Sulla cima del silenzio

Restaurata la cappella di Saint-Michel de Brasparts in Bretagna

Al di là del cerchio di fuoco. È tornata a essere luogo di accoglienza e di preghiera la cappella di Saint-Michel de Brasparts nella suggestiva Bretagna. Siamo all’estremo nord-ovest della Francia, sulla sommità del colle omonimo, il più alto dei Monts d’Arrée, dove alla fine del XVII secolo la devozione locale diede vita alla piccola chiesa. Si può immaginare l’apprensione quando nell’estate 2022 i poderosi incendi che hanno colpito la costa occidentale della Francia sono arrivati a danneggiarla, dopo aver distrutto 2.200 ettari del bosco circostante. Nei giorni scorsi è stata riaperta al culto grazie al prezioso restauro effettuato in tempi di record e con una committenza d’eccezione: per il nuovo arredo liturgico è stato chiamato il disegnatore Ronan Bouroullec, originario proprio della Bretagna.

L’edificio è modesto, a pianta rettangolare, con abside inclinata. Le pareti, spesse più di un metro, sono il tratto fisico della profondità che si coglie. I muri in pietra intonacati a calce e il pavimento in terra battuta, leggermente rialzato nella zona del coro, richiamano la semplicità. La sensazione di una continuità tra la Cappella di Saint-Michel e il suo sito — tra architettura e natura — è forte. C’è il tetto in ardesia delle colline di Arrée, che poggia su un telaio di quercia.

L’impegno di Ronan Bouroullec si avverte proprio in linea con questa continuità, che è anche continuità con la tradizione del luogo e con l’impiego di maestranze locali. Nei materiali ha lasciato la sua impronta particolare anche scegliendo alcuni elementi particolari, come i residui minerari dell’altare in granito o il vetro smaltato per il contro rosone, che ben si armonizzano con la luce naturale e con quella delle candele, ospitate in essenziali ma eleganti supporti in ferro battuto. Si tratta di due gruppi di candelieri, uno formato dai tre grandi candelieri incastonati nella base in granito accanto all’altare, l’altro da ben quattordici candelieri incastonati nella consolle in granito. Sulla cima di ognuno c’è una coppa, che accoglie candele diverse per forma e dimensioni: da un grande cero a un modesto lumino.

Della cappella ci parla Martin Bethenod, impegnato da anni nel campo della cultura e dell’arte contemporanea in Francia, attualmente presidente del Crédac-Centre d’art contemporain di Ivry e presidente degli Archives de la Critique d’Art. «Progettare un oggetto, uno spazio — spiega —, è un tentativo di produrre, sulla base di pochi elementi selezionati e interconnessi, un effetto che vada oltre i materiali, gli oggetti e il luogo stesso, per suscitare la sensazione che qualcosa stia accadendo e metta in moto cambiamenti». Il progetto di Ronan Bouroullec «si basa su un triplice approccio: trovare un vocabolario di materiali ridotto all’essenziale; trovare un equilibrio tra un senso di massa e di leggerezza; trovare la vibrazione nelle cose attraverso il trattamento delle superfici e della luce». C’è poi «l’aspetto fondamentale» dell’intuizione che — afferma sempre Bethenod — «non riguarda tanto il fornire una risposta specifica a una domanda diretta quanto dare vita a un’esperienza».

A proposito della cappella restaurata, Martin Bethenod sottolinea che «fornisce il contesto ideale per questo tipo di processo: provocando una temporanea sospensione del movimento e del suono del mondo circostante»: il suo essere luogo di culto e di riflessione genera «particolarissime sfumature di silenzio, di concentrazione, di contemplazione, di attenzione al mondo e a se stessi». E c’è da dire che i moti dell’animo si intensificano quando si arriva in un posto dopo un’arrampicata, con il paesaggio e il cielo negli occhi.

Nella mente di Bouroullec — racconta lo stesso artista — «il ricordo degli incendi che avevano colpito la regione già negli anni Settanta e l’immagine impressa nella memoria del paesaggio annerito su cui spiccava in contrasto la forma più pallida della cappella fanno parte dell’esperienza che è sempre radicata in un’impressione che è tattile, uditiva, olfattiva». In effetti l’aspetto della sensazione fisica — la penombra, l’umidità, la sensazione della pietra, il rapporto del proprio corpo con gli spazi — indubbiamente si ritrovano nel progetto per Saint-Michel de Brasparts.

Un’esperienza è immediata per tutti. Mentre la porta della facciata principale della cappella è usata solo raramente, la porta esposta a sud è senza chiave: sempre aperta. Una scelta precisa per un luogo voluto come rifugio dell’anima per escursionisti, pellegrini, passanti. E infatti con il suo garbo di essenzialità, l’interno della cappella accoglie chiunque cerchi raccoglimento.

La gioia di vederla restaurata e restituita al culto è anche la gioia di vedere valorizzati luoghi per la preghiera, per il silenzio e per l’ascolto che hanno il privilegio di essere in dialogo con la storia e con la natura.

di FAUSTA SPERANZA

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Modelli di fraternità

19 Luglio 2023
Un corso sui manoscritti ebraici alla Biblioteca Apostolica Vaticana
Progetto in collaborazione con il Seminario Rabbinico Latinoamericano

«Modelli concreti di fraternità»: così monsignor Angelo Vincenzo Zani, Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, ha definito l’iniziativa — presentata nella mattina del 19 luglio presso la Biblioteca Apostolica Vaticana — di un corso di studio sui manoscritti ebraici custoditi dalla Biblioteca stessa, in collaborazione con il Seminario Rabbinico Latinoamericano Marshall T. Meyer. Il Rabbino Ariel Stofenmacher, rettore del Seminario, che ha sede a Buenos Aires, ha parlato di «un onore straordinario» e ha sottolineato che si tratta di «un corso storico». All’inaugurazione hanno partecipato autorità religiose e vaticane e autorità dei governi di Israele e Argentina.

Si tratta di un programma di formazione specialistica che prevede una settimana intensiva di lezioni (in presenza e a distanza) che saranno seguite da studenti di varie università del mondo e di diverse religioni. A tenere i corsi sono stati chiamati docenti di spicco, fra cui i rabbini Adolfo Roitman, David Golinkin e Ariel Stofenmacher; Judith Olszowy-Schlanger, Craig Morrison, Leonardo Pessoa, Sarit Shalev-Eyni, Marco Morselli, Stephen Metzger e Delio Vania Proverbio.

Si comprende l’entusiasmo di tutti per questo impegno di studio, considerando il patrimonio culturale e religioso in questione. Stiamo parlando, infatti, di una delle collezioni più importanti al mondo, soprattutto per l’originalità delle copie e delle versioni testuali che hanno fatto luce sulla ricerca di opere fondamentali dell’ebraismo. Si tratta di centinaia di manoscritti tra cui si distinguono rotoli di Torah, testi biblici e di esegesi, letteratura rabbinica, filosofia ebraica, libri liturgici, poesia, scienza e testi cabalistici.

L’emozione che si è avvertita nella Sala Barberini della Biblioteca Vaticana, dove si è svolta la presentazione, ben si accompagna alla consapevolezza del salto temporale: la maggior parte dei manoscritti risalgono al periodo compreso tra il XII e il XV secolo, altri affondano le loro radici tra il IX e l’ XI secolo. Il pensiero va a circostanze e fatti storici come le Crociate, l’Inquisizione, l’espulsione degli ebrei dalla Spagna.

L’antefatto che ha reso possibile questa coinvolgente esperienza di collaborazione culturale ci riporta al dicembre 2022: in occasione di una prima visita, le autorità del Seminario hanno potuto analizzare per la prima volta i manoscritti ebraici. Da lì è nata la proposta di un programma di studio che coinvolgesse studenti e specialisti di tutto il mondo. Ha preso, dunque, il via il processo di analisi e di confronto tra équipe professionali che ha elaborato il progetto per la realizzazione del corso. In particolare, alla presentazione è stato sottolineato il ruolo avuto per quanto riguarda la Biblioteca Apostolica da Claudia Montuschi, Scriptor Latinus e direttrice del Dipartimento dei Manoscritti, e da Delio Vania Proverbio, Scriptor Orientalis e curatore delle collezioni africane e del Vicino e Medio Oriente.

La dimensione internazionale degli studiosi coinvolti certamente non sorprende pensando alla vocazione universale della Chiesa e della Biblioteca Apostolica Vaticana e considerando il Seminario Rabbinico Latinoamericano Marshall T. Meyer, che è la principale istituzione accademica ed educativa ebraica in «Iberoamerica». Trae origine dalla fondazione a Berlino nel 1819 del gruppo Organizzazione per la cultura e la scienza ebraica, composto da sette intellettuali tra cui Eduard Gans, Heinrich Heine e Leopold Zunz. Ma è quando, tra le due guerre mondiali, diversi studiosi e rabbini di formazione europea hanno raggiunto l’America Latina che, insieme con il Seminario Teologico Ebraico di New York, è maturata l’idea del Seminario di Buenos Aires, fondato nel 1962 sotto la guida del rabbino Marshall T. Meyer. Da sempre la sua missione — ci hanno spiegato — è quella di «contribuire a trasformare il mondo attraverso l’istruzione, la formazione di studiosi, leader laici e religiosi, educatori e la promozione dei diritti umani e del dialogo interreligioso».

Nelle parole del rabbino Stofenmacher, che lo guida attualmente, la storia del seminario si arricchisce oggi di un capitolo preziosissimo: l’iniziativa con la Biblioteca Apostolica rappresenta «un’occasione per dialogare, condividere sapere e studi, impegnarsi ricordando al mondo la profonda responsabilità nei confronti delle eredità culturali». Di responsabilità ha parlato anche monsignor Zani auspicando che «la famiglia umana contrasti e superi una certa forma di sentire dilagante che vuole l’uomo contro l’altro uomo». Il riferimento esplicito è alla Fratelli tutti di Papa Francesco che ha denunciato «la mancanza di orizzonti in grado di farci convergere in unità» se si distrugge «lo stesso progetto di fratellanza, inscritto nella vocazione della famiglia umana». È altrettanto chiaro il prezzo da pagare: «Il nostro mondo avanza in una dicotomia senza senso, con la pretesa di garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di paura e sfiducia». L’impegno deve essere da parte di tutti e a tanti livelli, anche ad esempio in quella che monsignor Zani ha definito «la diplomazia della cultura».

di FAUSTA SPERANZA

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Rigorosa libertà di scrittura

10 luglio 2023
A vent’anni dalla morte
di padre Carlo Cremona

«Col tono giusto si può dire tutto, col tono sbagliato nulla: l’unica difficoltà consiste nel trovare il tono». Viene in mente questa celebre frase di George Bernard Shaw pensando a padre Carlo Cremona, sacerdote rigoroso, intellettuale mai elitario, giornalista appassionato e ironico, morto a 85 anni per un malore il 13 luglio 2003 proprio in uno studio televisivo. Vent’anni dopo, ricordiamo che è stato il primo comunicatore radio nel genere religioso — voce familiare per varie generazioni a Radio Vaticana e a RadioRai con il suo appuntamento Il santo del giorno — e che per primo ebbe l’idea di commentare in radio e in tv il sabato sera il testo del Vangelo della liturgia domenicale. Restano esemplari la capacità di parlare di tutto e la penna sagace contro falsi profeti e facili dottrine, ma anche la capacità di discernere quando tacere. Una penna che per anni ha assicurato al quotidiano «Avvenire» contributi brillanti, anche in difesa del «buon giornalismo cattolico» che — scriveva — «deve tornare alle notizie vere e all’informazione vera».

Torna alla mente il modo estremamente amabile con cui incarnava idealismo e umanità. Era stato agostiniano prima di essere diocesano e parroco a Roma della centralissima Santa Maria del Popolo, dove ha intessuto amicizie durature con personaggi del cinema come Marcello Mastroianni e Alberto Sordi. Sono sempre stati tanti, e di diverse discipline, gli artisti che ha frequentato, intessendo proprio per questo motivo un contatto diretto con monsignor Pasquale Macchi, segretario personale di Paolo VI, il Papa che ha costruito un dialogo importantissimo con artisti e intellettuali e che, presentando le conclusioni del Concilio vaticano II, ha chiarito come «la Chiesa è in profonda comunione con il mondo moderno, pronta ad accogliere le sue sfide e a offrire il rimedio ai suoi mali, la risposta ai suoi appelli». Alla morte di padre Cremona, monsignor Macchi ha sottolineato quanta stima avesse Papa Montini per «questo testimone coraggioso della verità e della libertà della fede cristiana, che ha coinvolto lettori e ascoltatori nella profondità delle riflessioni importanti seminando serenità e fiducia». Quanti hanno conosciuto padre Cremona immaginano l’umana gioia che avrebbe provato alla canonizzazione di Paolo VI, il 14 ottobre 2018.

I libri di padre Cremona hanno fatto letteralmente il giro del mondo: la biografia Agostino di Ippona (Rusconi, 1986) e il volume costruito a capitoli tematici Agostino d’Ippona. Pensieri (Rusconi, 1988) sono stati tradotti in pochi mesi in tante lingue, compreso il coreano di cui l’autore ci raccontò di essere particolarmente fiero. Agostino è uno di quei personaggi che corrono il rischio di essere considerati praticamente immobili nella loro immensa statura, mentre nella scrittura estremamente competente e allo stesso tempo accessibile di Cremona emerge l’uomo nel quotidiano, nella sua sofferta ricerca di verità e nell’abbraccio alla «Bellezza immortale». Sullo sfondo, è delineato il quadro storico e sociale, l’affacciarsi di popoli e forze a un tempo feconde e dirompenti, il sacco di Roma del 410 e l’inizio di una nuova era. Cremona non si limita a raccontare l’incontro tra mondo antico e pensiero cristiano, ma offre al lettore un ponte tra passato e futuro: nella sua rievocazione, Agostino cammina con l’uomo contemporaneo.

Altrettanto precisa e coinvolgente è la biografia — con un capitolo che parla del drammatico rapimento del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro — dedicata proprio a Paolo VI , che padre Cremona ha seguito in modo particolare. È stato Papa Montini a volerlo dal 1973 a Palazzo Migliori, costruzione settecentesca in largo degli Alicorni con vista sul colonnato di San Pietro. Palazzo Migliori oggi per volontà di Papa Francesco ospita persone senza fissa dimora in attesa che, superate le difficoltà, possano trovare un’abitazione. All’epoca di padre Cremona ospitava la casa per ragazze madri delle suore calasanziane Pio XI ed era una sorta di “ufficio stampa” delle tante iniziative che il sacerdote promuoveva — con uno slancio al quale era impossibile resistere — per sostenere attività caritatevoli delle religiose nel mondo, a partire dalla missione a Salvador de Bahia in Brasile.

Delle suore che si incontravano a Palazzo Migliori in quegli anni e’ ancora viva suor Emiliana che, a 98 anni compiuti a gennaio scorso, si trova nella residenza a via delle Calasanziane. Parla poco ma sorride molto e i suoi occhi si illuminano di serena ammirazione quando, andando a trovarla, le si parla di padre Carlo.

di FAUSTA SPERANZA

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Eticamente modificato

Lo sgretolamento dell’io identitario nella conflittuale dualità tra Bene e Male

E poi venne il gemello digitale

Con le definizioni di sosia, gemello, ombra, immagine allo specchio, alter ego, il tema del doppio ha attraversato l’immaginario artistico letterario di tutti i tempi, interpellando la riflessione filosofica prima di incontrare le interpretazioni della psicanalisi. Tra mille suggestive o bizzarre variazioni di senso, un filo rosso non ha mai abbandonato l’idea di dualità o di alterità, anche quando ha cominciato a sgretolarsi la certezza dell’io identitario: il filo rosso è stata la consapevolezza di muoversi sempre e in ogni caso tra Bene e Male. Nell’era della cosiddetta intelligenza artificiale si parla di “gemello digitale”. Non è solo una possibile variante della creatività umana, ma è un nuovo scenario antropologico da considerare con grande attenzione. Per la prima volta quel filo rosso potrebbe essere spezzato dai processi di automazione.

Se nell’arte e nella letteratura il “doppio” — spesso citato con il termine tedesco Doppelgänger — è una metafora del lato oscuro dell’uomo, nel pensiero psicologico novecentesco il doppio rappresenta l’inconscio. Diventa funzionale alla spiegazione dei fenomeni di straniamento e dissonanza.

Il tema del “doppio” è stato studiato con particolare attenzione da Otto Rank, allievo di Sigmund Freud, nella sua opera Der Doppelgänger del 1914, in cui collega l’improvviso pararsi innanzi a noi di un sosia, un nostro “doppio”, all’emergere di paure rimosse. È un’invasione dell’inconscio nel campo del conscio, un ritorno del rimosso che diviene, secondo una definizione di Freud, «perturbante». Semplificando, per la psicanalisi il “doppio” è la parte “altra” di noi, ciò che siamo ma non conosciamo razionalmente. Si distrugge così l’archetipo umano prevalente ancora nell’immaginario post-illuminista e si apre la strada a un’umanità dall’identità indefinita, a un vero e proprio arcipelago dell’io in continua mutazione. Ma non è ancora persa l’idea di bene e male.

Nell’epoca di rivoluzione digitale che stiamo vivendo il Digital Twin, gemello digitale, è una delle figure nascenti della cosiddetta intelligenza artificiale. Un gemello digitale funziona replicando una risorsa fisica nell’ambiente virtuale, comprese le sue funzionalità, caratteristiche e comportamento. Si utilizzano sensori intelligenti che raccolgono dati dal prodotto. L’espressione «internet delle cose» si riferisce alla rete collettiva di dispositivi connessi che facilita la comunicazione tra dispositivi e sistemi cloud, nonché tra i dispositivi stessi. E i gemelli digitali si affidano ai dati dei sensori per trasmettere informazioni dall’oggetto del mondo reale all’oggetto del mondo digitale. Stiamo familiarizzando con termini come piattaforma software o dashboard dove in sostanza è possibile visualizzare l’aggiornamento dei dati in tempo reale. Fin qui si parla sostanzialmente di oggetti ma l’intelligenza artificiale ( IA ) è un campo delle scienze informatiche dedicato alla risoluzione di problemi cognitivi comunemente associati all’intelligenza umana, come l’apprendimento, la risoluzione di problemi e il riconoscimento di modelli. Dunque, per machine learning ( ML ) si intende la tecnica in grado di sviluppare algoritmi e modelli statistici utilizzati dai sistemi informatici per lo svolgimento di attività senza istruzioni esplicite e basandosi, invece, su modelli e inferenza. È la tecnica usata dai gemelli digitali e questo significa che il digital twin si sta affermando con forza nell’industria ma tende inesorabilmente a estendere il proprio dominio anche alla sfera privata degli utenti. Ed è qui che impallidisce la consapevolezza del bene e del male perché significa non solo orientare ma anticipare scelte e comportamenti. È evidente che si pongono questioni di etica in un mondo in cui soggettività e oggettività stanno perdendo di significato e le fake news dilagano. Non è detto infatti che i sistemi di intelligenza artificiale prevedano valutazioni etiche e nel caso le prevedano non sappiamo quali saranno i valori ispiratori.

In un’epoca di relativismo culturale e di derive autocratiche, non possono essere solo le multinazionali con le loro logiche di profitto a gestire gli algoritmi. In ballo ci sono le forme istituzionali del vivere civile, le dinamiche economiche, le relazioni sociali. È urgente assicurare nuovi percorsi legislativi e nuove pratiche sociali perché l’intelligenza artificiale può portare benefici all’intera società — pensiamo alle applicazioni in campo medico — ma a patto che le sue applicazioni pratiche siano guidate da regole chiare sul piano giuridico ed etico. Altrimenti è come cancellare la categoria mentale del bene e del male.

Più banalmente un’altra crepa concettuale si è insinuata nella percezione comune: quella tra vero e falso. I social network consentono di essere costantemente on-line e di far vivere il nostro alter ego virtuale in modo continuo e parallelo alla nostra vita quotidiana e permettono a chiunque di crearsi un’identità alternativa, virtuale, che, oltre a configurarsi come identità “pubblica”, aiuta a filtrare tutte le informazioni riguardanti il soggetto e di selezionare solo quello che si vuole rappresentare agli occhi degli altri. Il doppio virtuale può diventare in definitiva un doppio “ripulito” da condividere, mentre ciò che è socialmente meno accettabile o inaccettabile rimane circoscritto al campo del reale. In modo analogo ma opposto, la creazione di un doppio virtuale può essere funzionale alla manifestazione di desideri e pulsioni socialmente inconfessabili. Dunque, al profilo ufficiale si sostituisce un’identità fittizia attraverso la quale si rende possibile l’appagamento — spesso solo virtuale — degli istinti meno presentabili. Peraltro, vi sono casi in cui l’individuo si crea identità virtuali multiple, rappresentanti ciascuna uno o più aspetti della propria personalità. Non riuscendo a trovare una coesione tra i propri differenti aspetti, praticamente li rappresenta separatamente, a seconda del target a cui si rivolge, che nel mondo digitale si estende esponenzialmente rispetto alle relazioni possibili nel reale. È come un’esplosione all’ennesima potenza delle dinamiche dell’Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello, come una frantumazione dell’io che si ricompone nell’amplificazione narcisistica.

Si può dire che la trasformazione digitale ha il potere di rendere le persone “avatar” di se stesse, annullando le convenzioni identitarie, sociali, politiche, sessuali. E in un siffatto arcipelago virtuale di identità diventa sempre più difficile individuare il senso della responsabilità. La responsabilità è dentro la persona e verso la persona. La sfida pertanto non consiste nella demonizzazione della tecnologia, ma nella difesa della coscienza interiore e della conoscenza, nel riconoscimento di quel disagio che chiamiamo vergogna e che ci distingue dal gemello digitale.

di FAUSTA SPERANZA

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Il sapore del commiato

10 giugno 2023

«Fine di una madre» di Paola Pastacaldi

di Fausta Speranza

«Ho messo in questo diario tutta la mia paura che ho blandito a fianco di una madre autarchica che conosceva benissimo l’uso del potere, tanto da intimidirmi tutta la vita, che all’improvviso non avrebbe più potuto camminare e tantomeno comandare. L’ho fatto perché vincere la paura della sua angosciosa condizione e scegliere di starle accanto mi ha regalato un’occasione unica». Con queste parole Paola Pastacaldi, autrice di saggi e di romanzi storici, ci spiega la scelta di portare alla stampa un libro diverso dagli altri: Fine di una madre (Varzi, Fiorina Edizioni, 2023, pagine 119, euro 16) infatti, come lei stessa lo definisce, è un diario autobiografico. La parabola segnata dalla malattia e dalla medicina si immagina facilmente, compreso le perplessità per un inaccettabile accanimento terapeutico, quello che invece colpisce di più nel testo è il coraggio di condividere pensieri semplici ma potenti come questo: «Il tempo strappato alla morte può diventare un tempo prezioso per i familiari: il tempo della condivisione del significato di vivere».

Anche se nelle vicende familiari ci sono dettagli particolarissimi di esistenze intrecciate alle vicende delle colonie italiane in Africa a inizio secolo scorso, il racconto ha come punto focale l’esperienza universale della vecchiaia, che viene definita così senza inutili ipocrisie di stampo politically correct. È facilmente condivisibile lo choc di chi vive repentinamente il passaggio dall’anzianità del proprio genitore, fatta di rallentamenti e incertezze ma di sostanziale autonomia, alla vecchiaia in cui si dipende da altri, a volte da un sondino. «La qualità della loro vita è lì, sotto gli occhi di chi li guarda. Sempre più rattrappiti su se stessi, scheletrici, mani e gambe ossute che si chiudono sul corpo, quasi a difenderlo da aggressioni esterne.»

Pastacaldi racconta «un’inquietudine che non so più come nascondere a me stessa (…) nessuno mi ha preparata a questo momento, nessuno mi ha detto “ti accompagno io”». Da qui la scelta di mettere nero su bianco frammenti di un’esperienza che tutti sappiamo essere estremamente intima, come può esserlo tenere la mano a chi ti ha dato la vita mentre la sua vita si spegne.

Pastacaldi spiega di aver voluto scrivere qualcosa che possa aiutare in modo concreto chi si trovi di fronte ad un anziano fragile da aiutare. Si parte da una amara constatazione: «Non ci sono dati, pensieri, riflessioni, valutazioni, propositi; calcolando che l’Italia è un popolo di anziani, sembra incomprensibile. Come non esistessero. Perché ciò che riguarda gli anziani è coperto da omissis o afasia? È paura o incapacità di gestire l’enorme problema che avanza?». Gli anziani rischiano di diventare «vittime di Ageismo, come razzismo, sessismo».

Dal punto di vista strettamente fisico c’è qualcuno deputato a venire in soccorso di qualunque infermo: sono i medici e ce ne sono tantissimi straordinari. Pastacaldi però fotografa il fenomeno nella sua complessità che comprende anche «la medicina che si crede onnipotente». È la tecnomedicina che dimentica «per interesse» che la vecchiaia non è una malattia da estirpare, ma da «blandire con gentilezza». In certi momenti prossimi alla fine la cura inutile protratta all’infinito ha «il sapore di una camera a gas» nella riflessione della figlia/scrittrice. «Quanto diventiamo crudeli — afferma — quando la tecnomedicina si divora per volgare interesse la nostra morte e per indifferenza anche la nostra capacità di essere pietosi e di esercitare la meravigliosa compassione». Il suo è un grido per rivendicare che «di fronte alla fine ogni gesto deve avere un sapore diverso». Dobbiamo offrire a chi se ne va un momento di pace, un momento di memoria e di amore.

«Amarla è il mio modo di proteggerla e di proteggermi, fino all’ultimo giorno». Resta centrale il messaggio ai familiari: non scappare. Anche se «era come se la sua morte fosse anche la mia», la scrittrice non fugge e la sua esperienza la racconta così: «Eppure qualcosa mi dice che il segreto della vita è racchiuso in questi pochi giorni di umile attesa a casa». Un’attesa in cui si può scoprire la preziosità di gesti semplicissimi, come quello della badante Katerina che «in piedi, a mani giunte, vicina alle sponde del letto, prega per i defunti». Pastacaldi scrive: «Mia madre tace, poi in un soffio supplica “Ancora”. Ondate di tepore gioioso mi scaldano sino alla punta dei piedi.» E confida: «La semplicità della fede di Katerina mi disarma e mi rende rispettosa». Nella sua «onestà sana e pulita» Katerina, che ha lasciato l’Ucraina per bisogno di lavorare ben prima della guerra, «per ogni dolore ha una poesia, per ogni dolore ha un pensiero saggio, per ogni dolore ha una consolazione o una canzone».

Quella che appare come «una vita artificiale priva di sapore» spalanca orizzonti di comprensione: «L’immagine di un bambino che nasce, le sue grida, le sue lacrime e il respiro faticoso di un anziano sembrano due parti di una unica sfera, due metà impossibili da separare».

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Storia smaltata

Due nuovi allestimenti ai Musei Vaticani

25 maggio 2023

Il blu cobalto su sfondo bianco e la policromia rinascimentale di piatti istoriati: sono due delle immagini che restano impresse alla vista delle nuove sale che arricchiscono da oggi, 25 maggio, i Musei Vaticani. Si tratta di due ambienti che offrono rispettivamente il corredo apotecario della Spezieria di Santa Cecilia in Trastevere e la raccolta vaticana di Ceramiche medievali e moderne per la prima volta nella sua interezza.

Il motivo della foglia di vite bipartita accompagna tra i vasi della Spezieria in uso dall’inizio del Seicento fino al 1936, anno in cui Pio XI ha predisposto il trasferimento in Vaticano. Un cambio di sede che ha fermato l’attività della farmacia trasteverina evitando la dispersione di oggetti e ingredienti impiegati in passato per la confezione di medicamenti. Vasi grandi e piccoli in maiolica, utili a contenere acque e sciroppi — come si legge nel diario manoscritto che narra il primo trasferimento dal monastero alla Biblioteca Vaticana — rappresentano un esempio singolare per il livello di integrità. Come sottolinea la direttrice dei Musei Vaticani, Barbara Jatta, «ricreano l’attività farmaceutica della comunità di Santa Cecilia». Si presentano con la loro coperta in smalto stannifero decorato in blu cobalto su fondo bianco o, in alcuni esemplari, in smalto berrettino, cioè di colore azzurro-cenere. Al di sotto del cannello dei vasi è dipinto un cartiglio contenente il nome del medicamento, che in alcuni è accompagnato da un emblema di appartenenza o da elementi figurativi come mascheroni, volti, angeli, tralci o fiori. Se bellezza e unicità si impongono subito all’attenzione, emerge poi l’evidenza del lungo processo di studio, ricerca, restauro che ha reso possibile il nuovo allestimento.

All’altro ambiente che rappresenta la seconda preziosa novità si accede proprio da una porta dell’antica Spezieria: parliamo della Sala delle Ceramiche che da questo momento ospita in modo permanente la raccolta vaticana di Ceramiche medievali e moderne. Tra le opere più significative si fanno notare 34 preziosi Piatti istoriati rinascimentali della Collezione Carpegna; alcuni vasellami da mensa medievale in ceramica fine; rarissimi esemplari di mattoni da pavimento in maiolica arcaica e la serie di pavimenti robbiani che erano parte della pavimentazione delle Logge Vaticane dette di Raffaello. Inoltre, compaiono ceramiche della metà del XIII secolo, decorate nei colori bruno (ossido di manganese), verde (ossido di rame) e arancio (ossido di ferro) con motivi decorativi tipici di maestranze di cultura islamica.

Interessanti anche i reperti e frammenti di ceramiche rinvenuti in scavi archeologici nelle aree vaticane in occasione di restauri e lavori edilizi. Primi fra tutti, i due salvadanai rinvenuti duranti i lavori negli anni 1946-1951 per la demolizione delle volte dell’ammezzato della Torre di Innocenzo III sotto il pavimento del secondo livello della Torre, contenenti medaglie commemorative del pontificato di Papa Paolo II Barbo. Si tratta dell’uso di inserire all’interno della muratura un elemento di memoria dei lavori edilizi sotto un preciso pontificato.

In occasione dell’allestimento delle nuove sale è stato editato il primo catalogo ragionato sulla collezione pontificia di Ceramiche medievali e moderne. Curato da Otto Mazzucato e Luca Pesante, rappresenta mille anni di storia della ceramica italiana: dal primo vasellame invetriato prodotto a Roma nel IX secolo fino alle monumentali opere offerte in dono ai pontefici all’indomani dell’Unità d’Italia. Può essere utile sapere che le due sale da oggi musealizzate sono collocate all’uscita della Cappella Sistina, lungo il percorso della collezione di arti decorative e sono visibili attraverso una preziosa porta intagliata valicabile su richiesta, per studio o visita guidata.

di FAUSTA SPERANZA

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Quel binario su cui corre la fede

19 Maggio 2023

Nel centenario di don Milani, la riflessione del cardinale Pietro Parolin

«In ogni situazione è sempre possibile fare qualcosa, anche quando tutto sembra dirci o imporci di restare fermi»: sono parole del Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, ispirate da «una figura impareggiabile come don Lorenzo Milani». L’occasione è stata l’inaugurazione della mostra fotografica nel centenario della nascita del prete di Barbiana alla Pontificia Università Lateranense, il 10 maggio scorso, che — ha avvertito il cardinale — non deve essere solo un momento celebrativo ma l’occasione per «guardare a quel Sacerdote e a quell’Educatore che ha saputo porsi oltre la quotidianità, tante volte routinaria e priva di stimoli». L’invito è a considerare «tutta l’attualità di Barbiana e del suo Priore». In particolare, ha suggerito il cardinale Parolin, «don Milani insegna a noi come la complessità sia qualcosa che appartiene alla società umana in ogni epoca e l’emergenza educativa ne è un risvolto costante».

Innanzitutto il Segretario di Stato ha sottolineato che don Milani ha saputo indirizzare la propria esistenza all’amore verso Dio e verso il prossimo che sono poi «il binario su cui corre la fede». Una fede che don Milani ha vissuto «come dono fin dalla sua giovinezza, che ha sposato nel sacerdozio frutto di una vocazione sin dall’inizio espressa come chiamata radicale, che ha originato anche l’attenzione e l’ascolto verso gli altri, senza indugi, né ripensamenti».

Il punto è che ha affrontato la complessità dei bisogni che vedeva oltre quella che il Segretario di Stato ha definito «la logica del fare scuola, di insegnare e di formare secondo lo schema — che è purtroppo una radicata convinzione — del “si è sempre fatto così”». Una sorta di equivoco e di illusione: «Uno schema dove la ripetizione è vista come garanzia di riuscita e soprattutto del non sbagliare, permettendo di continuare senza problemi nella convinzione che sia l’unico modo di procedere e la sola soluzione a tante esigenze o la risposta a diversi interrogativi». Di fronte a tutto ciò, don Milani ha scrutato «nuove strade per una formazione in cui l’importante non era l’ottenere un diploma, quanto piuttosto il sapere».

È noto che il bisogno diffuso era quello di tanti bambini e adolescenti che il contesto sociale, la realtà economica e, «non ultimo, un metodo scolastico volto a selezionare i migliori piuttosto che far emergere i talenti di tutti», ponevano ai margini di una società all’epoca definita complessa e «non priva di tante emergenze che toccavano anche la funzione educativa». Dunque, una notazione che porta al cuore del messaggio: di fronte a tale complessità, don Milani ebbe il coraggio di trovare risposta «in termini strutturali e non emergenziali come sarebbe stato più semplice e forse immediatamente apprezzato».

Oggi Barbiana, nelle parole del cardinale Parolin, appare «un laboratorio di vita vissuta e una risposta all’emergenza educativa nella quale il cammino nella fede si è saputo coniugare con la formazione, la cultura e la conoscenza». È importante ricordare che «alle giovani generazioni sono stati offerti lo spazio e gli strumenti di apertura alla realtà sociale, all’inserimento nella vita lavorativa e a un impegno anche di tipo politico in cui proprio il credere diventava la base non di una lettura chiusa o parziale, ma lo strumento per aprirsi e dialogare con tutti».

Ribadendo che ad alcuni l’esperienza e l’esempio di don Milani apparvero, «e appaiono ancora», non come una scelta profetica e creativa capace di leggere i segni dei tempi, ma semplicemente come un atteggiamento che voleva porsi al di fuori degli schemi o delle impostazioni tradizionali dei processi e delle strutture educative, il cardinale Parolin ha spiegato: «Nei processi di apprendimento che vogliono realizzare una sana integrazione si deve procedere non con teorie, pur se ben strutturate, dell’altro o dell’alterità, quanto piuttosto ricercando e conoscendo l’identità dell’altro, in particolare il complesso fattore identitario che ispira il pensiero, la condotta e lo spirito dell’altro». E c’è un aspetto da cogliere nello spessore dell’apostolato di don Milani che resta valido: «L’idea di un mondo che andava oltre i piccoli centri da cui provenivano i giovani alunni», che «si apriva ben al di là dei confini di uno Stato o di un continente, per scoprire la ricchezza di quella diversità che della famiglia umana è propria».

Il richiamo alle testimonianze di chi quella realtà ha vissuto e praticato nel quotidiano rapporto con don Lorenzo nella Scuola di Barbiana — ha sottolineato il Segretario di Stato — arricchiscono il valore delle immagini fotografiche della mostra e aiutano a comprendere che «non si tratta semplicemente di proporre una storia o di narrare un’esperienza». Il cardinale Parolin ha ribadito che «se questa fosse la finalità, se la ricchezza di un progetto pedagogico si riducesse a narrazione o a esperienza, ne avremmo perso il senso, la finalità, ma soprattutto lo spirito che motivò la sua nascita e quindi l’impegno del Priore di Barbiana». Un impegno che il cardinale ha poi sintetizzato affermando che «quello di don Milani resta un esempio di come l’essere sacerdote significhi sapersi aprire alle ansie degli altri, rispondere a ciò di cui ha bisogno il gregge che si ha in custodia. E questo in termini ed azioni di autentico servizio».

Sullo sfondo la convinzione espressa da Papa Francesco in occasione della visita alla tomba di don Lorenzo Milani a Barbiana il 20 giugno 2017: «La dimensione sacerdotale è la radice di tutto quello che ha fatto. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede».

di FAUSTA SPERANZA

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-05/quo-115/quel-binario.html

Preservare arte e significati dalla tecnocrazia

11 maggio 2023

Preservare il patrimonio culturale conservando «la profondissima relazione tra arte e spiritualità» e contrastando l’orizzonte limitato del «paradigma tecnocratico»: è questo, in estrema sintesi, l’appello che il Segretario di Stato cardinale Pietro Parolin rivolge a tutti e in particolare ai «decisori politici» nel messaggio inaugurale indirizzato all’arcivescovo Savio Hon Tai-Fai, nunzio apostolico a Malta, in occasione della conferenza European Cathedrals Malta 2023. The Equilibrium between Conservation and Spirituality, in corso oggi e domani (11 e 12 maggio), a Malta, presso la Concattedrale di San Giovanni.

Il cardinale Parolin ricorda che tutti gli sforzi in termini di restauro e preservazione di oggetti artistici non possono prescindere dalla «conservazione dei significati e dei valori storici, culturali e religiosi che quegli oggetti esprimono». Citando Michelangelo e Kandinsky, sottolinea come da sempre gli artisti parlino dell’arte in relazione alla sacralità, di «necessità interiore», di «impulso spirituale», di risposta alla «fame spirituale» dell’essere umano. E ricorda che «tutti i maggiori movimenti spirituali compreso quelli non credenti hanno esercitato una grande influenza nell’arte nei secoli».

Emerge un primo punto fermo concettuale: «Gli artisti hanno aiutato la Chiesa a tradurre il suo messaggio divino nel linguaggio delle forme e delle figure, rendendo palpabile il mondo invisibile», «il culto ha sempre trovato nell’arte un naturale alleato». Per poi spiegare che «non è quindi esagerato affermare che una scienza della conservazione basata sui valori è per sua stessa natura una forma di spiritualità poiché mira a estendere nel tempo i valori attribuiti sia alla dimensione tangibile che a quella immateriale del nostro patrimonio culturale». Innanzitutto in queste considerazioni, dunque, si inquadra l’impegno della Chiesa «promotrice e guardiana dell’arte sacra» e della Santa Sede di cui il cardinale Parolin ripercorre tappe estremamente significative. Cita l’adesione della Santa Sede nel 1962 alla Convenzione Culturale Europea, la firma della Dichiarazione Europea sugli Obiettivi Culturali a Berlino nel 1984, la nascita della Pontificia Commissione per la Conservazione del Patrimonio Artistico e Storico della Chiesa nel 1993. Di san Paolo VI ricorda le parole rivolte agli artisti nel 1964 nella Cappella Sistina: «Il tuo mestiere, la tua missione, la tua arte è proprio quella di cogliere i tesori del celeste regno dello spirito e di rivestirli di parole, colori, forma e accessibilità» per «conservare l’ineffabilità di un tale mondo, il senso della sua trascendenza, la sua aura di mistero, questa esigenza di raggiungerlo con facilità e fatica insieme». Di san Giovanni Paolo II riporta un’espressione ricorrente: «Gli artisti partecipano all’artigianato creativo di Dio attraverso le loro opere d’arte». Della Pontifica Commissione in particolare ricorda l’invito a «“rileggere” il patrimonio culturale della Chiesa dalle maestose cattedrali agli oggetti più piccoli; dalle meravigliose opere d’arte dei grandi maestri alle minori espressioni delle arti più povere».

E c’è poi l’invito di Papa Francesco a ragionare in termini di «incontro» e di necessario cambiamento di mentalità e di azioni che — suggerisce il cardinale Parolin — si traduce su questi temi in una raccomandazione precisa: «L’incontro tra chi si occupa di conservazione e il patrimonio culturale non dovrebbe essere condizionato dal paradigma tecnocratico che promuove atteggiamenti, approcci e preoccupazioni sbagliati limitati alla sola conservazione del tessuto fisico di oggetti artistici. Restauratori e custodi d’arte si prendono cura sia della dimensione fisica ed esteriore del nostro patrimonio culturale sia della sua realtà immateriale e soprasensibile».

Il richiamo è forte anche nell’enciclica Laudato si’, dove — ricorda il Segretario di Stato — «Papa Francesco lamenta come l’attuale orizzonte della tecnocrazia riduce tutti gli oggetti all’efficienza, alla ricerca del profitto e al consumismo». Francesco sottolinea che al contrario «quando la saggezza prevale sull’arroganza tecnocratica, allora il processo di conservazione culturale diventa un incontro con la realtà sacra che si manifesta oltre l’apparenza superficiale» e «il processo di conservazione diventa un’esperienza spirituale di incontro con il mistero». L’obiettivo — chiarisce il cardinale Parolin — è «garantire una comune consapevolezza e sensibilità morale tra i decisori politici», così come — sottolinea — ha ribadito Papa Francesco il 20 dicembre 2013 ai diplomatici italiani incoraggiandoli precisamente a «mettere in campo il patrimonio culturale dell’arte per diffondere una cultura dell’incontro».

Il pensiero va alle prossime generazioni, afferma il cardinale Parolin citando l’impegno dell’Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Unesco a promuovere la convinzione che «gli approcci alla conservazione non dovrebbero solo cercare di preservare il mondo dell’arte come portatore di bellezza, ma anche, e soprattutto, come sintesi di valori religiosi e spirituali che non possono prescindere dall’incontro con la comunità di appartenenza e con i suoi contesti storici, geografici e architettonici».

In conclusione, si legge l’auspicio del cardinale Parolin che «l’arte sia un mezzo sempre più efficace per avvicinare quanti sono alla ricerca di senso al messaggio evangelico e susciti in ogni persona di buona volontà quell’amore di bellezza che apre lo spirito alla verità e al bene».

di FAUSTA SPERANZA

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Ricucire il tessuto dei significati

Le opere di Sidival Fila accanto a codici, volumi e monete

L’ago di un contemporaneo e manoscritti secolari si intrecciano offrendo una riflessione profonda sul tema del riscatto e del riuso. Accade nella dimensione artistica della particolarissima mostra inaugurata il 28 aprile alla Biblioteca apostolica vaticana dell’opera di Sidival Fila; l’esposizione (visitabile fino al 15 luglio) è realizzata in collaborazione con l’omonima Fondazione filantropica. Immediato il richiamo a «uno dei passaggi più significativi del magistero di Papa Francesco», sottolinea il Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, l’arcivescovo Angelo Zani, ricordando l’intuizione del Pontefice sulla necessità di combattere la cultura dello scarto.

A intrecciarsi negli spazi espositivi sono raffinatezza e significati. Sidival Fila, frate minore francescano (nato nel 1962 nello Stato del Paraná in Brasile), da tempo esprime la sua arte, riconosciuta a livello mondiale, servendosi di ago, tessuti, oggetti di recupero, fili che cuciono e ritessono tele di ieri e di oggi. Il vissuto di materiali come lino, cotone, seta, canapa, broccati, che in alcuni casi hanno da raccontare secoli di storia, rivive nel recupero del frammento o dello scarto e i significati possono essere diversi: nel riuso, la valorizzazione passa attraverso il nuovo scopo immaginato, mentre, parlando di riscatto, si percepisce il tentativo di una valorizzazione quasi ontologica, cioè a prescindere da una eventuale nuova utilità. In ogni caso, l’elemento costante nel percorso di Fila è la ricerca del contatto con la materia alla quale l’opera d’arte vuole restituire una voce. Nell’intervista all’artista realizzata da Enrica Riera per l’inserto del nostro giornale  «Quattro pagine», parlando della vendita delle sue opere, Fila confidava: «Faccio fatica a liberarmene se non quando capisco che chi vuole acquistarne una la ama».

«L’incontro con Sidival Fila ci ha ispirato un viaggio nelle trame della nostra stessa storia», spiega don Giacomo Cardinali, commissario dello spazio espositivo e curatore della mostra insieme con Simona De Crescenzo e Delio Proverbio della Vaticana. Cardinali aggiunge che è stata l’occasione per recuperare personaggi geniali sebbene quasi sconosciuti, come Antonio Piaggio, collezionisti “furiosi”, come il marchese Capponi, pittori e decoratori minori tra xviii e xix secolo, come Biagio Cicchi e Filippo Cretoni, e poi lacche vietnamite, rotoli magici etiopici, monete ribattute o trasformate in gioielli, amuleti cinesi e molti altri casi di riuso, attraverso i quali antichi frammenti della nostra storia sono sopravvissuti alla fine della loro epoca.

Tra le preziosità della Biblioteca in mostra accanto alle opere di Fila, ricordiamo il frontespizio di un volume a stampa della seconda metà del Cinquecento ricostruito a pennino e inchiostro da un calligrafo romano del Settecento che ne imita la versione originale nei minimi dettagli; due pannelli lignei (visibili per la prima volta) che rappresentano, assieme ad altri due, quel che resta della decorazione degli sportelli del Salone Sistino della Vaticana terminata da Cicchi tra 1758 e 1759. Tra il materiale numismatico, si trova un esemplare delle monete coniate nel 1527 per liberare Clemente vii dalla prigionia dei Lanzichenecchi durante il sacco di Roma.

Il nuovo prefetto della Biblioteca Apostolica, monsignor Mauro Mantovani, ricorda che con questa esposizione la Biblioteca taglia il traguardo delle quattro mostre dedicate al dialogo e al confronto con la cultura e con l’arte contemporanea. «Si tratta di speciali occasioni di studio e di conoscenza sia del mondo che ci circonda, che è anche il nostro, sia di promozione e valorizzazione del nostro stesso patrimonio, di cui ogni artista ci aiuta a cogliere ed evidenziare uno o più aspetti ancora nascosti o addirittura sconosciuti». (fausta speranza)

29 Aprile 2023

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-04/quo-100/riscatto-e-riuso-per-superare-la-cultura-dello-scarto.html

Storie di vita impresse nella pietra in tre dimensioni

17 aprile 2023

Il fascino dell’antichità più o meno celata e conservata si intreccia con storie eterne di amori e di potere, e l’archeologia si sposa con tecnologia e ipertesti. Accade nel libro intitolato Regilla. Luce della casa, a cura di Paolo Re e Tommaso Serafini (Roma, Arbor Sapientiae Editore, 2023, pagine 127, euro 18) che segue il filo logico della «strategia comunicativa» di Erode Attico percorrendo l’Appia antica.

Lo scenario è il cosiddetto Pago Triopio, l’area che potremmo definire adibita all’epoca a comprensorio, che si estendeva approssimativamente nella zona tra la chiesa del Quo Vadis e via dell’Almone. A ridosso c’era un imponente palazzo, di cui sono rimasti tra l’erba a testimoniarne l’importanza solo blocchetti di tufo per opera reticolata, mattoni triangolari, tegole, basoli isolati, selci, blocchi di travertino, lastrine di opus sectile marmoreum, tessere di mosaico, frammenti di intonaco colorato di rosso, azzurro o bianco.

Cinque epigrafi trovate, dette appunto iscrizioni triopee, forniscono notizie interessanti sull’origine e sull’organizzazione dell’area voluta da Tiberio Claudio Erode Attico, uomo molto ricco, nato tra il 100 e il 101 d.C., retore, filosofo, precettore degli imperatori Lucio Vero e Marco Aurelio, governatore di una parte dell’Asia e della Grecia. Aveva sposato Annia Regilla discendente dall’antica famiglia dei Regoli, che annoverava fra gli antenati il celebre Attilio morto durante la guerra punica. Fu lei a portare in dote al marito il fondo lungo il III miglio della via Appia. Su una colonna di marmo collocata originariamente all’ingresso del Triopio, ora ai Musei Capitolini, è scritto in latino e in greco: «Annia Regilla, moglie di Erode Attico, luce della casa, alla quale appartennero questi beni». La storia narra che quando morì, nel 160-161 d.C., Erode fu accusato dal cognato di averla assassinata, subì per questo un processo, da cui uscì assolto.

Le iscrizioni ci raccontano di campi di grano, olivi, vigne, prati, addirittura la stazione di “polizia”, il campo sacro a Nemesi e Minerva, il parco, il villaggio colonico che era dalle parti di Cecilia Metella e, nel luogo in cui successivamente fu costruito il Palazzo di Massenzio, la villa residenziale. È citato un tempio dedicato a Cerere, la dea romana corrispondente alla Demetra dei greci, e a Faustina moglie dell’imperatore Antonino Pio, morta poco tempo prima e “divinizzata”, al cui interno Erode collocò la statua della moglie.

In una delle due iscrizioni su grandi colonne di marmo cipollino, che si trovano ora al Museo Nazionale di Napoli, si legge: «Non è permesso ad alcuno di portarle via dal Triopio, che è situato al III [miglio] della via Appia, nel possedimento di Erode. Chi le rimuoverà non ne riceverà certo vantaggio. Ne è testimone la dea infernale (Hecate) e le colonne che sono dono a Cerere e a Proserpina e agli dei Mani e [a Regilla]». Due iscrizioni — le originali si trovano oggi al Louvre e una copia a villa Borghese — sono scolpite su cippi di marmo pentelico e contengono un lungo panegirico in versi, composto da Marcello Sideta, un poeta amico di Erode.

Tra le particolarità del libro c’è il fatto che vengono riproposte le traduzioni dei versi fatte da Giacomo Leopardi, mentre collegamenti multimediali spalancano opportunità di letture in metrica o letture espressive di brani, ricostruzioni in tre dimensioni di monumenti, riferimenti storici contestuali, storie e leggende di eroine e divinità. Ad esempio, la tecnologia aiuta a focalizzare le colonne e le varie epigrafi con movimenti visivi che permettono di comprendere come alcune iscrizioni sono state aggiunte in un altro pezzo di storia in cui le colonne sono state capovolte e praticamente “riciclate”. Reperti e passaggi storici mancano alle ricostruzioni degli studiosi, ma quello che sopravvive si arricchisce in modi diversi. È proprio quello che contribuisce a mettere in luce il libro, dedicato a epigrafi antiche e pensato per la dinamicità mentale delle nuove generazioni.

di FAUSTA SPERANZA

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-04/quo-089/storie-di-vita-impresse-nella-pietra-in-tre-dimensioni.html