Il terzo Forum mondiale dei popoli indigeni

Rispetto e bene comune

di Fausta Speranza

Lo chiamano «supporto integrale»: è il tipo di aiuto che le comunità indigene chiedono al resto del mondo. «Supporto integrale» significa «non considerare solo gli indici economici» ma tutto ciò che rende migliore una comunità e una società, a partire da «un sano rapporto tra generazioni e dall’attenzione all’ambiente». È questo il principio cardine dei documenti di base del terzo forum mondiale dei popoli indigeni, che si è aperto ieri nella sede del Fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo (Ifad) a Roma. Un incontro che assume un significato particolare a dieci anni dalla dichiarazione dell’Onu sui diritti di questa fetta di popolazione mondiale. E che ha molto da ricordare anche alle civiltà industrializzate.

Quando si parla di indigeni si parla di circa trecento milioni di persone nel mondo. Si va dai cacciatori kazaki con aquile reali, in Mongolia, ai pastori Himba, in Namibia, dagli “uomini di fango” asaro e gli huli, in Papua Nuova Guinea, ai dagon in Mali, dai nomadi nenet, in Siberia, ai bayaka della Repubblica centrafricana meglio conosciuti come pigmei. Il forum di Roma, al quale prendono parte i rappresentanti di trenta popolazioni indigene oltre ai vertici dell’Ifad, rappresenta un appuntamento di grande importanza per fare un bilancio dello stato dei diritti e delle condizioni di vita di queste comunità.

Per redigere i testi in discussione al forum si sono svolti per due anni intensi dibattiti in cinque macro-aree: Pacifico, Asia, Caraibi, America latina, Africa. Non sorprende che sia l’agenzia dell’Onu per lo sviluppo agricolo a promuovere l’incontro, se si pensa che, nella maggior parte dei casi, è la terra la prima risorsa per queste popolazioni. E la terra è, infatti, anche la prima rivendicazione. Basti pensare alle tribù dell’Amazzonia, ma anche agli ogoni della Nigeria, ai maya del Chiapas. In alcuni contesti anche l’acqua diventa un bene di inestimabile valore da gestire. E poi ovviamente le risorse del sottosuolo, minerali, petrolio, pietre preziose.

La vita di questi popoli conosce ritmi da civiltà preindustriali. Bisogna anche ricordare che nel mondo ci sono almeno cento comunità indigene con le quali ancora non si è entrati in contatto.

Nei documenti in discussione in questi giorni si legge che i popoli indigeni pretendono «il rispetto del loro diritto all’accesso alle risorse» e chiedono che debba passare «attraverso il loro consenso» qualunque decisione significativa che governi e multinazionali prendano sui territori che li interessano. Viene in mente il caso dei sioux nello stato del North Dakota, in America settentrionale, che cercano da tempo di bloccare la costruzione di un oleodotto che profana la terra sacra nella quale hanno seppellito per secoli i loro morti e che, attraversando il Missouri, rischia di inquinare le acque che sono la linfa vitale di questa regione. Dopo manifestazioni e scontri anche violenti con la polizia,  il presidente Obama aveva stabilito di sospendere tutto e trovare un percorso alternativo. Poi, nei giorni scorsi, con un ordine esecutivo, il presidente Trump ha ridato il via ai lavori, sollevando altre polemiche.

Il caso dei sioux è emblematico. Dalle discussioni del forum sta emergendo che, da una parte, in molti casi le rivendicazioni degli indigeni restano inascoltate, ma, dall’altra, che queste comunità, spesso distanti tra loro, stanno trovando mezzi e modalità per accrescere la propria consapevolezza e la comunicazione su temi comuni e principi base. Prima di arrivare alla dichiarazione sui diritti delle popolazioni indigene nel 2007, le Nazioni Unite hanno promosso nel dicembre 1994 un decennio internazionale dedicato alle questioni dei popoli indigeni. Nel 2013 si è svolto il primo forum mondiale, nel 2015 il secondo.

In questa edizione del forum si sente parlare di «uno sviluppo dei popoli che non consideri solo il prodotto interno lordo ma la capacità di una comunità di trasferire il sapere da una generazione all’altra». Colpisce anche il concetto di «reciprocità sociale», declinato molto semplicemente come «l’esigenza di profonda solidarietà tra persone e con la natura». Antonella Cordone, responsabile dell’ufficio dedicato ai popoli indigeni dell’Ifad, spiega all’Osservatore Romano che in queste persone così diverse tra loro si ritrova sempre una convinzione radicata profondamente: «La terra e le sue risorse appartengono anche alle generazioni future, non si può farne un uso scellerato». In definitiva, una rivendicazione fondamentale: il bene comune. Non il profitto di grandi aziende o società azionarie, ma il bene del popolo. Non solo di diritti di minoranze si sta parlando, ma di un messaggio rivoluzionario per tutti, così locale e così globale.

L’Osservatore romano, 11 Febbraio 2017