Il restauro del Santo Sepolcro

 

Alla ricerca della roccia

dalla nostra inviata a Gerusalemme Fausta Speranza

È un laico arabo il rappresentante dei francescani della Custodia di Terra Santa che partecipa come supervisore della comunità cristiana dei latini ai lavori di restauro del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Nessuno dei 90 frati, alcuni studiosi di archeologia e storia, che sono a Gerusalemme è stato coinvolto. La proprietà è delle tre confessioni che gestiscono la basilica, greco-ortodossi, latini e armeni, ma i lavori sono in mano ai religiosi greco-ortodossi, che si avvalgono degli esperti dell’università di Atene, guidati da una donna, l’ingegnere Antonia Marapoulou.

Il restauro è iniziato a fine maggio e, al momento, le paratie di copertura lasciano intravedere qualcosa della prima fase dei lavori, quella di smantellamento delle lastre di marmo che rivestono l’edicola. L’edicola ripropone nella sua composizione le tombe del tempo di Gesù, formate da un vestibolo, in cui si ungeva il corpo e lo si deponeva nel sudario, e dalla camera sepolcrale.

Il punto è che, dal momento che le lastre di marmo sono rovinate e vanno rimosse, è di grande interesse verificare che cosa possa emergere dalla roccia originaria che si immagina possa essere conservata sotto le sovrapposizioni del tempo. Tradisce emozione, pensando a questo, padre Eugenio Alliata, archeologo di grande competenza, direttore dell’Istituto Studium Biblicum Francescanum, che ha sede nel convento della flagellazione, uno dei nove conventi francescani a Gerusalemme. Lo incontriamo tra i reperti storici, capitelli e frammenti di colonne, che stanno nel giardino del convento, posizionato sulla via Dolorosa.

Padre Alliata racconta all’«Osservatore Romano» che non è stato coinvolto in nessun modo nei lavori e che non vuole essere indiscreto, anche se ci confessa di avere il cuore lì, dove si scalpella. I francescani della Custodia hanno accettato che fosse un laico a rappresentarli nella supervisione, per facilitare una procedura che stentava a partire.

Ora si lavora alla rimozione delle lastre di marmo, danneggiate in diverso modo dall’afflusso dei pellegrini negli anni, in particolare dalle candele accese senza sosta. E si procede di notte, per non impedire l’accesso ai fedeli. Poi, sarà la volta della pulitura dei materiali, che svolgendosi in altri ambienti, si potrà fare di giorno, senza disturbare le visite. Sappiamo che parte del laboratorio di restauro sarà nella galleria superiore dei latini.

Marapoulou assicura, dunque, che la basilica non sarà mai chiusa durante i lavori, che dovrebbero durare circa un anno e che al momento vedono impegnati 27 architetti ed esperti. Ma, nel complesso, coinvolgono 70 persone. Secondo l’ingegnere, sarà una fase molto delicata anche quella di consolidamento della muratura di epoca crociata, che «richiederà la riparazione con materiali coerenti con quelli antichi».

Ma bisogna capire di quale antichità parliamo. La storia del Santo Sepolcro è sui libri, ma abbiamo il privilegio di sentirla riassunta da padre Alliata che, con francescana semplicità, ci spiega termini particolari e sintetizza passaggi storici complessi. Tradisce l’attesa di sapere cosa si potrà conoscere di più di quello che le ultime generazioni hanno visto. Bisogna ricordare che nel 1009 l’autorità islamica dell’epoca fece distruggere la struttura che l’imperatore Costantino aveva fatto costruire per proteggere la pietra su cui era stato adagiato il corpo di Gesù per essere lavato e quanto rimaneva del sepolcro dove era stato deposto il corpo, prima della Risurrezione. La distruzione voluta dal califfo è stata radicale. Su quello scempio, su possibili resti della pietra originaria, sono intervenuti, con le loro costruzioni, i bizantini, i crociati. Con strutture, ornamenti e iscrizioni latine. Tutto ciò formava cupola ed edicola che sono state travolte dal disastro avvenuto in epoca napoleonica. Parliamo dell’incendio che si è sprigionato nel 1808 dalle camere dei religiosi armeni e che è divampato nella basilica, facendo crollare la cupola e danneggiando seriamente l’edicola. Il tetto della rotonda, infatti, è sprofondato sull’edicola distruggendo la sommità e il rivestimento in marmo e calcare. Fino al 1868 sono stati fatti lavori di restauro. Nel 1810 vennero affidati ai greco-ortodossi dalle autorità civili del momento, che facevano capo al Sultano prima del mandato britannico su questi territori assunto dopo la prima guerra mondiale. I greco-ortodossi, dunque, hanno gestito il restauro, che ha significato la rimozione delle scritte latine e l’inserimento degli elementi del barocco costantinopolitano che si presentano oggi.

Le domande storico-archeologiche sono presto dette. Ci si chiede quanto delle mura antiche costantiniane possa essere conservato, in termini di frammenti, dietro a quello che finora è stato visibile. E anche cosa potrebbe esserci conservato delle icone precedenti. Ma la domanda ancora più importante è quanto potrà essere ritrovato della roccia originale. Cosa di significativo per i credenti potrebbe emergere da quello che quelle mura conservavano. Padre Alliata ci spiega che nel 1009, secondo testimonianze più che attendibili, la costruzione che proteggeva i resti originali della tomba di Cristo lasciava intravedere tali resti, così come i segni dei cavatori, riportati da modelli copiati.

Ci sono, poi, le domande che potrebbero essere definite a carattere logistico. Padre Alliata ci dice quelle che ha nel cuore. Ci confida di chiedersi «come tutto ciò che potrà emergere sarà davvero ben studiato e documentato, come potrà essere conservato e se saranno pensate e allestite delle specie di finestrelle per rendere visibili parti di pietra che emergeranno dietro le lastre di marmo». Le lastre, è stato spiegato, saranno ripulite e riposizionate.

Padre Alliata ci ricorda che l’anno scorso la basilica del Santo Sepolcro è stata chiusa un giorno, in seguito alla caduta di un pezzo di cornicione dell’edicola. Da allora, secondo le norme vigenti, le tre comunità, greco-ortodossi, latini e armeni, hanno avuto un tempo per accordarsi sulle modalità di gestione dei restauri, prima che, in assenza di un’intesa, la gestione stessa passasse alle autorità civili, come previsto per motivi di emergenza. Padre Alliata sottolinea l’importanza di aver trovato in qualche modo l’accordo, anche a costo di qualche rinuncia, perché solo l’accordo poteva lasciare all’interno delle comunità proprietarie del Santo Sepolcro la gestione della cura, anche in termini di restauro, di qualcosa di così tanto caro alla cristianità.

Osservatore Romano 24 Giugno 2016