Cronaca di disumanità in attesa del piano Ue sui migranti

Tre bengalesi irregolari scaraventati dal furgone dei passeur: è accaduto nel Nord Italia e ricorda che la questione migrazioni va perfino oltre le drammatiche emergenze del Mediterraneo. La prossima settimana è atteso l’annunciato piano della Commissione europea che deve riscrivere le politiche comuni superando il trattato di Dublino. Si parla di frontiere forti e di corridoi umanitari: ne discutiamo con il giurista esperto di Ue Giampaolo Rossi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A rischio della vita, tre persone migranti sono state spinte fuori da un furgone in corsa questa mattina a Villa Vicentina, in borgo Sandrigo,  in Friuli-Venezia Giulia. Poco dopo altre nove persone sono state rintracciate sui binari proprio nella città della Bassa friulana. Una persona rischia di perdere un occhio, un’altra ha subito lo schiacciamento di un piede, il terzo di una gamba. Solo ieri, una settantina di migranti irregolari sono stati rintracciati sul Carso triestino, dopo essere entrati clandestinamente in territorio italiano attraverso la cosiddetta rotta balcanica.

Servono nuove politiche

Dunque, mentre si parla delle indagini della Guardia costiera italiana in corso sulla Sea-Watch 4, la nave della ong Sea-Watch nel Mediterraneo si evidenzia l’urgenza di nuove politiche in tema di migrazioni. Nel suo discorso mercoledì sullo stato dell’Unione, Ursula Von der Leyen, presidente della commissione europea ha ribadito che il trattato di Dublino viene abolito in attesa di nuove regolamentazioni. C’è attesa per il piano che la Commissione stessa ha annunciato che presenterà la prossima settimana. Delle priorità e dei possibili margini di azione abbiamo parlato con il giurista Giampaolo Rossi, esperto di diritto dell’Ue

La concreta assistenza ai Paesi di origine

Il professor Rossi ricorda che le politiche migratorie non rientrano strettamente nelle competenze degli organismi Ue, ma sottolinea subito che la sfida è proprio quella di far intervenire la visione comune, portata avanti negli ultimissimi tempi dalle istituzioni comuni, per far fare un salto di qualità alle politiche su questo tema. Secondo Rossi, ci sono delle priorità che ormai sono evidenti a tutti e che Ursula Von der Leyen ha espresso in modo appropriato e chiaro. Si tratta – sottolinea – di assicurare concreta e concertata assistenza ai Paesi di origine perché davvero si vada incontro ai bisogni della gente dell’Africa o del Medio Oriente che affronta anche il rischio della morte pur di cercare di salvarsi dalla fame. Rossi sottolinea che l’eccessiva diseguaglianza non è sostenibile. E a questo proposito ricorda che, al di là di proclami sull’aiutare i migranti nel loro Paese, nei fatti, i fondi per la cooperazione allo sviluppo negli ultimi anni sono diminuiti piuttosto che aumentare.

Non frontiere ma gestione dei flussi

Nello stesso tempo, afferma che è opportuna la rassicurazione della presidente della Commissione europea di “frontiere forti”. Il punto non è avere frontiere porose, che invece vanno evitate per evitare tragedie e sfruttamento e anche per la sicurezza dei territori. Piuttosto, l’obiettivo è gestire i flussi, con corriodi umanitari e iniziative legali. Se si riesce a creare benessere nei Paesi di origine – ribadisce  Rossi – il flusso diminuisce e si potranno ampliare ed assicurare canali legali. In Italia, grazie all’iniziativa delle chiese evangeliche, della Comunità di Sant’Egidio, della Conferenza Episcopale Italiana, già da anni sono stati organizzati viaggi in aereo di gruppi di migranti, gestendo poi la loro accoglienza in diversi comuni del territorio italiano. Si è trattato soprattutto di siriani in fuga dalla guerra. Qualcosa di simile è stato messo in moto anche in altri Paesi europei.

Fare un salto di qualità è possibile 

Giampaolo Rossi spiega che il momento per l’Ue è davero decisivo perché su questo e su altri temi può fare quel salto di qualità in termini di solidarietà che abbiamo visto effettivamente in atto in tema di crisi sanitaria e economica in una dimensione senza precedenti. La pandemia, infatti,  ha colpito indistintamente tutti i Paesi e con il Recovery Fund abbiamo visto in atto una logica nuova da parte delle istituzioni europee: quella di un aiuto diretto ai cittadini. In precedenza, l’aiuto e il sostegno a cittadini e imprese era sempre demandato ai governi nazionali. Rossi invita a rifilettere sul fatto che tutto ciò, insieme con i riferimenti della Von der Leyen a politiche comuni sull’ambiente e sul digitale, può spingere politici e popoli ad accettare che, proprio in virtù di una concreta vera solidarietà, si possa cedere  qualcosa di più dei poteri nazionali al piano sovranazionale.

Siamo in un momento decisivo

Rossi sottolinea  anche l’urgenza di farlo pensando a questioni come quella della digitalizzazione dove al momento si muovono colossi statunitensi o cinesi. E’ impensabile che l’Ue deroghi a uno di questi un tale ambito che ha molto a che fare con i dati più  sensibili e con la sicurezza, ma è impensabile anche che  ogni Paese membro Ue gestica la cosa da solo. Su più fronti, dunque, deve rafforzarsi l’impegno per politiche comuni che possono essere accettate dai cittadini proprio se si conferma la logica nuova della solidarietà e del bene comune e non degli interessi di alcuni all’interno di una nazione. Per tutti questi motivi, Rossi parla di “momento decisivo per l’Ue”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-09/unione-europea-migranti-politiche-furgone-bengalesi.html

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A 19 anni dall’11 settembre che ha segnato la storia

Negli Stati Uniti e non solo si commemorano le vittime dell’attentato che l’11 settembre 2001 sconvolse il mondo. I due candidati alla Casa Bianca, Donald Trump e Joe Biden, sono entrambi a Shanksville, in Pennsylvania, dove, dopo il dramma delle Torri gemelle a New York, si schiantò uno degli aerei dirottati dai terroristi islamici. Intanto un quarto aereo colpiva il Pentagono. Con noi l’esperto di Relazioni Internazionali, Daniele De Luca

Fausta Speranza – Città del Vaticano

New York si ferma per l’11 settembre anche se con i divieti di assembramento in vigore per la pandemia e il timore di un nuovo balzo dei casi di coronavirus. Per le commemorazioni al World Trade Center nessun palco è stato allestito e la lettura dei nomi delle oltre 2.700 vittime è stata registrata e viene trasmessa in streaming. Attesi il vicepresidente Mike Pence e Joe Biden, candidato democratico alla Casa Bianca, mentre il presidente Donald Trump ha annunciato la sua presenza solo alle celebrazioni in Pennsylvania. Riapre il Museo dell’11 settembre per l’occasione dopo sei mesi di stop, ma con l’accesso garantito solo per i componenti delle famiglie delle vittime. Tornano, come ogni anno, il suono delle campane per ognuno degli attacchi e i fasci di luce al posto delle Twin Towers. Per ragionare sugli equilibri globali di allora e di oggi, abbiamo intervistato Daniele De Luca, docente di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università del Salento:

De Luca ricorda quanto fosse diverso il mondo 19 anni fa, in particolare se si parla di relazioni internazionali e di equilibri di potenze. Si sofferma sul ruolo degli Stati Uniti allora e oggi, parlando del peso maggiore acquisito in questi anni sia dalla Russia che dalla Cina, anche se in termini diversi tra loro. Ricorda, però, anche cosa accadde alla stessa politica estera statunitense proprio dopo l’11 settembre. In sostanza, quegli attacchi – afferma De Luca – hanno effettivamente cambiato la storia.  Inoltre sottolinea che bisogna rileggere le dichiarazioni di intenti dell’allora presidente George W. Bush all’inizio del suo mandato: si ritrova l’intento di riportare il Paese sugli interessi interni, per occuparsi soprattutto delle questioni economiche domestiche, in base a quella dottrina che è stata descritta dagli analisti come “isolazionismo”. Ma l’evento del 9/11 ha determinato invece un cambio di rotta: i consiglieri più interpellati e più ascoltati dal presidente sono stati quelli militari e la politica di difesa e estera è diventata priorità della Casa Bianca. Questo è avvenuto in un momento in cui la Russia doveva ancora riprendersi dal collasso dell’Unione Sovietica e si presentava debole sul piano internazionale. Poi ha riacquisito un ruolo di primo piano su diversi scenari, Contemporaneamente, osserva De Luca, la Cina andava ritagliandosi spazi internazionali importanti.  In questi anni si è parlato di “scontro di civiltà”, secondo l’espressione con la quale Samuel P. Huntington “fotografava” le tensioni in atto in quell’inizio di millennio. Un’espressione che De Luca commenta  innanzitutto affermando che la speranza è stata sempre quella di vedere sciogliersi le tensioni, citando anche il recentissimo accordo annunciato tra Israele e Emirati Arabi Uniti. Ma si tratta di un accordo che non risolve certamente i problemi del Medio Oriente e tanto meno del mondo, ma che rappresenta un’importante apertura, anche perché – spiega – anche perchè pure l’Arabia Saudita dimostra un atteggiamento nuovo in quanto verrà in qualche modo coinvolta.

9/11/2001

Quattro attacchi suicidi e coordinati furono compiuti contro obiettivi civili e militari degli Stati Uniti d’America da un gruppo di terroristi aderenti ad al Qaeda. Causarono la morte di 2977 persone e il ferimento di oltre 6000. Morirono anche 19 dirottatori. Negli anni successivi, altre persone sono morte a causa di tumori o malattie respiratorie causate indirettamente dagli attentati. Ingenti i danni infrastrutturali causati. Quattro aerei di linea, appartenenti a due delle maggiori compagnie aeree statunitensi, furono dirottati da 19 terroristi. Due aerei (il volo American Airlines 11 e il volo United Airlines 175) furono rispettivamente fatti schiantare contro le Torri Nord e Sud del World Trade Center, nel quartiere Lower Manhattan a New York. Nel giro di 1 ora e 42 minuti, entrambe le torri crollarono. I detriti e gli incendi causarono poi il crollo parziale o totale di tutti gli altri edifici del complesso del World Trade Center. Un terzo aereo, il volo American Airlines 77, fu fatto schiantare contro il Pentagono, sede del Dipartimento di Difesa, in Virginia. L’attacco causò il crollo della facciata ovest dell’edificio. Un quarto aereo, il volo United Airlines 93, fatto inizialmente dirigere verso Washington, precipitò invece in un campo nei pressi di Shanksville, in Pennsylvenia, a seguito dell’eroica rivolta dei passeggeri.

Le responsabilità e le reazioni degli Stati Uniti

I sospetti ricaddero quasi subito sull’organizzazione terroristica di al Quaeda. Gli Stati Uniti risposero dichiarando la “guerra al terrorismo” e attaccando l’Afghanistan al fine di deporre il regime dei talebani, neutralizzare al Qaeda e catturare o uccidere il  leader Osama Bin Laden. Il Congresso approvò il Patrioct Act, mentre altri Paesi rafforzarono le proprie legislazioni in materia di terrorismo e approvarono severe misure di sicurezza interna. Sebbene Osama Bin Laden negò inizialmente ogni tipo di coinvolgimento, nel 2004 si dichiarò responsabile degli eventi dell’11 settembre. L’organizzazione terroristica islamica citò come moventi il supporto statunitense ad Israele, la presenza di truppe statunitensi in Arabia Saudita e le sanzioni contro l’Iraq. La distruzione del World Trade Center danneggiò l’economia della Lower Manhattan ed ebbe un significativo impatto sui mercati globali, causando la chiusura di Wall Street fino al 17 settembre. La rimozione dei detriti dal sito del World Trade Center (denominato Ground Zero) fu completata nel maggio 2002. I danni del Pentagono furono riparati nel giro di un anno. Il 18 novembre 2006 iniziò la costruzione del One World Trade Center, inaugurato il 3 novembre 2014.

Vari i monumenti

Tra i molti memoriali eretti in onore delle vittime degli attentati è presente a New York, sui luoghi dove sorgeva il complesso del World Trade Center, il National September 11 Memorial & Museum; nella Contea di Arlington è stato inaugurato il Pentagon Memorial; nei pressi di Shanksville, Pennsylvania, è invece sito il Flight 93 National Memorial.

A Shanksville commemorazioni e campagna elettorale

Entrambi gli avversari nella corsa per la Casa Bianca sono oggi in Pennsylvania, dove si schianto’ uno dei quattro aerei dirottati dai terroristi islamici, provocando la morte di tutti i 44 passeggeri e membri dell’equipaggio, che avevano tentato di contrastare il dirottamento. La Pennsylvania è uno degli Stati cruciali per le elezioni del novembre prossimo, con i sondaggi che vedono i due contendenti molto vicini nelle intenzioni di voto. Per molto tempo a maggioranza democratica, è uno degli Stati che nel 2016 ha contribuito alla vittoria di Trump.

da Vatican News dell’11 settembre 2020

 

La Bielorussia tra possibilità di riforme e rischi di fratture

Il presidente Lukashenko ribadisce ufficialmente che non intende lasciare il potere che il popolo gli ha dato. Sembra parlare di apertura al multipartitismo, secondo quanto emerge in un’intervista radiofonica all’emittente Govorit Moskva. La prossima settimana è atteso a Mosca da Putin. Intanto, la leader dell’opposizione bielorussa, Tikhanovskaya, è stata accolta in visita in Polonia. L’opinione dell’esperto di geopolitica Raffaele Marchetti

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il presidente bielorusso Alexander Lukashenko ha detto che non rinuncerà al potere. “Non è per questo che il popolo mi ha eletto”:  ha spiegato presentando il nuovo procuratore generale. “Il potere non viene dato in modo che uno poi lo ceda”, ha sottolineato il capo dello Stato,  secondo quanto riporta l’agenzia di stampa Interfax. Dal 9 agosto, giorno delle elezioni presidenziali – vinte da Lukashenko  con l’80 per cento dei consensi ma contestate dall’opposizione – a Minsk e in altre città della Bielorussia si svolgono proteste popolari. La prossima settimana, secondo notizie di stampa, il presidente Lukashenko è atteso dal suo omologo russo a Mosca.

Ipotesi multipartitismo

“Sembra che dobbiamo lavorare sul tema dello sviluppo dei partiti, in modo da avere un normale sistema multipartitico. Tra questi partiti dovrebbe esserci l’opposizione”: e’ quanto ha detto il presidente della Bielorussia Aleksandr Lukashenko in un’intervista all’emittente radiofonica Govorit Moskva. In sostanza, il capo di Stato bielorusso sembrerebbe aprire al sistema multi-partitico nel suo Paese.

Il messaggio dell’opposizione

“Il mio ruolo è restituire al popolo bielorusso la voce e il potere che gli sono stati tolti”. Lo ha detto ieri la leader dell’opposizione bielorussa Svietlana Tikhanovwskaya, nel corso della sua prima visita in Polonia, dove  è stata ricevuta dal primo ministro Mateusz Morawiecki, prendendo la parola davanti agli studenti dell’università di Varsavia. Tikhanovskaya ha spiegato che il suo scopo politico è quello di portare il Paese alle nuove elezioni presidenziali, un voto che dovrà essere “giusto e onesto”. La leader bielorussa ha affermato che dall’inizio delle manifestazioni contro Lukashenko, a seguito delle azioni delle forze dell’ordine, sono finora morte almeno sei persone, oltre alle tante torturate e fermate. Le manifestazioni, ha concluso, sono gestite soprattutto dalle donne e continueranno e a essere organizzate come dimostrazioni pacifiche, senza far ricorso alla violenza.

Fuori discussione il rapporto con Mosca

“I rapporti fra Bielorussia e Russia dovranno restare sempre buoni”. E’ quanto ha sottolineato  Svietlana Tikhanovskaya, a Karpacz, nel sud della Polonia, dove ha preso la parola durante un forum economico. L’opposizione bielorussa è consapevole che la Russia è e sarà il principale partner economico della Bielorussia e quindi svolge  – ha spiegato – un ruolo importante nella vita di questo  Paese. A suo parere, ciò non dovrebbe impedire al popolo bielorusso di poter vivere in uno Stato “sovrano e democratico”.

Sulla delicata fase che si vive in Bielorussia e degli equilibri di un Paese tra l’Europa e la Russia, l’opinione di Raffaele Marchetti, docente di relazioni internazionali all’Università Luiss:

Il professor Marchetti ricorda che, in generale, non basta parlare di multipartitismo per assicurare equilibri democratici ad un Paese. Una possibile apertura su questo piano in Bielorussia può essere senz’altro importante ma  va accompagnata ad un processo più generale. Nei particolari equilibri del Paese – sottolinea – ci si augura che si persegua un cammino non di contrapposizione esasperata, che potrebbe portare a divisioni laceranti, ma di dialogo. Da una parte, c’è la leadership di Lukashenko e, dall’altra, c’è il movimento di protesta che chiede che nel Paese abbia voce l’opposizione. Ma c’è poi anche l’orizzonte internazionale in cui, da una parte, c’è la voce dell’Unione europea e quella degli Stati Uniti e, dall’altra, le posizioni della Russia. Anche sul piano internazionale – raccomanda Marchetti – è auspicabile un dialogo vero che eviti dannose contrapposizioni o addirittura orizzonti di frazionamenti territoriali.  Marchetti ricorda come la Bielorussia sin dai tempi dell’Unione sovietica abbia avuto e conservi un legame strettissimo con Mosca, con implicazioni che vanno dal piano politico a quello culturale,  che va rielaborato, ma che non può essere negato o rinnegato all’improvviso.

da Vatican NEWS del 10 sttembre 2020

Ue e Regno Unito alla resa dei conti sulla Brexit

Si torna a parlare di Brexit: secondo le anticipazioni di stampa, il premier britannico Boris Johnson intende chiudere tutta la vicenda entro 38 giorni. Siamo nel tempo della transizione e in ballo c’è la questione commerciale. Con noi l’economista, esperto di governance, Giovanni Fiori

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La pandemia ha distolto l’attenzione dal processo di negoziazione in corso, anche se i colloqui tra Londra e Bruxelles sulla Brexit sono proseguiti. E’ tornato a parlarne il quotidiano Telegraph, riferendo indiscrezioni secondo le quali il premier britannico Boris Johnson chiarirà presto che un accordo, applicabile entro la fine dell’anno, deve essere raggiunto entro il Consiglio europeo del 15 ottobre prossimo. Secondo il premier, dunque, se non si arriverà ad una soluzione entro quella data, “non ci sarà un’intesa per il libero commercio ed entrambi dovremmo accettarlo e andare avanti”. Si tratterebbe dunque di 38 giorni di tempo.

Il periodo di transizione

Dopo l’uscita del Regno Unito dall’Ue, formalizzata a fine gennaio, si è aperto il periodo utile per capire se Londra uscirà anche dall’accordo commerciale con Bruxelles con una nuova intesa oppure senza. Formalmente la transizione è prevista dal 1 febbraio 2020 fino alla fine dell’anno. Dunque,  fino al 31 dicembre di quest’anno, il Regno Unito continuerà ad operare in base alle norme europee e non sono previsti cambiamenti immediati nella libera circolazione delle persone. I cittadini europei potranno, quindi, continuare a entrare e uscire dal Regno Unito come sempre, con passaporto o carta d’identità. Le patenti di guida, ad esempio, manterranno la propria validità.

Incognite sul 2021

Per quanto accadrà alla fine del periodo di transizione restano invece incertezze. Bisogna capire se Londra e Bruxelles raggiungeranno un nuovo accordo commerciale o meno. Nella seconda ipotesi, si verificherà il caso della cosiddetta “hard Brexit”. Del punto nodale in discussione al momento e delle conseguenze già registrate o ipotizzate per il prossimo futuro abbiamo parlato con Giovanni Fiori, economista docente di Governance all’Università Luiss:

Secondo Fiori la possibile dichiarazione di Johnson sembra più orientata a presentarsi come posizione di forza per il suo elettorato interno piuttosto che un vero messaggio all’Unione Europea. Il punto chiave in discussione – spiega l’economista – è stabilire in che misura, oltre al libero scambio con gli altri e le abolizioni delle tariffe, l’Ue consenta al Regno Unito di avere in qualche modo una continuità legislativa con il mercato interno europeo. In sostanza si tratta di stabilire se nei prossimi anni il Regno Unito si impegni o no all’armonizzazione delle regole con il mercato europeo o voglia invece andare per la sua strada. Questo significherebbe che Bruxelles applicherebbe le tariffe normalmente applicate agli altri Paesi del mondo al di fuori dell’Ue. Londra non può pretendere un accordo simile a quello che aveva, restando all’interno dell’Ue, perché altrimenti passerebbe la linea che si può uscire dall’Unione senza uscire dall’accordo. Per Bruxelles è inaccettabile. Secondo Fiori, è probabile che si trovi una sorta di accordo che eviti proprio la hard Brexit e che rappresenti un compromesso accettabile. Il professor Fiori inoltre parla di quanti, al di là dei “contendenti”, possano trarre beneficio da questa situazione di incertezza, citando i giganti dell’economia: Stati Uniti e Cina, ma anche sottolineando che per altri, come la Russia, potrebbe esserci più un vantaggio politico nella debolezza dell’Europa che un tornaconto economico. Fiori spiega anche come i mercati abbiano già subito l’impatto della Brexit e come il Regno Unito attualmente soffra anche molto il costo della pandemia, capitata proprio in questa fase particolare per il Paese.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-09/brexit-regno-unito-unione-europea-economia.html

Carità e vita: il cardinale Parolin ai sacerdoti

Nell’omelia per l’ordinazione di 29 sacerdoti dell’Opus Dei, il Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, ha ricordato il mandato di Gesù per i suoi pastori e le necessità delle pecorelle a loro affidate parlando di misericordia. Nel giorno della memoria liturgica di Santa Madre Teresa, ieri 5 settembre, ha citato, tra gli altri, la Santa dei più bisognosi tra i poveri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il sacerdote, pastore di anime, non è solo colui che guida: sono parole del segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, all’omelia della Messa per l’ordinazione di 29 nuovi sacerdoti dell’Opus Dei, ieri nella Basilica di Sant’Eugenio. “Si   è piuttosto radicata l’idea che il pastore designi quasi esclusivamente la conduzione del gregge”, dice, spiegando che “certamente il pastore è colui che guida, che, precedendo le pecore, indica loro la via, detta il passo, traccia il percorso di quella che chiamiamo, appunto, ‘pastorale'”. Ma poi avverte che “nel Vangelo emerge una prospettiva più ampia”. Il cardinale Parolin  ricorda  che “Gesù evidenzia la differenza tra il pastore e il mercenario” e sottolinea che “diversamente da questi, che interpreta il proprio operato come un mestiere, il pastore non riveste un ruolo, ma assume uno stile di vita”. E dunque un’indicazione precisa: “Il pastore non viveva come voleva, ma come era meglio per il gregge; non stava dove desiderava, ma dove si trovava il gregge. Si spostava con le pecore e trascorreva ogni ora del giorno e della notte in loro compagnia. Più che condurre il gregge, ci viveva immerso.”

Il pastore chiamato alla vita

“L’immagine del pastore sembra dunque riferirsi non anzitutto al governo, ma alla vita”, afferma il segretario di Stato ricordando che “non a caso Gesù caratterizza il pastore come colui che dà «la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). Il messaggio è chiaro:  “Non sarete in primo luogo chiamati a ‘fare qualcosa’ – magari nemmeno quello a cui vi sentite più portati – ma a dare e condividere la vita”. In questo la promessa di pienezza: “Così potrete realizzare in pienezza la chiamata ad agire ‘in persona Christi‘: non solo nell’amministrazione dei sacramenti, ma incarnando lo stile di Gesù”. E a questo proposito il cardinale Parolin cita le seguenti parole di San Josemaría Escrivá de Balaguer: «il sacerdote – chiunque egli sia – è sempre un altro Cristo».

Il tempo della misericordia

“Essere pastori oggi significa diventare testimoni di misericordia”: è il richiamo del cardinale Parolin, che ricorda che “Cristo buon pastore è venuto a cercarci là dove ci eravamo perduti, nelle valli oscure del peccato e della morte: ha preso su di sé il nostro peccato, ha patito il nostro male, ha condiviso la nostra morte, morendo in croce”.  In questo modo – ribadisce – “ci ha redenti, raccogliendoci con misericordia e mettendoci con amore sulle sue spalle, come l’arte cristiana ha raffigurato da subito, in modo eminente in questa città”. E dunque chiarisce il mandato per il sacerdote: “La vita del sacerdote è chiamata a testimoniare la gioia dell’incontro tra Dio e noi, la gioia che Dio prova nell’usarci misericordia”.  Il riferimento a Papa Francesco:  «Oggi è tempo di misericordia!», proclamò il Santo Padre nell’imminenza dell’apertura dello scorso Giubileo, il 25 ottobre 2015. E il cardinale Parolin dice ai nuovi sacerdoti: “La grazia dell’oggi ecclesiale e le esistenze si incontrano così in questo giorno, nel segno del pastore misericordioso che dà la vita per il gregge”.

La bellezza della salvezza tra parole e perdono

“Le parole con cui predicherete non potranno che essere parole di vita”. Il segretario di Stato parla di “conseguenze pratiche” da considerare e afferma: “Prima di esortare va sempre proclamata la bellezza della salvezza”Circa il perdono, invita ad essere “ambasciatori di misericordia, portatori del perdono che risolleva l’esistenza, sacerdoti che amano disporre i fratelli e le sorelle a lasciarsi riconciliare con Dio”. Sottolinea: “So quanta attenzione e cure prestate al sacramento della Riconciliazione, alla confessione: non posso far altro che esortarvi a continuare a farlo, per essere dispensatori di quella grazia e di quel perdono del Signore di cui il mondo di oggi ha estremo bisogno!”

Il valore della semplicità e il pensiero a Santa Teresa di Calcutta

La seconda parola proposta è la semplicità. Il  cardinale Parolin ricorda che “i pastori presenti alla nascita di Gesù non rappresentavano certamente il vertice culturale del popolo e non erano l’espressione compiuta della purezza rituale, eppure furono i primi chiamati ad accogliere il Messia apparso in terra”. Il Signore guarda al cuore, ama i piccoli e cerca i semplici.  Santa Teresa di Calcutta “può venirci in aiuto”. Una citazione dal “Cammino semplice” che ella delineò: «Il frutto del silenzio è la preghiera. Il frutto della preghiera è la fede. Il frutto della fede è l’amore. Il frutto dell’amore è il servizio. Il frutto del servizio è la pace». “Parole semplici” le definisce il cardinale ma capaci di “collegare ciascuno con i poli dell’esistenza: Dio e gli altri”.  Avverte: “Per essere pastori veramente tali occorre anzitutto avere una vita ben ordinata e ciò significa pure non lasciarsi ingolfare da mille cose, pena il rischio di smarrire la semplicità di un cuore pienamente dedito al Signore”. E cita ancora il fondatore dell’Opus Dei: «Il Signore non si accontenta di spartire, vuole tutto. Non cerca le nostre cose, cerca noi stessi».

La sfida difficile della missione

Missione è la terza parola scelta a proposito del Buon Pastore che – ricorda il cardinale Parolin – va in cerca della pecorella perduta: “Voi, cari fratelli provenienti da varie latitudini e da contesti diversi, venite ordinati presbiteri durante un Pontificato che ci sta trasmettendo, oltre alla priorità della misericordia vissuta e al richiamo alla semplicità evangelica, l’esigenza non più rimandabile della missione, quale vocazione principale della Chiesa”. Il segretario di Stato sottolinea: “Essere Chiesa in uscita significa non concepirsi più come fine, ma come mezzo, per portare non noi stessi, ma il Signore al mondo. Significa non essere introversi, ma estroversi; non ansiosi di ottenere rilevanza, ma di far conoscere Gesù a chi, come accade soprattutto nei contesti più secolarizzati, pensa che la questione di Dio appartenga al passato”. In definitiva, l’invito a “coniugare carità pastorale e sana creatività evangelizzatrice, fedeltà e flessibilità, fede ben radicata e cuore disponibile; chiede di andare incontro, più che di attendere; di accogliere, non di respingere, gli interrogativi più inquieti e complessi di oggi, particolarmente quelli delle giovani generazioni, spesso lontane e talvolta riottose”.  Il cardinale incoraggia i nuovi sacerdoti dopo aver ricordato che  “è difficile caricarsi sulle spalle vite disordinate, apparentemente vuote” e dopo aver ribadito: “E’ verso queste pecorelle che, oggi in particolare, il Signore desidera che ci incamminiamo”.

da Vatican NEWS del 6 settembre 2020

 

La speranza rinnovata per il Libano

E’ forte l’eco della giornata di preghiera e di digiuno voluta da Papa Francesco venerdì 4 settembre – a un mese esatto dalla devastante esplosione al porto di Beirut – con la visita del segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin. A Vaticannews il rettore del Seminario Redemptoris Mater della capitale, don Guillaume Bruté, parla delle cruciali sfide che attendono il Libano, chiamato a importanti riforme, e racconta della speranza rinnovata nel Paese, tra tutti e non solo tra i cristiani, dall’iniziativa del Papa

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Progetti di pace e non di sventura per concedervi un futuro pieno di speranza”: sono parole di Papa Francesco, che cita il Profeta Geremia. Sono contenute nel messaggio portato in Libano dal segretario di Stato cardinale Pietro Parolin con la sua visita,  venerdì 4 settembre, esattamente a un mese dall’esplosione al porto di Beirut, che ha causato oltre 220 morti, 6000 feriti e 300.000 sfollati.

Il forte incoraggiamento

“I libanesi ricostruiranno il loro Paese, con l’aiuto degli amici e con lo spirito di comprensione, dialogo e convivenza che li ha sempre contraddistinti”: così il cardinale Parolin nell’omelia della Messa celebrata davanti al Santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa. Il segretario di Stato ha sottolineato la capacità dimostrata dai libanesi di resistere e di rialzarsi dalle enormi difficoltà incontrate nel corso della sua storia. Anche questa volta sapranno farlo: “La ricostruzione del Libano non avverrà solo a livello materiale. Beirut, ‘madre delle leggi’, rinascerà dalle sue ceneri assistendo alla nascita di un nuovo approccio alla gestione della cosa pubblica, la res publica. Nutriamo tutti la speranza che la società libanese si baserà maggiormente sul diritto, i doveri, la trasparenza, la responsabilità collettiva e il servizio del bene comune”.

Dell’importanza e del significato dell’iniziativa per il popolo libanese abbiamo parlato con don Guillaume Bruté, rettore del seminario Redemptoris Mater a Beirut:

Don Guillaume racconta dell’emozione di accogliere nel Paese il rappresentante del Papa, di ascoltare l’incoraggiamento da parte del cardinale Parolin per un cammino di riforme nel Paese dei cedri, che anche Papa Francesco ha definito con la definizione data nel 1989 da Papa Giovanni Paolo II, poi Santo, e cioè: “il Libano non è solo un Paese ma è un messaggio di convivenza”. E Don Guillaume spiega che il cardinale Parolin è venuto a dare speranza a quanti guardano al possibile lungo processo di riforma del sistema di governance definito confessionalismo, che ha assicurato al Paese un equilibrio ma che ormai è tempo di cambiare per correggere alcuni limiti. Non sarà un impegno da poco, ma è importante che il processo sia avviato, dice il rettore. E Don Guillaume sottolinea che è emozionante sapere che il cardinale Parolin ha ascoltato, valuta, segue le proposte che emergono, come quella del Patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Béchara Boutros Raï, che ha parlato di status di neutralità. Don Guillaume spiega che l’obiettivo è far sì che il Libano non sia condizionato da ingerenze straniere, ma che piuttosto trovi uno spazio di autonomia che gli permetta di “compiere la sua missione”.

Il cardinale Parolin tra le macerie di Beirut

E, oltre le parole, c’è poi un’immagine che Don Guillaume racconta di conservare di questa visita: è stato particolarmente colpito dal vedere il segretario di Stato, inviato del Papa, tra le macerie di Beirut. Non si tratta di macerie di una guerra – dice – ma comunque frutto di una distruzione: l’esplosione devastante del 4 agosto al porto, infatti, oltre al disastro dal punto di vista umano – oltre 200 morti, migliaia di feriti e decine di migliaia di sfollati – ha sgretolato vetri di case e di macchine in una vasta area della città e ha poi davvero distrutto il quartiere di Karantine, “uno dei più antichi e belli di Beirut”. E, a questo proposito, Don Guillaume oltre a riferire il dramma di chi ha avuto perdite di persone care, sottolinea che ci sono le difficoltà economiche di chi non ha le risorse per mettere a posto la casa o la macchina con cui dovrebbe magari andare a lavorare, nel caso sia tra quanti hanno ancora un lavoro. La situazione finanziaria del Paese è davvero difficile da mesi e mesi e l’esplosione ha colpito una popolazione già stremata, con la lira libanese che ha perduto oltre l’80 per cento del suo valore.  In tutto questo – afferma Don Guillaume – l’iniziativa della giornata di preghiera e digiuno di Papa Francesco, che ha toccato l’animo non solo delle persone religiose ma di tutti, ha rinnovato lo slancio di speranza. E don Guillaume esprime l’auspicio che anche i leader che gestiranno aiuti per il Libano lo facciano con uno spirito rinnovato dalla consapevolezza di cosa rappresenti il Paese: un messaggio di convivenza, come diceva San Giovanni Paolo II e come ha ribadito Papa Francesco, per la Regione e per il mondo.

da Vatican NEWS del 6 settembre 2020

 

Béchara Raï: salvare il Libano un dovere nobile per il mondo

Dopo la tragedia del porto di Beirut, la Chiesa locale si stringe attorno all’inviato del Papa, il cardinale Parolin, per vivere la “Giornata universale di preghiera e digiuno per il Libano” annunciata per domani da Francesco. A Vatican News il Patriarca di Antiochia dei Maroniti, il cardinale Béchara Raï, parla dell’iniziativa che richiama alla mente la giornata voluta nel 1989 da Giovanni Paolo II e sottolinea l’importanza di difendere il “messaggio” che il Libano rappresenta per il mondo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A un mese esatto dall’esplosione nel porto che ha devastato Beirut – 220 morti,  6.000 feriti e 300 mila sfollati – il Papa richiama tutti alla “Giornata universale di preghiera e digiuno per il Libano”. Nell’accorato appello, lanciato ieri al termine dell’udienza generale, ha annunciato di inviare il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, quale suo “rappresentante” per esprimere “vicinanza e solidarietà” e per invitare “anche i fratelli e le sorelle di altre confessioni e tradizioni religiose ad associarsi a questa iniziativa” nelle “modalità che riterranno più opportune, ma tutti insieme”.

Ricordando il richiamo 30 anni fa di San Giovanni Paolo II, Francesco ha affermato: “Di fronte ai ripetuti drammi, che ciascuno degli abitanti di questa terra conosce, noi prendiamo coscienza dell’estremo pericolo che minaccia l’esistenza stessa del Paese. Il Libano non può essere abbandonato nella sua solitudine”. Per oltre 100 anni, il Libano è stato “un Paese di speranza”, “un luogo di tolleranza, di rispetto, di convivenza unico nella regione”. Come disse San Giovanni Paolo II nel 1989, “il Libano rappresenta qualcosa di più di uno Stato, il Libano è un messaggio di libertà, è un esempio di pluralismo tanto per l’Oriente quanto per l’Occidente'”. Francesco ha ribadito: “Per il bene stesso del Paese, ma anche del mondo, non possiamo permettere che questo patrimonio vada disperso”.

Dell’incoraggiamento di Papa Francesco a “tutti i libanesi a continuare a sperare”, abbiamo parlato con il Patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Béchara Boutros Raï  

R. – Noi abbiamo apprezzato tanto l’iniziativa del Santo Padre e lo ringraziamo di cuore. Da quando il nunzio ci ha comunicato ieri la notizia, abbiamo informato tutti i vescovi e anche il popolo perchè ogni sera, nel Patriarcato, abbiamo la recita del Rosario che è diffuso attraverso televusioni e Facebook. Quindi abbiamo annunciato che il Papa ha fatto un appello lanciano una giornata di preghiera e digiuno per il Libano. Quindi tutti lo sanno: le diocesi e i religiosi sono stati tutti informati e vediamo che si sono “mobilitati” alla preghiera anche tanti giovani.

Eminenza ricordiamo l’altra giornata di preghiera quella voluta da San Giovanni Paolo II, il 7 settembre 1989…

R. – S. Giovanni Paolo II inviò una lettera apostolica a tutti i vescovi cattolici del mondo chiedendo di consacrare una giornata di preghiera per il Libano. In quella famosa lettera diceva esattamente che il Libano è qualcosa di più di un Paese, è un messaggio di libertà, un esempio di pluralismo per l’Oriente come per l’Occidente. La sua sparizione diverrebbe uno dei più grandi rimorsi del mondo, la sua salvaguardia è uno dei doveri più urgenti e nobili che il mondo contemporaneo debba assumere. Quindi è una cosa molto grande. Ecco, ora il Santo Padre Francesco riprende questa iniziativa di preghiera per il Libano.

Dunque eminenza un appello e una preghiera forti che si rinnovano, per la difesa e la ricostruzione del Libano?

R. – Certo, ed è per questo che noi diamo tanta importanza a questo evento, e stiamo pregando tutti, come Chiesa, già da ottobre scorso. Tutti i giorni alle 18 recitiamo il Rosario che viene diffuso tramite le televisioni e attraverso Facebook. E’ seguito da decine di migliaia di persone. Ora grazie all’appello del Papa viviamo una preghiera universale della Chiesa.

A 20 chilometri da Beirut, in collina si staglia il Santuario di Nostra Signora del Libano di Harissa. Abbiamo raggiunto telefonicamente il rettore padre Khalil Alwan:

Padre Khalil sottolinea che la parola del Papa e l’inizitiva della giornata hanno fatto sentire a tutti in Libano di non essere soli. Sapere che la Chiesa in tutto il mondo prega per il Libano è – sottolinea – “una grazia straordinaria”. Padre Khalil sottolinea quanto sia importante l’incoraggiamento per la gente nel Paese che vive una fase  in cui “in tanti pensano di emigrare”. E ricorda poi che nel Santuario, dove si celebrano ogni giorno diverse Messe e si recita il Rosario, in particolare durante tutte le ore della visita del cardinale Parolin ci saranno persone a pregare senza interruzione.

da Vatican NEWS del 3 settembre 2020

 

Israele al centro di accordi e intese

Confermate intese sul piano commerciale per Gaza, mentre Israele cerca di organizzare la cerimonia per la firma dell’accordo di normalizzazione delle relazioni tra lo Stato ebraico e gli Emirati Arabi Uniti entro metà settembre a Washington. Ieri sono arrivate nel Golfo le delegazioni israeliane e statunitense. Con noi l’esperto di geopolitica Raffaele Marchetti:

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Israele riapre da oggi il valico commerciale con Gaza di Kerem Shalom e ripristinerà le zone di pesca al largo delle coste della Striscia. Si tratta di provvedimenti che rientrano nelle intese annunciate ieri tra Hamas e il Qatar sulla crisi con Israele. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha sottolineato che si tratta di “fermare l’escalation” lungo il confine dopo un mese di incidenti e riportarvi la calma. E ha precisato che le intese, mediate dal Qatar, includono la realizzazione di progetti a beneficio di Gaza e serviranno a contrastare la diffusione dei contagi di coronavirus.

Al lavoro per l’attuazione degli accordi di metà agosto

Ieri l’aereo El-Al LY971, con a bordo il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, e l’inviato speciale di Trump, Jared Kushner, è volato direttamente da Tel Aviv ad Abu Dhabi ed è passato per i cieli dell’Arabia Saudita. Si tratta di sviluppi dell’Accordo raggiunto a metà agosto tra Israele, Emirati Arabi e Stati Uniti. Netanyahu e Kushner hanno invocato “pace nella regione”. Il lavoro delle delegazioni è cominciato subito dopo l’atterraggio (alle 15.38 locali) con il primo incontro tra il ministro di Stato emiratino Anwar Mohammed Gargash e il capo della delegazione israeliana, il consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben Shabbat, al quale ha preso parte anche Kushner.  Sono estremamente orgoglioso – ha detto l’israeliano parlando in arabo – di guidare questa  delegazione. Sul tavolo ci sono accordi di cooperazione su aviazione, turismo, energia, commercio, finanza, sanità, energia ma non sulla sicurezza, tema che sarà oggetto di prossimi incontri.

Per riflettere sul significato e le implicazioni anche simboliche di questo volo, sulle reazioni e sugli sviluppi dell’accordo di metà agosto, abbiamo intervistato Raffaele Marchetti, docente di relazioni internazionali alla Luiss:

Il professor Marchetti sottolinea che l’accordo è senz’altro un passo importante e spiega che si inserisce nel contesto di un avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita in chiave di possibile fronte di alleanza nei confronti del potere sciita in particolare dell’Iran. Ricorda il ruolo dell’amministrazione Trump e la contemporaneità con l’impegno statunitense a spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e ad appoggiare il processo di espansione dello Stato ebraico in Cisgiordania. In questi giorni – ricorda Marchetti – le delegazioni discutono dell’apertura di ambasciate nei rispettivi Paesi, a suggello del terzo accordo di pace tra Israele e un Paese arabo, dopo Egitto e Giordania, che Netanyahu si è detto convinto sarà presto firmato ufficialmente a Washington. A proposito di reazioni all’accordo con gli Emirati, Marchetti commenta che ovviamente c’è quella negativa da parte del mondo sciita e poi spiega che il fronte palestinese è invece meno compatto. Il leader palestinese Mohammad Shtayyeh ha avuto chiare parole di critica parlando di “scena penosa” in relazione al volo aereo con Netanyahu e Kushner, ma si sono levate altre voci palestinesi palesando un approccio più possibilista. In ogni caso, Marchetti nota che ci sono in atto diversi contesti da considerare se si vuole valutare l’accordo nella sua complessità.

L’aggiornamento sul Covid-19 in Israele e a Gaza

Il ministero dell’Istruzione israeliano ha autorizzato l’avvio stamane, fra molte misure cautelative, del nuovo anno scolastico malgrado il coronavirus continui a diffondersi a ritmo elevato nel Paese. Nelle località più colpite le scuole sono comunque rimaste chiuse. Ieri, secondo il ministero della Sanità, i contagi sono stati 2.180, ossia il 7,4 per cento dei test compiuti. Complessivamente in Israele i casi positivi sono stati finora 117.241. I malati attuali sono 20.699, 438 dei quali in condizioni gravi. I decessi sono stati finora 946. Situazione preoccupante anche nella Striscia di Gaza, che resta in lockdown da oltre una settimana durante la quale si sono avuti 4 decessi e 286 contagi. Le aree più colpite, riferisce il ministero della Sanità locale, sono Gaza City ed il nord della Striscia, definite adesso ‘zone rosse’. Ai loro abitanti viene concesso di uscire di casa solo per rifornirsi di alimentari: ma la polizia presidia gli accessi dei pochi empori aperti ed impone in maniera rigida il distanziamento sociale. Nelle altre aree della Striscia gli abitanti possono spostarsi liberamente entro le loro località di residenza, ma solo nelle ore diurne.

da Vatican NEWS del 1° settembre 2020

 

A Mustapha Adib l’incarico per un nuovo governo in Libano

L’attuale ambasciatore in Germania, Mustapha Adib, è stato incaricato di formare il nuovo esecutivo a Beirut. Dopo le gravi esplosioni nella capitale, si è aperto il dibattito sulle riforme possibili a 100 anni dallo slogan del Grande Libano. Il presidente Aoun chiede “uno Stato laico”, mentre il capo dello Stato francese torna a Beirut per promuovere un “nuovo patto politico”. Con noi uno dei massimi esperti del Vicino Oriente, Massimo Campanini

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Mustapha Adib, 48 anni, attuale ambasciatore del Libano in Germania, Mustapha Adib, ha accettato l’incarico di formare un nuovo governo a Beirut, impegnandosi a formare “in tempi brevi” una squadra di “esperti” con una missione “riformatrice”. Il suo nome è quello che ha ricevuto il più alto numero di consensi. Il presidente Michel Aoun ha avviato stamattina le consultazioni, a cominciare dagli ex primi ministri, tra i quali Najib Mikati e Saad Hariri, che hanno subito annunciato il loro sostegno a Mustapha Adib. L’ambasciatore, indicato dai sunniti di Futuro, ha trovato subito anche l’appoggio delle forze sciite di Hezbollah e Amal.

Un governo di scopo

Il governo Diab si è dimesso in blocco sull’onda delle proteste popolari, sei giorni dopo la tragedia nel porto di Beirut – oltre 220 morti, 7000 feriti e 300.000 sfollati – che ha scosso l’intero Paese e la comunità internazionale. Un esecutivo che ha avuto vita breve: era stato formato a gennaio dopo il passo indietro ad ottobre, sempre sotto le pressioni popolari, dell’esecutivo di Saad Hariri. Le forze politiche sembrano ormai consapevoli della necessità di un “governo di scopo” che faccia uscire il Paese dalla crisi economica e politica, aggravata dalle devastanti esplosioni al porto di Beirut del 4 agosto.

A 100 anni dal Grande Libano

Era il primo settembre 1920, quando il generale francese Henri Gouraud dal portico di un palazzo di Beirut, circondato dai leader politici e religiosi locali annunciò la fondazione dello Stato del Grande Libano, che avrebbe dovuto comprendere anche la Siria, precursore del moderno Stato libanese. Da allora diverse vicende storiche si sono susseguite, fino ad arrivare alla Costituzione che riconosce 18 confessioni religiose, prevede che il presidente della Repubblica sia cristiano, il capo del governo sunnita e il capo del parlamento sciita, e stabilisce che i suoi 128 seggi parlamentari siano divisi tra cristiani, sunniti e sciiti. Il tutto avviene secondo un preciso accordo numerico-rappresentativo, unico nella regione. Il punto è che i governi nati da questo sistema hanno sempre avuto difficoltà ad attuare i programmi e non sono riusciti a soddisfare le richieste popolari per migliorare le condizioni di vita. Sulla scia del presidente francese Macron, i leader occidentali si sono uniti alle richieste dei libanesi, in patria e all’estero, per un profondo cambiamento politico.

Campanini: il sistema confessionale non aiuta le riforme

Per ragionare sul ruolo della Francia, ricordare le specificità e i limiti dell’attuale assetto politico-costituzionale libanese e mettere a fuoco la prospettiva di un patto politico nuovo, abbiamo intervistato il professor Massimo Campanini, tra i massimi esperti di Vicino Oriente:

Campanini spiega che il sistema confessionale, caratteristica peculiare del Libano, ha assicurato per decine di anni – a parte la parentesi della guerra civile dal 1975 al 1990 – una sostanziale pace sociale, ma poi aggiunge che in questo momento rappresenta una sorta di vincolo che non aiuta il processo di riforme che risulta sempre più urgente. Dalla sua analisi emerge una raccomandazione: perché sia davvero un processo positivo, deve prendere le mosse da un dialogo tra tutte le rappresentanze e le parti politiche. Nessuno può essere escluso. Massimo Campanini ricorda che lo Stato del Libano è stato pensato cento anni fa sostanzialmente come un prodotto di una visione frutto del colonialismo, per poi spiegare come, a differenza di altri Paesi “disegnati” sulla cartina in modo astratto, il Paese dei Cedri abbia trovato una sua identità, diventando un’entità non solo territoriale ma anche culturale.  Attualmente si tratta di un piccolo Paese anche fragile – afferma – ma che rappresenta un unicum nella regione, e che può dare un contributo importante alla stabilità sempre più messa a rischio in Medio Oriente.

La mediazione di Parigi e la prossima visita di Conte

Per la seconda volta in un mese, in serata è atteso Emmanuel Macron. Il presidente francese si è recato in visita alle rovine del porto di Beirut a meno di 48 ore dalle esplosioni. Già in quel momento Macron aveva chiesto di formare quanto prima un governo di “unita’ nazionale” e di rifondare radicalmente il sistema di governo libanese per sbloccare gli aiuti economici. A risultare decisivo è il fatto che il presidente francese esprima la posizione dei Paesi e delle istituzioni che potrebbero aiutare il Libano a superare la crisi, a condizione che sia portato a termine un processo di riforma. Il 28 agosto, a Parigi, si parlava di “mettere pressione” chiedendo un “governo con una missione”, ovvero capace di attuare le riforme che tutti ormai conoscono, dal sistema bancario alle dogane, dall’elettricità alla sanità.  E oggi la presidenza del Consiglio italiana ha fatto sapere che martedì 8 settembre il primo ministro Giuseppe Conte sarà in visita a Beirut.

La visione dei leader

“Dichiarare il Libano come uno Stato laico”. E’ quanto ha chiesto il presidente, Michel Aoun, durante un discorso in diretta tv ieri, alla vigilia del centenario di proclamazione dello Stato libanese. Aoun ha riconosciuto la necessità di “cambiare il sistema”, dopo le devastanti esplosioni al porto di Beirut del 4 agosto, e mesi di crisi economica che avevano portato il Paese a dichiarare a marzo il default finanziario. Dallo scorso autunno si susseguono proteste popolari che hanno provocato la caduta di due governi: a ottobre c’è stato il passo indietro di Saad Hariri e due settimane fa quello di Hassan Diab. Per quanto riguarda il presidente del Parlamento libanese, ha chiesto di modificare il sistema confessionale che governa la vita politica in Libano, “fonte di tutti i mali”. L’appello di Nabih Berri, che presiede il Parlamento dal 1992, segue quello del presidente Michel Aoun e di Hassan Nasrallah, leader del movimento Hezbollah, che ieri hanno parlato di una profonda riforma del sistema. Nasrallah ieri ha dichiarato: “Siamo pronti a discutere di un nuovo patto politico proposto dalla Francia, siamo aperti a qualsiasi discussione costruttiva sull’argomento, ma a condizione che sia volontà di tutti i partiti libanesi”.   Il leader del movimento sciita non ha specificato quali cambiamenti sia disposto a considerare, ma ha detto di aver “sentito critiche da fonti ufficiali francesi sul sistema confessionale libanese” e sulla sua incapacità di risolvere i problemi di un Paese travolto da una crisi socio-economica senza precedenti, aggravata dalla pandemia del Covid, e segnata dal collasso finanziario.

L’Onu conferma il suo impegno

Intanto, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità una risoluzione che estende il mandato della missione delle Nazioni Unite in Libano (Unifil) sino al 31 agosto 2021. Il documento prevede la riduzione del tetto massimo di truppe da 15.000 a 13.000 (come richiesto degli Usa): disposizione che non richiede al momento alcun taglio alle forze sul terreno, attualmente circa 10.250 soldati. Inoltre rafforza il meccanismo di monitoraggio nella zona meridionale del Libano. Secondo il ministero degli Esteri israeliano, la risoluzione chiama il governo libanese a fornire subito pieno accesso a “tutti i siti sospetti a nord della Linea Blu” che separa Israele dal Libano.

Il costo economico della tragedia del porto

La Banca mondiale ha dichiarato oggi che il danno complessivo subito a seguito dell’esplosione è compreso tra i 3,8 e 4,6 miliardi di dollari. I settori sociali, l’edilizia abitativa e la cultura sono i più colpiti, e hanno subito danni sostanziali per un totale compreso rispettivamente tra gli 1,9 miliardi e i 2,3 miliardi, 1 miliardo e 1,2 miliardi. La Banca mondiale ha inoltre stimato che le perdite dell’attività economica oscillano tra i 2,9 miliardi e i 3,5 miliardi. Le esigenze di ricostruzione e ripresa del settore pubblico per il periodo 2020-2021 sono stimate tra 1,8 miliardi e 2,2 miliardi di dollari, con 760 milioni di dollari necessari prima della fine dell’anno. Il rapporto ha sottolineato che gli aiuti internazionali e gli investimenti privati “saranno essenziali per una ripresa e una ricostruzione globali”.

da Vatican NEWS del 31 agosto 2020

Il Centrafrica a 60 anni dall’indipendenza

Il 13 agosto 1960 la Repubblica Centrafricana arrivava con una dichiarazione ufficiale alla completa indipendenza. Un territorio con grandi potenzialità che resta uno dei più poveri della terra. Da questo Paese dell’Africa equatoriale, nel 2015, Papa Francesco ha voluto dare avvio al Giubileo straordinario della misericordia. Da Bangui con noi il missionario Padre Aurelio Gazzera

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Sessant’anni in cui si sono susseguiti inizialmente colpi di stato e poi una lunga guerra civile. A novembre 2015 la prima porta santa ad essere aperta personalmente da Papa Francesco è stata quella della cattedrale di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, che in quel momento era l’ultima tappa, dopo il Kenya e l’Uganda del primo viaggio del Pontefice nel continente nero. “Vengo come pellegrino di pace e mi presento come apostolo di speranza”, disse il Papa al suo arrivo a Bangui, dove l’allarme attentati era altissimo ma dove Francesco non volle rinunciare alla papamobile scoperta. Cinque anni dopo, alcuni passi avanti verso un vero processo di pacificazione del tessuto sociale sono stati fatti, ma non mancano fattori di destabilizzazione per i forti interessi in campo, come ci ha confermato padre Aurelio Gazzera, che vive tra Bangui e il nord del Paese:

Padre Aurelio ricorda che da tempo il governo non ha il completo controllo del territorio e sacche di illegalità sono registrate nelle campagne e nelle province del nord, dove ancora avvengono, meno che in passato, scontri tra i due maggiori gruppi ribelli e forze governative. Ci sono gruppi di ribelli che negli ultimi tempi accettano di sedersi a un tavolo per negoziare equilibri di potere sul territorio ma è anche vero che alternano momenti di disponibilità con decisioni improvvise di abbandonare il dialogo. Una delle attività in cui si intrecciano lecito e illecito è quella della tassazione della transumanza. La missione Onu Minusca cerca in continuazione di neutralizzare ribelli che spadroneggiano, recuperando armi, munizioni e motociclette. Ma il missionario sottolinea anche che l’instabilità dei Paesi confinanti – Ciad, Sudan, Sudan del Sud e Repubblica Democratica del Congo – influisce negativamente sulla stabilità interna del Paese. Poi ricorda le ingenti risorse naturali di cui è ricco il territorio – citando legno, oro etc – per sottolineare che bisogna considerare, in particolare negli ultimi tempi, l’ingerenza sempre più significativa di potenze straniere che si aggiungono ad altri interessi di multinazionali occidentali. In definitiva, non si vive più la guerriglia e la serie di attentati di qualche anno fa ma non si può neanche dire che nel Paese ci sia una vera pace e tantomeno un processo di ordinato sviluppo. Padre Gazzera racconta che la decisione di Papa Francesco di aprire la prima porta santa del Giubileo a Bangui ha acceso i riflettori internazionali: da allora – afferma – non si sono mai davvero spenti, ma certamente i progressi sono lenti perché purtroppo le risorse non vengono sfruttate per il bene del Paese. Il rischio purtroppo è sempre quello che in una situazione così precaria, di scarso controllo delle forze governative sul territorio e di popolazione affamata, si possano infiltrare forze terroristiche, che non mancano di agire in tutta la regione. A proposito della pandemia, Padre Gazzera conferma che il Covid-19 rappresenta un problema sottolineando che in questo momento la sua missione è proprio quella di portare, e seguire la distribuzione sul campo, le risorse che la Conferenza episcopale italiana (Cei) e la Caritas hanno messo a disposizione per il Paese. Ma il missionario ricorda anche che, purtroppo, dal punto di vista sanitario il Centrafrica soffre di altre emergenze croniche, come quella della malaria, del morbillo, della denutrizione.

Sessant’anni fa l’indipendenza

Il territorio è stato una colonia francese  con il nome di Ubangi-Sciari o Uubangui-Schari. Il referendum costituzionale francese del settembre 1956 porta all’approvazione della nuova costituzione, che sarebbe entrata in vigore nel 1958, per la neo Repubblica Centrafricana all’interno della neo Comunità francese, sorta allo scioglimento dell’Africa Equatoriale Francese. Nel 1958 è attiva l’Assemblea centrafricana che elegge capo del governo Boganda, che però a marzo 1959 muore in un incidente aereo. Suo cugino David Dacko, lo sostituisce e conduce la Repubblica Centrafricana alla completa indipendenza con la dichiarazione del 13 agosto 1960. In questi sessant’anni si sono susseguiti colpi di stato e guerre. Dopo trent’anni di governo prevalentemente militare, nel 1993 si insedia un governo civile durato dieci anni. Ha assunto il nome attuale prorpio al momento dell’indipendenza nel 1960. Dopo trent’anni di governo prevalentemente militare, nel 1993 si insedia un governo civile durato dieci anni. Nel marzo 2003 il presidente Patassé ed il suo governo sono deposti con un colpo di Stato dal generale Francois Bozizé, che  forma un governo di transizione. Nelle contestate elezioni generali del 2005 il generale Bozizé viene eletto presidente. Il governo non ha però il completo controllo del territorio e sacche di illegalità sono registrate nelle campagne e nelle province del nord, dove continuano gli scontri tra i due maggiori gruppi ribelli ed il governo.

La guerra civile

Il 24 marzo 2013 Bozizé è costretto alla fuga dopo la presa della capitale Bangui da parte dei ribelli Seleka. Abbandonata la città, avrebbe raggiunto la Repubblica Democratica del Congo attraversando il fiume Ubangi. In seguito alla caduta di Bozizé e alla sua fuga in Congo e poi in Camerun, i ribelli di Séleka decidono di porre uno dei propri leader come Capo di Stato della Repubblica Centrafricana: Michel Djotodia, uno dei più strenui oppositori dell’ex presidente. Il primo ministro, invece, resta al suo posto anche con la nuova presidenza. Il 10 gennaio 2014 Djotodia si dimette insieme con il suo primo ministro durante un summit straordinario della Ceeac, e viene nominato presidente provvisorio Alexandre-Ferdinand Nguendet. Il 20 gennaio 2014 Catherine Samba-Panza prende il posto di Nguendet, venendo eletta presidente di transizione della Repubblica Centrafricana grazie al voto del parlamento.  Il 23 luglio 2014, i belligeranti firmano un accordo di cessazione delle ostilità a Brazzaville, lasciando tuttavia il Paese diviso in regioni controllate da milizie sulle quali né lo Stato né la missione dell’Onu hanno presa.

Il processo di riconciliazione di Touadéra

In occasione delle presidenziali del 2015-2016, viene eletto ca po dello Stato Faustune-Archange Touadéra, il quale lancia un processo di riconciliazione nazionale per rendere giustizia alle vittime delle guerre civili, per la maggior parte dislocate all’interno e all’esterno del Paese. Incarica per decreto il suo ministro Regina Konzi Mongot di elaborare il Programma nazionale di riconciliazione nazionale e di pace, proposto nel dicembre 2016, adottato all’unanimità dagli organismi internazionali. Da allora, un comitato è al alvoro per giudicare i principali attori e risarcire le vittime. Non si tratta di un processo né breve né facile. Tra gli episodi più gravi, bisogna ricordare, a giugno 2017, gli scontri a Bria, nel centro-est del Paese, con cento morti.

da Vatican NEWS del 13 agosto 2020