Riparte da Pechino il libero commercio

Investimenti e impegni dal vertice  sulla  via della seta

di Fausta Speranza

La Cina “custode” della globalizzazione e del libero commercio. È l’immagine che emerge dal summit che ha riunito a Pechino i delegati di oltre cento nazioni, con i vertici di Nazioni Unite, Banca mondiale e  Fondo monetario internazionale. Ventisette dei trenta capi di governo presenti hanno sottoscritto l’appello «contro ogni nuova forma di protezionismo» promosso dal presidente cinese Xi Jinping. Appello legato a doppio filo alla nuova “via della seta”, un progetto che muoverà  ottomila miliardi di dollari, cioè venticinque volte il piano Marshall. Xi ha parlato di «sviluppo aperto» e di «inclusività dall’Asia all’Europa» in controtendenza rispetto alle nuove strette doganali annunciate dagli Stati Uniti. Tuttavia, va detto che a Pechino si è recato il consigliere della Casa Bianca Matt Pottinger il quale ha parlato «con favore» di piani infrastrutturali e di «possibili servizi di grande valore da parte di società statunitensi». 

Più che la cifra degli ottomila miliardi, da record è  l’orizzonte temporale previsto per la realizzazione della nuova “via della seta”: entro il 2020. Anche se il paragone con il piano Marshall voluto dagli Stati Uniti per l’Europa all’indomani della seconda guerra mondiale è azzardato per tutte le differenze del caso, serve comunque a rendere l’idea del notevole impegno economico che ruota attorno alla One belt one road (una cintura, una via). Il progetto prevede investimenti per infrastrutture ferroviarie e portuali dall’Asia centrale all’Europa, passando per Asia del sud e Medio oriente. Decine di progetti si stanno negoziando o sono già stati negoziati, come il caso del porto del Pireo in Grecia. Pechino ha messo sul tavolo 124 miliardi di dollari. Il tutto si muove attraverso uno strumento essenziale: la Asian infrastructure investment bank, nata a Pechino nel 2014.

Il presidente cinese ha proposto «una piattaforma aperta di cooperazione e  un’economia mondiale aperta». E all’universo commerciale che accusa la Cina di non rispettare le norme sul dumping, ha detto che  il mondo deve creare condizioni che promuovano «norme commerciali e d’investimento globali, ragionevoli e trasparenti». In sostanza, sembra di capire si tratti di nuove norme commerciali.

Tra i favorevoli, il cancelliere dello Scacchiere britannico, Philip Hammond: ha dichiarato al vertice che il suo paese  è «un partner naturale», ormai proiettato nel dopo Brexit. Tra i critici, il ministro del commercio australiano, Steven Ciobo, che ha affermato che «accanto alle opportunità sulla via della seta, non si possono dimenticare interessi nazionali da difendere». Xi Jinping ha affermato: «Non interferiremo negli affari interni di altri paesi, non esporteremo il nostro sistema di società e il nostro modello di sviluppo, e ancor di più non vogliamo imporre i nostri punti di vista». Sono proprio queste parole a chiarire che la questione si fa decisamente politica oltre che economica. E tra entusiasmi o perplessità, c’è chi già ha sollevato un preciso problema. È stata l’India, di cui tutti gli analisti hanno notato l’assenza a Pechino. New Delhi non è d’accordo con il progetto del corridoio da 57 miliardi tra la Cina e il Pakistan che passa per il Kashmir. 

Di «prospettive di pace che si aprono» si è detto convinto il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ricordando che «oggi la Cina è il motore dell’economia globale» e che «questo progetto  avvicina  le persone, favorisce non solo lo sviluppo ma anche il bene del mondo». Sempre che «tutti  ne escano vincitori».

A calcolare la cifra degli otto trilioni da mettere in campo entro tre anni è stata la Asian development bank. È  chiaro che non sarà solo il governo cinese a investire. Ciò nonostante, il grosso dell’impegno è pensato da Pechino e spetterà alla Cina, che rappresenta la seconda economia mondiale. Nel primo trimestre di quest’anno ha registrato una crescita del 6,9 per cento. Nonostante che ad aprile l’espansione della produzione industriale abbia rallentato, si potrebbe sempre chiudere il 2017 al 6,5 per cento. Ma c’è chi, proprio dall’interno, avverte su possibili rischi. L’economista Shi Yinhong, esperto di affari internazionali della Renmin University di Pechino, ha scritto che «la Cina deve evitare un eccessivo espansionismo, che  porterebbe a conti  scoperti strategici». La scommessa è per tutti.

L’Osservatore Romano, 17 maggio 2017