Un Libano aperto al mondo

La moschea di Al-Amin e la cattedrale
Dall’accoglienza dei profughi alla valorizzazione di un patrimonio inestimabile

di Fausta Speranza

Non più aiuti ma strategie: il Libano, dopo l’ombra scurissima del conflitto nella vicina Siria, cerca di ritrovare la luce. Torna ad aprirsi al turismo e ai pellegrinaggi, ma chiede alla comunità internazionale di impegnarsi nel favorire il rientro dei profughi in Siria. Il paese, esempio di convivenza tra cristiani e musulmani, è diventato anche simbolo di solidarietà: circa quattro milioni di libanesi hanno accolto oltre un milione e mezzo di profughi siriani, dando al mondo una lezione di umanità a fronte di un onere numericamente schiacciante. Ma nessun paese o organismo internazionale può pensare che, mentre si va faticosamente normalizzando la situazione per Damasco, ci si dimentichi dei nuovi rifugiati nel paese dei cedri, che conta ancora in alcuni campi 500.000 palestinesi arrivati nel 1948.

Abbiamo visitato la terra dei cedri con una delegazione dell’Opera romana pellegrinaggi guidata dall’amministratore delegato don Remo Chiavaroni, che, su invito di Papa Francesco,  ha inserito per il 2019 anche il Libano nella lista degli itinerari religiosi. È Terra Santa: a Tiro e a Sidone, nonché in altri luoghi del sud, è arrivato Gesù. Il capo dello stato, il generale Michel Aoun cattolico maronita, ci ha ricevuti nel suo palazzo presidenziale con parole di riconoscenza per la decisione del Papa e affermando che «ci sono tutte le circostanze di sicurezza perché è stata vinta la guerra contro il terrorismo». Ci ha accolto anche il ministro degli esteri Gebran Bassil, sottolineando «la capacità del paese, terra di incontro tra Occidente e Oriente, di resistere, di difendere la propria identità malgrado tutte le sfide».

Visitando il Libano oggi, si percepisce a vari livelli il tentativo di riscatto rispetto alla crisi economica e il desiderio di rinascita per siti archeologici come quello famosissimo di Baalbek, che si trova a soli 20 chilometri dal confine siriano. Basta ricordare questa prossimità per raccontare come il sito, uno tra i più importanti in assoluto di tutto il Vicino Oriente — Robert Byron lo definì «il mondo nella pietra» — sia sostanzialmente scomparso dai circuiti delle visite guidate negli otto anni di conflitto in Siria. Il sindaco di Baalbek, il generale Hussein Lakis, ha il sorriso di chi torna a vivere ed è felicemente proiettato al futuro, ma parla anche delle «autobombe esplose nei pressi del confine, dei missili avvistati dalla popolazione, della paura diffusa diffusa di infiltrazioni», da un confine che ora è stato riaperto al traffico ufficialmente, ma che non è sembrato mai abbastanza chiuso per i terroristi del sedicente stato islamico (Is) che hanno portato morte in Siria come in Iraq.

E, proprio a qualche decina di metri dalle magnificenti colonne e dagli enormi ma dettagliatissimi capitelli rimasti dell’antico tempio di Giove, in quella che si chiama la Valle di Baak, si trovano alcuni dei campi profughi dove si incontrano famiglie siriane. La maggior parte non aspetta altro che avere la possibilità di tornare in pace nella propria terra. Finora, secondo le ultime cifre dell’Alto commissariato per i rifugiati Onu (Unhcr), solo 150.000 quelli già rientrati. Ma alcuni, provenienti in particolare dalla martoriata Raqqa scelta come capitale dell’Is, hanno abbandonato l’idea di rimpatriare a breve e sognano di restare in Libano o di muoversi in altri paesi. In realtà, questi campi sono un’eccezione in Libano. Il governo ha cercato di non costringere i profughi in aree che potessero diventare ghetti permanenti, come in fondo è successo per molti dei campi di palestinesi. Le scuole di ogni ordine e grado, ad esempio, sono state aperte anche il pomeriggio per assicurare percorsi di studio ai piccoli siriani. «Il Libano accoglie, malgrado abbia sofferto durante la guerra civile, sia stato invaso e occupato dai vicini». Con queste parole il nunzio apostolico Joseph Spiteri, nell’intervista con «L’Osservatore Romano», definisce «più che lodevole» l’impegno del Libano. Il nunzio però avverte: non si può chiedere di portarlo avanti troppo a lungo, soprattutto in considerazione delle opportunità di lavoro che mancano anche per i libanesi. Il nunzio si illumina all’accenno allo storico documento di fratellanza siglato presso il Founder’s Memorial ad Abu Dhabi da Papa Francesco e il grande imam di Al-AzharAhmad Al-Tayyeb, e confida: «Si sente davvero intensificarsi la fraternità in questo momento». Aggiunge: «I fratelli e sorelle rappresentati dal grande Imam sono uomini e donne di fede accanto ai quali possiamo camminare e vogliono avere appoggio nel riconoscere che non sono terroristi».

In Libano, l’eco del documento di Abu Dhabi è fortissimo. Tutti ne parlano con entusiasmo e commozione, cristiani e musulmani. Padre Salim Daccache, rettore della Saint Joseph University, ateneo fondato nel 1875 dai padri gesuiti e a tutt’oggi uno dei più prestigiosi in Libano, dove ci ha ricevuti, spiega che «il fermento è grande», che «si moltiplicano gli inviti per incontri interreligiosi con sciiti, sunniti, drusi», che «l’accordo è già oggetto di studio nelle università cattoliche e nei centri di formazione islamici».

A Beirut abbiamo incontrato anche il professor Mohammed Al Summak, segretario generale del comitato cristiano musulmano per il dialogo e consigliere del Gran Muftì del Libano. Con orgoglio ricorda di aver partecipato, per parte musulmana, ai preparativi della Dichiarazione di fratellanza e ci lascia due sostanziali sollecitazioni: «Ricordare che il cammino è partito dalla Nostra Aetate», per poter «valutare tutti i passi e i frutti compiuti» proprio a partire dal documento del Concilio Ecumenico Vaticano II che riguarda il tema del senso religioso e dei rapporti tra la Chiesa cattolica e le religioni non cristiane. Nelle parole di Summak, la dichiarazione di Abu Dhabi è «un grande salto in avanti» ancora più significativo in un momento in cui «siamo sopravvissuti allo tsunami di terrorismo e crimini del sedicente stato islamico». Una raccomandazione concreta: «Di fronte alla crescita di tanti estremismi e di facili populismi, dobbiamo tenere gli occhi bene aperti» e «fare il molto che resta da fare: inserire il messaggio della Dichiarazione nei curricula accademici, nei percorsi di studio, nei processi culturali nei paesi islamici. In chiusura, Summak avverte: «Ci sono sempre persone che non credono nella fraternità umana: solo loro possono essere ostili al documento».

Anche il Patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Béchara Boutros Raï, accogliendoci nel Patriarcato a Bkerké, si rallegra della eco della Dichiarazione di Abu Dhabi. Poi lancia con forza un appello al mondo. Ricorda che «il Libano è l’unico stato in cui cristiani e musulmani non solo vivono gli uni accanto agli altri ma gestiscono insieme la cosa pubblica». In questo particolare equilibrio, «non si possono sostenere oltre un milione e mezzo di profughi siriani in un paese che è più piccolo della Sardegna». Dunque, il vero e proprio appello: «È necessario che la comunità internazionale non vincoli il loro rientro in patria alla soluzione politica della crisi in Siria». C’è il rischio che il processo vada troppo perle lunghe — sottolinea il Patriarca — e che in Libano saltino gli equilibri numerici, e dunque di rappresentanza, tra cristiani e musulmani, «perché i rifugiati siriani sono sunniti: solo 200 sono cristiani di quelli arrivati in Libano». Ma l’avvertimento del Patriarca è anche per la Siria: non permettere il rientro in patria dei siriani dal Libano, dalla Giordania o da altre zone in cui sono scappati, significherebbe infliggere alla Siria «una seconda guerra: dopo la distruzione sul terreno, la distruzione dell’identità, stravolta da tante fughe».

In ogni caso, resta eccezionale in Libano lo slancio che viene dalle comunità monastiche, che tanto hanno da offrire a chi cerca spiritualità sulle orme di Gesù o a chi è attirato dalla ricchezza storico-culturale del più piccolo degli stati del Vicino Oriente. Nell’offerta dell’Opera romana pellegrinaggi c’è in programma un tour di otto giorni nella terra menzionata in 30 dei 66 libri della Bibbia. Tra le varie tappe previste, citiamo solo quella alla cosiddetta Valle Santa, ricca di monasteri, e quella alla cittadella crociata di Byblos. Nel tour c’è altro. E nel paese c’è molto altro oltre i luoghi, a partire dal richiamo prepotente alla mente delle pagine della Bibbia che narra il Libano come terra di latte e miele.

L’Osservatore Romano, 28 Marzo 2019