Il Centrafrica a 60 anni dall’indipendenza

Il 13 agosto 1960 la Repubblica Centrafricana arrivava con una dichiarazione ufficiale alla completa indipendenza. Un territorio con grandi potenzialità che resta uno dei più poveri della terra. Da questo Paese dell’Africa equatoriale, nel 2015, Papa Francesco ha voluto dare avvio al Giubileo straordinario della misericordia. Da Bangui con noi il missionario Padre Aurelio Gazzera

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Sessant’anni in cui si sono susseguiti inizialmente colpi di stato e poi una lunga guerra civile. A novembre 2015 la prima porta santa ad essere aperta personalmente da Papa Francesco è stata quella della cattedrale di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, che in quel momento era l’ultima tappa, dopo il Kenya e l’Uganda del primo viaggio del Pontefice nel continente nero. “Vengo come pellegrino di pace e mi presento come apostolo di speranza”, disse il Papa al suo arrivo a Bangui, dove l’allarme attentati era altissimo ma dove Francesco non volle rinunciare alla papamobile scoperta. Cinque anni dopo, alcuni passi avanti verso un vero processo di pacificazione del tessuto sociale sono stati fatti, ma non mancano fattori di destabilizzazione per i forti interessi in campo, come ci ha confermato padre Aurelio Gazzera, che vive tra Bangui e il nord del Paese:

Padre Aurelio ricorda che da tempo il governo non ha il completo controllo del territorio e sacche di illegalità sono registrate nelle campagne e nelle province del nord, dove ancora avvengono, meno che in passato, scontri tra i due maggiori gruppi ribelli e forze governative. Ci sono gruppi di ribelli che negli ultimi tempi accettano di sedersi a un tavolo per negoziare equilibri di potere sul territorio ma è anche vero che alternano momenti di disponibilità con decisioni improvvise di abbandonare il dialogo. Una delle attività in cui si intrecciano lecito e illecito è quella della tassazione della transumanza. La missione Onu Minusca cerca in continuazione di neutralizzare ribelli che spadroneggiano, recuperando armi, munizioni e motociclette. Ma il missionario sottolinea anche che l’instabilità dei Paesi confinanti – Ciad, Sudan, Sudan del Sud e Repubblica Democratica del Congo – influisce negativamente sulla stabilità interna del Paese. Poi ricorda le ingenti risorse naturali di cui è ricco il territorio – citando legno, oro etc – per sottolineare che bisogna considerare, in particolare negli ultimi tempi, l’ingerenza sempre più significativa di potenze straniere che si aggiungono ad altri interessi di multinazionali occidentali. In definitiva, non si vive più la guerriglia e la serie di attentati di qualche anno fa ma non si può neanche dire che nel Paese ci sia una vera pace e tantomeno un processo di ordinato sviluppo. Padre Gazzera racconta che la decisione di Papa Francesco di aprire la prima porta santa del Giubileo a Bangui ha acceso i riflettori internazionali: da allora – afferma – non si sono mai davvero spenti, ma certamente i progressi sono lenti perché purtroppo le risorse non vengono sfruttate per il bene del Paese. Il rischio purtroppo è sempre quello che in una situazione così precaria, di scarso controllo delle forze governative sul territorio e di popolazione affamata, si possano infiltrare forze terroristiche, che non mancano di agire in tutta la regione. A proposito della pandemia, Padre Gazzera conferma che il Covid-19 rappresenta un problema sottolineando che in questo momento la sua missione è proprio quella di portare, e seguire la distribuzione sul campo, le risorse che la Conferenza episcopale italiana (Cei) e la Caritas hanno messo a disposizione per il Paese. Ma il missionario ricorda anche che, purtroppo, dal punto di vista sanitario il Centrafrica soffre di altre emergenze croniche, come quella della malaria, del morbillo, della denutrizione.

Sessant’anni fa l’indipendenza

Il territorio è stato una colonia francese  con il nome di Ubangi-Sciari o Uubangui-Schari. Il referendum costituzionale francese del settembre 1956 porta all’approvazione della nuova costituzione, che sarebbe entrata in vigore nel 1958, per la neo Repubblica Centrafricana all’interno della neo Comunità francese, sorta allo scioglimento dell’Africa Equatoriale Francese. Nel 1958 è attiva l’Assemblea centrafricana che elegge capo del governo Boganda, che però a marzo 1959 muore in un incidente aereo. Suo cugino David Dacko, lo sostituisce e conduce la Repubblica Centrafricana alla completa indipendenza con la dichiarazione del 13 agosto 1960. In questi sessant’anni si sono susseguiti colpi di stato e guerre. Dopo trent’anni di governo prevalentemente militare, nel 1993 si insedia un governo civile durato dieci anni. Ha assunto il nome attuale prorpio al momento dell’indipendenza nel 1960. Dopo trent’anni di governo prevalentemente militare, nel 1993 si insedia un governo civile durato dieci anni. Nel marzo 2003 il presidente Patassé ed il suo governo sono deposti con un colpo di Stato dal generale Francois Bozizé, che  forma un governo di transizione. Nelle contestate elezioni generali del 2005 il generale Bozizé viene eletto presidente. Il governo non ha però il completo controllo del territorio e sacche di illegalità sono registrate nelle campagne e nelle province del nord, dove continuano gli scontri tra i due maggiori gruppi ribelli ed il governo.

La guerra civile

Il 24 marzo 2013 Bozizé è costretto alla fuga dopo la presa della capitale Bangui da parte dei ribelli Seleka. Abbandonata la città, avrebbe raggiunto la Repubblica Democratica del Congo attraversando il fiume Ubangi. In seguito alla caduta di Bozizé e alla sua fuga in Congo e poi in Camerun, i ribelli di Séleka decidono di porre uno dei propri leader come Capo di Stato della Repubblica Centrafricana: Michel Djotodia, uno dei più strenui oppositori dell’ex presidente. Il primo ministro, invece, resta al suo posto anche con la nuova presidenza. Il 10 gennaio 2014 Djotodia si dimette insieme con il suo primo ministro durante un summit straordinario della Ceeac, e viene nominato presidente provvisorio Alexandre-Ferdinand Nguendet. Il 20 gennaio 2014 Catherine Samba-Panza prende il posto di Nguendet, venendo eletta presidente di transizione della Repubblica Centrafricana grazie al voto del parlamento.  Il 23 luglio 2014, i belligeranti firmano un accordo di cessazione delle ostilità a Brazzaville, lasciando tuttavia il Paese diviso in regioni controllate da milizie sulle quali né lo Stato né la missione dell’Onu hanno presa.

Il processo di riconciliazione di Touadéra

In occasione delle presidenziali del 2015-2016, viene eletto ca po dello Stato Faustune-Archange Touadéra, il quale lancia un processo di riconciliazione nazionale per rendere giustizia alle vittime delle guerre civili, per la maggior parte dislocate all’interno e all’esterno del Paese. Incarica per decreto il suo ministro Regina Konzi Mongot di elaborare il Programma nazionale di riconciliazione nazionale e di pace, proposto nel dicembre 2016, adottato all’unanimità dagli organismi internazionali. Da allora, un comitato è al alvoro per giudicare i principali attori e risarcire le vittime. Non si tratta di un processo né breve né facile. Tra gli episodi più gravi, bisogna ricordare, a giugno 2017, gli scontri a Bria, nel centro-est del Paese, con cento morti.

da Vatican NEWS del 13 agosto 2020

 

Nuova fase politica in Libano

Passo indietro del governo a Beirut: l’esecutivo di Hassan Diab resta in carica solo per il disbrigo delle formalità. Formalmente spetta al presidente, Michel Aoun, fissare le consultazioni per eventuali elezioni. L’annuncio c’è stato ieri praticamente ad una settimana dalla tragedia delle due esplosioni nel deposito di nitrato di ammonio. Con noi l’editorialista di Avvenire Camille Eid

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il disastro avvenuto il 4 agosto a Beirut “è il risultato di una corruzione cronica” in Libano, che ha impedito una gestione efficace del Paese. E’ quanto ha affermato il primo ministro Hassan Diab annunciando lunedì le dimissioni in un discorso televisivo. “La rete della corruttela è più grande di quella dello Stato”, ha aggiunto Diab, facendo così eco alla voce della piazza che da mesi  e con ancora maggior forza dopo le esplosioni al porto –  costate la vita a 220 persone e il ferimento di 7000 – chiede un cambio ai vertici delle istituzioni. Delle prospettive che si aprono abbiamo parlato con l’editorialista di Avvenire Camille Eid di origine libanese:

Ascolta l’intervista con Camille Eid:

La popolazione esasperata

Camille Eid ipotizza che ci siano tentativi di formare un governo tecnico o un esecutivo di unità nazionale, ribadendo che però quello che chiede la popolazione è un rinnovo anche del parlamento. Eid sottolinea inoltre l’esasperazione popolare ricordando vari scandali che hanno preceduto la tragedia del 4 agosto al porto, con la prima e la seconda esplosione di un carico di nitrato di ammonio che doveva essere considerato altamente a rischio. Domenica scorsa all’Angelus, il Papa ha lanciato il suo appello perchè nel Paese possa rinascere una convivenza “forte e libera” e il giorno stesso, sul fronte internazionale, la Conferenza dei donatori ha deciso lo stanziamento di 250 milioni di euro, che però si è voluto affidare alla gestione di associazioni o ong che fanno capo all’Onu perché  arrivino direttamente alla popolazione, che  ha perso da tempo ogni fiducia nella classe politica.  Il giornalista spiega alcuni episodi chiave che tornano nelle denunce della popolazione. Quasi un anno fa ci sono stati alcuni incendi e si è scoperto che gli elicotteri che si diceva fossero stati acquistati per le emergenze, non erano in realtà funzionanti. E’ solo un esempio, afferma, di vari scandali denunciati a gran voce dalla popolazione durate le proteste antigovernative che da mesi vanno avanti nel Paese. C’è anche l’indignazione espressa per 40 miliardi che sono stati messi in conto per le spese delle infrastrutture, mentre i cittadini continuano a soffrire continui black out per mancanza di elettricità.

La crisi economica

L’editorialista inoltre si sofferma su alcuni particolari della crisi economica che ha portato il Paese a dichiarare a marzo scorso il default finanziario non potendo pagare il debito di 100 miliardi di dollari, che è davvero ingente per un piccolo territorio con 4 milioni di abitanti. Ricorda come tutti i correntisti abbiano perso i risparmi di una vita per la perdita dell’80 per cento di valore della moneta locale e precisa che al momento neanche i libanesi all’estero possono mandare soldi ai familiari e alle persone care perché è bloccato per tutti l’accesso ai conti. Consegnarli di persona recandosi in Libano è molto complicato per via della pandemia. Resta alta dunque la preoccupazione per una fase che si prospetta non scontata e non facile.

da Vatican NEWS dell’11 agosto 2020

Beirut, il governo si è dimesso

L’intero governo del premier Hassan Diab rassegna le dimissioni. L’annuncio ufficiale in tv: le esplosioni al porto di Beirut, sono “il risultato di una corruzione endemica”. Intanto, la Conferenza dei donatori ha stanziato 250 milioni di euro in aiuti, da far arrivare attraverso l’Onu direttamente alla popolazione, e ha chiesto riforme che rispondano ai bisogni della popolazione. Nella capitale, ferita dalla catastrofe di martedì scorso, in tanti si offrono volontari per prestare soccorso. Con noi don Elia Mouannes di una parrocchia vicino al quartiere più colpito

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Repubblica di Cipro mette a disposizione gli aeroporti, i porti e le basi militari in chiave logistica a supporto degli aiuti umanitari e delle attività di protezione civile e ricostruzione nella città di Beirut. Lo ha annunciato il presidente cipriota Nicos Anastasiades a margine del summit in videoconferenza promosso domenica da Francia e Onu, che ha riunito tutti i Paesi che si sono offerti di aiutare il Libano con risorse finanziarie e personale specializzato. E’ emersa la disponibilità di 250 milioni di euro, con l’impegno a consegnarli direttamente a quanti operano sul campo. Del possibile impegno della comunità internazionale e della mobilitazione della gente locale, abbiamo parlato con don Elia Mouannes, parroco di una delle 1126 parrocchie di Beirut:

Don Elia ci racconta che subito nella sua parrocchia si è formato un gruppo che ha prestato soccorso nelle case della zona a ridosso di Karantine, il quartiere raso al suolo. Nelle aree circostanti gli edifici non sono crollati ma dentro le case hanno subito molti danni e il primo impegno, dice don Elia, è rimettere a posto come si può porte e finestre e assicurare da mangiare. Non manca in realtà l’aiuto neanche di volontari che vengono perfino da fuori Beirut. Don Elia descrive una popolazione angosciata, preoccupata sfiduciata, ma anche testimone di grande umanità e di fede. Dopo la grande prova della crisi economica, ora il terrore delle esplosioni e della tensione sociale. Per i cristiani, sottolinea don Elia, è proprio il momento di testimoniare quello in cui credono: parole e gesti di pace alla sequela di Cristo. Don Elia spiega che è normale essere inquieti per le ingiustizie ma l’espressione di questa inquietudine non può essere violenta, non può andare contro il messaggio di Cristo. Don Elia ci racconta come le parole del Papa, all’Angelus domenica, abbiano portato incoraggiamento e poi sottolinea che sempre ai suoi fedeli ricorda quello che Papa Francesco ha detto subito dopo la sua elezione al soglio pontificio e che ripete spesso: bisogna lavorare per costruire ponti e non muri. Poi, un appello alla comunità internazionale perché oltre ad impegnarsi, come è importante, per la ricostruzione materiale, si impegni anche a tenere vivo il messaggio di pacificazione, a evitare strumentalizzazioni, ingerenze, il prevalere di messaggi di odio. E una testimonianza personale: don Elia ci racconta che a 49 anni purtroppo deve affermare che gran parte della sua vita è trascorsa in un territorio in guerra. Ma anche da questa esperienza  è nata forse la sua vocazione sacerdotale, a servizio di Dio e della Chiesa, perché – spiega – Dio ha portato la vera pace nella sua vita.

Tensione e dimissioni

Ad una settimana dalla duplice esplosione che ha colpito il porto della capitale, l’intero  governo si è dimesso. Dopo la dichiarazione ai giornalisti del ministrio della Salute, il discorso del primo ministro Diab alla televisione. “L’esplosione del materiale immagazzinato nel porto della capitale negli ultimi sette anni – ha detto – è stato il risultato di una corruzione endemica. Oggi seguiamo la volontà del popolo nella sua richiesta di consegnare i responsabili del disastro che si nascondono da sette anni, e il suo desiderio di un vero cambiamento”. “Di fronte a questa realtà – ha concluso Diab – annuncio le dimissioni di questo governo”. E’ il secondo governo a cadere in seguito alle proteste contro la classe politica: a ottobre scorso si era dimesso Saad Hariri. L’inchiesta ora passa dalle stanze del governo all’Alta Corte mentre, purtroppo, il bilancio delle vittime si aggrava: 220 i morti e 7000 i feriti.

L’aiuto internazionale e l’invito a riforme

Il mondo deve agire in fretta, con efficacia e totale trasparenza per aiutare il Libano a rialzarsi dalla crisi in cui è piombato dopo la devastante esplosione a Beirut del 4 agosto. E’ questo il messaggio emerso dalla conferenza dei donatori fortemente voluta dal presidente francese Emmanuel Macron, il leader occidentale più attivo sin da subito sul fronte dell’assistenza, e sostenuta dall’Onu che ha riunito via internet i rappresentanti di circa 30 Paesi e istituzioni. I leader, tra i quali il presidente statunitense Donald Trump e il quello del Consiglio europeo Charles Michel, hanno risposto alla chiamata del Papa che anche all’Angelus ieri ha chiesto generosità, e hanno convenuto sul fatto che gli aiuti devono essere consegnati il prima possibile “direttamente” alla popolazione libanese. Questo era uno dei nodi alla vigilia della videoconferenza. Gli aiuti saranno gestiti dall’Onu attraverso le sua agenzie in totale “trasparenza” e consegnati “direttamente” alla popolazione. Inoltre, è stata ribadita la richiesta di un’inchiesta indipendente sul disastro avvenuto al porto di Beirut. Lo hanno ripetuto Macron e Michel, che nei giorni scorsi ne avevano parlato con le autorità libanesi, e lo ha chiesto anche Trump esortando “il governo a condurre un’indagine completa e trasparente, per la quale gli Stati Uniti sono pronti a portare il loro aiuto”. Al governo libanese i leader, Macron e Trump in testa, hanno anche rivolto un appello ad ascoltare i bisogni di chi manifesta legittimamente. “Bisogna fare il possibile affinché non prevalgano il caos e la violenza”, ha detto il presidente francese. Il Fondo monetario internazionale, che ha partecipato alla videoconferenza con il direttore Kristalina Georgieva, si è detto disponibile a “raddoppiare gli sforzi” a patto che il Libano si impegni ad attuare quelle riforme che vengono chieste da ben prima l’esplosione.

Il rischio impennata del Covid-19

Finora, secondo il conteggio della John Hopkins University, in Libano sono stati registrati 6223 casi e 78 morti per il Covid-19. Ieri, un medico che guida la lotta contro il Covid-19 nel Paese, l il dottor Firass Abiad, direttore del Rafik Hariri Hospital di Beirut, ha affermato che in seguito alla devastante esplosione nel porto di Beirut e alle manifestazioni di protesta, in Libano si verificherà probabilmente una nuova impennata di casi di coronavirus. “Purtroppo, questa atmosfera favorisce la trasmissione del virus”, ha affermato.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-08/beirut-libano-chiesa-aiuti-onu-pace.html

Il pensiero forte del Papa “per il popolo in Libano che soffre molto”

Appello e preghiera di Francesco per quanto accade a Beirut: alla tragedia di martedì scorso nella capitale libanese si uniscono altissima tensione sociale e disordini, con altri feriti. Francesco ricorda che il Libano si è fatto “modello del vivere insieme” affermando che “questa convivenza ora è molto fragile”. Sollecita aiuti dalla comunità internazionale, chiede alla Chiesa di essere vicina al suo popolo “nel calvario”, nella povertà evangelica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“In questi giorni il mio pensiero ritorna spesso al Libano”. Così Papa Francesco ha ricordato “la catastrofe di martedì scorso”, affermando che “chiama tutti, a partire dai Libanesi, a collaborare per il bene comune di questo amato Paese”. Il Libano – ha ricordato il Papa –  ha un’identità peculiare, frutto dell’incontro di varie culture, emersa nel corso del tempo come un modello del vivere insieme”.  Nelle parole del Papa emerge la preoccupazione: “Certo, questa convivenza ora è molto fragile, ma prego perché, con l’aiuto di Dio e la leale partecipazione di tutti, essa possa rinascere libera e forte”.  Dunque, l’invito alla “Chiesa in Libano ad essere vicina al popolo nel suo Calvario, come sta facendo in questi giorni, con solidarietà e compassione, con il cuore e le mani aperte alla condivisione”. E a braccio il Papa aggiunge una raccomandazione:  Per favore – dice – rivolgendosi a vescovi,  sacerdoti, religiosi del Libano, vivete nella povertà evangelica, senza lusso, perché “il popolo soffre e soffre molto”. Dunque, l’appello “per un generoso aiuto da parte della comunità internazionale”.

Altissima tensione a Beirut

Un poliziotto è morto in violenze in strada, oltre 200 persone sono rimaste ferite, venti manifestanti sono stati arrestati nei disordini scoppiati ieri nella capitale libanese. Almeno 5000 persone si sono riversate in piazza protestando contro il governo e in tanti sono riusciti ad entrare dentro il ministero degli Esteri e in quello dell’Economia prima di essere evacuati con l’intervento dell’esercito. In serata, altri manifestanti hanno preso d’assalto la super-fortificata sede dell’Associazione delle Banche, vicino a piazza dei Martiri. E altri attivisti si sono diretti alla sede del ministero dell’Energia.

 

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2020-08/papa-francesco-libano-angelus-appello-chiesa-aiuti-beirut.html

A Beirut tra le macerie, i giovani danno lezione di solidarietà

Mentre si cercano ancora i dispersi nel porto della capitale libanese, si parla di inchiesta internazionale per capire cosa abbia scatenato le due esplosioni che martedì hanno provocato oltre 150 morti, 5000 feriti e 300.000 sfollati. Intanto, un gruppo di giovani scout ha improvvisato un servizio di pulitura e di assistenza alle persone, soprattutto anziane, che sono nelle case danneggiate: portano via frammenti di vetro e lasciano un sorriso. Con noi Ghassam Sayegh, uno degli ispiratori dell’iniziativa

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, è a Beirut oggi: in programma incontri con il presidente Michel Aoun e altre autorità del Paese e una visita sulla scena della disastrosa esplosione di martedì. Sul luogo del disastro, meno di 48 ore dopo, si è recato il presidente francese Emmanuel Macron. Allo choc, al dolore, alla disperante urgenza di portare soccorso ai feriti, si unisce ora l’impegno a gestire le macerie e i bisogni della popolazione.

Tanti Paesi del mondo, a partire dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti, ma anche l’Egitto e la Giordania e altri si sono impegnati immediatamente ad inviare aiuti. Le prime stime parlano di danni che ammontano tra i 10 e i 15 miliardi di dollari. Un colpo terrificante per l’economia già prostrata dalla crisi. Ma soprattutto i giovani, che abbiamo visto numerosissimi nelle manifestazioni per chiedere riforme nei mesi scorsi, in questa occasione sono scesi in strada per farsi protagonisti della solidarietà. Ce lo racconta Ghassam Sayegh, che si è unito al piccolo gruppo scout di una zona colpita ma non distrutta di Beirut, che ha cominciato a raggiungere le case di anziani soli della zona:

Seminare la speranza in tanta tristezza

Ghassam racconta che è stata come un’altra onda d’urto di tutt’altro tipo: altri giovani si sono uniti e hanno cominciato a cantare per le strade per chiedere chi avesse bisogno di aiuto. Soprattutto anziani hanno risposto chiedendo innanzitutto che qualcuno li aiutasse a rimuovere calcinacci e vetri. Yassan ricorda che da mesi in Libano i conti bancari sono bloccati in Libano in conseguenza del deafault finanziario. Non si possono convertire soldi libanesi, che peraltro hanno perso l’85 per cento del valore, in dollari. E’ praticamente impossibile acquistare vetri. Questi ragazzi dunque stanno cercando di spazzare calcinacci e frammenti di finestre andate in frantumi e stanno cercando di chiudere del cellophane le finestre. In realtà, per questi anziani che hanno passato la guerra ma che non credevano di vedere scene di questo tipo, disorientati e terrorizzati da esplosioni senza precedenti, cercano di spazzare anche un po’ di tristezza, portando un sorriso di speranza.

L’incognita delle responsabilità

Il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, intervenendo in televisione, ha smentito con forza che la tragedia possa essere stata causata dalla deflagrazione di armi o di nitrato di ammonio controllati dal suo partito. Nasrallah ha chiesto che ci sia “un’inchiesta trasparente, giusta, indipendente” condotta dall’esercito nazionale. Anche il presidente Michel Aoun ha parlato attraverso i media, spiegando: “Tre settimane fa mi era stato detto che c’erano sostanze pericolose stoccate al porto. Avevo ordinato ai nostri militari che le spostassero”. Sulle cause non ha escluso nulla e ha sottolineato che “se vi è stata incuria i responsabili vanno individuati dalle nostre autorità”, rifiutando così l’idea di una commissione d’inchiesta internazionale avanzata dal presidente francese Macron che, giunto in visita, ha camminato per le strade. Aoun non ha escluso l’ipotesi di un attentato: “È possibile – ha detto – che a innescare lo scoppio sia stato un intervento esterno, magari un missile o una bomba”.

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I vescovi europei e il Libano

A nome di tutti i vescovi dell’Unione Europea, il cardinale Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della Comece, Commissione degli episcopati dell’Ue, condivide il dramma e la tristezza della popolazione di Beirut a seguito delle orribili e mortali esplosioni avvenute nel porto della capitale del Libano, assicura preghiere per le vittime e lancia un forte appello per il Libano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“A nome di tutti i vescovi dell’Unione Europea, condivido il dramma e la tristezza della popolazione di Beirut a seguito delle orribili e mortali esplosioni avvenute   nel porto della capitale del Libano”. Sono parole espresse dal cardinale Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della Comece, Commissione degli episcopati dell’Ue, con un comunicato dopo la tragedia delle esplosioni a Beirut, assicurando “le più sentite condoglianze alle famiglie delle vittime e a tutti coloro che hanno perso i propri cari: amici, vicini, colleghi”, elevando “preghiere per le anime dei defunti e per la pronta guarigione dei feriti”.Condividendo le parole di Papa Francesco, i vescovi europei pregano per il Libano “affinché, attraverso la dedizione di tutte le sue componenti sociali, politiche e religiose, possa affrontare questo momento estremamente tragico e doloroso”.

R. – Il Libano è il nostro vicino. Ci sono tanti cristiani, tanti musulmani che vogliono vivere in pace in questo Paese, un Paese che è stato molto prospero e ora è diventato molto povero: la gente ha tante sofferenze … Non dobbiamo dimenticare che il Libano ha accolto tanti profughi, che anche nella Chiesa in Europa ci sono libanesi, così come nei nostri Paesi. Ad esempio, a Cipro, la Chiesa cattolica di Cipro è la Chiesa maronita: sono persone venute dal Libano. Quindi, in un certo senso, fanno parte dell’Europa e noi nelle nostre preghiere, nell’aiuto concreto non dobbiamo dimenticare il Libano.

Eminenza, qual era l’impegno delle Chiese europee anche prima di questa tragedia?

R. – Naturalmente, nella Comece lavoriamo per la pace e lavoriamo anche per le relazioni tra l’Unione Europea e il Libano; ma per quanto riguarda il denaro, l’aiuto concreto è ogni Chiesa nazionale che dà il suo contributo. E sappiamo che ci sono tante Chiese in Europa che sono molto generose.

E’ importante anche un appello alla comunità internazionale a non dimenticare il Libano? Questo piccolo Paese che negli ultimi 30 anni è stato baluardo di pace e di convivenza, sembra un po’ dimenticato, a parte questa tragedia …

R. – Sì, e anche dal punto di vista politico, della sicurezza. Penso che il Libano sia importante per l’Unione Europea, che ha tutto l’interesse ad avere un Libano stabile, stabile dal punto di vista politico e dal punto di vista economico. Dunque, penso che i politici, anche dell’Europa, debbano reagire perché è nell’interesse dei popoli europei che il Libano sia aiutato. Ma noi come cristiani dobbiamo fare di più: non dobbiamo agire per il solo nostro interesse, ma dobbiamo agire con solidarietà e con amore, con carità.

Sembra non sia stato un atto voluto, ma un incidente: un incidente, comunque, dove c’era un deposito con una quantità spropositata di composto chimico utile per l’agricoltura, ma anche per creare esplosivi. In ogni caso, è anche una tragedia ambientale: torna l’appello del Papa a un’attenzione agli equilibri tra uomo e natura…

R. – E’ tanto importante: noi non abbiamo ancora capito questo appello così importante.  Vediamo che il riscaldamento della nostra Terra è più veloce di quello che abbiamo pensato. Vediamo che ci sono incendi in Amazzonia: il 19% in più rispetto all’anno scorso, se non sbaglio. Questo significa che dobbiamo agire, e vuol dire anche che noi dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere. E’ molto importante, perché noi abbiamo una responsabilità nei riguardi di questa Terra, abbiamo una responsabilità nei riguardi delle generazioni future. E si capisce che, dove non c’è più stabilità politica, dove ci sono tanti interessi diversi, come accade attualmente in Libano, la situazione diventa molto pericolosa. Sappiamo che sono tanti i Paesi che si trovano in  situazioni analoghe, dunque bisogna agire a livello internazionale, per garantire che in Paesi a rischio non si verifichino incidenti di questo tipo.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2020-08/libano-beirut-vescovi-europei-comece.html

Il Burkina Faso minacciato dalle violenze

Ennesimo atto terroristico in questi giorni nel nord del Burkina Faso, area del Paese dell’Africa occidentale che, come gran parte del Sahel, continua a stare nella morsa del terrorismo. Il 5 agosto di 60 anni fa, il Paese che allora si chiamava Alto Volta, si rendeva indipendente e il 4 agosto del 1984 prendeva il nome di Burkina Faso. Con noi per ripercorrerne le vicende l’esperto della Società geografica Jean-Leonard Touadi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Almeno sei persone, soprattutto bambini, sono rimaste uccise dall’ordigno esplosivo improvvisato scoppiato nel nord del Paese nella notte tra sabato e domenica scorsi al passaggio del carro che li riportava a casa dopo il pascolo del loro bestiame. Si tratta di uno dei tanti sanguinosi attacchi di jihadisti che dal 2015 hanno ucciso oltre 1000 persone e provocato un milione di sfollati. La violenza jihadista, che è spesso accompagnata da conflitti tra comunità, ha ucciso negli ultimi anni oltre 4.000 persone in Mali, Niger e Burkina Faso, secondo i dati delle Nazioni Unite.

Grave la situazione di tutto il Sahel

Preoccupa sempre di più la situazione in tutto il Sahel e nel Paese che festeggia 60 anni di indipendenza attraversando però il periodo più inquietante della sua storia, come conferma Jean-Leonard Touadi, presidente del Centro relazioni per l’Africa (Cra) della Società geografica:

Traffici e interessi minano l’area

Il professor Touadi ricorda che purtroppo negli ultimi anni quasi quotidianamente si verificano attentati, più spesso al nord e più frequentemente contro militari e forze dell’ordine, ma spesso anche a danni di civili, come l’ultimo . E di recente è successo anche che sia stata interessata la capitale Ouagadougou e anche obiettivi civili. Touadi ricorda che tutto il contesto della regione del Sahel vive un aumento della violenza jihadista, unito a traffici di esseri umani e di armi.

Il problema delle influenze esterne

Spiega che alcuni analisti di recente stanno parlando di “Sahelenistan” e questo perché si associa questa area a quella intorno all’Afghanistan, che purtroppo si è caratterizzata per violenze terroristiche e scontri. Sottolinea inoltre come subito dopo l’indipendenza ci siano stati periodi difficili per il Burkina Faso, nell’avvicendarsi di colpi di Stato o di  scontri tra fazioni, ma afferma che quello attuale è il momento più inquietante perché l’espandersi di influenze esterne segna una escalation di violenze imprevedibile.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-08/burkina-faso-indipendenza-paese-violenze-intervista.html

 

 

Scompare John Hume, protagonista del processo di pace nordirlandese

John Hume, Premio Nobel per la pace per il suo contributo alla pacificazione in Irlanda del Nord e uno tra i più noti politici nordirlandesi per oltre 30 anni, è morto oggi all’età di 83 anni. Il suo nome si lega agli accordi del 10 aprile 1998, passati alla storia come gli accordi del Venerdì Santo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

John Hume, un cattolico ex insegnante e attivista per i diritti umani, è stato per diversi anni, fino al 2001, il leader del Partito socialdemocratico e laburista (Sdlp), di cui era stato tra i fondatori nel 1970. Nel 1998, l’anno della firma dell’accordo di pace in Irlanda del Nord, è stato insignito del Premio Nobel insieme al dirigente del Partito unionista dell’Ulster, David Trimble. Nel 2004 ha lasciato la politica in seguito ad una malattia. Ne traccia un profilo la giornalista Francesca Lozito, che da anni segue da vicino lo scenario irlandese:

R. – Ha fatto tantissimo per la pace, un lavoro instancabile. Hume era l’uomo che ci credeva e più di tutti aveva una visione: proprio dalla martoriata Derry chiedeva che il Nord Irlanda raggiungesse la pace. Ha lavorato per il dialogo con l’altra componente, quella protestante. Una cosa straordinaria. Hume è stato un uomo della visione, colui che ha trattato con gli Stati Uniti perché potessero essere i mediatori più importanti nel processo di pace in Nord Irlanda. Un uomo grande e umile fino all’ultimo.

Un cattolico profondamente credente …

R. – Finché ha potuto è stato visto in chiesa. Le sue condizioni di salute erano già compromesse durante gli anni delle lunghe ed estenuanti trattative che hanno portato poi alla sigla dell’accordo del Venerdì Santo, nel 1998. Ma fino all’ultimo a Derry lo si poteva trovare nella Cattedrale di Saint Eugene dove pregava e, insieme alla moglie, prendeva parte alla celebrazione della Messa.

Cosa dire della sua visione negli anni più bui della questione nordirlandese?

R. – L’SDLP era il partito in cui Hume militava. Purtroppo l’eredita oggi è flebile; si dice che i due partiti, repubblicani e unionisti, che hanno contribuito al processo di pace sono stati in un certo modo sacrificati per il raggiungimento di questa pace. Il contributo di Hume è stato attivo, militante nel sostenere il raggiungimento della pace in uno scenario difficile: erano gli Anni Settanta e la legislazione del Nord Irlanda risaliva al 1920. Lui ha contribuito ad andare oltre le regole ormai passate rispetto ai tempi che stavano cambiando. Prima del Bloody Sunday, il movimento di protesta, soprattutto quello che stava crescendo nella parte cattolica di Derry, chiedeva diritti civili sulla scia di quanto stava accadendo negli Stati Uniti con i neri americani che protestavano; pensiamo al Reverendo Martin Luther King. Tutta una scia di pacifiche proteste prima che scoppiassero i Troubles, prima che scoppiasse il conflitto in Nord Irlanda. Hume si inserì in quella linea, in quello scenario e vi operò fino alla fine anche durante la difficoltà degli anni dei Troubles lavorò perché si riaffermassero i diritti attraverso una via pacifica. Nei suoi scritti si legge: “… purché le decisioni siano in mano alle persone, e non a qualche appartenenza, in mano non a chi cerca la divisione, ma a chi cerca l’unità”. E Hume aveva anche una visione di unità dell’Europa. Aveva trovato in David Trimble, la parte unionista che contribuì al processo di pace, un alleato ideale. Le loro visioni combaciavano nel cercare la pace tanto che, non potendo pronunciare due discorsi a Stoccolma, Hume lasciò a Trimble la parola. Ma non è stato solo la voce di una parte: è stato la voce sola del popolo del Nord Irlanda.

In questo momento lascia un’eredità che può essere una testimonianza importante: la fase storica è molto differente ma c’è bisogno di uomini di pace …

R. – C’è tanto bisogno di uomini di pace. Ho visto l’eredità di Hume soprattutto nella base, nelle persone che lo hanno amato tanto e che sono sicura ai suoi funerali parteciperanno in tanti. Vedo la sua eredità più che nella politica del Nord Irlanda, nella gente comune, in quelle persone che sono preoccupate per gli effetti che la Brexit può avere sul loro futuro e per gli effetti che la situazione, aggravata anche dalla pandemia, possono avere sulle generazioni successive. Vedo soprattutto lì l’eredità di John Hume e sono sicura che in questi giorni, nelle prossime ore, il tributo più grande sarà proprio quello della gente comune che lo vedeva come uno di loro. Non era sicuramente un notabile, tutt’altro. Era un uomo che si poneva con umiltà. La pace vera la vogliono veramente in tanti ora, soprattutto le giovani generazioni che la chiedono insieme alla pace.

Chiede voti e non rivoluzione la candidata dell’opposizione in Bielorussia

Manifestazioni di piazza a Minsk a pochi giorni dal voto presidenziale fissato il 9 agosto, ma per il quale alcune operazioni di voto postale potrebbero cominciare martedì prossimo. Le opposizioni si sono compattate intorno al nome di Svetlana Tikhanovskaja, al suo esordio in politica dopo che il marito, noto blogger, è stato arrestato. Si tratta di sfidare il presidente Lukashenko, che si candida per il sesto mandato. Intanto, è tensione nei rapporti tra Lukashenko e il presidente russo Putin.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’opposizione vuole “elezioni corrette e non una rivoluzione”. Così la trentasettenne Svetlana Tikhanovskaja ha parlato alla folla che a Minsk si è riunita in questi giorni per esprimerle appoggio. Ha rigettato le accuse che le ha mosso Lukashenko di voler provocare disordini con l’assistenza di Paesi stranieri. Tre giorni fa le autorità bielorusse hanno arrestato 32 persone, affermando che si tratta di mercenari russi, che stavano pianificando attentati alla vigilia delle elezioni. Il governo di Minsk ha accusato Thikhanovsky e un altro dissidente, Mikola Statkevich, di aver agito insieme ai 32 presunti mercenari russi, considerati appartenenti al gruppo Wagner.

La situazione sociale

Secondo l’organizzazione per i diritti umani bielorussa Viasna, almeno 60 mila persone hanno partecipato giovedì a Minsk a quella che viene definita la più grande manifestazione nell’ex repubblica sovietica da 26 anni guidata da Lukashenko. Per capire l’attuale momento politico, ma anche la situazione sociale, abbiamo intervistato l’esperto dell’area ex sovietica, Giuseppe D’Amato:

D’Amato spiega che le opposizioni per questo voto hanno scelto di compattarsi intorno al nome della moglie del noto blogger Sergei Tikhanovskij, che si definisce una casalinga stanca di un Paese difficile e che si candida con altre due donne. L’obiettivo dichiarato – sottolinea D’Amato – è quello di portare presto il Paese a elezioni libere. Lukashenko chiede invece di essere riconfermato per quello che sarebbe il sesto mandato, rivendicando di aver dato e di poter assicurare ancora stabilità al Paese. Certamente, afferma D’Amato, c’è stabilità anche economica, ma è una situazione di economia ferma in cui gli stipendi restano molto bassi e per la popolazione la vita è comunque cara. Per questo si registra, fuori dalle città una forte spinta migratoria in particolare verso la vicina Polonia. Per quanto riguarda il coronavirus, D’Amato riferisce che dalla Bielorussia arrivano conferme che il contagio è stato contenuto, che il presidente stesso ha ammesso di essere risultato positivo al Covid-19, ma di essere stato asintomatico. A proposito della vicenda dei presunti mercenari russi arrestati, D’Amato spiega che si tratta di un episodio che conferma come nella stretta alleanza tra Minsk e Mosca si stia vivendo un momento di “scollamento” per quanto riguarda i rapporti tra Lukashenko e Putin.

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