I “caschi blu della sanità” preparano il summit di settembre

L’obiettivo di una copertura sanitaria globale in discussione all’Assemblea generale

Se i Paesi ad alto reddito spendono circa 270 dollari pro-capite per la salute dei propri cittadini, quelli più poveri non arrivano a 20, lasciando milioni di persone senza alcuna copertura sanitaria. È il preoccupante dato che fa pensare che siamo ancora lontani dal raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdgs), che prevedono la copertura sanitaria globale minima per tutti. Per questo, il 23 settembre, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, i capi di stato e di governo si riuniranno per un High level Meeting sulla Copertura sanitaria universale (Universal Health Coverage), dopo mesi di preparazione portati avanti dagli esperti.

A New York in queste settimane si lavora: dopo una prima fase di elaborazione dei contenuti, in cui le diverse agenzie delle Nazioni Unite si sono occupate degli argomenti a loro più congeniali — con una supervisione generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) — si è aperto un periodo di consultazione pubblica, che si è chiuso a inizio luglio, per favorire la partecipazione della società civile e dei governi al processo. Il piano è ora sotto esame per poter essere presentato all’Assemblea tra poco più di un mese.

A poco più di dieci anni dallo scadere dell’Agenda 2030, le Nazioni Unite hanno deciso di mettere il tema al centro del dibattito di quest’anno e provare a mobilitare i cittadini a chiedere ai loro governi di investire adeguatamente sui servizi sanitari. I dati dell’Oms ci dicono che metà della popolazione mondiale può contare solo sul cinque per cento della spesa sanitaria globale, mentre appena nove dei 49 Paesi a basso reddito possono garantire ai propri cittadini servizi sanitari essenziali.

Sul tavolo di esperti e politici a settembre ci sarà un Global action plan: nelle ambizioni, non solo l’analisi, ma il piano di azione vuole essere globale. Implica, come abbiamo detto, che siano coinvolte tutte le agenzie specializzate dell’Onu, ma soprattutto significa che l’obiettivo è una copertura sanitaria globale. A ottobre 2018, su impulso dei governi di Germania, Norvegia e Ghana, 12 delle principali agenzie specializzate delle Nazioni Unite, inclusa l’Oms, la Banca mondiale e l’Unicef, hanno concordato una road map per massimizzare le convergenze e favorire l’efficienza degli interventi. Riconoscendo la grande distanza da colmare per raggiungere l’ambizioso obiettivo di sviluppo (Sdg3) sulla salute, queste organizzazioni hanno identificato sette principali tematiche su cui “accelerare”. Non è un caso che nella terminologia di lavoro inglese siano definite proprio «accelerators».

Le sette tematiche in questione coprono macroaeree, come il sistema di finanziamento per la salute, o argomenti più tecnici, come la ricerca per favorire l’innovazione e la produzione di nuovi farmaci. Hanno come filo rosso la necessità di semplificare la macchina burocratica internazionale per essere più rapidi e attrezzati a supportare i governi e la popolazione. L’efficacia e l’impatto del piano andranno di pari passo con la volontà politica, non solo delle Agenzie, ma di tutta la comunità internazionale, di cambiare finalmente un sistema che non sembra più «fit for purpose», come si legge nei documenti, cioè adeguarsi ai fenomeni in evoluzione. Basti pensare alla difficoltà dell’Oms nel contrastare la nuova crisi dell’ebola nella Repubblica Democratica del Congo.

Da parte sua, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha stilato una lista che raccoglie i dieci problemi legati alla salute a livello mondiale che richiedono un’attenzione speciale da parte della comunità internazionale e dei singoli Paesi.

Al primo posto si parla di inquinamento atmosferico. Nove persone su dieci respirano aria inquinata ogni giorno. In particolare, quest’anno è considerato dall’Oms il maggior rischio ambientale per la salute. Gli inquinanti microscopici nell’aria possono penetrare nei sistemi respiratorio e circolatorio, danneggiando i polmoni, il cuore e il cervello, uccidendo sette milioni di persone prematuramente ogni anno da malattie come cancro, ictus, malattie cardiache e polmonari. Circa il 90 per cento di questi decessi avviene in Paesi a basso e medio reddito, con elevati volumi di emissioni da industria, trasporti e agricoltura, oltre a fornelli e combustibili sporchi nelle case. La causa principale dell’inquinamento atmosferico da combustione di combustibili fossili è anche uno dei principali fattori che contribuiscono ai cambiamenti climatici, che hanno a loro volta impatto sulla salute delle persone in diversi modi. Tra il 2030 e il 2050, si prevede che causeranno 250.000 decessi aggiuntivi all’anno, a causa di malnutrizione, malaria, diarrea e stress da calore. Nell’ottobre 2018, l’Oms ha tenuto la sua prima conferenza mondiale sull’inquinamento atmosferico e la salute a Ginevra. Paesi e organizzazioni hanno assunto oltre 70 impegni per migliorare la qualità dell’aria. Il vertice di settembre traccerà un bilancio.

Il secondo capitolo comprende le patologie non trasmissibili, come il diabete, il cancro e le malattie cardiache, che sono responsabili di oltre il 70 per cento di tutti i decessi nel mondo per malattie. Ciò include 15 milioni di persone che muoiono prematuramente, di età compresa tra 30 e 69 anni. Oltre l’85 per cento di questi decessi prematuri è nei Paesi a basso e medio reddito. L’aumento di queste malattie è stato guidato da cinque principali fattori di rischio: uso del tabacco, inattività fisica, uso dannoso di alcol, diete malsane e inquinamento dell’aria. Questi fattori di rischio esacerbano anche i problemi di salute mentale, che possono avere origine in tenera età: la metà di tutte le malattie mentali inizia all’età di 14 anni, ma la maggior parte dei casi non viene rilevata e non curata. In discussione arriva tra tanti un dato particolarmente drammatico: il suicidio è la seconda causa di morte tra i 15-19 anni.

C’è poi un tema per il quale conta più di tutto la prevenzione. Gli esperti sanno che il mondo dovrà affrontare un’altra pandemia di influenza: l’unica cosa che non sanno è quando colpirà e quanto sarà grave. Il punto è che difese globali sono efficaci solo quanto l’anello più debole nel sistema di preparazione e risposta alle emergenze sanitarie di qualsiasi Paese. La parola d’ordine nei documenti è monitoraggio: l’Oms monitora costantemente la circolazione dei virus dell’influenza per rilevare potenziali ceppi di pandemia: 153 istituzioni in 114 Paesi sono coinvolte nella sorveglianza e nelle risposte globali. A settembre si farà il punto anche su questo. Ampio spazio poi viene dedicato alle emergenze per ebola e per dengue, che non si riesce a superare.

C’è anche la sfida di “rincorrere” l’evoluzione degli agenti patogeni e dei farmaci. Lo sviluppo di antibiotici, antivirali e antimalarici è uno dei maggiori successi della medicina moderna. Ora, praticamente il tempo con questi farmaci sta per scadere. La resistenza antimicrobica — la capacità di batteri, parassiti, virus e funghi di resistere a questi medicinali — minaccia di rimandarci indietro nel tempo in cui non eravamo in grado di trattare facilmente infezioni come polmonite, tubercolosi, gonorrea e salmonellosi.

La questione vaccini è fondamentale e perfino aggravata: non c’è più solo il problema di raggiungere persone in aree isolate o di conflitto, ma c’è anche quello di contrastare le resistenze psicologiche in Paesi ricchi: nell’ordine del giorno della riunione di settembre compare l’urgenza di una strategia per diffondere meglio i dati degli studi scientifici che attestano che la vaccinazione attualmente previene 2-3 milioni di decessi all’anno e altri 1,5 milioni potrebbero essere evitati se la copertura globale migliorasse.

Dopo tante considerazioni specialistiche, nei documenti colpisce una raccomandazione: la priorità deve essere l’assistenza sanitaria di base che rappresenta il primo step per qualunque intervento. E purtroppo proprio qui emerge il primo vulnus: molti Paesi non dispongono di adeguate strutture sanitarie primarie.

L’Osservatore Romano, 10 agosto 2019

Visti umanitari: a Rv intervista alla Kyenge

Parlamento Europeo – REUTERS

Basta viaggi della morte, grazie a visti umanitari: è una delle proposte dell’Europarlamento che, con la Risoluzione al voto martedì 12, può segnare un’indicazione in controtendenza rispetto alle recenti chiusure in tema di migrazioni. Gli eurodeputati, che rappresentano i cittadini, presentano un testo che va oltre le indicazioni della Commissione Europea e che chiede chiaramente vie concrete di solidarietà e responsabilità condivisa, in base a principi previsti dai Trattati europei ma inattuati. Delle varie proposte concrete contenute nella Risoluzione,Fausta Speranza ha parlato con l’eurodeputata relatrice Cecile Kyenge, che spiega innanzitutto l’iniziativa del visto umanitario:

R. – Dare la possibilità alle persone di fare la richiesta di asilo direttamente nei Paesi dove si trovano, nelle ambasciate o nei consolati, per poi essere trasferite in un secondo momento nei Paesi di destinazione e arrivo, dove continueranno con tutte le pratiche relative all’asilo. Incominciare, quindi, a fare la richiesta nei Paesi fuori dall’Unione Europea: quelli che noi chiamiamo “corridoi umanitari”, per evitare di farli salire sui barconi della morte.
D. – Canali legali di immigrazione…
R. – Sì, per quanto riguarda l’asilo, per i profughi, questa sarebbe una forma già legale di immigrazione. Però parliamo anche delle vie legali in relazione all’immigrazione economica: ossia di rivedere le politiche di integrazione a livello europeo, che sono molto frammentate, e anche alcune Direttive. Per ora si sta affrontando il tema della “Blue Card” – la “Carta Blu” – la Direttiva europea che regola l’immigrazione altamente qualificata. Allora noi abbiamo chiesto di essere abbastanza ambiziosi e di non limitarci semplicemente ad una piccola categoria, che ha un impatto molto lieve sull’economia e sui lavoratori, e cioè di allargare la prospettiva  adattandosi anche ai nuovi bisogni del mercato, e quindi andando oltre l’immigrazione qualificata e guardando anche a altre necessità e altre classi.
D. – In ogni caso, bisogna combattere il traffico indegno degli esseri umani…
R. – Sì, bisogna togliere le persone dalle mani dei trafficanti. Vuol dire guardare a tutte le vulnerabilità, soprattutto quelle relative alle donne, che viaggiano con la famiglia, con i loro bambini, e che sono le più deboli. Molte di loro, poi, durante i percorsi subiscono stupri, vengono violentate. Molte volte arrivano che sono incinta. Ma noi non sempre ci chiediamo il perché siano in quello stato. Loro non riescono a parlare. Invece è compito nostro capire quali sono le cause, e perché sono arrivate in quello stato: anche questo significa lottare contro il traffico di esseri umani.
D. – Nell’emergenza, l’Europa in qualche modo ha aperto le porte, ma poi la percezione è che abbia richiuso le frontiere e abbia affidato alla Turchia, con l’accordo, il compito di fare un po’ il lavoro “sporco”, cioè di gestire i confini: è brutta l’espressione, ma nella percezione c’è chiusura. Questo Rapporto va davvero in controtendenza?
R. – È in controtendenza. Devo dire che la linea del Parlamento europeo è sempre stata quella di dire che la chiusura delle frontiere non è la soluzione. L’accordo con la Turchia è stato criticato, ma proprio per questo si è contribuito a migliorarlo. È chiaro che la Turchia è un partner fondamentale per risolvere questa crisi e questa  emergenza che stiamo vivendo attualmente con i profughi, ma non ad ogni costo. E abbiamo chiesto questo: rispettare i diritti della persona; attenersi alla Convenzione internazionale sullo status dei rifugiati. C’è quindi il divieto dei rimpatri di massa, ma bisogna guardare alle situazioni caso per caso, nel rispetto della persona, come richiesto dalla Convenzione di Ginevra.
D. – “Solidarietà”: una parola che nei Trattati europei ha ampio spazio. In questo Rapporto il termine torna spesso…
R. – Sì, è al primo punto: abbiamo iniziato in questa Risoluzione citando la solidarietà e l’equa ripartizione delle responsabilità. Devo dire che tutto è stato messo in moto  dal primo viaggio del Papa, a Lampedusa. Non solo l’Italia, ma l’Europa e il mondo intero, avevano perso un po’ di vista la maniera in cui potevano essere elaborate le politiche; Papa Francesco a Lampedusa, con un gesto molto semplice, andò a rendere omaggio ai morti in mare, buttò fiori nel mare. Da lì, è cambiato tutto: abbiamo cominciato a parlare di “persone” e non più di invisibili. Lo scopo era farci capire come si fanno le leggi mettendo dentro quest’ultime anche gli aspetti umanitari e i nostri valori. La parola solidarietà è quella che è alla base poi dello sviluppo, che significherebbe sicurezza per tutti. Il Papa ha iniziato a Lampedusa, e oggi lo ritroviamo a Lesbo. “L’Osservatore Romano” ha chiamato l’isola la “Lampedusa dell’Egeo”: capiamo che è un percorso in cui tornano grandissimi messaggi di umanità. Sull’isola di Lesbo ci sono stata  e so benissimo la situazione che si vive lì. Ringrazio il Papa proprio per questo, perché è l’unica persona in questo momento in grado e capace di cambiare le cose.
D. – Un abbraccio umano quello del Papa, che si fa però appello alla politica, soprattutto all’assunzione di responsabilità…
R. – Esattamente, proprio questo. Di carte e convenzioni internazionali ne abbiamo scritte tante, ma l’importante è applicarle. È ciò che ci sta facendo vedere Papa Francesco. Politicamente, come Europa dobbiamo fare di più e questa Risoluzione è un tentativo concreto. Poi, vorrei vedere un’azione molto più forte da parte dell’Onu. E’ essenziale uscire da questa “fabbrica della paura”, accompagnare un cambiamento culturale e allontanare un linguaggio di odio da parte di molti populisti. Sono anni che continuo a denunciare l’importanza del linguaggio, delle parole: dobbiamo andare verso un discorso chiaro, trasparente, e soprattutto rispettoso dell’altro.

In vigore accordo Ue-Kosovo: sviluppi su migranti e antiterrorismo

Primo ministro del Kossovo – AFP

Una grande scommessa geopolitica per la stabilizzazione dell’area tra Europa e Medio Oriente: questo rappresenta l’Accordo di stabilizzazione e di associazione (Asa) tra l’Unione Europea e il Kosovo, entrato in vigore il primo aprile. Significa nuove opportunità di investimenti e crescita ma soprattutto il consolidamento del percorso di riforme avviato da questa regione balcanica a maggioranza albanese e musulmana autoproclamatasi indipendente dalla Serbia nel 2008, ma non riconosciuta come Stato sovrano da oltre 80 Paesi dell’Onu. Fausta Speranza ha intervistato Giandomenico Caggiano, docente di Diritto dell’Unione Europea all’Università Roma Tre:

R. – L’importanza politica è straordinaria, perché la situazione è particolarmente critica da tanti punti di vista; ma soprattutto data la necessità di controllare il flusso migratorio e poi alla luce degli altri aspetti che caratterizzano la crisi. Dal punto di vista giuridico, l’accordo rappresenta un insieme di obblighi che progressivamente riducono il gap tra la struttura ‘statale’ del Paese che viene “associato” e il principio dello stato di diritto, le condizioni della democrazia che caratterizzano l’appartenenza all’Unione Europea.
D. – Diritti e obblighi reciproci, ma anche opportunità…
R. – Sì, le opportunità sono a medio termine. Dal punto di vista economico, i dazi doganali cadono ed è più facile la circolazione delle persone. Ma è evidente che non sono i vantaggi economici a giustificare l’importanza dell’accordo, quanto il fatto che evidentemente la Serbia ha rimosso il suo veto, consentendo a Romania, Grecia e Spagna – Paesi dell’Unione Europea che non avevano riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, in tutto sono 5 (con Slovacchia e Cipro, ndr) – di procedere. E in cambio la Serbia ha avuto l’accesso allo status di “Paese candidato all’ingresso nell’Unione Europea”. Non mi sento di esaltare gli immediati aspetti economici di questo accordo, ma piuttosto quelli di carattere politico e, in particolare, quelli relativi ad eventuali flussi migratori che avrebbero potuto deviare verso il Kosovo. E poi comunque deve essere ricordato che il Kosovo è un Paese a quasi totale presenza di popolazione islamica, ancorché ci siano dei monumenti e delle chiese ortodosse. Insomma, questa presenza in maniera ordinata e coordinata con l’Unione Europea esclude o comunque riduce il rischio che vi siano attacchi. La stampa dice anche che ci sono alcune zone del territorio del Kosovo dove vi sono delle forme di jihadismo che occupano militarmente parti del territorio. Ma se questo fosse vero, l’accordo accresce comunque la possibilità di sostegno alla Repubblica indipendente del Kosovo.
D. – Come si è arrivati a questo accordo?
R. – Ci si è arrivati in un momento in cui la situazione, dal punto di vista del diritto internazionale, era piuttosto confusa, perché molti Stati non riconoscevano l’indipendenza del Kosovo: ci fu una vera e propria spaccatura, ancorché la Corte internazionale dell’Aja avesse detto che la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo non infrangeva il diritto internazionale. In questa fase così complicata, senza un accordo specifico, ha operato in Kosovo una missione chiamata “Eulex”, che ha aiutato le autorità a combattere la corruzione, a organizzare gli appalti, e soprattutto ad accrescere il controllo degli atti a livello giudiziario: questo con un certo numero di magistrati italiani. Quindi, questo è il riconoscimento che il Kosovo non parte da zero, come era nel 2008, in un isolamento internazionale e rispetto alla Serbia. Il Paese ha già compiuto una parte del processo di democratizzazione che adesso sarà perseguito in maniera più intensa sotto il controllo della Commissione europea e degli organi di associazione, creati per un controllo sui singoli dossier che comprendono l’integrazione tra l’Unione Europea e il Kosovo, piccola, ma importante realtà politica.

Via libera ai treni in Danimarca. Militari ungheresi al confine serbo

Migranti ai treni – REUTERS

Questione migranti in Europa. Sono ripresi i collegamenti ferroviari con la Danimarca dopo il blocco nella notte del passaggio di migranti dalla Germania. Da parte sua,  l’Ungheria fa sapere che l’esercito ha cominciato operazioni militari per preparare i propri effettivi a una stretta sorveglianza della frontiera meridionale con la Serbia. Nei giorni scorsi lo aveva annunciato il premier Viktor Orban. Intanto il Parlamento Europeo ha approvato il piano della Commissione Europea. Il servizio di Fausta Speranza:

Si’ dell’Europarlamento a larga maggioranza al nuovo piano vincolante di ricollocazione dei richiedenti asilo proposto dalla Commissione. Lunedì il piano sarà sul tavolo dei Ministri degli Interni dei 28. Juncker, dopo che da luglio si discute di circa 40.000 ricollocamenti tra i profughi arrivati in Italia e Grecia, ha aggiornato la cifra a 160.000 persone da accogliere sul territorio europeo, dopo l’esplosione sulla rotta balcanica e gli arrivi in Ungheria, Germania, Austria. Ma al ricollocamento si oppongono i 4 Paesi del gruppo di Visegrad: Polonia, Ungheria, Slovacchia,  Repubblica Ceca, che vorrebbero contribuire in modo diverso, come ci spiega la deputata del gruppo Alde al Parlamento Europeo, Martina Dlabajovà:

R. – Si tratta soprattutto di un rafforzamento di assistenza bilaterale, di un aiuto, di un supporto, un sostegno per i gruppi più deboli, che sono le madri con i figli, i bambini, gli anziani… E si tratta anche di un aiuto concreto, materiale, finanziario, ai Paesi da cui arriva il maggior numero di immigrati in Europa. Si tratta anche di creare una base di esperti e tecnici che potrebbero essere di aiuto. Quindi, per dare un’informazione concreta, si parlava addirittura di inviare degli esperti in Italia, in Ungheria, dove ci sono in questo momento i più grandi bisogni di aiuto e di lavoro e di offrire questa expertise, questo approccio tecnico esperto. Ovviamente, quello che è molto importante sarebbe agire di forza contro quelli che sono gli smugglers,i trafficanti. Bisogna creare veramente un piano di azione,  come alla fine noi sappiamo fare: lei sa bene che nella storia noi abbiamo affrontato  con successo i pirati della Somalia.

D.  – Quindi lei parla di traffico di esseri umani e non fa distinzione tra poveri che fuggono dalla povertà o rifugiati che fuggono dalla guerra?

R. – Non è una questione di fare distinzione. La questione è che qualcuno organizza e poi non si fa più distinzione tra quelli che sono i poveri e quelli che non lo sono, ma c’è qualcuno che organizza il traffico. Quindi lì bisogna essere molto cauti e cercare di agire urgentemente. Poi, una cosa importante, di cui ovviamente si parla spesso in Europa, è che bisognerebbe aumentare anche i fondi di sviluppo per l’aiuto a questi Paesi che ne avrebbero più bisogno, quindi individuare anche i Paesi dove dobbiamo risolvere la situazione al più presto.

D. – Nel caso della Siria non si tratta di sviluppo mancato ma si tratta di un conflitto conclamato…

R. – Ci stavo arrivando, mi ha giusto anticipato. Infatti, ovviamente, ci sono alcune situazioni come la situazione di conflitti di guerra dove l’Unione Europea non può agire e anche per il diritto internazionale non ha possibilità di agire, quindi lì bisogna coinvolgere di più le Nazioni Unite. Questo è un appello che i Paesi del gruppo di Visegrád fanno molto forte: non è solo una questione europea ma è una questione mondiale, dobbiamo quindi far intervenire le Nazioni Unite.

Della posizione del cosiddetto gruppo di Visegrad, abbiamo parlato con Giandomenico Caggiano, docente di diritto dell’Ue all’Univeristà Roma Tre:

R. – Io penso che si tratti di una ingiustificata paura, perché certamente alcune migliaia di profughi non altererebbero la loro identità nazionale. Si tratta di un atteggiamento troppo diffuso nei Paesi ex-comunisti: hanno sempre paura di perdere la loro sovranità recentemente conquistata. Ma quello che voglio dire è soprattutto che queste regole relative al diritto di asilo e ai rifugiati non sono soltanto diritto dell’Unione Europea – si deve  ricordare almeno l’art.80 del Trattato, da tutti sottoscritto, che parla proprio della solidarietà e del senso di obbligatorietà che lega gli Stati membri all’accoglimento dei rifugiati… – ma sono anche e soprattutto diritto internazionale: oramai è evidente che coloro che fuggono da guerre, dal pericolo per la vita, da situazioni estreme hanno diritto di essere accolti e di avere una chance per il loro futuro. Questo, quindi, assolutamente non può esimere gli Stati ex-comunisti  e membri dell’Unione Europea dal partecipare a questo meccanismo che io credo, tra l’altro, finirà con l’avere la maggioranza:  se si voterà nel Consiglio, questi Stati andranno in minoranza.

D. – Professore, proprio in base al diritto, che cosa possono fare a proposito di misure alternative all’accoglienza?

R. – Io sono – devo dire – molto perplesso rispetto a questa idea di lascarli liberi di rifiutare le quote, la ricollocazione e il reinsediamento e, al tempo stesso, di accettare di introdurre delle penalizzazioni di tipo economico, perché comunque si tratta di decisioni che hanno un contenuto e non soltanto finanziario. Certo, può darsi che questa diventi la mediazione possibile, ma io penso che avrebbe un significato molto più importante il fatto di rispettare un protocollo, uno standard, un sistema comune che attribuisca nel merito delle quote di ricollocazione dei rifugiati, piuttosto che prevedere una quota parte minima, zero virgola qualcosa, del budget dell’Unione Europea,  che si fa su tante altre cose.

D. – Diciamo sempre che l’Europa non si pronuncia con una voce sola: in questo caso lo farebbe se non ci fosse il blocco dei Paesi di Visegrad?

R. – Sì. Io credo che sia successo qualcosa di straordinario negli ultimi giorni, quale che sia l’evoluzione… Non è forse il momento di analizzare le ragioni di questa modifica rivoluzionaria, profonda, che è accaduta nell’ultima settimana ma va sottolineata. Qualcosa di straordinario, perché soltanto a giugno-luglio erano quasi tutti contrari. Quindi, questo trasformare una maggioranza di oppositori in una minoranza di oppositori, molto ben precisa, ideologicamente collegata ai Paesi ex-comunisti, è stato un miracolo, una autentica rivoluzione, che comporta che la materia del diritto di asilo diventi – con le modifiche verosimili e probabili del regolamento di Dublino – una materia di integrazione, una materia di sovranità. Sono molto felice di questo!

Resta da dire che Juncker, chiedendo a tutti il coraggio di essere all’altezza dlla solidarietà necessaria, ha sottolineato che l’Europa può farlo, indicando un dato significativo: gli ingressi sarebbero pari allo 0,11% della popolazione.

Ue, Schulz: migranti, servono strategie oltre emergenza

Martin Schultz – AP

C’è stato un “ampio sostegno trasversale per una politica migratoria comunitaria”, riscosso dal discorso del presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker. Così Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo che da tempo invoca misure per fronteggiare l’emergenza immigrazione, ma anche strategie a lungo termine per intervenire nella crisi in Libia e nel dramma in Siria. Lo spiega lo stesso presidente Schulz nell’intervista della nostra inviata a Strasburgo, Fausta Speranza:

R. – Il will cost money to bring the two sides in Libya together; we are well advised to invest …
Costerà denaro, riunificare le due parti in Libia; ma saranno denari investiti bene, perché la Libia è una delle fonti maggiori dei problemi. C’è questa assoluta assenza di strutture statali coerenti e affidabili, ed è uno dei maggiori problemi; in secondo luogo, in Siria invece abbiamo bisogno di tutte le parti: abbiamo bisogno delle opposizioni, abbiamo bisogno del regime di Assad, abbiamo bisogno della Federazione  Russa, abbiamo bisogno degli americani, dei turchi, dei vicini diretti della Siria per impostare un dialogo, perché tutti sappiamo che non sarà possibile una soluzione militare. Ma convincere tutte le parti in causa che non c’è soluzione militare, che abbiamo bisogno di una soluzione politica non è cosa facile: suona facile, ma – come si sa – è estremamente difficile. Ciò nonostante, il Parlamento insiste sul fatto che sia fatto ogni sforzo diplomatico e che ogni via diplomatica sia presa in considerazione e sia tentata. Io so che questo è molto difficile … Con Assad, la Siria non ha futuro ma dovremmo anche avere ben chiaro il fatto che – dopo l’era Assad – le minoranze dovranno essere protette, nel Paese, e che noi dobbiamo garantire che non ci sarà – dopo – la grande vendetta del dopo-Assad. Dobbiamo però anche essere molto onesti nei nostri stessi riguardi: il sedicente Stato Islamico è forte, in Siria, e forse avremo bisogno di un’ampia coalizione internazionale contro di esso. Io spero che, ad esempio, un intervento iraniano o russo nella lotta all’Is avvenga nell’ambito di una coalizione internazionale e non nell’ambito di una contrapposizione internazionale tra americani ed europei da un lato e russi e iraniani dall’altro.

D. – Cosa risponderebbe a quei Paesi dell’Europa dell’Est che si oppongono alla ricollocazione dei rifugiati

R. – That they should discuss with us first of all about our common humanitarian responsibility. …
Che dovrebbero prima di tutto ragionare con noi della nostra comune responsabilità umanitaria. La sfida che ci troviamo ad affrontare in questo momento non è una sfida nazionale: questo non è un problema italiano e nemmeno – come ha detto Urban – un problema tedesco o spagnolo. Questo è un problema europeo, e a sfide globali non si possono dare risposte nazionali: servono risposte europee. In secondo luogo, la solidarietà è alla base di ogni azione dell’Unione Europea. Paesi che – ad esempio – temono una minaccia militare dalla Russia e quindi chiedono sostegno militare in armi e uomini, ne ricevono; Paesi che hanno bisogno di denaro per il loro sviluppo infrastrutturale ed economico, ne ricevono. Questi stessi Paesi devono mettere in conto che non dovrebbero e non potrebbero astenersi né tirarsi indietro quando si parla di rifugiati.

D. – Ma come convincere questi Paesi?

R. – With pragmatic proposals. I had last week prime minister Urban, who came to me and I said …
Con proposte pragmatiche. La settimana scorsa ho ricevuto il primo ministro Urban e gli ho detto: “Guarda, noi distribuiamo le persone che vengono in Europa – diciamo, 500.000 persone. Le distribuiamo su 507 milioni di abitanti nei 28 Paesi membri: questo è il numero degli abitanti dell’Unione Europea. Non è un problema in sé. Ma se concentriamo centinaia di migliaia di persone solo su alcuni degli Stati membri, allora ci saranno problemi. Per questo, dovremo sviluppare parametri e criteri su come distribuire i profughi e uno dei criteri è il numero degli abitanti in relazione alla capacità economica del Paese, tenendo in conto il numero dei rifugiati già presenti nel Paese. E per tornare all’Ungheria, se consideriamo appunto questi tre elementi – numero degli abitanti del Paese, capacità economica e numero dei rifugiati già presenti nel Paese – l’Ungheria ne ricaverebbe un grandissimo vantaggio, rispetto al numero delle persone già presenti nel Paese. Per questo io faccio affidamento a proposte pragmatiche e spero che riusciremo a convincere i Paesi ancora riluttanti. E’ ovvio che Paesi grandi, con un grande numero di abitanti e un forte potere economico, come la Germania, possono sopportare un peso maggiore, più persone, quindi, rispetto a Paesi più piccoli con un minor numero di abitanti e con problemi economici.

 9 seetembre 2015

VERSIONE per il Programma INGLESE

Speaking to Vatican Radio’s Fausta Speranza in Strasbourg, on the same day the EU was set to launch a fresh effort to tackle its migration crisis, Schulz addressed especially the need for Europe to be united in its response, as well as prudent and far-sighted in its address of the security, justice and economic issues at the root of that crisis in many countries around the Mediterranean basin and beyond. “The challenge we are facing at present is not a national one,” said Schulz. “This is a European problem,” he continued, “and on global challenges, you cannot give national answers.”

The new EU efforts include a burden-sharing programme, under which refugees would be distributed among member states. The 28-country bloc has been struggling with its biggest influx of migrants and asylum seekers since World War II – an influx that has stretched resources and sparked tensions.Addressing the issue, Schulz spoke to Vatican Radio of the practical commitment to ideals, which forms and informs the whole structure and purpose of the European Union. “Solidarity is the basis for the whole action of the European Union,” he explained, adding that countries, which receive security and economic development benefits from membership in the Union, ought not then turn their backs on refugees. “They could – they should not abstain, and step away, when [the issue] is about refugees,” he added.

Click below to hear EP President Martin Schulz’s extended conversation with Vatican Radio’s Fausta Speranza

 

Rifugiati. Europarlamento chiede sforzo di solidarietà

Ancora tensione in Ungheria, dove il flusso di migranti non accenna a diminuire. Nuovi scontri si sono registrati al confine con la Serbia. Alcuni treni sono ripartiti dall’Ungheria verso l’Austria ma sono molti i migranti che continuano a muoversi a piedi. Dopo l’apertura delle frontiere, la cancelliera tedesca Merkel dichiara: dobbiamo integrarli. Intanto, al Parlamento europeo si discute il dossier immigrazione chiedendo insistentemente ai governi un’azione comune. Il servizio della nostra inviata a Strasburgo, Fausta Speranza:

L’Ue chiederà a Germania, Francia e Spagna di accogliere più di 70 mila rifugiati. E’ più della metà dei 120 mila rifugiati da ricollocare in base al nuovo piano che il presidente della Commissione Ue, Juncker, sta per presentare. Forse nell’atteso incontro del 14 settembre. Poi c’è l’offerta della Gran Bretagna che si impegna ad aprire le porte a 20 mila profughi siriani in cinque anni. Esentati per il momento Italia, Grecia e Ungheria, visto che hanno già abbondantemente superato le quote fissate. Al momento, non si può dire che l’Europa non abbia affrontato la questione e non abbia messo in campo scelte di solidarietà, ma dall’Europarlamento, che rappresenta direttamente i cittadini, si leva un appello e una protesta: l’appello è per un’azione davvero congiunta e non affidata alla disponibilità dei singoli Stati. La protesta è perché Tusk, presidente del Consiglio, l’organismo che riunisce i capi di Stato e di governo, non ha ancora risposto all’invito dell’assemblea parlamentare. Domani all’Europarlamento parlerà Juncker capo della Commissione, ma Tusk invece non ha risposto. Il punto è che l’Europarlamento vuole votare misure di emergenza ma anche a lungo termine e vuole che siano tutti i Paesi ad assumersi responsabilità, mentre per il momento alcuni Paesi dell’Est hanno “remato contro” o hanno rifiutato le possibili quote di ripartizione. Un’audizione del presidente del Consiglio Tusk all’Europarlamento sarebbe, dunque, il primo passo per “inchiodare” i capi di Stato e di governo a scelte condivise e durature. Ascoltiamo l’europarlamentare Lorenzo Cesa del Ppe:

“Assolutamente si, non è più tempo di far chiacchiere. È arrivato il momento della concretezza. Il discorso delle quote è giusto anche se è brutto dirlo; è giusto che ogni Paese si faccia carico con la massima solidarietà di un fenomeno epocale al quale non avevamo mai assistito; un fenomeno prevedibile perché quando ci sono due milioni di persone nei campi profughi, quando ce ne sono altri due in Libano, è chiaro che poi si riversano su altre parti del mondo nel quale possono vivere. È il momento della solidarietà di tutti i Paesi: nessuno deve tirarsi indietro. Ognuno faccia il proprio dovere.”

Perché la prospettiva che gli altri governi dell’Unione seguano l’esempio della Cancelliera tedesca non sia solo un auspicio ma un impegno istituzionale. E perché passata l’emotività del momento, non ci si possa dimenticare di nuovo del conflitto in Siria o di altre situazioni esplosive in Medio Oriente.

Decisioni Ue sui migranti: Kyenge, serve unità in Europa

L’eurodeputata Kyenge – ANSA

L’Unione Europea discute in questi giorni misure concrete per un’azione unitaria in campo migratorio. Si attendono i dettagli del piano che il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, presenterà mercoledì al riguardo. Fausta Speranza ha intervistato l’eurodeputata Kashetu Kyenge, relatrice per il Parlamento Europeo del dossier immigrazione, che viene votato nella sessione che si apre domani a Strasburgo:

R. – Volevo ringraziare Papa Francesco che, come al solito, ci ha fatto vedere la strada: l’apertura di tutte le parrocchie ad accogliere i profughi è un esempio da seguire. Credo che ognuno di noi debba fare tesoro di questi insegnamenti relativi al primato della vita: cioè, in qualunque momento noi incontriamo una persona in difficoltà – sul mare, via terra – deve essere salvata. Allora, il primo dei punti più importanti è la distribuzione dei migranti su tutto il territorio europeo, cercando di superare anche quelle che sono sempre state le norme del regolamento di Dublino, che obbligava gli Stati a poter mantenere sul loro suolo le persone che mettevano piede per la prima volta nello spazio Schengen. Questo punto si chiama “ricollocazione”: dovrebbe essere un punto in discussione anche per rivedere le cifre che erano state prese in precedenza, che erano quelle di 32 mila e 35 mila. Il tetto fissato è a 40 mila, ma si sta rivedendo. Addirittura le Nazioni Unite propongono 200 mila. Il secondo punto è quello del reinsediamento che è un punto già quasi assodato, perché costituisce i corridoi umanitari: si prendono persone che hanno già lo status di rifugiato nei Paesi che sono nei dintorni della Siria, come il Libano, la Giordania, che sono nei campi profughi e per alleggerire questi Stati dal carico di accoglienza le persone vengono insediate in altri territori. L’Unione Europea ne prenderà 20 mila circa. Il terzo punto è una missione navale molto importante condotta dalla nostra marina militare e si chiama “Eunav for Med” e ha come obiettivo quello di poter annientare tutta la rete della criminalità organizzata, lottando contro il traffico di esseri umani, anche da parte degli scafisti, seguendo la transazione finanziaria di tutta questa criminalità organizzata e sequestrando gli strumenti che ha a disposizione con un’equa ripartizione delle responsabilità. Questo deve essere lo spirito che deve guidare l’Europa.

D. – Abbiamo visto in questi giorni un’Europa solidale, con le decisioni della Germania, dell’Austria, ma azioni davvero unitarie non ne abbiamo viste: è così?

R. – E’ così, ma oggi è un nuovo giorno, cioè dopo la decisione della cancelliera Merkel tutto cambia: la Germania ha un peso molto influente all’interno del Consiglio ma l’Europa per fare tutto questo deve essere unita. Io sono relatrice di un dossier che il Parlamento mi ha affidato; è un dossier che porta avanti sia l’emergenza, sia il medio e lungo termine, cioè come intervenire sulle cause profonde che muovono le persone. E’ nostra responsabilità, ma è responsabilità anche di una comunità internazionale.

D.  – Che cosa intende per comunità internazionale in particolare? L’Onu?

R. – Le Nazioni Unite prima di tutto. Io sono appena tornata da 3-4 giorni alle Nazioni Unite, per dire: questa emergenza umanitaria deve essere affrontata con le Nazioni Unite, con tutte le organizzazioni anche internazionali, con tutti i Paesi, i governi e ogni Stato deve avere la responsabilità di aprire le sue frontiere, nel suo interno, alle persone che sono in difficoltà e anche elaborare politiche inclusive.

Mons. Gallagher: ai radicalismi opporre una fede

Mons. Paul Gallagher – EPA

Un pensiero alla fruttuosa e intensa visita di Papa Francesco a Sarajevo ha aperto l’incontro dedicato a Religioni e dialogo a Strasburgo, presso il Consiglio d’Europa, di cui è presidente di turno la Bosnia Erzegovina. A promuovere l’iniziativa è stata la missione permanente della Santa Sede presso il Consiglio stesso, quale tappa di riflessione in vista del seminario che si terrà proprio a Sarajevo l’8 e il 9 settembre prossimi. Da Strasburgo, la nostra inviataFausta Speranza:

Obiettivo comune la costruzione di società inclusive. A parlarne, per la Santa Sede, il segretario per i Rapporti con gli Stati, mons. Paul Gallagher:

R. – Io credo sulla base della libertà religiosa come diritto fondamentale. Noi possiamo creare uno spazio di dialogo, che ci può permettere di creare le condizioni necessarie per società inclusive.

D. – E come combattere i radicalismi e i fondamentalismi?

R. – Credo con un’attenzione alle origini, diciamo, delle inquietudini della nostra società. E poi, a livello di dimensione religiosa, combattendo l’ignoranza, riaffermando anche una interpretazione delle religioni – che sia cristianesimo, islam o ebraismo – con una interpretazione autentica di questa nostra fede.

D. – E’ emerso il rischio di una laicità che fa fuori le religioni: è ancora così o si è riscoperto il valoro delle dimensione religiosa nel dialogo interculturale?

R. – C’è sempre il rischio. Però, anche in base a quando detto qui, mi sembra che anche il rappresentante del governo francese abbia detto che è possibile avere una visione positiva della laicità dello Stato, della Costituzione, che permetta questa libertà religiosa. Non deve essere una cosa negativa, ma una cosa positiva, in cui possono fiorire le comunità religiose, le fedi religiose e un dialogo tra di loro. In quel senso, lo Stato laico può avere un valore e un ruolo molto importante.

D. – Il contributo della visita di Papa Francesco a Sarajevo a tutto ciò?

R. – La visita del Santo Padre a Sarajevo, sabato scorso, è stata veramente un viaggio molto positivo: si vedeva dai volti della gente che era lì. Si vede che lui è voluto andare per incoraggiare queste comunità diverse di culture diverse, di religioni diverse, a collaborare insieme per creare un Paese e una società unita. Soprattutto, ha incoraggiato i giovani ad andare avanti, a cercare una riconciliazione, a confermare la fraternità e l’amore per il loro Paese e per tutti i componenti della loro società.

D. – Vent’anni dopo, la guerra Sarajevo può essere da esempio?

R. – Credo che Sarajevo, sì, lo possa essere. Il Papa ha sottolineato che c’è un enorme potenziale: Sarajevo e la Bosnia ed Erzegovina possono essere un grande esempio! Però, dobbiamo anche dire che c’è ancora molto lavoro da fare, come purtroppo in molti altri posti del mondo. Quello di cui dobbiamo renderci conto è che viviamo un momento storico molto delicato. E’ doveroso, quindi, che tutti noi, rappresentanti religiosi, fedeli e cittadini, lavoriamo insieme per i nostri Paesi e per le nostre città per costruire la pace, per far comprendere sempre di più la ricchezza della diversità, per combattere il fondamentalismo e l’estremismo e per essere veramente agenti di pace nelle nostre società. Perché viviamo un momento molto, molto difficile, senz’altro.

A ricordare l’attenzione che la comunità internazionale deve prestare ai valori religiosi è stato il relatore speciale delle Nazioni Unite, Heiner Bielefeldt, che raccomanda: “Attenzione a una mal pensata laicità, che fa fuori le religioni dal dialogo”.

Consiglio d’Europa: libertà religiosa crea società inclusive

Papa Francesco al Consiglio d’Europa (25 novembre 2014) – EPA

La dimensione religiosa del dialogo interculturale: al centro del dibattito organizzato oggi pomeriggio a Strasburgo dalla Missione permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa. Partecipano l’arcivescovo Paul R. Gallagher, segretario per le Relazioni con gli Stati della Santa Sede, il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di religione e di credo. Guida il dibattito il vicesegretario generale del Consiglio d’Europa, Gabriella Battaini-Dragoni, che ascoltiamo nell’intervista di Fausta Speranza:

R. – E’ una dimensione fondamentale, perché è una dimensione che fa parte della nostra cultura più generale. Osserviamo sempre al Consiglio d’Europa la questione religiosa come una parte intrinseca dell’identità e della cultura di ciascun individuo. Quindi, è portatrice di valori e quindi ispira il nostro modo di comportarci con noi stessi e con gli altri e anche le responsabilità che possono derivarne per quanto si vive nella società. Allora, non può restare al di fuori delle nostre considerazioni e del ruolo che proprio la religione svolge in seno alle società, in altre parole.

D. – Le sembra che ultimamente ci sia stata in qualche modo una riscoperta nelle istituzioni e anche nella sensibilità dei cittadini dell’importanza della dimensione religiosa?

R. – Per quanto riguarda i cittadini, in senso più ampio, senz’altro. Per quanto riguarda il Consiglio d’Europa, sono già sette anni che noi riflettiamo regolarmente sull’impatto e sul ruolo che la religione può svolgere in senso alle società europee in ogni caso e quindi anche alle società in senso più ampio. Dal 2008, abbiamo iniziato ad avere riunioni regolari con rappresentanti sia religiosi che non religiosi, con rappresentanti di società e di organizzazioni agnostiche o atee per discutere su temi che per noi – come Consiglio d’Europa – sono fondamentali e che mi permetto di indicarle attraverso gli articoli pertinenti della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: l’art. 9 che indica molto chiaramente il principio della libertà di religione, il che significa anche il volere avere eventualmente una religione. Il secondo articolo è quello sulla libertà di espressione, che è un tipo di diritto che va comunque esercitato con un senso profondo di responsabilità, dal momento che non si tratta di un diritto assoluto, ma di un diritto relativo. E poi il diritto di associazione, come ad esempio la realtà di una comunità religiosa: anche in questo caso, c’è un diritto fondamentale che è quello della possibilità nelle nostre società democratiche di poterci associare e condividere dei valori comuni. E’ molto interessante ora il modo in cui la Santa Sede cerca di affrontare il tema della radicalizzazione e del come si possa lottare contro la radicalizzazione – che può condurre anche a fenomeni molto più gravi, come quello della violenza estrema o del terrorismo – e del ruolo dei leader religiosi come mediatori sociali – mi permetterei di utilizzare questa espressione – quindi come responsabili in seno alla società e alle diverse comunità religiose, affinché possano contribuire a de-radicalizzare la società e i gruppi che rischiano, appunto, di diventare pericolosi.

D. – L’obiettivo finale di tutto, si può dire, è costruire società inclusive…

R. – Assolutamente. Società, quindi, nelle quali tutte le diverse comunità possano ritrovarsi e rispettosamente coesistere nonostante le loro differenze e, con questa volontà, costruire un progetto, che è un progetto comune. E come ci si arriva se non si condividono gli stessi valori? Ecco che allora la libertà di religione, di coscienza, di opinione, accompagnata alla libertà di espressione e alla libertà di associazione diventano fondamentali per capire che tutti possono partecipare a condizione che tutti rispettino – al di là della loro differenza – tutti i principi fondamentali. Ecco perché mi sono permessa di accennarli, perché una coesistenza pacifica può farsi solo se le regole del gioco, se – come si dice spesso tra virgolette – il contratto sociale, in qualche modo, è chiaramente definito.

Denis Mukwege: mondo inerte di fronte a stupri come arma di guerra

“In un mondo di inversione di valori, rifiutare la violenza significa essere dissidente”: con queste parole Denis Mukwege, medico ginecologo congolese, ha ricevuto al Parlamento Europeo il Premio Sakharov, attribuito a chi si distingue nella difesa dei diritti umani. Mukwege denuncia l’uso dello “stupro come l’arma più economica di guerra”. Da 16 anni, Mukwege opera nell’ospedale Panzi a Bukavu ed ha assistito alcune delle migliaia di donne stuprate nella Repubblica del Congo in quella che definisce “una situazione formale né di guerra né di pace, ma di autentica impunità”. La sua è una denuncia forte e coraggiosa. La nostra inviata Fausta Speranza lo ha intervistato:

R. – Lorsque on parle du viol comme arme de guerre, j’ai l’impression que beaucoup de gens pensent que …
Quando si parla di stupro come di un’arma di guerra, ho l’impressione che molti pensino che si tratti di un rapporto sessuale non consenziente. Io penso che già un rapporto sessuale non consenziente distrugga profondamente la vittima. La gente non si rende conto della forza dell’azione compiuta, quando una donna è non solo stuprata collettivamente, davanti ai suoi figli, a suo marito, alla sua comunità, ma oltre a questo riporta anche ferite all’apparato genitale: tutto questo significa anche devastare la sua umanità, trattarla come un animale. E penso che se oggi ancora non ci sono prese di posizione serie nei riguardi di queste azioni è perché nella testa della gente c’è una grande confusione: si confondono questi atti di barbarie con un rapporto sessuale, e queste sono due cose completamente diverse! Io credo che si debbano tenere separati questi due aspetti.

D. – Cosa può fare il mondo?

R. – Aujourd’hui je pense que le monde n’a pas encore utilisé tous les leviers en sa possession pour …
Penso che il mondo non abbia ancora azionato tutte le leve di cui dispone per mettere fine a questa situazione. Ho detto che c’è un grande problema di educazione. Oggi ci si può rendere conto che coltivare quella mascolinità, che io definisco negativa, che fa sì che l’uomo, crescendo, pensi che la donna non gli sia eguale, sia di per sé molto pericoloso. E questo si può fare già a livello locale. Io credo che non sia raro trovare in ogni cultura una mamma che dica al suo bambino, quando cade: “Non piangere, sei un maschietto!”. Ma che vuol dire, questo? “Non fare questo: tu sei un uomo!”: cosa vuol dire, questo? Credo che significhi semplicemente che “sei un uomo e quindi devi essere diverso, non hai diritto a provare emozioni, non hai il diritto a manifestare quello che sei” … Credo che si possano operare tanti cambiamenti, già a livello locale. Ho raccontato che in Africa, nella mia tribù, siamo stati capaci – per esempio – di eliminare l’incesto, e tutti sanno che l’incesto è un tabù. E allora, perché non si può considerare anche lo stupro come un tabù? Perché oggi si permette alle persone che hanno commesso degli stupri di girare per l’Europa senza sentirsi preoccupati? Ci sono tante cose che si potrebbero fare: sul piano diplomatico, politico, economico e finanziario … Si possono congelare i beni di coloro che hanno commesso questi crimini. Bisogna rafforzare le competenze dei tribunali internazionali perché possano trattare di questi crimini. Ci sono tante cose che si potrebbero fare e che invece non sono ancora state fatte. Credo che noi abbiamo bisogno anche dell’intervento del Parlamento Europeo, abbiamo bisogno che gli europei ci sostengano in questa lotta.

D. – Com’è la vita di una donna stuprata?

R. – Penso che ogni donna stuprata abbia la propria storia e che ciascuna storia sia altrettanto dura e difficile da vivere come la storia successiva … C’è stato un momento in cui ho pensato di avere ormai ascoltato e visto il peggio del peggio, mentre mi sorprende il fatto che con ogni nuovo caso scopro che c’è sempre di peggio rispetto a quello che avevo già visto, al punto che quando mi si chiede di raccontare una delle peggiori storie, mi chiedo da quale incominciare. Ho conosciuto una donna che era venuta in ospedale perché era incinta. E lei ci ha raccontato la sua storia. Quando era stata catturata per essere ridotta in schiava del sesso, tutta la sua famiglia era stata trucidata da quegli assassini. Rimase sola al mondo. Quando arrivò all’ospedale, portava in grembo il frutto di chi le aveva sterminato la famiglia. Ha partorito un mese dopo e mi disse: “Non posso vivere con questo figlio, perché ogni volta che lo guardo mi si ripresenta l’immagine della mia famiglia scomparsa, mi viene in mente che oggi sono sola … e guardare un bambino che mi ricorda tutto questo, mi fa male. Ma questo bambino è assolutamente innocente: non ha partecipato …”. E puoi solo lontanamente immaginare quale dramma possa vivere una donna …

D. – Lei ha detto che gli stupri sono un’arma di guerra. Ma in questi 21 anni di suo impegno per queste donne, non è cambiato niente?

R. – Ça fait 16 ans que je travaille avec ces femmes. Ce que je vois c’est beaucoup plus le …
Sono 16 anni che lavoro per queste donne. Quello che rilevo in particolare è piuttosto il cambiamento del metodo o della tattica, ma in definitiva credo che questa forma di violenza continui e che purtroppo, siccome l’impunità è ormai affermata, accade che chi compie questi stupri continui a farlo nella piena impunità. Anche se ad oggi si può osservare una diminuzione quantitativa, è però aumentata la gravità delle lesioni.