Latina e dell’Asia sta già aumentando la malnutrizione infantile e il numero di adulti che soffrono la fame. Tra le categorie più a rischio i migranti, gli sfollati interni, i rifugiati e i rimpatriati, come quelli in Venezuela. Particolarmente critica la situazione dei migranti irregolari perché non rientrano in nessuna delle categorie che possono ottenere aiuti.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2020-07/caritas-medio-oriente-libano-siria-pandemia.html

Fortezza Libano nella recensione di Paolo di Giannantonio

Il dramma e la magia del paese dei cedri nel libro di Fausta Speranza

di Paolo Di Giannantonio

 Notizie molto più che preoccupanti dal Libano: ormai siamo alla narrazione quotidiana del precipitare di una nazione intera negli abissi di una crisi finanziaria ed economica che è anche politica e sociale. E, sullo sfondo, si sentono i sordi scricchiolii anche di quel difficile equilibrio che ha permesso una straordinaria, anche se mai facile, convivenza a 18 confessioni religiose diverse. L’incubo di tutti e che si torni a regolare i conti con le armi, con si è spesso fatto negli anni passati.

Oggi la “Svizzera del Medio Oriente”, così come la si definiva negli anni d’oro, sembra chiamata a pagare, tutte e subito, le contraddizioni che ieri erano considerate elementi costitutivi di uno Stato unico nel suo genere, profondamente arabo e mediorientale, ma anche composto da pezzi d’Occidente di avanguardia. Le analisi, tutte pessimistiche, si rincorrono. Le previsioni per il futuro prossimo, sono tutte negative. Inflazione, banche in dissesto, manifestazioni di piazza, scarsità di alcuni generi di prima necessità, interruzione di servizi essenziali come la corrente elettrica per periodi sempre più lunghi. La tristezza, narrata con magistrale lucidità, da quell’intellettuale amaramente consapevole di Samir Kassir, è diventata angoscia, incertezza per il domani, voglia di fuga. E, dal passato recente, riemergono ferite mai chiuse, i ricordi di massacri e crudeltà impossibili da dimenticare. Da quello meno recente i dubbi su quella ingegneria post-coloniale che ha tratteggiato il Medio Oriente per quello che è ancora e che non dovrebbe essere più.
Il Libano soffre l’aggressività e l’ingerenza degli stati vicini, a cominciare da Israele, subisce i danni delle tragedie irakena e siriana, sente sulla pelle le tensioni tra Arabia Saudita ed Iran.
Ci sono stato più volte, a raccontare l’affermazione di Hezbollah, l’arroccamento e le divisioni interne dei cristiani, il mistero dei Drusi, in campi profughi senza speranza dei palestinesi, il malumore della popolazione sunnita. Ma anche la straordinaria vitalità di Beirut, le impareggiabili bellezze naturali ed archeologiche di Tiro, Sidone e della Beckaa. Il fermento culturale, la voglia dei libanesi di restare uniti, di sentirsi popolo. Ma subito dopo anche l’amarezza dei giovani, che non riescono a vedere un futuro.
TuttI questi spunti vengono puntualmente approfonditi e sviluppati dalla collega Fausta Speranza, nel suo bel libro, “Fortezza Libano”, che potrà essere strumento utilissimo per chi vorrà conoscere questo paese così complesso e pieno di sfumature.
Nella interessantissima prefazione, Massimo Campanini, autorità indiscussa della mediorientalistica italiana (consentitemi questo neologismo), ricorda che questo è stato un paese “costruito” dagli ingegneri geopolitici francesi nel dopoguerra e che paga e pagherà sempre questa stortura. Ne sottolinea, anche, la ricchissima tradizione culturale, che Fausta Speranza ben racconta e illustra nella seconda parte del volume. È paese da apprezzare E studiare nella letteratura, nelle arti, nella musica ed anche, molto, nella cucina.
E se la politica sembra confusa e miope, incapace di trovare vie di uscita alla grande crisi che attanaglia non solo il Libano ma la regione intera, molto attiva è la diplomazia di Papa Bergoglio, che con le parole d’ordine dialogo, fratellanza e pace non si risparmia. Fausta Speranza tutto questo lo illustra, dando, a questo momento pieno di incertezze, un motivo di speranza. Ecco: da cronista disincantato spero proprio che abbia ragione lei…

https://www.meridianoitalia.tv/index.php/cultura1/libri-film/199-fortezza-libano-il-dramma-e-la-magia-del-paese-dei-cedri-nel-libro-di-fausta-speranza

“Fortezza Libano” racconta le sfide di un Paese che ‘resiste’

“Fortezza Libano” è l’espressione che la giornalista di Vatican News Fausta Speranza ha scelto per descrivere la realtà di un Paese che rappresenta un unicum nel contesto mediorientale e può essere un laboratorio fecondo per tutta la Regione

Debora Donnini – Città del Vaticano

“Il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano”. La citazione del Cantico dei Cantici che dà il “la” al libro “Fortezza Libano”, uscito per Infinito Edizioni, testimonia già da queste prime parole la centralità di questo territorio che porta le orme e il fascino di storia e civiltà, tra cui quella cristiana. I viaggi che la collega Fausta Speranza vi ha compiuto sono stati in qualche modo tradotti in queste pagine nelle quali si fotografa la situazione di un Paese che fino agli anni Settanta era il più ricco e moderno del Vicino Oriente mentre oggi è attraversato da tensioni interne, ingerenze straniere e manifestazioni di piazza contro il carovita e la corruzione. “Quello che io ho potuto constatare – dice Fausta Speranza nell’intervista –   è che il Libano è un Paese che dopo la guerra civile tra il 1975 al 1990, vive una situazione particolare”. In definitiva, si tratta di “un Paese che resiste”. “A 20 chilometri da Balbeek, dove c’è il bellissimo sito archeologico – racconta – si trova il confine con la Siria, un Paese in guerra da circa 10 anni. Da questo si capisce che il Libano ha resistito, ad esempio, all’ingerenza del sedicente Stato islamico. Non solo,  sono arrivati un milione e mezzo di profughi – in una certa fase perfino due milioni – e questo piccolissimo Paese di circa 4 milioni e mezzo di abitanti li ha accolti. Tuttora vi si trovano un milione e mezzo di profughi siriani e il Libano resiste alla tentazione del rifiuto”. Un piccolo territorio, il Paese dei cedri, “un crocevia fondamentale negli equilibri del contesto regionale, che ha resistito da dopo la guerra civile finora anche al fenomeno che  l’intellettuale statunitense Huntington ha definito ‘scontro di civiltà’”.

Le sfide

Ma Speranza vuole raccontare anche le sfide, a partire da quelle sul piano economico e sociale, con cronaca e approfondimenti sulle tensioni interne e sulle ingerenze straniere, come recita il sottotitolo del libro. E descrive la peculiarità di un Paese dove la rappresentanza politica riflette, in qualche modo, quella delle differenti religioni che lo abitano. Vi sono  cristiani, sunniti, sciiti, alcune minoranze, e la Costituzione prevede una forma di governance definita confessionalismo, con le tre principali cariche attribuite a cristiani maroniti, sunniti, sciiti. Un Paese che l’autrice definisce “un possibile laboratorio privilegiato del Documento di Abu Dhabi firmato il 4 febbraio del 2019 da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb”. E  questo perché – spiega – “si tratta di un documento importante per l’affermazione della promozione del dialogo tra credenti in termini di incontro nello spazio dei valori etici e spirituali,  per la  presa di posizione importante contro qualunque strumentalizzazione delle religioni nel senso della violenza, ma anche perché si tratta di un documento in cui si parla del concetto di cittadinanza”. Speranza sottolinea che dobbiamo considerarlo un pronunciamento  molto importante e afferma: “Cittadinanza significa riconoscere l’uguaglianza dei diritti e doveri su un fondamento di giustizia, e il Libano, dove l’equilibrio tra la presenza cristiana e quella musulmana è particolare anche se tra diverse sfide, può essere indicato anche come un laboratorio per il processo di acquisizione del concetto di cittadinanza nel mondo mediorientale”.

Il riferimento al magistero dei Papi

A proposito dei risvolti del magistero dei Papi nel libro, l’autrice cita, oltre a Papa Francesco, in particolare due riferimenti: nel 2010  il Sinodo sul Medio Oriente voluto da Benedetto XVI; e, facendo  un passo indietro, nel 1997 la visita di Giovanni Paolo II  in Libano per la pubblicazione dell’Esortazione post-sinodale del Sinodo speciale dedicato proprio al Libano. In quell’occasione il Papa oggi Santo ha parlato così della terra dei cedri: “Il Libano è qualcosa di più di un Paese: è un messaggio di libertà e un esempio di pluralismo per l’Oriente come per l’Occidente”.

La testimonianza di scrittori e poeti

Il libro di Fausta Speranza va anche a ritroso nella storia di questo Paese dai mille volti, dalle impronte fenice ai numerosi richiami nella Bibbia, e rintraccia, nell’oggi quegli scrittori e poeti testimoni di quella bellezza e profondità della cultura libanese come Amin Maalouf, “un romanziere particolarissimo – dice Speranza – un intellettuale simbolo, un interprete particolarissimo di tutte le sfide culturali che coinvolgono l’Oriente come l’Occidente. “Mi ha affascinato molto e c’è questa frase che mi è rimasta dentro: Sogno un mondo in cui l’agnello e il lupo si abbeverano allo stesso ruscello”. Dipinge così quell’afflato di dialogo e di scambio che da sempre nutre la variegata eredità libanese.

da Vatican NEWS del 14 luglio 2020

Nasce la Rete contro l’odio social

Viene definito hate speech: è il linguaggio carico di aggressiva ostilità che caratterizza molti dei contenuti che girano sui social network o su Internet. Vari Paesi d’Europa hanno emanato leggi ad hoc, in Italia ancora non c’è una normativa precisa, ma nasce la Rete che riunirà agenzie educative e associazioni di studi giuridici per monitorare il fenomeno dell’odio sui social e studiare gli strumenti per contrastarlo. Con noi l’esperto di linguistica Federico Faloppa

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La neonata Rete, presentata oggi con una conferenza stampa online, si occuperà di ricerca, condivisione di buone pratiche di narrazione corretta e accurata, di promozione di percorsi educativi e formativi per sensibilizzare la società civile su un fenomeno galoppante, al quale non ci si può abituare. Tra i promotori tre ong che operano a livello internazionale (Action Aid Italia Onlus, Amnesty International Italia, COSPE Onlus), che hanno coinvolto diverse asociazioni e studiosi. Del fenomeno e della doverosa reazioni a tutti i livelli della società, abbiamo parlato con Federico Faloppa, docente di Linguistica all’Università Reading in Gran Bretagna:

Sono i numeri – spiega Federico Faloppa – che raccontano l’ampiezza della compagine che ha dato vita alla prima Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio. I numeri – 5000 denunce in pochi anni – evidenziano l’importanza e la forza del progetto, unico nel suo genere, perché capace di riunire le più importanti realtà che da diverso tempo si occupano di mappare e combattere i discorsi e i fenomeni di odio: di particolare rilievo, l’approccio multidisciplinare che consente di coprire tutti i territori che è necessario presidiare per un’efficace azione, dalla ricerca alla proposta normativa, fino agli interventi nelle scuole per combattere bullismo, discriminazioni e intolleranze e per favorire la cultura dell’inclusione. Di fronte alla sempre più violenta e pericolosa pervasività dei discorsi e dei fenomeni di odio ad essi collegati – sottolinea – diventa urgente coordinare le diverse iniziative per dar vita a una risposta davvero incisiva. Da qui, la creazione della Rete, tra le cui finalità spiccano gli elementi individuati anche dall’Unesco e dal Consiglio d’Europa come necessari per affrontare il fenomeno dello hate speech: dal contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio, dai fenomeni di disinformazione da cui essi traggono origine alla creazione e promozione di narrazioni corrette e accurate e narrazioni alternative.

Le prime adesioni all’iniziativa

Oltre alle ong hanno aderito all’iniziativa otto associazioni tra cui ASGI-Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, ARCI, Associazione Carta di Roma, Associazione Giulia Giornaliste, Lunaria, Pangea Onlus, Vox-Osservatorio italiano sui Diritti, etc. Partecipano inoltre ricercatori provenienti da otto università (Bicocca, Bologna, Firenze, Padova, Reading (Uk), Statale Milano, Trento, Verona) e tre centri di ricerca (Cnr Palermo; Centro per le scienze religiose e Centre for information and communication technology della Fondazione Bruno Kessler); un centro studi (Cestudir Venezia); due osservatori (Oscad-Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, Osservatorio di Pavia); il Consiglio Nazionale Forense e la Commissione diritti fondamentali della Camera penale di Venezia. Partecipa al confronto promosso dalla Rete l’Unar – Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali.

Dell’impegno sul piano della formazione, parla Silvia Brena, giornalista e docente di Facoltà di Teorie e tecniche della Comunicazione all’Università Cattolica di Milano:

Silvia Brena spiega che, tra i vari progetti per assicurare una narrazione alternativa a quella che rientra nella definizione di hate speech, la Rete promuoverà da settembre una serie di webinair su tematiche inerenti. L’obiettivo – sottolinea Brena – è quello di assicurare un’informazione e una formazione che possano contrastare le fake news, che sono il primo grave scalino dell’incitamento all’odio. La disinformazione purtroppo dilaga e – spiega Brena – quella che è imperversata attraverso whatsap durante il periodo di lockdown è stata incredibilmente condivisa e ripostata. Dare false notizie è il modo più facile e immediato per alimentare rancore e risentimento nelle persone. Dunque, Brena spiega che i seminari online si riprometteranno di offrire seria informazione su quei temi sui quali invece si ritrovano più distorsioni sui social.

da Vatican NEWS del 14 luglio 2020

Fao: a rischio fame 130 milioni di persone in più. La Santa Sede chiede solidarietà

Fame cronica e malnutrizione non solo non spariscono ma aumentano, rendendo sempre più difficile il raggiungimento degli Obiettivi di assistenza alimentare per tutti entro il 2030. E il 2020 potrebbe segnare il drammatico record di 130 milioni di nuove vittime di carenze alimentari per le ripercussioni economiche del Covid-19. La Santa Sede chiede solidarietà, maggiore cooperazione internazionale, strategie a favore dei piccoli produttori e politiche di riduzione dei prezzi degli alimenti nutrienti. Con noi l’Osservatore Permanente presso la Fao, monsignor Fernando Chica Arellano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Quasi 690 milioni di persone hanno sofferto la fame nel 2019, con un aumento di 10 milioni rispetto al 2018 e di 60 milioni negli ultimi cinque anni. E’  quanto denuncia l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), nel documento intitolato “State of Food Security and Nutrition in the World”, pubblicato oggi. Il rapporto sullo Stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo è il più autorevole monitoraggio globale degli studi sui progressi verso l’obiettivo indicato della fine della fame e della malnutrizione nel mondo. È elaborato grazie al lavoro congiunto della Fao, del Fondo internazionale per l’agricoltura (Ifad), del Fondo per l’infanzia (Unicef), del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Pam) e dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). Nella prefazione, i capi delle cinque agenzie avvertono che “cinque anni dopo che i leader mondiali si sono impegnati a porre fine alla fame, all’insicurezza alimentare e a tutte le forme di malnutrizione, siamo ancora fuori strada rispetto all’obiettivo fissato entro il 2030″. Dei dati emersi e della necessità di rafforzare la cooperazione internazionale abbiamo parlato con l’Osservatore Permanente della Santa Sede, monsignor Fernando Chica Arellano:

Monsignor Arellano sottolinea che il rapporto mette in evidenza quanto siamo lontani dallo sconfiggere la fame nel mondo, mostra che “non siamo sulla buona strada”. Dalla valutazione dei dati emerge che l’impegno assunto nel 2015 con l’obiettivo di risultati concreti entro il 2030 non è riuscito a portare reali progressi. E l’Osservatore Permanente della Santa Sede sottolinea che l’emergenza è su due fronti: per chi soffre di denutrizione e per quanti soffrono di malattie provocate dalla malnutrizione, quindi ad esempio il consumo eccessivo di sostanze grasse non salutari, cibi insalubri. A questo proposito, monsignor Chica Arellano parla soprattutto di bambini e sottoline al’importanza di una corretta educazione alimentare, ricordando che anche Papa Francesco ha parlato di questo nella Laudato sì, affrontando diverse questioni legate all’ambiente.  Poi l’Osservatore Permanente presso la Fao spiega quale potrebbe essere la via da percorrere. Innanzitutto, bisogna rafforzare la cooperazione internazionale – spiega – per assicurare solidarietà nel mondo, lavorando per sconfiggere povertà, disuguaglianze, ingiustizie. “Ci vogliono politiche giuste”. E indica poi delle possibili strategie concrete: sostenere i piccoli produttori, ridurre il costo di alimenti di base ricchi di nutrienti. E’ chiaro – ricorda – che il problema della malnutrizione è strettamente collegato a quello della povertà.

Le aree del mondo più colpite

L’Asia è tristemente la patria del maggior numero di denutriti (381 milioni). L’Africa è seconda (250 milioni), seguita da America Latina e Caraibi (48 milioni). La percentuale complessiva di persone affamate è cambiata poco, ma i numeri assoluti sono in deciso aumento e questo si spiega perchè negli ultimi cinque anni la fame è cresciuta al passo con la popolazione globale. Questo, dunque, significa che si rilevano grandi disparità regionali: in termini percentuali, l‘Africa è la regione più colpita: arriva al 19,1 per cento della sua gente denutrita. Si tratta di un tasso più che doppio rispetto a quello registrato in Asia (8,3 per cento) e a quello rilevato in America Latina e Caraibi (7,4 per cento). Considerando, però, i trend riscontrati in ogni continente, gli studiosi che hanno redatto il rapporto affermano che nel 2030 sarà l’Africa ad ospitare più della metà della fame cronica del mondo.

Il prezzo della pandemia

Secondo le previsioni del rapporto, la pandemia di Covid-19 potrebbe spingere oltre 130 milioni di persone ad aggiungersi ai casi di fame cronica entro la fine dell’anno. Il maggior numero di persone alle prese con drammatiche carenze nell’alimentazione si riscontrano in Asia, ma il fenomeno si sta espandendo rapidamente in Africa. Man mano che i progressi nella lotta contro la fame dopo aver rallentato si stanno arrestando, la pandemia da Covid-19 sta moltiplicando le vulnerabilità e favorendo le inadeguatezze dei sistemi alimentari globali, intendendo le attività e i processi che incidono sulla produzione, sulla distribuzione e sul consumo di alimenti. Certamente è troppo presto per valutare il pieno impatto delle varie misure di blocco delle attività, del cosiddetto lockdown in atto con modalità diverse ma analoghe in vari contesti, il rapporto al momento fotografa 83 milioni di persone destinate a finire in condizioni di fame, ai quali potrebbero aggiungersi altri fino ad arrivare a 132 milioni di persone che potrebbero finire nel computo di quanti soffrono la fame nel 2020 a causa della recessione economica innescata dalle conseguenze dell’infezione da coronavirus.

Non è solo una questione umanitaria

Il rapporto delle Nazioni Unite avverte: garantire una dieta sana a quanti non possono permettersela non sarebbe solo un dovere della comunità internazionale nei confronti di altri esseri umani ma anche un provvedimento “utile” a risparmiare miliardi di costi per le conseguenze in termini sociali. Si stima che il contenimento della fame nel mondo potrebbe assicurare ogni anno un risparmio di 1,3 miliardi di dollari. E si legge anche che una diversa gestione delle risorse e dei meccanismi della catena alimentare potrebbe contribuire a ridurre del 75 per cento le emissioni di gas a effetto serra, che si stima abbiano un costo di 1,7 miliardi di dollari ogni anno. Prezzi elevati per l’approvvigionamento di cibi sani significa anche che miliardi di persone non possono permettersi di mangiare in modo equilibrato e nutriente. E questo provoca negli anni ricadute pesanti in termini di costi sociali. Bisogna superare la malnutrizione in tutte le sue forme: dalla denutrizione con carenze di sostanze nutrienti – come quelle contenute ad esempio nei latticini, nella frutta, verdura e cibi ricchi di proteine che sono i gruppi alimentari più costosi a livello globale – ma si parla di disfunzioni nutrizionali e danni gravi per la salute anche nel casi di un’alimentazione scorretta o povera che porta sovrappeso e obesità, a volte per eccesso di aminoacidi a basso costo o per eccesso di zuccheri, bibite adulcorate o cibi grassi nelle fasce sociali più basse di Paesi ricchi come gli Stati Uniti e l’ Europa. Non si tratta solo di assicurare cibo sufficiente per sopravvivere: è fondamentale affrontare la questione di cosa le persone mangino e, soprattutto, valutare ciò che mangiano i bambini. Il rapporto evidenzia che una dieta sana costa molto di più di 1,90 dollari al giorno, cifra stabilità a livello internazionale quale soglia di povertà. E le ultime stime indicano che l’incredibile cifra di 3 miliardi di persone o più non può permettersi una dieta sana. Nell’Africa sub-sahariana e in Asia meridionale, questo è il caso del 57 percento della popolazione, ma il fenomeno non risparmia, anche se non in queste percentuali, il Nord America e il vecchio continente.

L’obesità altra faccia della fame

Secondo il rapporto, nel 2019, tra un quarto e un terzo dei bambini sotto i cinque anni nel mondo – 191 milioni – denunciavano carenze della crescita. Altri 38 milioni di minori sempre sotto i cinque anni di vita, erano in sovrappeso. Nel rapporto si legge anche che “tra gli adulti, nel frattempo, l’obesità è diventata globale pandemia a sé stante”.

La parabola degli ultimi anni 

Gli esperti scrivono che gli aggiornamenti dei dati critici relativi alla Cina – che ha un quinto della popolazione mondiale – e altri Paesi densamente popolati hanno portato a un taglio del numero globale di persone affamate agli attuali 690 milioni rispetto agli 822 milioni del 2019. Tuttavia – spiegano – non c’è stato alcun cambiamento nella tendenza di crescita che si è ripresentata a partire dal 2014 dopo che dal 2000 si era registrata invece una diminuzione. Le edizioni 2017 e 2018 di questo rapporto hanno mostrato che i conflitti e la variabilità climatica minano gli sforzi per porre fine alla fame, all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione. Nel 2019, il rapporto ha mostrato che sono sopraggiunte anche le fasi di rallentamento dell’economia a frenare ulteriormente. Nel 2020, la pandemia da Covid-19, nonché alcuni casi di invasione di locuste senza precedenti nell’Africa orientale, stanno gettando un’ombra sulle prospettive economiche in termini che nessuno avrebbe potuto prevedere e la situazione potrebbe solo peggiorare se non si agisce con urgenza e non si intraprendono azioni senza precedenti.

Un invito all’azione

Il rapporto sollecita una trasformazione dei sistemi alimentari per ridurre i costi degli alimenti nutrienti e aumentare l’accessibilità economica di diete sane. Mentre le soluzioni specifiche differiranno da Paese a paese, e anche al loro interno, le risposte generali si trovano con interventi lungo l’intera catena di approvvigionamento alimentare, nell’ambiente e nelle politiche economiche che modellano il commercio, la spesa pubblica e gli investimenti a livello sociale. Lo studio invita i governi a rivedere le strategie in tema di alimentazione e agricoltura; a lavorare per ridurre i fattori di aumento dei costi nella produzione, stoccaggio, trasporto, distribuzione e commercializzazione di prodotti alimentari, anche riducendo le inefficienze e gli sprechi di cibo e la gestione dei rifiuti; a sostenere i produttori locali di piccole dimensioni che vogliono coltivare e vendere alimenti più nutrienti e garantire loro accesso ai mercati; a dare la priorità all’alimentazione dei bambini in quanto categoria più bisognosa; a promuovere nuovi comportamenti attraverso le agenzie educative e i media; a far rientrare la nutrizione nei sistemi di protezione sociale nazionali e nelle strategie di investimento. I capi delle cinque agenzie delle Nazioni Unite assicurano il loro impegno a sostenere i governi per uno sviluppo sostenibile per le persone e per il pianeta.

da Vatican NEWS del 13 luglio 2020

Il Sud Sudan nel difficilissimo processo di normalizzazione

Il 9 luglio del 2011 nasceva il Paese più piccolo dell’Africa che resta ad oggi il più “giovane” al mondo. Ma di questi nove anni di autonomia rispetto al Sudan, il Sud Sudan ne ha vissuti cinque in aperto conflitto armato e gli ultimi due, dopo gli accordi di pace, in una difficilissima fase di transizione. La Caritas sottolinea l’emergenza dal punto di vista umanitario anche in considerazione dell’arrivo dell’infezione da Covid-19, ricordando i ripetuti appelli alla riconciliazione di Papa Francesco e della Chiesa locale. Con noi l’africanista Angelo Turco

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Un’economia tra le più fragili al mondo, una qualità della vita fra le più basse: sono due tristi caratteristiche del Sud Sudan. La popolazione è ancora sostanzialmente dentro un conflitto cominciato nel dicembre del 2013. Si stimano 2,2 milioni di rifugiati nei Paesi limitrofi, 1,7 milioni di sfollati interni e ben 7,5 milioni di persone in difficoltà su una popolazione che ne conta in totale circa 11 milioni. La situazione è grave e si appesantisce con il diffondersi del coronavirus. Dei motivi della conflittualità, delle prospettive di pace aperte con gli accordi del 2018, ma anche del contesto regionale abbiamo parlato con Angelo Turco, geografo africanista, professore emerito dell’Università Iulm di Milano:

L’appello della Caritas

Una “pace a singhiozzo”: così la Caritas Italiana definisce i tentativi di riconciliazione parlando di “un popolo stremato dalla guerra, in un continente affamato dalla pandemia”, nel dossier pubblicato in questo anniversario dell’indipendenza da Khartoum, che si sofferma sulle ombre che oscurano l’orizzonte della più giovane nazione africana: “Una guerra civile che ha lasciato centinaia di migliaia di morti; una popolazione stremata e in fuga con milioni di sfollati interni e di rifugiati che gravano su Paesi vicini altrettanto fragili; un territorio privo di infrastrutture importanti e delle ricchissime risorse naturali che non riescono a garantire sicurezza e stabilità; un lento processo di pace, tra firme di accordi e cessate il fuoco mai rispettati, più volte rinviati e sfociati sempre in nuovi scontri di cui pagano le conseguenze tanti poveri; una crisi tra le più dimenticate”.

L’invito alla riconciliazione di Francesco e della Chiesa locale

La Caritas ricorda i tanti appelli lanciati da Papa Francesco e dalla Chiesa locale che “hanno alzato le loro voci, appellandosi al perdono e al dialogo per il superamento delle divisioni etniche e degli interessi di pochi e per tornare all’unità” nazionale. Il tutto mentre “la pandemia di Covid-19 accresce la fame più di quanto non affolli i pochi ospedali”. “Se il Paese vuole avere futuro – spiega il dossier – occorre un impegno comune verso i seguenti obiettivi: formazione e riconciliazione a livello politico, militare e comunitario; trasparenza nella gestione delle risorse naturali e lotta alla corruzione; coerenza delle politiche e approccio integrato tra risposta umanitaria, riabilitazione, sviluppo e pace; investimenti efficaci in infrastrutture e servizi primari, priorità a giovani e donne come attori di cambiamento”. La Caritas Italiana da trent’anni è impegnata nella regione, in particolare in Darfur e nella zona dei Monti Nuba, e di recente ha avvitato un piano triennale di assistenza nelle sette diocesi del Paese.

da Vatican NEWS del 9 luglio 2020

Non dimenticare l’obiettivo della copertura sanitaria globale

A dieci anni dal 2030, data fissata dalle Nazioni Unite per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdgs), sembra ancora più difficile soddisfare il punto che riguarda la copertura sanitaria globale dopo la pandemia. Il numero di persone in difficoltà si è moltiplicato in modo esponenziale ed è diventato doveroso ragionare sui sistemi sanitari nel mondo, nelle aree povere dove sono carenti e nelle zone ricche dove la salute rischia di diventare una questione di potere a scapito del diritto di tutti, riconosciuto in Europa, alle cure. Con noi il presidente della European Medical Association, Vincenzo Costigliola

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Metà della popolazione mondiale può contare solo sul cinque per cento della spesa sanitaria globale, mentre appena nove dei 49 Paesi a basso reddito possono garantire ai propri cittadini servizi sanitari essenziali. Già prima della pandemia, l’Onu denunciava che nei Paesi ad alto reddito si spendeva circa 270 dollari pro-capite per la salute dei propri cittadini, in quelli più poveri non si arrivava a 20 dollari, e che milioni di persone restavano senza alcuna copertura sanitaria. Si tratta dei dati emersi all’High level Meeting sulla Copertura sanitaria universale (Universal Health Coverage) svoltosi – a livello di capi di Stato e di governo – il 23 settembre 2019, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. Ci si chiede quali saranno i dati se ci si riunirà a settembre prossimo, esattamente a dieci anni dal fatidico 2030, indicato per il raggiungimento dei cosiddetti Obiettivi del Millennio.

La road map indicata prima del Covid-19

Mentre le Nazioni Unite chiedevano ai governi di investire adeguatamente sui servizi sanitari, è arrivata la pandemia a mettere drammaticamente il tema al centro del dibattito. L’emergenza non è ancora finita ma è importante non dimenticare il Global action plan, il documento presentato circa un anno fa che andava oltre l’analisi per proporre un piano di azione davvero globale, che implicava il coinvolgimento di tutte le agenzie specializzate dell’Onu, per una copertura sanitaria globale. A ottobre 2018, su impulso dei governi di Germania, Norvegia e Ghana, 12 delle principali agenzie specializzate delle Nazioni Unite, inclusa l’Oms, la Banca mondiale e l’Unicef, avevano concordato una road map per massimizzare le convergenze e favorire l’efficienza degli interventi.

Sette le questioni su cui accelerare

Riconoscendo la grande distanza da colmare per raggiungere l’ambizioso Obiettivo di sviluppo (Sdg3) sulla salute, queste organizzazioni avevano identificato sette principali tematiche su cui “accelerare”. Non è un caso che nella terminologia di lavoro inglese siano definite proprio “accelerators”. Le sette tematiche in questione coprono macroaeree, come il sistema di finanziamento per la salute, o argomenti più tecnici, come la ricerca per favorire l’innovazione e la produzione di nuovi farmaci. Hanno come filo rosso la necessità di semplificare la macchina burocratica internazionale per essere più rapidi e attrezzati a supportare i governi e la popolazione.

Dopo lo tsunami della pandemia

La pandemia ha aggravato la situazione e ha anche messo in luce l’urgenza di intervenire su diversi livelli. L’efficacia del piano, dopo il drammatico impatto dell’infezione da Covid-19 e delle conseguenze economiche, andrà di pari passo con una rinnovata volontà politica, non solo delle Agenzie, ma di tutta la comunità internazionale, di cambiare finalmente il sistema. Intanto, la pandemia ha messo in luce le discrepanze anche tra sistemi sanitari diversi nell’ambito dell’Occidente più ricco, mentre la salute dovrebbe essere un bene di tutti, come sottolinea ai nostri microfoni Vincenzo Costigliola, presidente dell’Associazione Medici Europei:

Nella stessa Unione europea non c’è un sistema sanitario europeo, ma tanti diversi, sottolinea Costigliola spiegando che ognuno fa riferimento a impostazioni differenti. Sostanzialmente una differenza sta nel presupporre che tutti in assoluto debbano essere curati o preoccuparsi di assicurare le cure mediche ai lavoratori o ad altre categorie di cittadini. Nel frattempo, mentre i Paesi dell’est cercavano di uniformarsi allo standard minimo europeo  – spiega – si sono fatte strade ovunque le assicurazioni mediche, sullo stile di un’impostazione statunitense. La pandemia certamente ha risvegliato l’attenzione al tema e, secondo Costigliola, nel Vecchio continente si deve tornare a immaginare un sistema europeo unico. Il presidente dell’Associazione di medici europei ribadisce, infatti, che serve una regia unica europea e che questo è stato evidente quando i vari Paesi hanno dovuto dare una risposta all’infezione e lo hanno fatto in ordine sparso perché non c’era l’uniformità che permettesse una risposta unitaria. Nell’immediato, in particolare, una risposta unitaria sarebbe stata invece fondamentale, sostiene. Castigliola poi afferma che in ogni caso in Europa c’è un presupposto per tutti: il diritto alla salute di ogni persona. Cita il contesto degli Stati Uniti dove invece una qualche assicurazione è necessaria per chiedere di essere curati. E raccomanda che il mondo guardi al modello europeo. Con tutti i limiti che ci sono e con le differenze tra Stati dell’Ue, Costigliola sottolinea che in Europa la salute non è fondamentalmente un business ma un servizio alla persona. E questo non deve cambiare. Anzi dovrebbe essere il modello per tutte le regioni del mondo.

Al centro la salute e la persona

A proposito dell’obiettivo di copertura sanitaria comune, Costigliola, tra l’altro, sottolinea che la pandemia ha reso evidente che purtroppo le strutture non sono sufficienti ovunque. E ribadisce che la comunità internazionale deve impegnarsi sempre di più per raggiungere l’obiettivo della copertura sanitaria globale e deve farlo cercando di svincolare il più possibile la logica del diritto alle cure dalle dinamiche politiche tra Stati. Per esempio, a partire dalla partecipazione all’interno dell’Oms o di altre organizzazioni internazionali. Il criterio dominante dovrebbe essere la difesa del diritto di ognuno ad essere curato e il dibattito dovrebbe essere aperto a tutti. Inoltre, Costigliola afferma che nessuna logica politica dovrebbe prevalere sul diritto alla salute. La cura delle persone è quello per cui giurano i medici, ricorda Costigliola che raccomanda che la salute “non cada in pasto ai politici”, non sia vittima della logica che fa della questione della salute una questione di potere.  Castigliola, da medico, chiede che si permetta ai medici e ai sanitari di mettere la persona e la salute sempre al centro.

da Vatican NEWS del 7 luglio 2020