Cittadinanza e sfide globali

I rischi per alcuni diritti fondamentali di fronte a migrazioni e terrorismo

di Fausta Speranza

       La sfida della cittadinanza si fa globale. Mentre si parla sempre più spesso di sovranismi, la questione della nazionalità impone uno sguardo e un’analisi che valicano le frontiere. Accade perché le situazioni particolari rimbalzano a livello mediatico con eco mondiale e accade perché la questione delle migrazioni, con i risvolti in termini di condizioni di rifugiati, profughi o apolidi,  interpella tutti. Ma accade anche perché il terrorismo in qualche modo  rischia di “dettare legge” pure a questo proposito.

       La cronaca nel 2018  ha attirato l’attenzione delle Nazioni Unite sulla fascia di terra tra Myanmar e Bangladesh dove si è consumato un esodo di massa. Migliaia di musulmani, senza il riconoscimento di diritti di cittadinanza, hanno cercato asilo in Bangladesh. Le autorità di Naypyidaw hanno parlato di facinorosi allontanati dalla popolazione perché protagonisti di disordini e di reati, ma i media hanno fotografato una storia di persecuzioni.

       E, in questi giorni, in India ha fatto discutere e ha suscitato proteste la decisione di garantire la cittadinanza a qualunque migrante indù che fugga da paesi a maggioranza musulmana, come i vicini Pakistan e Afghanistan. In particolare, il  disegno di legge, approvato l’8 gennaio dalla camera bassa del parlamento, permette a membri di quelle comunità perseguitati, entrati in India prima del 31 dicembre 2014, di essere naturalizzati dopo sei anni di residenza invece dei dodici previsti. Il disegno normativo che emenda il Citizenship  Bill,  la precedente legge del 1955, prevede anche di concedere la cittadinanza solo a chi era nello stato di Assam prima del 1971: la perderebbero, dunque, quattro milioni di profughi musulmani  arrivati successivamente.  L’opposizione parla di violazione del principio di equità.

       Tutti e due i casi, emblematici di molti altri, mettono in luce il gap tra il previsto diritto di cittadinanza per tutti coloro che vivono su un territorio e casi di discriminazione per etnia, religione.

       In teoria, in tutto il mondo la cittadinanza si attribuisce in base a uno di questi due criteri fondamentali: lo ius sanguinis, che prevede il riconoscimento per la nascita da genitori di quella nazionalità, o in seguito al vincolo del matrimonio. E lo ius soli, il diritto acquisito per  essere nato su un territorio indipendentemente dalla nazionalità dei genitori, anche se, nella maggioranza dei casi, si parla di ius soli “corretto” perché, per evitare viaggi ad hoc, si prevede la permanenza o residenza dei genitori su quel territorio per un certo periodo. Bisogna anche citare la prevista naturalizzazione: il riconoscimento di cittadinanza per particolari onorevoli motivi o, per esempio, in alcuni stati, per la partecipazione alla leva militare. Ma questa procedura va al di là dei suddetti veri e propri fondamenti giuridici che ispirano praticamente le legislazioni  di tutto il mondo. Ma questi principi, in Asia e non solo, come abbiamo visto, vengono a scontrarsi con situazioni particolari e discriminatorie di vario genere.

       Il punto è che l’occidente, che indubbiamente ha una tradizione di rispetto dei diritti umani e di tutela dalle discriminazioni diversa, di fronte alla globalizzazione e ai flussi migratori, dovrebbe farsi sempre più baluardo dei diritti dell’uomo. E non vacillare. I rischi, invece, ci sono e per tutti.

       Le sollecitazioni vengono su due fronti. Il primo è quello delle migrazioni. Non è da poco il fatto che nel Global compact  for safe, orderly and regular migration, il patto mondiale per una migrazione sicura, ordinata e regolare  voluto dalle Nazioni Unite — ma messo in dubbio da diversi governi — si legga che il quarto obiettivo indicato è di «assicurare ogni impegno  affinché tutti i migranti abbiano prova di identità legale e adeguata documentazione». Nel capitolo relativo, il numero 20, si chiarisce bene «il diritto di ogni migrante a una identità legale» e si ribadisce «la necessità che ogni paese faccia il possibile per ritrovare, conservare, mettere a disposizione certificati civili o qualsiasi registrazione utile a livello identitario». Si chiede anche «forte collaborazione tra stati», perché non sempre, ad esempio, c’è universale riconoscimento di alcuni documenti di viaggio, stesse modalità di archiviazione dei dati o uguale disponibilità a comunicarli. Estremamente concreto è l’invito a «registrare sempre e comunque la nascita di bambini in tappe anche molto difficoltose di viaggi». Pensiamo alle imbarcazioni nel Mediterraneo o ai viaggi dall’Honduras o dal Salvador verso gli Stati Uniti attraverso il Messico. In ogni caso, nel Global compact  si denunciano «i rischi crescenti di vulnerabilità per mancanza di cittadinanza nelle migrazioni» e si chiedono con fermezza «più efficaci misure per ridurre l’apolidia». Peraltro, anche nel global compact dell’Onu dedicato in particolare ai rifugiati tornano le stesse raccomandazioni, al capitolo 3.

       A ben guardare c’è un’altra situazione — che può essere solo in minima parte legata alle migrazioni — che fa parlare di cittadinanza: è la sfida del terrorismo. Negli ultimi anni in Europa si è registrato un dibattito nuovo intorno a leggi che autorizzino la revoca della cittadinanza per implicazioni con reti terroristiche. È nuovo come il fenomeno dei cosiddetti foreign fighters, cittadini europei che si sono uniti al sedicente stato islamico, in particolare sul fronte siriano.  Di un possibile provvedimento per la revoca della cittadinanza si è discusso molto in Francia, ma non si è arrivati a  cambiare la normativa. In Italia, invece, nel  decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, dedicato alla sicurezza, si prevede la revoca della cittadinanza a chi non è italiano per nascita, ma abbia ottenuto la nazionalità dopo la maggiore età,  ed è stato definitivamente condannato per delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale. Si tratta di casi che si verificheranno raramente. Tuttavia, l’effetto sul sistema può essere significativo: si  frammenta il concetto di cittadinanza, praticamente introducendone una di “serie b” rispetto a quella che appartiene a chi è italiano dalla nascita. Banalmente, per lo stesso reato, sono previste conseguenze diverse, per esempio, per una persona adottata. Al di là della possibile discussa violazione del principio d’eguaglianza, in questo contesto interessa evidenziare che la disciplina potrebbe generare apolidia, in contrasto con la convenzione internazionale che  vieta agli stati di creare nuovi apolidi.

       Tutto questo colpisce particolarmente se si pensa a tutti gli sforzi che restano da fare perché effettivamente nel mondo i cittadini siano trattati con equità, mentre si rischia che  vacilli qualche punto fermo fin qui acquisito in tema di cittadinanza. Colpisce in particolare a inizio di questo 2019, che ci riporta al drammatico anniversario dell’invasione della Polonia da parte della Germania nazista, all’oscuro periodo della seconda guerra mondiale e all’impegno della comunità internazionale per risolvere il dramma delle persone apolidi, nato proprio in conseguenza di quel conflitto. Dopo il 1945, infatti, il mondo si è trovato dinanzi a un’impennata nei numeri di persone senza nazionalità per la fine di alcuni stati e la nascita di nuovi, per le conseguenze in termini di esodi e di sfollati, e si è posto il problema dell’apolidia. Ora, il mondo si trova davanti ai nuovi «crescenti rischi».

L’Osservatore Romano, 13 Gennaio 2019

Negoziati di pace e accordi commerciali di guerra

di Fausta Speranza

 Per uno dei conflitti più trascurati dai media, quello che prosegue da oltre quattro anni in Yemen, il 2019 si è aperto all’insegna della speranza per i possibili sviluppi della situazione dopo i primi colloqui tra le parti svoltisi a dicembre. Ma anche di una tragica conferma, il continuo afflusso di armi verso tutta la regione mediorientale, dove si trovano sette delle prime dieci nazioni al mondo per investimenti nel settore degli armamenti, e, in particolare, all’Arabia Saudita, paese che guida l’offensiva della coalizione internazionale in Yemen.
In Svezia, all’inizio dell’ultimo mese del 2018, le forze ribelli houthi e il governo yemenita hanno siglato un accordo che prevede il cessate il fuoco nella regione di Hodeidah, porto strategico, e il dispiegamento di forze neutrali supervisionate dall’Onu. Un primo importante passo da consolidare con il ritiro delle truppe di entrambi gli schieramenti a breve e lo scambio di prigionieri di guerra. Ma il percorso si presenta molto accidentato. E la meta di negoziati per una transizione politica è ancora lontana. Intanto, il bilancio del conflitto scoppiato nel 2014 con l’occupazione della capitale Sana’a, da parte di milizie huthi sostenute da forze vicine all’ex presidente Ali Abdullah Saleh e il successivo tentativo di golpe contro il governo di transizione del presidente Abed-Rabbo Mansour Hadi ha assunto i contorni di una gravissima crisi in termini umanitari. Un ufficiale dell’Onu stimava in 10.000 i civili uccisi dall’ inizio del 2017 e alcuni studi indicano che tale numero potrebbe essere salito fino a più di cinquantamila. Oltre 85.000 bambini sotto i cinque anni morti per denutrizione. Circa tre milioni di persone in fuga e 22 dei 28 milioni di abitanti in estremo bisogno di assistenza umanitaria, tra carestia e colera.
L’Unione europea, in prima fila accanto alle Nazioni Unite nel sostenere i colloqui di pace, ha contemporaneamente assicurato aiuti per 324 milioni di euro. Ma l’Europarlamento ha lanciato un monito agli stati membri: non si può con una mano elargire sostegno e con l’altra far arrivare armi.

 E il 4 ottobre scorso, a Strasburgo, è stata votata la risoluzione che richiede ai paesi Ue di «astenersi dal vendere armi e attrezzature militari all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti e a qualsiasi membro della coalizione internazionale, nonché al governo yemenita e ad altre parti del conflitto». Va detto che la presa di posizione è arrivata dopo il caso di Jamal Khashoggi, il giornalista e scrittore saudita scomparso il 2 ottobre all’interno del consolato saudita a Istanbul. In ogni caso, uno stop all’esportazione di armi è stato deciso da Germania, Olanda, Danimarca, Finlandia.
Non è venuto da Francia e Italia, che pure compaiono nella lista dei principali esportatori di armi all’Arabia Saudita: rispettivamente con contributi per il 3,6 per cento e per il 1,5 per cento. E anche se in Italia la legge 185/90 vieta l’esportazione di armi verso paesi in conflitto.

Questi paesi vengono dopo gli Stati Uniti e il Regno Unito, secondo i dati dello Stockholm international peace research institute (Sipri). Il rapporto dell’istituto internazionale indipendente che verifica le vendite e gli acquisti di armi nel mondo non riporta dati riguardanti la Russia.

E nel sottolineare la difficoltà di reperire documentazione sull’Arabia Saudita assicura che, secondo le informazioni disponibili, il Regno saudita, in quanto a denaro investito in armi, si trova oggi al primo posto nella regione mediorientale e al terzo nel mondo. Negli ultimi dieci anni, il Sipri registra una crescita di spesa in armi da parte di Riad del 74 per cento, con il raggiungimento del record di spesa militare pro-capite superiore a qualsiasi altra nazione al mondo.

Il 2019 si apre con tutti questi dati e una possibile variante: il ruolo degli Stati Uniti. Khashoggi abitava nello stato della Virginia da diversi anni ed era opinionista del «Washington Post».

L’intelligence statunitense e diverse ricostruzioni giornalistiche hanno indicato come mandante dell’omicidio del dissidente Khashoggi il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman.

E il 13 dicembre scorso il senato ha votato una mozione che chiede di bloccare l’appoggio statunitense all’intervento saudita in Yemen, e ha approvato una risoluzione che considera il principe bin Salman «personalmente responsabile» dell’uccisione di Khashoggi. Il voto potrebbe restare simbolico dopo una possibile bocciatura da parte della camera dei rappresentanti o dopo un eventuale veto presidenziale, che potrebbe essere superato solo dai due terzi dei voti in entrambe le camere. In ogni caso, per il momento appare come un chiaro messaggio di presa di distanza da una guerra che sembrava dimenticata e scontata.

Resta il paradigma di una nazione, lo Yemen, diventata terreno di conflitto ma anche piazza di mercato per le armi. La maggior parte dei conflitti hanno una causa chiaramente identificabile, che può essere oscurata dalla prosecuzione del conflitto stesso, dall’entrata in scena di nuovi attori, ma anche dall’insorgere di un’economia di guerra.

Tutelare i bambini

Appello della Chiesa e dell’Onu per i piccoli migranti separati dai genitori

 di Fausta Speranza

«I bambini sono quelli che più stanno soffrendo le conseguenze delle migrazioni forzate». È  quanto si legge nel comunicato  diffuso dopo   il colloquio tra Santa Sede e Messico sulle migrazioni svoltosi il 14 giugno in Vaticano. Un  testo che chiede di  rispondere alle sfide prodotte da questi flussi «equilibrando i principi di solidarietà, sussidiarietà e corresponsabilità».

Nel comunicato   viene sottolineata «la necessità di insistere sulla centralità della persona umana in ogni esercizio politico, compreso quello diretto a regolamentare i flussi migratori, riaffermando l’inviolabilità dei diritti umani e della dignità di ogni essere umano che si sposta». Viene ricordato quindi  «l’atteggiamento fondamentale  indicato da Papa Francesco:  uscire incontro dell’altro, per accoglierlo, conoscerlo e riconoscerlo». Inoltre, si ribadisce «l’opportunità di impegnarsi per una governance globale dei flussi migratori», assicurando sostegno al processo che dovrebbe condurre  l’Onu ad adottare  il Patto globale per una migrazione sicura, ordinata e regolare nel corso di questo anno», armonizzandolo con il patto mondiale sui rifugiati.  Il processo di sviluppo di questo Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration  è iniziato nell’aprile 2017 e dovrebbe condurre all’adozione dell’intesa nel corso di una  conferenza intergovernativa  prevista  nel prossimo mese di dicembre.

Nei giorni scorsi è scoppiato il caso dei  bambini migranti separati dai genitori dopo l’ingresso, illegale, negli Stati Uniti dal Messico, un confine dove la tensione resta alta: nella notte si è infatti diffusa la notizia di cinque  migranti  morti in un inseguimento  con una pattuglia di frontiera del Texas. Sulla questione stamane  è intervenuto da Ginevra l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Zeid Raad al-Hussein, definendo «inaccettabile e crudele» la separazione. «Pensare che uno stato possa cercare di dissuadere i genitori infliggendo tali abusi sui bambini è inammissibile» ha sottolineato al-Hussein, in apertura della sessione del Consiglio per i diritti umani.

Secondo i dati resi noti dal ministero per la sicurezza interna statunitense, sono circa 2000 i bimbi separati dai genitori in sei settimane, dal 19 aprile al 31 maggio, dopo l’entrata in vigore della politica di tolleranza zero dell’amministrazione Trump per fermare le migliaia di persone che ogni settimana, dopo il passaggio in Messico, varcano la frontiera con gli Stati Uniti.   La posizione di  Trump ha suscitato riserve tra gli stessi repubblicani e indignazione tra i democratici.  Ai quali Trump addossa però  la colpa, accusandoli di una  «orribile e crudele agenda legislativa», mentre  dovrebbero invece «lavorare con i repubblicani alla nuova legge per l’immigrazione, se vogliono risolvere il problema». Di fatto Trump chiede di sostenere uno dei due progetti di legge del Grand Old Party che saranno messi al voto la prossima settimana alla camera e al senato.

Intanto, proprio  delle politiche migratorie e del ruolo dei cristiani, compresi i pastori, in questo particolare momento storico per gli Stati Uniti, si sta discutendo da giovedì scorso in Florida  nella sessione di primavera della conferenza episcopale. Il presidente, cardinale  Daniel DiNardo, ha dichiarato «immorale la decisione di separare i bambini dalle madri» al confine tra Messico e Stati Uniti.

Il porporato, insieme con monsignor Joe Vásquez, presidente della commissione per le migrazioni, ha condannato risolutamente «il continuo uso della separazione familiare al confine tra Stati Uniti e Messico come attuazione della politica di tolleranza zero» stabilita dall’amministrazione Trump. Il cardinale DiNardo ha poi ricordato che le leggi devono «garantire che i bambini non siano separati dai loro genitori e esposti a danni e traumi irreparabili».  L’unità familiare non può essere sacrificata, anche se  «proteggere i  confini è importante». Si devono trovare «altri modi per garantire tale sicurezza», perché «separare i bambini dalle loro madri non è la risposta». I vescovi hanno quindi proposto di inviare una delegazione al confine  per ispezionare le strutture  dove vengono tenuti i bambini.

DiNardo  ha poi  apertamente contestato la decisione della procura generale di annullare la sentenza di un tribunale dell’immigrazione che aveva concesso asilo politico a una donna salvadoregna vittima di violenze domestiche.   «L’asilo è uno strumento che preserva il diritto alla vita» ha dichiarato con preoccupazione, aggiungendo che  la decisione della procura rischia di colpire proprio le donne più vulnerabili, che in questo modo  dovranno tornare e esporsi a pericoli estremi per la loro sopravvivenza e protezione.

Infine i presuli chiedono attenzione per i funzionari dell’immigrazione che hanno espresso la loro «obiezione di coscienza di fronte all’attuazione  di politiche ingiuste».

«L’Osservatore Romano», 19 Giugno 2018

Primo passo per la riforma del regolamento di Dublino

Accoglienza solidale in Europa

di Fausta Speranza

Italia e Grecia potrebbero non essere più sole nel far fronte alle domande di asilo di tutti quelli che bussano all’Europa. A Strasburgo questa mattina è stato approvato, in sede di commissione ad hoc dell’europarlamento,  il testo della nuova normativa Ue sui richiedenti asilo, che finora abbiamo conosciuto come il regolamento di Dublino. Fino ad oggi si vincolava il primo paese di ingresso ad disbrigo di tutte le pratiche, ora, in base a questo testo, ogni paese membro in cui arrivano i profughi deve assumersi la responsabilità di gestire le domande, anche se non si tratta del primo territorio europeo calpestato.  Il prossimo passo decisivo, perché la nuova regolamentazione diventi davvero legge europea, è l’approvazione del consiglio dei capi di stato e di governo, che non dovrebbero smentire tante promesse di solidarietà. Ma in ballo non c’è solo il vincolo del primo ingresso, il nuovo testo prevede l’avvio di un sistema automatico e permanente di ricollocamenti.

I tempi sembrano maturi per vedere ormai superata la posizione di quanti hanno remato contro una gestione comunitaria dei particolari flussi migratori che dal 2014 in particolare hanno interessato il vecchio continente.  Il sistema in vigore in questi anni ha fatto sì che solo sei stati membri su 28 hanno fatto fronte a quasi l’80 per cento di tutte le richieste d’asilo presentate nell’Ue. Già lo scorso anno  il parlamento europeo aveva adottato una risoluzione che raccomandava un approccio olistico al fenomeno migratorio, con il superamento del criterio del primo paese d’ingresso e l’avvio di  una vera e propria centralizzazione a livello europeo delle responsabilità sull’asilo. Nel frattempo la commissione europea è riuscita a sbloccare il no di quanti rifiutavano il principio dei ricollocamenti di quote di migranti. Ma la posta in gioco con il nuovo testo è alta proprio perché i paesi membri dovrebbero accettare che diventi un meccanismo costante.

La questione è delicata e complessa anche per altri aspetti. Per esempio, il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) ribadisce la sua raccomandazione centrale: riscrivere il regolamento di Dublino è l’occasione per rivedere anche i criteri guida per le risposte alle domande di asilo. Il presidente del Cir Roberto Zaccaria spiega a L’Osservatore Romano che “vanno ampliati i criteri di requisiti soggettivi dei richiedenti asilo”. In sostanza suggerisce che nel valutare le domande “non vengano considerate solo le parentele strette ma anche affinità di comunità, di paese, senza trascurare lingua e cultura”. L’appello è chiaro: “i criteri vanno ampliati considerando principi di umanità”. Inoltre, non si può dimenticare l’obiettivo finale, che resta quello dell’integrazione. Una volta approvate le domande, deve essere messo in atto un impegno serio, basato – anche in questo caso –  su precisi criteri condivisi più possibile a livello europeo.

Osservatore Romano, 20 Ottobre 2017

I tedeschi chiamati al voto

Con l’incognita delle coalizioni

di Fausta Speranza

Alla vigilia del voto in Germania, non sembra ci siano dubbi sul fatto che il cancelliere Angela Merkel vedrà riconfermato il proprio consenso. I sondaggi indicano chiaramente la prospettiva di un quarto mandato per la leader tedesca. Più complesso, invece,  il rebus delle alleanze e degli equilibri nella prossima diciannovesima legislatura.

Negli ultimi quattro anni il partito di Merkel, l’Unione cristiano-democratica (Cdu), ha governato insieme con gli alleati del Partito socialdemocratico (Spd). Al momento, entrambi sembrano registrare perdite di consensi intorno ai quattro o cinque punti rispetto alle elezioni del 2013, quando la Cdu aveva ottenuto il 41,5 per cento di voti e la Spd il 25,7. Se il dato fosse confermato, per i socialdemocratici sarebbe il più deludente risultato della loro storia, e questo anche perché, dopo aver chiamato Martin Schulz alla guida del partito a gennaio, si era registrata un’iniziale crescita dei consensi al 30 per cento. La prima incognita, dunque, è se la Spd entrerà in una eventuale grande coalizione o se tornerà all’opposizione. Fatta eccezione per i quattro anni dal 2009 al 2013, i socialdemocratici sono sempre stati al governo dal 1998. Hanno guidato il paese con il cancelliere Gerhard Schröder fino al 2005, poi hanno collaborato con Merkel. Di fatto, hanno preso parte alla compagine governativa per 15 degli ultimi 19 anni.

A crescere è invece Alternativa per la Germania (Afd), partito definito di estrema destra ed euroscettico, fondato nel 2013 dall’economista Bernd Lucke. Afd sembra assicurarsi almeno il 12 per cento dei consensi. Si presenterebbe, quindi, come il terzo partito. A seguire, ci sono il Partito democratico libero (Fdp), cui viene attribuito il 9,5 per cento, e la Die Linke,  partito nato dalla fusione tra il Partito della sinistra e il movimento Lavoro e giustizia sociale, che scenderebbe  al 9 per cento. In retrocessione anche i Verdi, che sembra non dovrebbero andare oltre il 7,5.  Le combinazioni immaginabili tra tutte queste formazioni nel quadro di una futura compagine governativa potrebbero essere molte.

Uno dei temi cruciali della campagna elettorale è stato l’immigrazione. La stampa ha scritto più volte che Afd, molto critico nei confronti dell’arrivo di stranieri, ha allargato i propri consensi dall’autunno 2015, quando il cancelliere decise di aprire le porte a un milione di profughi siriani. Tuttavia, secondo le dichiarazioni di voto registrate finora, la leadership di Merkel non ne sarebbe seriamente intaccata.

L’altro capitolo importante è l’economia. Parlando del successo della leader venuta dalla Germania dell’est, si cita subito la stabilità economica. In effetti, quando Merkel ha assunto per la prima volta la guida del  governo nel 2005, la Germania veniva definita “il malato d’Europa”. Il tasso di disoccupazione era sopra l’11 per cento, i conti pubblici non riuscivano più a centrare i parametri del patto di stabilità europeo, tanto che nel 2003 l’allora cancelliere Schröder chiese all’Ue di poter sforare temporaneamente il tetto massimo del deficit, fissato al tre per cento del prodotto interno lordo. Lo aveva fatto con la promessa di attuare le necessarie riforme economiche, che puntualmente sono state  portate a termine.

Da allora, l’economia è stata rilanciata e in tutto il mondo si parla di “miracolo tedesco”. La disoccupazione è ferma sotto il 4 per cento — ai minimi dalla riunificazione del 1990 — e dal 2014 il governo di Berlino è l’unico in Europa a registrare avanzi di bilancio. La maggior parte dei tedeschi vede in Merkel la garanzia per proseguire su questa strada.

Il voto in Germania arriva dopo un lungo ciclo di appuntamenti con le urne in Europa: negli ultimi mesi si è votato in Francia, in Spagna, nei Paesi Bassi, in Austria (dove si tornerà a votare per le legislative a ottobre) e nel Regno Unito. Dopo la sorpresa della Brexit, ovunque si sente la pressione dei cosiddetti populismi, anche se gli elettori in Olanda, a marzo, e in Francia, a giugno, non hanno premiato questo tipo di proposte.

Il resto dei paesi dell’Unione europea guarda con attenzione alle elezioni tedesche. I flussi migratori per un verso e la Brexit per un al tro impongono ripensamenti delle regole europee. In discussione ci sono, ad esempio, la revisione del Trattato di Dublino sui richiedenti asilo e il ruolo dei paesi della cosiddetta Eurozona, e quindi il peso di un eventuale “super ministro” delle finanze europeo. Nulla di tutto questo può muoversi senza il contributo della Germania, che resta  il primo paese per popolazione: oltre 82 milioni di abitanti.

Si tratta di tutti temi che Merkel stessa ha sollevato nei mesi scorsi. Lo ha fatto in particolare in incontri bilaterali con il presidente francese, Emmanuel Macron, che spinge molto per un rilancio del progetto europeo, ma anche nei vertici cui hanno partecipato anche i leader di Italia e di Spagna, nonché  in tutti gli ultimi appuntamenti del consiglio che riunisce i capi di stato e di governo dell’Ue. Ma per impegnarsi davvero Merkel deve aspettare una nuova legittimazione delle urne. L’attesa, dunque, è per capire quali saranno gli equilibri politici interni alla Germania e come il nuovo governo tedesco vorrà e potrà contribuire a rilanciare l’Ue affrontando le necessarie riforme.

L’Osservatore romano, 23 Settembre 2017

Un altro g7

Dalla società civile l’appello ai leader riuniti a Taormina perché affrontino la questione migratoria intervenendo su povertà e guerre

di Fausta Speranza

«Sostituire il concetto negativo che vuole le migrazioni come una  minaccia da bloccare, con l’idea positiva di mobilità umana, andando a comprendere le ragioni che fanno muovere le persone: povertà, violenza, cambiamenti climatici e carestie». È una richiesta precisa che parte dalla società civile ed è rivolta ai cosiddetti grandi del g7. Si tratta di decine e decine di organizzazioni, associazioni, movimenti che si riconoscono nella Global call to action against poverty (Gcap). Per il vertice in svolgimento a Taormina hanno preparato un testo  da lasciare sul tavolo dei leader, firmato Civil 7, il g7 della società civile.

Da tempo queste riunioni sono accompagnate da manifestazioni di protesta, spesso segnate da azioni di frange estremistiche. L’appuntamento di quest’anno nasce oltretutto in un contesto più ampio di insoddisfazione nei confronti della politica e dei partiti tradizionali. Tuttavia, la mobilitazione del Civil 7 non si esprime attraverso gli slogan dell’antipolitica ma con un concreto e costruttivo appello alla responsabilità della politica.

Ciò che si chiede, infatti, è in primo luogo un intervento diretto  su povertà, conflitti, carestie, ovvero di non dimenticare l’Africa e le altre zone da dove partono i flussi migratori. La questione migrazioni, dunque, resta al centro, come è giusto che sia in un vertice ospitato in Sicilia, terra simbolo degli sbarchi dei viaggi della speranza nel Mediterraneo.

Si è a lungo parlato del g7 come del gruppo delle «nazioni sviluppate con la ricchezza nazionale netta più grande al mondo». Ma da tempo non è più così: lo scorso anno, la Cina, seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti, ha ospitato un g20 che ha disegnato nuovi orizzonti. Ma forse per il g7  si può ancora utilizzare un’altra delle definizioni finora consuete: «il gruppo delle maggiori democrazie del mondo». In questo senso, la riunione dei capi di stato e di governo che si ritrovano in Italia deve essere all’altezza di tutti i valori che questa definizione racchiude. E, raccogliendo l’appello forte e chiaro che arriva dal Civil 7, potrebbe scaturire un vertice di rilancio. Anche se, a ben guardare, bisognerebbe concordare sul significato di rilancio.

Gli Stati Uniti,  nei dati ufficiali, hanno superato la crisi economica, ma nel paese è in aumento la povertà estrema. Negli anni settanta, quando nasceva il g7, risultava indigente il 3,3 per cento della popolazione statunitense, mentre oggi  la percentuale è salita al 6,6 per cento. Della crescita del pil si sono avvantaggiati solo i più ricchi.  E ancora oggi, dopo la cosiddetta ripresa, oltre 40 milioni di persone, pur avendo un lavoro, vivono grazie a sussidi statali. Nel Regno Unito,  il gap tra fasce sociali non è mai stato così ampio: l’un per cento più ricco dei britannici  possiede  un patrimonio  venti volte superiore a quello del 20 per cento più povero. Anche per questo in molti paesi del g7 aleggiano tentazioni populiste che parlano dell’immigrazione sempre e solo come di un’emergenza. Il documento dei Civil 7 raccomanda di «ristabilire alcune priorità», ricordando che, ad esempio, in Europa il numero degli immigrati equivale al 2 per cento della popolazione continentale, mentre restano senza lavoro il 22 per cento dei giovani. Tra falsi allarmi e vere frustrazioni, si chiedono idee concrete, per il bene comune.

L’Osservatore Romano, 27 Maggio 2017

Il peso del petrolio

Economia e risorse energetiche sul tavolo dei leader al g7 di Taormina

di Fausta Speranza

Uno dei temi cruciali al g7 di Taormina sarà l’economia e il rilancio dello sviluppo. Sotto questo profilo, la partita geopolitica del petrolio gioca un ruolo chiave. Non è un caso quindi che proprio domani, 25 maggio, si tenga a Vienna la riunione dell’Opec (l’organizzazione che raccoglie i principali paesi esportatori). L’obiettivo è capire se ci sarà una nuova proroga di sei mesi del taglio della produzione oppure se si deciderà di attuare il taglio subito per frenare la corsa a ribasso del greggio. A tre anni dal primo consistente crollo del prezzo del barile, si tratta ora di vedere quali cambiamenti reali stiano avvenendo intorno a quella che è stata negli ultimi decenni la più importante commodity del mercato, che ha cambiato i rapporti economici e geopolitici del mondo.

A giugno 2014 il prezzo del greggio raggiungeva i 106 dollari al barile. Poi è precipitato fino a 30 dollari, riassestandosi successivamente intorno ai 40. Oggi, dopo un leggero rialzo nelle due ultime settimane in vista  della riunione Opec, ristagna intorno ai 50 dollari.

Le conseguenze socio-politiche sono sotto gli occhi di tutti. Basti pensare alla crisi che stanno attraversando paesi come il Venezuela, l’Algeria, la Nigeria e l’Angola, la cui economia si basa sull’esportazione del petrolio. Sotto un certo livello di prezzo, per questi paesi le  spese per  l’estrazione del greggio sono maggiori dei guadagni.

Alle decisioni che verranno prese a Vienna guarderà anche la Russia pur non facendo parte dell’Opec. E perfino  l’Arabia Saudita, che ha le riserve più grandi al mondo e i costi medi di produzione più bassi. Riad ha avvertito il colpo del crollo del prezzo del barile, varando un anno fa un’inconsueta finanziaria con forti ristrettezze.

 Il mercato del greggio paga soprattutto lo sviluppo delle nuove tecniche di estrazione messe a punto negli Stati Uniti. In effetti, da tempo Washington ha scommesso sull’autonomia in campo energetico e ha puntato sulle tecniche di fracking, che consistono nello sgretolare le rocce ed estrarre il petrolio che si ricava, anche se non allo stato liquido. Nonostante il basso costo del greggio che avrebbe dovuto scoraggiare gli investimenti, questo tipo di estrazioni alternative e particolarmente onerose — oltre che dannose per l’ambiente — è cresciuto molto. A ciò si aggiunge il fatto che l’Europa, dal canto suo, si è impegnata a ridurre il consumo di  materie fossili per motivi ambientali, puntando sulle energie rinnovabili.

A compensare la grande domanda di consumo di energia dovrebbe  essere la Cina, in grande espansione industriale, nonché altre nazioni  emergenti dell’Asia. Ma, a conti fatti, questi paesi non hanno inciso in maniera sostanziale. Almeno fino a oggi. L’interrogativo che gli analisti del settore si pongono è se ci sia ancora qualcuno in grado davvero di muovere il prezzo del petrolio. E questo significa domandarsi se il petrolio resta ancora l’oro nero in grado di influenzare gli equilibri geopolitici.

L’Osservatore Romano, 25 Maggio 2017

Riparte da Pechino il libero commercio

Investimenti e impegni dal vertice  sulla  via della seta

di Fausta Speranza

La Cina “custode” della globalizzazione e del libero commercio. È l’immagine che emerge dal summit che ha riunito a Pechino i delegati di oltre cento nazioni, con i vertici di Nazioni Unite, Banca mondiale e  Fondo monetario internazionale. Ventisette dei trenta capi di governo presenti hanno sottoscritto l’appello «contro ogni nuova forma di protezionismo» promosso dal presidente cinese Xi Jinping. Appello legato a doppio filo alla nuova “via della seta”, un progetto che muoverà  ottomila miliardi di dollari, cioè venticinque volte il piano Marshall. Xi ha parlato di «sviluppo aperto» e di «inclusività dall’Asia all’Europa» in controtendenza rispetto alle nuove strette doganali annunciate dagli Stati Uniti. Tuttavia, va detto che a Pechino si è recato il consigliere della Casa Bianca Matt Pottinger il quale ha parlato «con favore» di piani infrastrutturali e di «possibili servizi di grande valore da parte di società statunitensi». 

Più che la cifra degli ottomila miliardi, da record è  l’orizzonte temporale previsto per la realizzazione della nuova “via della seta”: entro il 2020. Anche se il paragone con il piano Marshall voluto dagli Stati Uniti per l’Europa all’indomani della seconda guerra mondiale è azzardato per tutte le differenze del caso, serve comunque a rendere l’idea del notevole impegno economico che ruota attorno alla One belt one road (una cintura, una via). Il progetto prevede investimenti per infrastrutture ferroviarie e portuali dall’Asia centrale all’Europa, passando per Asia del sud e Medio oriente. Decine di progetti si stanno negoziando o sono già stati negoziati, come il caso del porto del Pireo in Grecia. Pechino ha messo sul tavolo 124 miliardi di dollari. Il tutto si muove attraverso uno strumento essenziale: la Asian infrastructure investment bank, nata a Pechino nel 2014.

Il presidente cinese ha proposto «una piattaforma aperta di cooperazione e  un’economia mondiale aperta». E all’universo commerciale che accusa la Cina di non rispettare le norme sul dumping, ha detto che  il mondo deve creare condizioni che promuovano «norme commerciali e d’investimento globali, ragionevoli e trasparenti». In sostanza, sembra di capire si tratti di nuove norme commerciali.

Tra i favorevoli, il cancelliere dello Scacchiere britannico, Philip Hammond: ha dichiarato al vertice che il suo paese  è «un partner naturale», ormai proiettato nel dopo Brexit. Tra i critici, il ministro del commercio australiano, Steven Ciobo, che ha affermato che «accanto alle opportunità sulla via della seta, non si possono dimenticare interessi nazionali da difendere». Xi Jinping ha affermato: «Non interferiremo negli affari interni di altri paesi, non esporteremo il nostro sistema di società e il nostro modello di sviluppo, e ancor di più non vogliamo imporre i nostri punti di vista». Sono proprio queste parole a chiarire che la questione si fa decisamente politica oltre che economica. E tra entusiasmi o perplessità, c’è chi già ha sollevato un preciso problema. È stata l’India, di cui tutti gli analisti hanno notato l’assenza a Pechino. New Delhi non è d’accordo con il progetto del corridoio da 57 miliardi tra la Cina e il Pakistan che passa per il Kashmir. 

Di «prospettive di pace che si aprono» si è detto convinto il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ricordando che «oggi la Cina è il motore dell’economia globale» e che «questo progetto  avvicina  le persone, favorisce non solo lo sviluppo ma anche il bene del mondo». Sempre che «tutti  ne escano vincitori».

A calcolare la cifra degli otto trilioni da mettere in campo entro tre anni è stata la Asian development bank. È  chiaro che non sarà solo il governo cinese a investire. Ciò nonostante, il grosso dell’impegno è pensato da Pechino e spetterà alla Cina, che rappresenta la seconda economia mondiale. Nel primo trimestre di quest’anno ha registrato una crescita del 6,9 per cento. Nonostante che ad aprile l’espansione della produzione industriale abbia rallentato, si potrebbe sempre chiudere il 2017 al 6,5 per cento. Ma c’è chi, proprio dall’interno, avverte su possibili rischi. L’economista Shi Yinhong, esperto di affari internazionali della Renmin University di Pechino, ha scritto che «la Cina deve evitare un eccessivo espansionismo, che  porterebbe a conti  scoperti strategici». La scommessa è per tutti.

L’Osservatore Romano, 17 maggio 2017

Cresce il peso dell’Asia

Nello scacchiere economico internazionale

di Fausta Speranza

Geopolitica e investimenti. Mentre si parla sempre più di globalizzazione da rivedere, di spinte al protezionismo negli Stati Uniti, di nuovi rapporti commerciali da ridisegnare per Europa e Regno Unito,  cresce il progetto della Banca asiatica di investimenti (Asian infrastructure investment bank). Da domani, 12 maggio, sale a 77 il numero dei paesi partecipanti al piano di investimenti promosso da Pechino e legato alla “Nuova via della seta”. Una visione, questa, dalla forte suggestione storica, ma estremamente concreta nei risvolti economici e di politica estera.

Da tempo si discute di riforme degli organismi internazionali usciti da Bretton Woods, cioè la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Ora, con il progetto della Banca asiatica di investimenti cominciano a emergere nuovi equilibri. La  Banca è un’istituzione finanziaria internazionale fondata dalla Repubblica popolare cinese nel 2014 e operativa da gennaio 2016. I paesi fondatori sono i 57 stati che  hanno aderito entro il 31 marzo 2015; tutti gli altri possono avere  solo lo status di  «componenti». Dal 12 maggio alla Banca aderiranno sette nuovi stati. Tra questi, ci sono anche Grecia e Romania. Due giorni dopo, il 14 maggio, Pechino ospiterà il Forum One Belt One Road (Obor) al quale quest’anno  partecipano diversi capi di governo europei, tra cui l’italiano Paolo Gentiloni. Un vertice di cui — secondo gli analisti — ci si occuperà sempre di più, come si fa oggi per il summit economico che ogni anno si tiene a Davos, in Svizzera, dove, peraltro, nel 2016, per la prima volta, prese la parola il presidente cinese Xi Jinping.

Il quadro geopolitico nel quale viene a posizionarsi la Banca asiatica di investimenti è dominato da due pilastri: la Banca mondiale, da sempre sotto l’ombrello degli Stati Uniti, e il Fondo monetario internazionale, che ha sede a Washington ma che, per una sorta di bilanciamento tra paesi occidentali, risponde in modo diretto agli input e alle nomine decisi in sede europea. Questo è stato l’assetto mantenuto finora, in linea con quanto emerso dalla riunione del 1944 a Bretton Woods, che ridisegnava gli equilibri mondiali dopo la seconda guerra mondiale. In tale ambito è nata nel 1966  l’Asian development bank (Asdb) per combattere la povertà e assicurare aiuti ai paesi asiatici più bisognosi. Ma la Asdb è e resta una banca regionale, voluta su iniziativa degli Stati Uniti, del Giappone  e di alcuni paesi europei. Non si tratta di un vero progetto asiatico, pensato e realizzato da una vasta maggioranza di paesi. La Banca asiatica di investimenti per le infrastrutture segna dunque un netto cambio di passo in direzione di una maggiore autonomia.

Per capire il bisogno di rinnovamento degli organismi internazionali conosciuti fino a ora, basta  ricordare che l’Occidente non ha più la stessa indiscussa leadership economica mondiale che aveva alla nascita della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale.  Ci sono poi dei particolari eloquenti. Per esempio, con la nascita dell’euro non si è assicurata una rappresentanza unica ai paesi che hanno aderito alla moneta unica neanche all’interno del Fondo monetario.

Le prospettive  che Pechino apre con il progetto della Banca asiatica si richiamano all’antica via della seta, cioè il percorso delle carovane che un tempo, attraversando l’Asia centrale, collegavano la Cina all’Asia Minore e, attraversando Medio oriente e Vicino oriente, arrivavano al Mediterraneo. Le diramazioni si estendevano poi a est dell’Asia, fino alla Corea e al Giappone, e a sud, in India. La Banca asiatica rafforza questo progetto, coinvolgendo un’area che spazia da Samoa al Bahrain, dal Cile a Cipro, dalla Bolivia all’Azerbaijan, dalla Nuova Zelanda all’Oman, dal Vietnam alla Georgia.

In ogni caso, se si parla di economia e di Cina non si può dimenticare tutto il dibattito intorno alla richiesta di Pechino di ottenere lo status di economia di mercato. La prima formale domanda all’Ue è datata 2003. Ma Bruxelles, esattamente come Washington, non vede riconosciuti tutti i parametri richiesti. In sostanza, il punto focale è che alla Cina viene imputato di non rispettare le regole, in particolare in tema di dumping, cioè concorrenza sleale. Ma già dall’11 dicembre 2001 Pechino è stata ammessa nell’Organizzazione internazionale del commercio (Wto), segnando una sorta di sdoganamento economico, che però la parte cinese non sente  compiuto senza il riconoscimento appunto dello status di economia di mercato.

Al momento, di certo c’è che Pechino sta gestendo con grande slancio il progetto mondiale di investimenti sulla nuova via della seta, e che si tratta di un progetto in grado di determinare nuovi rapporti di partnership nel mondo.

L’Osservatore Romano, 12 maggio 2017