Una nuova Rai. Ma quale?

di Fausta Speranza

Tappa dopo tappa, all’interno della RAI, l’annunciata marcia verso il nuovo si fa sentire. Di mercoledì in mercoledì, nelle riunioni settimanali del Consiglio di Amministrazione si ridisegna l’assetto aziendale e la programmazione TV; si parla di equilibrio tra costi e ricavi, di qualità dei prodotti e di spazio anche per la cultura. Siamo di fronte alla prospettiva reale di un rinnovamento del servizio pubblico radiotelevisivo? Tale rinnovamento può farci sperare in un miglioramento del livello della produzione generale della radio e della TV?

“Le premesse per una volta all’interno della RAI sono state poste con la nomina a presidente di Claudio Dematté, a direttore generale di Gianni Locatelli e con la scelta degli altri consiglieri di Amministrazione”.

E’ l’opinione di Giulio Carminati, responsabile della direzione Indagini Qualitative del Servizio Opinioni della RAI, il quale sottolinea le competenze che i nuovi arrivati possono vantare ma soprattutto il comune senso etico di Dematté e di Locatelli. Tale senso etico sembra aver ispirato tra l’altro la decisione di licenziare alcuni dipendenti che da tempo erano in vertenza con l’azienda a causa di comportamenti scorretti ma soprattutto le nuove disposizioni consegnate, in forma di fascicoli, sulle scrivanie dei responsabili delle varie reti di informazione. Vi si legge che il giornalista non può essere servo di due padroni. Non può tenere, cioè, altri incarichi che possano compromettere l’obiettività del suo lavoro.

Un solo esempio: non si può curare l’ufficio stampa di un politico nel momento in cui si è impegnati a raccontare la realtà politica alla gente. In linea con tali prese di posizione risulta la discussione sul ripristino, accanto al sistema Auditel, dell’Indice di gradimento, rinnegato ormai da sette anni ma riscoperto perché in grado di verificare il giudizio del pubblico su un dato programma. È significativa la differenza con l’Auditel che indica solo il numero di televisori sintonizzati su una rete ad un certo orario. “Non possiamo continuare a trascurare l’ascolto senza curarci della qualità del prodotto da offrire all’utente”, sottolinea Giulio Carminati. Non sembrano solo promesse, dal momento che, prima ancora di definire il nuovo sistema dell’indice di gradimento, si è deciso, di un fatidico mercoledì, che ogni rete trasmetta in un giorno della settimana un programma di tipo culturale. Si tratta della volontà di rispettare un’esigenza espressa da molti ma che il sistema Auditel per sua natura non poteva rilevare. Tutte queste scelte già compiute, insieme con i propositi e le promesse, non possono non rallegrare l’utente, il quale, però, rimane diffidente anche solo per i problemi economici in
cui naviga la RAI. Viene spontaneo, infatti, chiedersi come farà il servizio pubblico a migliorare la qualità dei suoi prodotti in tempo di crisi se non lo ha fatto prima, quando le finanze, ma forse solo apparentemente, erano più salde. Si può sperare nell’opera di razionalizzazione dell’organizzazione interna, pianificata dal nuovo vertice, al fine di ricostituir.e le necessarie risorse finanziarie per la produzione di programmi. Il problema, comunque sussiste, riconosce Carminati, “la RAI è gravata da una serie di pesi notevoli, frutto purtroppo di una lottizzazione politica che ha massacrato in questi anni non solo l’organizzazione aziendale ma anche una serie di risorse professionali all’interno dell’azienda”. D’altra parte l’obiettivo di una nuova programmazione di qualità è veramente importante. La posta in gioco è alta se consideriamo che “siamo un paese colonizzato sempre di più, dal punto di vista televisivo, dalle grandi multinazionali che producono audiovisivi ma soprattutto programmi per la televisione” . Non ci si può arrendere di fronte a questo processo di perdita di identità nazionale, “la nuova RAI che sta nascendo dovrà assumere una posizione di leadership per il rilancio dell’intero comparto audiovisivo italiano ma soprattutto per il rilancio dell’industria cultura italiana”. Non si tratta di difendere solo un’identità nazionale, sottolinea ancora Carminati, ma di difendere valori culturali “attaccati frontalmente da un certo modello di televisione basata solo sull’iperconsumismo”. In definitiva, “un rilancio della RAI’ che tenga conto non solo degli aspetti quantitativi dell’ascolto ma soprattutto degli aspetti qualitativi dei programmi radiotelevisivi, è una necessità improrogabile”. Ma perché l’ascolto ha condizionato tanto la qualità dei rogrammi?

 La risposta è nel ruolo della pubblicità. Chi non la ama può pensare che il suo danno risieda nell’infastidire con l’interruzione la visione di un programma, chi la ama può considerarla un diversivo piacevole. Entrambi rischiano di trascurare il ruolo più importante della pubblicità all’interno del palinsesto, cioè della disposizione dei programmi. I signori della pubblicità, infatti, pagano la rete che manda in onda i loro spot e il prezzo è più alto se viene assicurata la messa in onda durante un programma con un più alto numero di ascoltatori.
Non si tratta solo di leggi di mercato ma di un meccanismo che si è venuto a innescare per la scelta dei programmi, basata spesso non sulla qualità o sull’assortimento di temi ma sulla capacità di catturare l’attenzione di molti. Oltre a mortificare la possibilità di scelta in prima serata, tale processo ha innescato una corsa alla caduta verso il basso della qualità dei prodotti. Spiega questo processo, Adriano Zanacchi,docente di teoria e tecniche della pubblicità presso l’lscos, l’Istituto di Scienze della Comunicazione Sociale dell’Ateneo Salesiano di Roma. Sul peso che la realtà della pubblicità ha all’interno dell’universo radiotelevisivo sono tutti d’accordo; basti pensare che l’ultimo decreto in materia di radio e TV, approvato dal governo l’agosto
scorso anche se non ancora convertito in legge, parla tra l’altro di obblighi meno gravosi per i soggetti che si impegnino a non fare più di tre minuti di pubblicità all’ora, propone assenza di pubblicità nelle TV a pagamento. Dunque, una centralità indiscussa anche per il legislatore. Ma qual’è il reale quadro normativo in tema di spot? Così come per altri aspetti dell’universo dei mass media, le novità nelle normative degli ultimi anni sono state sollecitate dalla necessità di adeguarsi alla direttiva in materia emanata dalla Comunità Europea nel 1989.
La legge Mammì dell’agosto 1990 ha recepito tali principi ma, secondo Adriano Zanacchi, si tratta di “un adeguamento solo formale perché i principi vengono in realtà traditi”.
La colpa è della “debolezza del documento legislativo italiano”. Non dà, la possibilità di iniziativa, per l’applicazione di queste norme, all’organo pubblico incaricato, il quale agisce solo su segnalazioni, su denunce ma non si muove di istituto, di iniziativa propria. Le sanzioni, inoltre, sono molto modeste.
L’organo incaricato, dopo un’istruttoria che non è breve, si limita a decretare che la pubblicità non può essere più diffusa e spesso lo fa quando la pubblicità è già conclusa. È persino inutile dire che la pubblicità negativa reca danno mentre è in corso. L’adeguamento solo formale alle norme CEE è verificabile in relazione alle norme sui contenuti ma, per quanto riguarda radio e TV, anche in relazione alle norme sulla quantità. “Radio e TV grondano di pubblicità”, afferma Zanacchi, puntualizzando che il problema della quantità è meno grave della questione del ruolo che i signori della pubblicità rivestono nella decisiion dei palinsesti, ruolo di cui parlavamo prima. In definitiva, “la pubblicità non deve essere considerata un nemico della televisione o della cultura, ma bisogna ricordare che la fonte degli inconvenienti è la mancanza di regole accettabili, che in primo luogo rispettino i destinatari della comunicazione”.

In Europa che cosa succede? La degradazione del livello di radio e TV, che in Italia si vuole combattere è una realtà altrettanto pesante? Purtroppo, l’Europa segue il cammino intrapreso dall’Italia. Conosce una crescente ommercializzazione della televisione che coinvolge anche i servizi pubblici. Un po’ diverso è in Inghilterra perché la BBC, cioè il servizio pubblico inglese, non trasmette pubblicità, ma soprattutto perché in Inghilterra esiste un sistema misto di pubblico e privato ben regolamentato che serve a distinguere e ad assicurare vari livelli di produzione. Dunque, le norme servono e non è una novità, così come è scontato che sia necessaria anche la loro corretta applicazione. Ma per il mondo radiotelevisivo in Italia quali sono le principali tappe normative degli ultimi anni?

Dopo l’entrata in vigore della legge Mammì nell’agosto 1990 c’è stato un periodo di stagnazione, poi, verso la fine del 1992 e soprattutto durante l’anno in corso sono stati presi in considerazione nuclei normativi nuovi che in parte modificano la legge Mammì e in parte regolano aspetti non contemplati dalla legge stessa.In alcuni casi, sul riesame delle normative ha pesato anche l’appuntamento del ’93 con l’Europa Unita. Il dovere di adeguamento alle normative CEE ha sollecitato, ad esempio, la riflessione sul tema delle sponsorizzazioni, televendite, telepromozioni e anche sulla questione delle Pay TV.

“Non si tratta ancora di un mutamento del vecchio sistema ma di correttivi, aggiustamenti, che incidono entro certi limiti”, spiega Giuseppe Santaniello, Garante per la Radiodiffusione e l’Editoria. Ricordando, poi, altri provvedimenti che devono essere portati a compimento, sottolinea i limiti principali di quello che chiama il vecchio sistema. Il punto principale riguarda la posizione dei soggetti che operano nel settore radiotelevisivo. “La legge del ’90 ha sancito e cristallizzato il duopolio RAI-FINIVEST, determinando un sistema bloccato nel quale è difficile fare entrare altri soggetti, altri competitori, altri esponenti di nuove voci nel campo della radiofonia e della televisione. Bisogna sbloccare questo sistema, consentendo l’ingresso di nuovi operatori, di nuovi gruppi economici e imprenditoriali” .

Altra questione importante, riguarda il numero massimo di reti da concedere a ciascun soggetto, sia pubblico che privato. Nella maggior parte delle opinioni si registra un atteggiamento critico nei confronti di un sistema che consente tre reti ad ogni soggetto, per un umero complessivo di dodici reti.

 È critico anche il Garante per la Radiodiffusione e l’Editoria. “Dodici reti complessive sono troppe, in confronto con altri sistemi avanzati come quello vigente in Francia, in Gran Bretagna, dove si accorda una rete a ciascun soggetto e solo in casi limite si arriva a due reti”. Un terzo punto sul quale il legislatore deve tornare, aggiunge Santaniello, riguarda l’innovazione tecnologica. Un altro limite, infatti, della legge Mammì è di disciplinare la trasmissione via etere senza contemplare altre forme più progredite e ormai più convenienti, quali la rete cablata, il satellite, le Pay TV.

D’altra parte, Santaniello sottolinea che la ridefinizione di questi punti dovrebbe avvenire all’interno di una nuova normativa globale organica e precisa.

Ci sembra di capire, in definitiva, che l’utente ben disposto a sperare in un futuro radiotelevisivo migliore è chiamato a riporre le proprie speranze nel rinnovamento del servizio pubblico e nella formazione di una legge organica complessiva.

pubblicato nel mese di ottobre sulla rivista ARMONIE anni verdi