Immaginare un mondo «plastic free»

Le responsabilità della politica, delle imprese e dei cittadini

Plastic free, liberi dalla plastica: sta diventando parola d’ordine di aziende e amministrazioni. Finalmente si è messo in moto qualcosa di fronte alla consapevolezza del gravosissimo inquinamento in particolare ai danni degli oceani. I rifiuti plastici prodotti annualmente nel mondo sono oltre 300 milioni di tonnellate, di cui almeno 35 milioni sono rifiuti plastici impropriamente trattati, ossia dispersi nell’ambiente. Circa un quarto di queste tonnellate finisce negli oceani.

Ma si fa presto a dire plastic free: si tratta di un processo in controtendenza, che in sostanza stravolge produzione e consumi e che va ben studiato e accompagnato. Il 20 settembre prossimo, a Genova, si ritroveranno esperti di fama internazionale per l’Ocean Race Summit 2019, che, dopo le precedenti edizioni nel 2017 e nel 2018 in altre città del mondo, darà il via a una serie di convegni organizzati proprio per esaminare il ruolo centrale delle imprese e della società civile nella lotta all’inquinamento da plastica in mare.

Ci sono da considerare responsabilità, decisioni, implicazioni sul piano dell’economia. «Dobbiamo essere attenti a evitare i facili slogan», raccomanda Carlo Altomonte che si è formato all’Università cattolica di Lovanio e oggi insegna all’Università Bocconi di Milano, occupandosi in particolare di economia industriale e di commercio internazionale. Lo abbiamo interpellato perché non è facile quantificare o fotografare l’impegno di mettere al bando la plastica. Da esperto ci ricorda: «La plastica, se adeguatamente riciclata, è un importante alleato dell’uomo in diversi ambiti: pensiamo alla medicina, all’igiene alimentare, ai materiali leggeri e resistenti che consentono di risparmiare carburante». Il problema è il trattamento del rifiuto plastico. Dunque, «dovremmo più correttamente parlare di un mondo plastic waste free».

Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), solo il 15 per cento della plastica viene raccolta e riciclata. Se tutto va bene il 25 per cento viene avviato a recupero energetico, mentre il 60 per cento finisce in discarica, abbandonato o bruciato all’aperto. Colpa della scarsa qualità dei prodotti, della mancanza di politiche che ne incentivino il riciclo e dei prezzi della materia prima: ancora troppo bassi per incoraggiare il riciclo. È evidente che invertire la rotta comporti uno sforzo notevole da parte delle aziende, a partire dalle più grandi, ma che la questione non può non coinvolgere anche gli enti statali, nonché i leader mondiali. «Le aziende possono fare di più nel limitare produzione e uso della plastica, ma la raccolta e il riciclo sono necessariamente gestiti a livello governativo, che sia locale o statale», sottolinea Altomonte ricordando che ci sono grandi Paesi al mondo dove oltre il 70 per cento della plastica utilizzata non viene gestita correttamente. «Queste sono le priorità da cui partire, con decisioni da prendere a livello del G20». E Altomonte indica l’Unione europea come possibile traino, perché, «come accade anche su altre tematiche ambientali, è la realtà più avanzata al mondo sia sul tema della corretta gestione dei rifiuti plastici, sia nella messa al bando di quelli più dannosi per l’ambiente, in particolare gli oggetti in plastica monouso». La direttiva approvata in primavera dall’Europarlamento mette al bando entro il 2021 prodotti usa-e-getta in plastica, in polistirene espanso. Sono evidentemente esentati i prodotti biodegradabili, come i piatti di cartone o di plastica compostabile, che troviamo già nei supermercati. E qui la responsabilità da globale si fa locale: dobbiamo tutti imparare a usarli da subito.

Ci si pone un interrogativo in tema di occupazione. Può essere motivo di nuovo slancio, per tutto l’impegno nuovo da mettere in campo, ma può essere anche motivo di perdita di posti di lavoro. Altomonte avverte: «Come sempre con le riforme dei grandi standard ambientali è opportuno procedere seguendo due linee guida: da un lato, occorre implementare questi standard gradualmente. Ad esempio, la stessa direttiva Ue prevede l’obiettivo di integrare il 25 per cento di plastica riciclata nelle bottiglie in pet a partire dal 2025 e il 30 per cento in tutte le bottiglie di plastica a partire dal 2030. Non il 100 per cento da domani». Ovviamente occorre che queste decisioni siano condivise da tutti: «Altrimenti si apre il fianco alla concorrenza sleale degli altri paesi». Dunque, sforzo condiviso e multilaterale diremmo. E poi ci vogliono visioni chiare: solo «se opportunamente gestiti, questi nuovi standard creano progresso tecnologico, investimenti e posti di lavoro: pensiamo alle norme sulle emissioni e al futuro dell’auto elettrica». La stessa cosa capiterà con la ricerca dei nuovi materiali che progressivamente sostituiranno alcuni usi della plastica.

Resta la questione dello smaltimento delle terribili isole di plastica che galleggiano negli oceani: quella del Pacifico è grande tre volte la Spagna, e ce n’è una larga qualche chilometro anche nel Mediterraneo, sebbene temporanea, tra la Corsica e l’Elba. E se ne scoprono sempre di nuove. Altomonte sottolinea che «rappresentano solo una piccola parte dei rifiuti plastici che finiscono negli Oceani: la gran parte della plastica nei mari è invisibile, in quanto finisce sul fondale dove si dissolve in microframmenti poi ingeriti dagli organismi, entrando dunque nella catena alimentare anche dell’uomo». L’alternativa alla corretta gestione dei rifiuti plastici è finire per mangiarli.

L’Osservatore Romano, 7 agosto 2019

Egiziani e rifugiati fianco a fianco
per ripulire il Nilo

Al Cairo un’iniziativa ambientale sostenuta dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite

Nelle acque del Nilo, culla di antiche vestigia, oggi decine di rifugiati provenienti da cinque diversi Paesi lavorano insieme con la popolazione locale per rimuovere tonnellate di plastica, dando esempio di una civiltà del servizio e della condivisione.

La pulizia del fiume è stata organizzata da VeryNile, un’iniziativa locale che ha lo scopo di promuovere la consapevolezza ambientale e di ridurre l’inquinamento provocato dalla plastica.

Ragazzi impegnati e ripulire il Nilo dalla plastica (Unhcr)

Ma non è solo un impegno concreto: è anche un’occasione per instaurare legami con la comunità egiziana. È con queste finalità che l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, Unhcr, ha reso possibile la partecipazione di cinquanta rifugiati provenienti da Siria, Sudan, Etiopia, Somalia e Yemen.

C’è un ampio tratto del fiume Nilo, nel cuore del Cairo, dove centinaia di giovani lavorano per rimuovere rifiuti di plastica, accumulatisi in quantità tali da creare isolotti di spazzatura che galleggiano lungo la riva. A loro si sono aggiunti, da volontari, i migranti. Attualmente l’Egitto ospita 247.499 rifugiati e richiedenti asilo registrati, più della metà dei quali sono fuggiti dal conflitto che infuria in Siria ormai da otto anni.

Tra loro, c’è Mohammad, rifugiato siriano di 50 anni. Accanto agli altri, si fa strada nell’acqua fino alle caviglie, per recuperare sacchetti di plastica e cartoni di succhi di frutta appiattiti. Mohammad, fuggito dal conflitto con la moglie e cinque figli nel 2013, racconta che all’inizio veniva solo per accompagnare sua figlia. Poi, però, quel lavoro di pulizia collettiva gli ha riportato alla memoria i ricordi dell’infanzia a Damasco, in particolare sul fiume Awaj, che scorre a sud della capitale siriana. E ha voluto unirsi trascinando altri.

Da sempre i fiumi sono simbolo di fertilità e sussistenza. Il Nilo è stato poeticamente soprannominato «la linea della vita dell’Egitto». Il fiume taglia il Paese, attraversando il deserto, da sud a nord. È la fonte principale di acqua dolce del Paese: ancora oggi assicura il 90 per cento del fabbisogno. Ma oltre all’aumento demografico e agli effetti dei cambiamenti climatici, l’inquinamento pone seri rischi per l’ecosistema del fiume. Rimuovere la plastica può restituire ovviamente fertilità, ma anche far emergere altre «linee di vita» in esistenze segnate dalla fuga da zone di conflitti.

L’Osservatore Romano, 7 agosto 2019