Cresce il peso dell’Asia

Nello scacchiere economico internazionale

di Fausta Speranza

Geopolitica e investimenti. Mentre si parla sempre più di globalizzazione da rivedere, di spinte al protezionismo negli Stati Uniti, di nuovi rapporti commerciali da ridisegnare per Europa e Regno Unito,  cresce il progetto della Banca asiatica di investimenti (Asian infrastructure investment bank). Da domani, 12 maggio, sale a 77 il numero dei paesi partecipanti al piano di investimenti promosso da Pechino e legato alla “Nuova via della seta”. Una visione, questa, dalla forte suggestione storica, ma estremamente concreta nei risvolti economici e di politica estera.

Da tempo si discute di riforme degli organismi internazionali usciti da Bretton Woods, cioè la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Ora, con il progetto della Banca asiatica di investimenti cominciano a emergere nuovi equilibri. La  Banca è un’istituzione finanziaria internazionale fondata dalla Repubblica popolare cinese nel 2014 e operativa da gennaio 2016. I paesi fondatori sono i 57 stati che  hanno aderito entro il 31 marzo 2015; tutti gli altri possono avere  solo lo status di  «componenti». Dal 12 maggio alla Banca aderiranno sette nuovi stati. Tra questi, ci sono anche Grecia e Romania. Due giorni dopo, il 14 maggio, Pechino ospiterà il Forum One Belt One Road (Obor) al quale quest’anno  partecipano diversi capi di governo europei, tra cui l’italiano Paolo Gentiloni. Un vertice di cui — secondo gli analisti — ci si occuperà sempre di più, come si fa oggi per il summit economico che ogni anno si tiene a Davos, in Svizzera, dove, peraltro, nel 2016, per la prima volta, prese la parola il presidente cinese Xi Jinping.

Il quadro geopolitico nel quale viene a posizionarsi la Banca asiatica di investimenti è dominato da due pilastri: la Banca mondiale, da sempre sotto l’ombrello degli Stati Uniti, e il Fondo monetario internazionale, che ha sede a Washington ma che, per una sorta di bilanciamento tra paesi occidentali, risponde in modo diretto agli input e alle nomine decisi in sede europea. Questo è stato l’assetto mantenuto finora, in linea con quanto emerso dalla riunione del 1944 a Bretton Woods, che ridisegnava gli equilibri mondiali dopo la seconda guerra mondiale. In tale ambito è nata nel 1966  l’Asian development bank (Asdb) per combattere la povertà e assicurare aiuti ai paesi asiatici più bisognosi. Ma la Asdb è e resta una banca regionale, voluta su iniziativa degli Stati Uniti, del Giappone  e di alcuni paesi europei. Non si tratta di un vero progetto asiatico, pensato e realizzato da una vasta maggioranza di paesi. La Banca asiatica di investimenti per le infrastrutture segna dunque un netto cambio di passo in direzione di una maggiore autonomia.

Per capire il bisogno di rinnovamento degli organismi internazionali conosciuti fino a ora, basta  ricordare che l’Occidente non ha più la stessa indiscussa leadership economica mondiale che aveva alla nascita della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale.  Ci sono poi dei particolari eloquenti. Per esempio, con la nascita dell’euro non si è assicurata una rappresentanza unica ai paesi che hanno aderito alla moneta unica neanche all’interno del Fondo monetario.

Le prospettive  che Pechino apre con il progetto della Banca asiatica si richiamano all’antica via della seta, cioè il percorso delle carovane che un tempo, attraversando l’Asia centrale, collegavano la Cina all’Asia Minore e, attraversando Medio oriente e Vicino oriente, arrivavano al Mediterraneo. Le diramazioni si estendevano poi a est dell’Asia, fino alla Corea e al Giappone, e a sud, in India. La Banca asiatica rafforza questo progetto, coinvolgendo un’area che spazia da Samoa al Bahrain, dal Cile a Cipro, dalla Bolivia all’Azerbaijan, dalla Nuova Zelanda all’Oman, dal Vietnam alla Georgia.

In ogni caso, se si parla di economia e di Cina non si può dimenticare tutto il dibattito intorno alla richiesta di Pechino di ottenere lo status di economia di mercato. La prima formale domanda all’Ue è datata 2003. Ma Bruxelles, esattamente come Washington, non vede riconosciuti tutti i parametri richiesti. In sostanza, il punto focale è che alla Cina viene imputato di non rispettare le regole, in particolare in tema di dumping, cioè concorrenza sleale. Ma già dall’11 dicembre 2001 Pechino è stata ammessa nell’Organizzazione internazionale del commercio (Wto), segnando una sorta di sdoganamento economico, che però la parte cinese non sente  compiuto senza il riconoscimento appunto dello status di economia di mercato.

Al momento, di certo c’è che Pechino sta gestendo con grande slancio il progetto mondiale di investimenti sulla nuova via della seta, e che si tratta di un progetto in grado di determinare nuovi rapporti di partnership nel mondo.

L’Osservatore Romano, 12 maggio 2017