Dietrofront dell’Europa sul Natale: «documento non maturo, da riscrivere»

FAMIGLIA CRISTIANA

30/11/2021 Saranno riscritte le linee guida sulla “comunicazione inclusiva” elaborate dalla Commissione Ue che censuravano, tra l’altro, anche i nomi cristiani. La commissaria Helena Dalli: «L’obiettivo era illustrare la diversità della cultura europea ma non abbiamo raggiunto lo scopo. Ora riscriveremo il documento».

 

Ritirato e riscritto: è quanto accade al documento interno sulla comunicazione interna ed esterna della Commissione europea che, tra le altre cose, invitava a evitare il termine “Natale” e i nomi cristiani. Dopo le polemiche sulle guidelines per public relation durante le festività, l’Esecutivo stesso dell’Unione Europea ha fatto sapere che il testo viene ritirato e sarà ripresentato in una nuova versione. In Europa da tempo si parla di pseudo neutralità del linguaggio sulle realtà religiose come scelta utile al rispetto e al dialogo. Nulla di più falso perché è solo il chiaro riconoscimento d’identità e valori che apre ad un confronto e ad un dialogo veri. Sembravano concetti acquisiti ma appare chiaro che all’interno dell’Ue persiste questa convinzione.  La notizia è che viene oggi rinnegata.

https://www.famigliacristiana.it/articolo/sul-natale-l-europa-fa-marcia-indietro-documento-ritirato-e-da-riscrivere.aspx

Libano, il tragico destino di un paese fragile

di Fausta Speranza

Nell’aria irrespirabile, con la voce troppo rassegnata per la sua età, un bambino asseconda lento il soccorritore che gli porge il braccio. Lo guarda e chiede: «Ma siamo morti?». È il racconto di Aarif, l’operatore della Croce Rossa che lo ha trovato tra le macerie dei caseggiati popolari di Beìrut, dopo le violente esplosioni nel porto che, il 4 agosto, hanno lasciato la città devastata, con almeno 160 morti accertati, 5 mila feriti, tanti dispersi, 300 mila sfollati e molti dubbi sulle responsabilità. Il doppio boato e il fuoco nel cielo hanno come fermato il tempo dall’antica terra fenicia alle spiagge di Cipro. Poi la notizia ha scosso il mondo, fino a quel momento indifferente al disastro che si stava consumando in Libano, un Paese piccolo come l’Abruzzo, bello e impossibile, riflesso delle contraddizioni arabe e dei contrasti che investono Oriente e Occidente. Siamo nel quartiere di Karantina, sorto cento anni fa a ridosso del porto di Beirut come prima quarantena sanitaria della regione. Un nome tristemente tornato di moda in epoca Covid. Tra carcasse di navi, scheletri anneriti di capannoni e residenze in frantumi si fatica a riconoscere quella Beirut e quel Libano che, dopo anni di guerra e mille acciacchi, erano tornati a essere una sorta di Svizzera del Medio Oriente. Le deflagrazioni sono avvenute nel deposito di nitrato di ammonio, composto chimico utile in agricoltura e per produrre esplosivo: ne erano stoccate più di 2.700 tonnellate. Resta il dramma dei soccorsi: gli ospedali erano già prossimi al collasso per il coronavirus. Ora a Beirut tre sono rasi al suolo e due parzialmente distrutti.

All’ospedale di Geitawi si è recato subito il Patriarca di Antochia dei maroniti, il cardinale Bechara Boutros Rai.

Ha girato senza sosta tra le macerie, ha visitato la cattedrale di San Giorgio seriamente danneggiata, altri edifici colpiti come la chiesa di San Marone, il Patriarcato armeno cattolico, la sede vescovile greco-ortodossa e quella maronita, chiedendo aiuto al mondo perché il Libano continui ad essere luogo di convivenza, unità e libertà». Sono seguiti giorni di dolorosa rabbia della popolazione, con gravi disordini: un poliziotto morto e nuovi feriti. Di «convivenza ora molto fragile», ha parlato domenica 9 agosto anche papa Francesco, pregando perché «possa rinascere libera e forte». Tanti Paesi hanno promesso interventi: 250 milioni di euro che verranno dati alla Croce Rossa, a Ong e alle istituzioni, a patto della massima trasparenza e delle riforme necessarie. Il punto è che non c’è solo il ground zero di Beirut. La crisi economico-finanziaria e sociale denunciata dal default a marzo scorso è gravissima. I continui blackout dell’elettricità suggeriscono l’immagine di un Paese in cui a intermittenza di settimane arrivano notizie di suicidi tra la popolazione. Le situazioni allo  stremo sono tante e non soltanto tra  i profughi, in maggioranza siriani che da anni sono giunti nel Paese in  proporzioni bibliche: circa 1,7 milioni su 4,5 milioni di abitanti. Con la lira libanese meno dell’85% del valore, gli stipendi dimezzati, padre Michel Abboud, responsabile della Caritas Libano, afferma che metà della popolazione è caduta in miseria: oltre un  quarto di loro sopravvive a stento con meno di 5 dollari al giorno. Le suore del Buon Pastore, che nel dispensario Saint Antoine nel quartiere Roueissat già aiutavano 6.000 persone all’anno, accolgono ora molti bambini traumatizzati e si preparano ad assistere un numero crescente di famiglie. Gli scandali bancari si accompagnano alle proteste di piazza contro il carovita e la corruzione, che
proseguono da ottobre nonostante il cambio di Governo e nonostante il lockdown. La classe politica, che non riesce a negoziare aiuti dal Fondo monetario internazionale perché incapace di impegnarsi nelle riforme richieste, è condizionata da interessi stranieri e invischiata nella rete di clientele creatasi tra le maglie del delicato sistema di convivenza tra le tre principali comunità religiose. Nel paese che riconosce nella Costituzione 18 confessioni religiose, le più importanti cariche istituzionali – presidente della Repubblica, primo ministro, presidente del Parlamento – sono attribuite rispettivamente a un cristiano, un musulmano sunnita, uno sciita, in base alle proporzioni nella popolazione. Ma, in realtà, l’ultimo censimento risale al 1932. Si evitano verifiche dai potenziali effetti dirompenti.

Da tempo il commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet parla di <<situazione che sfugge al controllo>>. Si attribuiscono espressioni simili al presidente Michel Aoun, mentre l’esecutivo, presieduto da Hassan Diab, sull’onda dei moti di piazza ha perso tre ministri in due giorni. Nell’equilibro del Paese che confina con Israele e Siria si sono innescate pure altre dinamiche che hanno determinato il prosciugamento delle casse dello Stato, a partire dal passo indietro negli investimenti dell’rabia Saudita che mal sopporta che il partito sciita Hezbollah, filo iraniano, stia al Governo.

Sullo sfondo restano guerre per corrispondenza tra potenze regionali e quel confronto tra sunniti e sciiti che è il nodo dei nodi di tutta l’area.

Ci sono pagine di storia da completare: si aspetta il verdetto del Tribunale speciale dell’Onu sull’assassinio di Rafiq al-Hariri, il primo ministro ucciso, con altre 21 persone, in un’esplosione sul lungomare di Beirut nel 2005.  Sono state processate in contumacia quattro persone, membri di Hezbollah, che nega le accuse. Per rispetto alle vittime l’annuncio è stato posticipato dal 7 al 18 agosto. La ferita è ancora aperta e anche questa sentenza potrebbe avere la sua onda d’urto. Qualche settimana fa, il Patriarca maronita aveva invitato i politici a «restituire al Libano la sua neutralità», ma non basta più sottrarsi alle contese. Bisogna rimettere in sesto il Paese dei cedri, da 30 anni baluardo di pace e di convivenza nell’area del Medio Oriente, che non è mai stata così militarizzata dalla fine della Seconda guerra mondiale.

da Famiglia Cristiana del 16 agosto 2020

Libano, cade il governo ma non mancano gli aiuti

I morti e la devastazione causati dalla recente esplosione al porto di Beirut, le proteste di piazza, l’instabilità politica e l’enorme debito pubblico attanagliano il Paese dei Cedri. In questa situazione però c’è chi lavora senza sosta per la popolazione, come ad esempio la Fondazione Giovanni Paolo II
11/08/2020

Si festeggia a Beirut e a Tripoli per la caduta del governo di Hassan Diab, ma si tratta della soddisfazione di una popolazione stremata e preoccupata. Fuochi di artificio e spari in aria hanno salutato lunedì sera l’annuncio del passo indietro che il primo ministro ha fatto in Tv dopo le dimissioni di tre ministri nel fine settimana, in seguito alla tragedia del 4 agosto. E’ il secondo esecutivo a cadere in dieci mesi sotto i colpi delle proteste: a ottobre scorso, dopo settimane di massicce manifestazioni, lasciato Saad Hariri. Da allora le sedi istituzionali, in particolare nell’area di Piazza dei Martiri e delle vie super-protette del Parlamento, sono rimaste puntellate da eccezionali transenne, che in tutti questi mesi hanno ben rappresentato la distanza della popolazione dalle autorità. Si potrebbe tentare un altro governo tecnico o di unità nazionale, ma non è quello che chiede la piazza, che vorrebbe anche il rinnovo del Parlamento. Restano i dubbi su quando si potrà sapere qualcosa delle esplosioni al porto. Il numero delle vittime è salito a oltre 220, quello dei feriti a 7000. Ora l’ inchiesta passa dal tavolo del primo ministro all’Alta corte di giustizia. E resta l’incognita di come questa fase di transizione in Libano verrà considerata nel panorama regionale.

Nella prospettiva di elezioni, formalmente è il presidente Michel Aoun che dovrebbe avviare le consultazioni, ma su questo la costituzione non impone al capo dello Stato di avere fretta. Il Libano nel recente passato è rimasto mesi senza un governo. Diab, considerato un tecnico vicino al presidente Michel Aoun e sostenuto da Hezbollah, ha lasciato dopo giorni di disordini antigovernativi e all’ indomani dell’appello della comunità internazionale, che ha condizionato a serie riforme l’arrivo dei 250 milioni di euro stanziati per la ricostruzione e promessi però direttamente alla popolazione attraverso l’ Onu. Il Paese sta facendo i conti con la rabbia popolare per la tragedia nella capitale, ma fa anche i conti con l’angoscia per il default finanziario che ha tagliato dell’85 per cento il valore d’acquisto e ha bloccato qualunque conto in banca, e con la sfiducia palesata da mesi per una classe politica percepita come corrotta e inetta. Un solo esempio dei motivi di indignazione: del debito pubblico, che ammonta a 100 miliardi – cifra enorme per 4 milioni di abitanti – 40 miliardi dovevano essere destinati alle infrastrutture, ma l’ elettricità non è affatto assicurata e si passa da un black out ad un altro.

In prima linea da anni in Libano la Fondazione Giovanni Paolo II

C’è chi senza sosta da tempo lavora a favore della popolazione, senza nessuna discriminazione per credo religioso o politico. Tra le tante associazioni e realtà legate alle 1126 parrocchie del Libano, c’è quella della Fondazione Giovanni Paolo II che opera da 13 anni nel Levante. Dal 2017, ha un ufficio presso il Convento dei frati francescani della Custodia di Terra Santa a Beirut, che si trova ad un chilometro dal luogo delle esplosioni ed è stato, infatti, danneggiato. Il cooperante Stefano Baldini che si trovava all’ interno è rimasto ferito da schegge di vetro.

La Fondazione fa da ponte tra Siria e Libano: fa riferimento al Vicario apostolico dei latini di Aleppo, monsignor George Abou Khazen, e all’ altro francescano Vicario apostolico latino del Libano, Cesar Essayan. Negli anni passati l’ impegno è stato forte in Siria, in preda alla guerra civile, poi il collegamento è stato prezioso per seguire alcuni profughi fuggiti.

Nel paese dei cedri, gli operatori della Giovanni Paolo II hanno offerto aiuto alle scuole cattoliche nell’ accoglienza di  minori siriani non in grado di seguire i corsi in francese nelle scuole libanesi e hanno seguito 700 bambini nei campi profughi nel nord est del Paese. Hanno distribuito 2000 kit scolastici. C’ è poi un altro impegno concreto: la Fondazione, in collaborazione con l’ Aics, l’ agenzia del Ministero degli Esteri italiano, cura da vicino i progetti a favore di 700 produttori agricoli e personale impiegato nelle filiere agricole della ciliegia e dell’ albicocca nella Valle della Bekaa. Anche il lavoro della Fondazione risente dello scossone della tragedia e risentirà delle ripercussioni della difficile fase politica che si apre in piena crisi economica, ma è già partito il coordinamento per far sì che l’ impegno resti come punto fermo.

da Famiglia Cristiana

 

Messico, traffici di droga e di persone: la frontiera dell’Inferno

Mentre Trump continua la costruzione del muro per fermare uomini, donne e bambini in fuga dal Centro e Sud America, il commercio di sostanze stupefacenti e armi con gli Stati Uniti prospera e punta all’Europa

di Fausta Speranza

L’ultima vittima conosciuta è una cronista di razza, Norma Sarabia, 46 anni, uccisa davanti a casa nella serata di martedì 11 giugno da due uomini in moto. «Indagava su episodi di malcostume nella polizia e aveva ricevuto minacce anonime», ha fatto sapere il giornale per cui lavorava, Tabasco hoy. In Messico non esiste solo il muro contro i migranti pianificato da Donald Trump, c’è anche la toccante esperienza di chi “fa muro” contro il narcotraffico, la corruzione, l’omertà, la non considerazione del valore della vita umana. Chi ne è protagonista rischia di persona, ma sono in tanti a non arrendersi.

È la storia coraggiosissima di una parrocchia di Acapulco e di un murale. Nessuna analogia con l’atmosfera da bella vita e jet set internazionale degli anni Sessanta. Oggi è un epicentro delle violenze collegate al traffico di droga e di armi che determinano nel Paese il record di 80 omicidi e sei persone scomparse al giorno. La chiesa della Sacra Famiglia ha risposto con un grande, coloratissimo murale, che alterna immagini e nomi delle vittime della criminalità nella zona, grazie ai fondi della Onlus italiana “Amici di Santina Zucchinelli” di don Luigi Ginami, che ha assicurato a padre Octavio Gutiérrez Pantoja, direttore della pastorale ad Acapulco, 22 mila euro.

Il filo spezzato di tante vite resta intrecciato nella memoria collettiva e disegnato su questo muro che rappresenta una sfida al grigiore e all’oscurità delle logiche di morte dei narcos. Una donna ci ha detto: «Abbiamo cadaveri fatti a pezzi per le strade e c’è la consapevolezza che tanti militari sono corrotti. Questo murale ha ridato colore alla nostra speranza».

I dati sono agghiaccianti: dal 2006, anno di inizio della presidenza di Felipe Calderon che dichiarò “guerra al narcotraffico”, 200 mila vittime, tra cui 50 sacerdoti (di cui 7 assassinati l’anno scorso, stando ai dati del Centro Católico Multimedial), e 35 mila desaparecidos, tra cui i 43 studenti sequestrati ad Ayotzinapa il 26 settembre 2014 da uomini in divisa e finiti nel nulla. Dal 2017, l’escalation si è impennata. Nel 2019, con l’assassinio di Norma Sarabia sono dieci i giornalisti uccisi, undici se si conta dal 1° dicembre 2018, giorno dell’insediamento del presidente Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo.

Nel più meridionale Paese dell’America del Nord, dove scioccanti record di violenza convivono con l’irresistibile mix di natura, storia, cultura, arte, spiritualità, possedere un’arma è un diritto costituzionale, ma è diventato diritto di uccidere.

Dal Messico passano droga ed esseri umani in disperata fuga dal Centro America. E dagli Stati Uniti arrivano soldi e armi: per numerosi Stati non c’è un limite di transazioni. Quelle illegali in Messico vengono reperite con la formula dello straw purchase, l’acquisto di un bene o servizio per qualcuno e successivo trasferimento alla persona richiedente.

Da anni, la pressione dei migranti verso il Nord America comincia più a sud del Messico: da Guatemala, Honduras, San Salvador, che conoscono livelli di violenza ben peggiori ed estrema povertà. Circa 440 mila persone in media ogni anno. Ma di recente la novità è stata la mobilitazione di massa. Da ottobre ci sono state fino a ora sei grandi carovane di migranti: anche settemila persone, tra cui donne e bambini, in marcia tutte insieme, offrendo l’immagine di un “esodo biblico”. Una scelta dettata innanzitutto dal tentativo disperato di non cadere vittime dei trafficanti di esseri umani, di abusi, ruberie, e poi di richiamare l’attenzione del mondo.

Il presidente Trump ha risposto con un notevole dispiego di forze militari – 11 mila soldati – lungo il confine. Obrador sta cercando politiche di mediazione. Ha lanciato il piano Quédate en Mexico, rimanete in Messico, che prevede che tutti i richiedenti asilo agli Stati Uniti attendano la decisione in merito al loro caso in territorio messicano, secondo una sorta di esternalizzazione di servizi. E ha chiesto soldi a Trump per un piano di sviluppo da 20 miliardi di dollari per l’America Centrale. Tre quarti dei fondi dovrebbero servire alla creazione di posti di lavoro e alla lotta alla povertà, il resto al controllo delle frontiere.

Trump continua a parlare di muro, vecchia promessa della campagna elettorale. Ha cercato di imporre lo stanziamento di 18 miliardi di fondi al Congresso, arrivando al record di settimane di shutdown, cioè di bilancio federale bloccato dal braccio di ferro. Non l’ha spuntata e al momento ha ottenuto “solo” un miliardo dai fondi del Pentagono.

Dal 1994 Washington, sotto diverse amministrazioni, ha avviato e proseguito i lavori per una barriera e ha organizzato maggiori controlli, ma il muro pensato da Donald Trump è di cemento armato e non è solo fisico: i provvedimenti presi nell’autunno scorso hanno portato a separare bambini e genitori migranti, un “confine” che mai dovrebbe essere ammesso. Per fortuna la risposta della magistratura statunitense c’è stata, oltre all’indignazione mondiale, e almeno questo “muro” sembra sgretolato. Ma la particolarità di Trump sta anche nelle paventate politiche interne in tema di migranti, che fanno tremare i tanti messicani che si trovano già sul territorio: migliaia, per esempio, impegnati a lavorare nei campi in California temono l’espulsione. La frontiera ovviamente ha una storia. Dopo la fine della guerra tra Stati Uniti e Messico nel 1848, diventa una zona grigia del contrabbando, mai davvero combattuto. Poi sono arrivati i traffici di armi e di cocaina. Le sostanze stupefacenti rimbalzano dall’America Centrale in America del Nord, in Africa, in Europa e ormai anche in Cina, dove si “arricchiscono” di materie chimiche che a buon mercato aiutano a seminare morte.

Un esempio dei tentacoli che arrivano in Europa ci porta in Italia: rapporti Onu e procuratori locali attestano che nell’ultimo anno in Calabria i narcos messicani hanno sorpassato i colombiani per quantità di cocaina venduta, con una caratteristica: non si accontentano di esportare, ma contendono alla ’ndrangheta la gestione del territorio. È contro tutti questi traffici che andrebbero eretti muri, solidi, che invece non si vedono.

da Famiglia Cristiana del 1 luglio 2019

La Golden Coast, crocevia di interessi

Il Ghana, terra di antiche tratte di schiavitù, oggi è crocevia di interessi tra Africa, Usa, Europa, Cina. Tra mille contraddizioni e il rischio estremismo islamico. di Fausta Speranza

Gli articoli del dossier:

Donne, tutelate solo a parole
I cinesi e la corsa all’oro del Ghana
I piccoli schiavi che sostengono l’economia del Ghana
Ghana: Obloboshie, la discarica dell’Occidente
Ghana, quelle bare creative

Nell’Africa alle prese con l’emergenza Ebola, l’espandersi del fondamentalismo islamico e la nuova colonizzazione cinese, c’è un Paese che spicca per assenza di conflitti, sviluppo economico e legame con l’Occidente: è il Ghana, che, però, visitato da vicino si fa cartina tornasole di tragiche contraddizioni.

Il Ghana è diventato il centro logistico dell’Onu per portare avanti la battaglia contro l’epidemia di ebola in Africa occidentale. Accra è l’hub, il centro di smistamento, di tutte le forniture e gli aiuti alla regione subsahariana, in particolare quelli destinati ai paesi più colpiti come Liberia, Guinea, Nigeria e Sierra Leone.  Si sa bene che Accra ha ristretto di molto le misure sulle migrazioni, volendo evitare l’espandersi dell’epidemia, ma non si sa abbastanza sul numero di contagiati al suo interno. E soprattutto sui possibili effetti di questo isolamento.

Il Ghana mette in atto le più moderne policy dell’Onu sul genere femminile, ma perpetua forme vecchie e nuove di schiavitù. Segna una crescita del PIL del 7,5%, ma tollera un pericoloso livello di povertà nel nord musulmano. Vanta i media più indipendenti del continente, ma non racconta al mondo che si fa discarica dei materiali elettronici di Usa e Europa. Si gloria di non avere conflitti interetnici ma non combatte l’espandersi inquietante di sette protestanti che sfruttano l’ignoranza delle persone per fare soldi, come denuncia a Famiglia Cristiana il segretario generale della Conferenza Episcopale locale.

Nel cuore dell’Africa nera, sul Golfo di Guinea, il Ghana è stato il primo paese del continente che si è reso indipendente dopo secoli di colonizzazione del continente. Nel 1957 ha scelto l’autonomia rispetto alla Gran Bretagna e da allora ha attraversato decenni di pace. C’è stato nei primi anni il controllo stretto da parte della classe militare, un colpo di Stato, ma mai episodi cruenti. E piano piano il Paese dell’Africa occidentale si è incamminato in un percorso verso una forma sempre più compiuta di democrazia. Oggi al Ghana si riconosce un meccanismo di governo democratico, libere elezioni, e grande attenzione alle linee guida delle Nazioni Unite. Non meraviglia, considerato che dal 1 gennaio 1997 al 31 dicembre 2006, il ghanese Kofi Annan è stato segretario generale del Palazzo di Vetro.

C’è poi il legame stretto con gli Stati Uniti. Nel 2009, il presidente Obama ha scelto il Ghana per la sua prima visita nel Continente nero. Non a caso. Il Ghana è stato il principale crocevia della schiavitù. Nella famigerata fortezza di Cape Coast, tra il XVII e il XIX secolo, sono passati in catene tra i 12 e i 20 milioni di persone. Uomini schiavi di altri uomini. Da lì il primo presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti d’America ha lanciato il suo grido di dolore per un passato tanto pesante. Ma basti dire che tra i meandri più corrotti dell’amministrazione di Accra passano i passaporti falsi ghanesi con cui tante prostitute nigeriane arrivano, non su barconi ma in aereo, fino in Europa. Il toccante discorso di Obama da Cape Coast sul cammino di un’umanità dolente che prende coscienza di abissi di disumanità non può essere tutto quello che gli Usa e l’Occidente possono fare.

E poi c’è l’Europa, che figura come primo donatore tra quanti sostengono economicamente il Ghana, che, nonostante la recente scoperta del petrolio, continua a dipendere dall’assistenza internazionale. Proprio dalla delegazione dell’Unione Europea ad Accra arriva l’allarme. Lo sviluppo dell’area sul Golfo, dove si trova la capitale, e il boom di scambi commerciali non deve ingannare: non c’è solo la faccia del sud in via di progressi economici e sociali, c’è anche l’altra faccia del nord povero e musulmano. Incontriamo il consigliere politico Ue nel suo ufficio ad Accra. Si chiama Judikael Regnaut ed è chiarissimo: “C’è il forte rischio che il dilagare dell’estremismo islamico si nutra dell’arretratezza del nord e attecchisca anche nel pacifico e avanzato Ghana”.

Onu, Usa e Ue non possono accontentarsi della faccia più presentabile per cantare vittoria. In Ghana, simbolo dell’Africa in sviluppo, ci si muove in realtà sul terreno ormai obbligato della globalizzazione. Si avverte di viaggiare sì nel cuore dell’Africa nera ma anche su piani intersecanti tra Africa, Europa, Stati Uniti, Cina. In questo senso parliamo di un paese simbolo.

da Famiglia Cristiana del 16 ottobre 2014

TTIP, più politica che economia

Il Trattato commerciale tra Usa e Ue, oggetto di serrate trattative, è un progetto politico assai più che economico. Abbattere le barriere transatlantiche per arginare Russia e Cina. Le incognite.

 

Gli articoli del dossier
di Fausta Speranza
“TTIP, più politica che economia”

 

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Ttip, l’Europa in difficoltà per eccesso di regole

Ttip, le critiche di chi non lo vuole

Agroalimentare e tessile, dove il Ttip può convenire all’Italia

 

Il Trattato commerciale in discussione tra Unione Europea e Stati Uniti, che insieme rappresentano il 46% del PIL mondiale,  non è solo questione di business ma di geopolitica. Con il Trattato si riscriverebbero regole e standard validi, in qualche modo, anche per il resto del mondo.

Si chiama Transatlantic Trade and Investment Partnership, è noto con la sigla TTIP ed è arrivato all’undicesimo round di negoziati, a quasi un anno e mezzo dal mandato a trattare, approvato dai 28 governi Ue a giugno 2013. E’ il Trattato che dovrebbe riscrivere le regole del commercio transatlantico, che rappresenta il 30% degli scambi mondiali ed è  quantificabile in almeno 700 miliardi l’anno. Si tratta, innanzitutto di assicurare accesso a mercati ancora chiusi, ma anche di dar vita a una cooperazione regolamentare che annullerebbe i costi dovuti alle differenze tra normative.

Un solo esempio: oggi un’automobile prodotta in Europa non può essere venduta così com’è negli Stati Uniti, perchè le norme sui paraurti sono diverse. Il costo del necessario adeguamento, anche se si tratta apparentemente di dettagli, può essere più elevato del dazio da pagare. Ecco perchè l’eliminazione dei dazi non è il vero punto forte del Trattato. A ben guardare, lo è, piuttosto, l’omologazione di norme di produzione e di certificazione.

Visto dall’Europa, secondo gli studi di settore, il Trattato dovrebbe incrementare il PIL continentale dello 0,50%. Non è da buttar via, ma non è granché. L’intenzione propositiva di Bruxelles, e l’impegno dei vertici Ue sembrano andare ben oltre tale guadagno. Visto dagli Stati Uniti, non si tratta dell’area di scambi più redditizia: non c’è paragone, infatti, con il volume di affari con il Pacifico, con il quale Washington ha appena firmato l’accordo che porta l’analoga sigla di TTP. Manca l’ok finale del Congresso e si aspetta la pubblicazione dei dettagli a novembre, ma di fatto l’accordo c’è.

A ben guardare, il TTP riguarda più le tariffe che gli standard di regolamentazione e non gli investimenti, ma apre comunque a nuovi affari e guadagni per Washington, tanto da far commentare ad alcuni analisti che l’interesse a chiudere il TTIP con Bruxelles si relativizza. Eppure, tutto fa pensare che l’amministrazione Obama stia, invece, tentando di portare a casa il risultato, pur avendo a disposizione di fatto solo i mesi fino a giugno 2016, prima delle elezioni presidenziali. Si capisce allora che l’importanza è geostrategica.

Di fatto, le nuove regole tra Vecchio e Nuovo Continente per dazi,  barriere non tariffarie e investimenti, rappresenterebbero un punto di vista non più trascurabile per l’altra area del mondo sempre più protagonista: l’Asia, con in testa la Cina. Come dire: nel mondo globalizzato in cui le vecchie regole non valgono più perchè inadeguate, Europa e Usa hanno l’occasione di scriverne di nuove. Il primo obiettivo sarebbe quello di evitare  che prevalgano standard altrui. E parliamo di standard frutto, per esempio, del deregolamentato passaggio da economie di Stato a forme di capitalismo di Stato, come quelle asiatiche che stanno per esplodere sul mercato mondiale.

Basti ricordare che la Cina, dopo il suo ingresso nel 2001 nel WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, attende con ansia, e non senza fare pressione, un pronunciamento a dicembre sulla sua richiesta di riconoscimento del Market Economic Status, lo status di economia di mercato.Significherebbe far avanzare il gigante cinese con assoluta libertà di movimenti. Senza regole.

C’è anche l’esempio della Russia, dove di fatto vige un monopolio energetico con cui soltanto politiche commerciali nuove potrebbero fare i conti in modo adeguato. Hendrik Bourgeois, vice presidente del dipartimento affari europei della General Electrics, assicura a Famiglia Cristiana che il TTIP muoverebbe qualcosa anche in termini di energia. Eliminerebbe alcuni impedimenti all’esportazione di gas dagli Usa, a partire dal particolare permesso per un’azienda Usa che volesse esportarlo, richiesto ora in base al Gas Act. Inoltre, si fisserebbero dei paletti chiari e utili anche per paesi terzi, che volessero esportare nel Vecchio Continente. Questo, secondo Bourgeois,  potrebbe contribuire a liberare l’Europa dal ricatto energetico di Mosca. Difficile risolvere il fabbisogno europeo, ma si può minare la dipendenza dalla Russia, che attualmente copre almeno il 25% del fabbisogno di gas dell’Ue. E’ evidente che il piano del business si intreccia pesantemente con il piano della geopolitica.

da Famiglia Cristiana del 31 gennaio 2016

Paura e speranza: in Ungheria tra i profughi

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Siriani, iracheni, afghani… Le storie dei disperati arrivati con ogni mezzo fin nel cuore dell’Europa. di Fausta Speranza

PAURA E SPERANZA: IN UNGHERIA TRA I PROFUGHI

Gli articoli del dossier

– Orban e gli ungheresi “traditi dalla storia”
– Il braccio di ferro tra Orban e la UE
– Anche nei Balcani, Italia in prima linea
– Wifi più che cibo e coperte

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Sair l’iracheno (sinistra) con padre e figlia incontrati lunga la strada (foto F. Speranza)

Sair è un ragazzo sui 25 anni. Cammina accanto al suo amico e si gira spesso a controllare che l’anziano dietro, sottobraccio a una ragazza, lo segua. Gli chiediamo se sono familiari, esita un attimo e poi ci dice: “Speriamo ci considerino tali e ci facciano salire sullo stesso autobus ma in realtà non lo siamo”. Sair ci racconta di provenire da Baghdad, capitale dell’Iraq infiammato ormai da oltre 20 anni di guerra e terrorismo e ci spiega che ha deciso di scappare quando uomini del sedicente Stato islamico lo hanno contattato chiedendogli di arruolarsi tra loro. “Uccidono innocenti – taglia corto –  non vorrei mai essere con loro, ma so che se rifiuti ti ammazzano e mio padre ha venduto qualcosa per darmi i soldi necessari al viaggio”. Sulla via – ci racconta – ha incontrato questo anziano e sua figlia, che invece vengono dalla Siria e, chiedendoci di non parlare a voce alta,  aggiunge che ormai non vorrebbero separarsi.

“Per gli ungheresi, noi parliamo la stessa lingua – sostiene – e dunque possono credere che siamo familiari”.  Sair sorride. E’ ben vestito e ci confida con fiducia che finora non ha speso tanti soldi, solo 2500 euro per la traversata dalla Turchia alla Grecia. Sorride soprattutto al pensiero di ritrovare suo fratello, partito dopo di lui, per la stessa tratta. “Appena potrò acquistare una sim telefonica che funziona in Europa – afferma – potrò parlarci e sapere che sta bene”.  “Sono sicuro che sta bene, e che non gli è successo come quelli partiti tre giorni prima di noi: affogati in 33”. “No, a mio fratello non è successo, sono sicuro”.  Ci saluta dicendo nel suo buon inglese: “Sai, la situazione a Baghdad è peggio di quanto raccontano tutte le news, non farti mai venire in mente di andarci”.
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Ragazzo che non parla inglese (foto F. Speranza).

Ha i capelli tinti di biondo e una maglietta un po’ attillata. Mentre ripete che avrà una nuova vita, ostenta un sorriso che definiremmo sfacciato se non fosse palese la reazione eccitata che segue una grande paura. Ha circa 40 anni e non vuole dirci il suo nome né farsi fotografare. Ci dice che vuole fare il parrucchiere e poi,  dopo qualche minuto di conversazione,  si para dietro un sorriso diverso, pacato e ci dice: “Sono afghano, per quelli come me non c’è proprio posto in Afghanistan”. Tamas Lederer di Migraion Aid ci spiega: “Dall’Afghanistan sono tanti gli uomini soli, senza famiglia, anche perchè sono tanti gli omosessuali che scappano”.

Una donna, al cenno di un poliziotto, fa un passo avanti ma il marito vicino reagisce in modo quasi scomposto e la trattiene. Lui ha capito che il poliziotto in inglese ha accompagnato il gesto di via con l’indicazione precisa che su quell’autobus c’è posto ancora solo per due persone. Loro sono quattro: ci sono le due figlie piccole. Abbiamo osservato la scena e l’uomo si gira a spiegarci che sono partiti dalla Siria in venti, tutti familiari. In Turchia si sono persi: sono rimasti loro quattro e mai – ci dice – potrebbe separarsi dalla moglie e dalle figlie. Tira un sorriso di sollievo quando il poliziotto capisce e  lascia tornare indietro la moglie che sembra persa.

Un altro uomo sui trent’anni ci passa davanti a testa bassa per accedere agli autobus. Gli sorridiamo e gli chiediamo in inglese se ha qualcosa da raccontarci perchè i cittadini europei conoscano di più le storie di chi chiede di essere accolto. Ci dice con un’espressione sofferente: “no English”. Riabbassa la testa. Poi la rialza e inizia a parlare nella sua lingua, che non conosciamo. Ci fermiamo ad ascoltarlo, con un auspicio nel cuore: che l’Europa sappia comprendere quello che c’è da capire al di là delle parole.

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Una mamma, troppo stanca per farsi intervistare (foto F. Speranza).

Una donna cammina accanto al marito con un bambino in braccio ma poi si avvicina a noi lasciando il marito un po’ indietro, con un gesto che si distingue dal modo di fare delle altre donne che non fanno un passo se non accanto ad un uomo. Ha capito che stiamo facendo interviste e in inglese ci dice: “Peccato che sono troppo stanca per parlare”. Un attimo dopo è di nuovo vicino al marito, avvolta nella coperta e – ci sembra – in una nuvola di dolore

Dalla fila si stacca un ragazzino di dieci anni suscitando la reazione immediata ma molto composta di un poliziotto austriaco. Il ragazzino raccoglie un marsupio da terra. Il poliziotto non lo perde di vista un attimo ma lo lascia esultare con un compagno di giochi.

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Una ragazza siriana in attesa di salire sull’autobus per un’altra destinazione europea (foto F. Speranza).

da Famiglia Cristiana del 29 settembre 2015

Libertà di fede contro il terrorismo

Al Consiglio d’Europa, dialogo tra monsignor Gallagher e Heiner Bielefeldt, relatore speciale dell’Onu sulle questioni di credo. Ecco perché la libertà di culto aiuta la politica. di Fausta Speranza

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Da sinistra: mons. Gallagher, Gabriella Battaini Dragoni e Heiner Bielefeldt (foto F.Speranza).

“Il contrario dell’estremismo non è la moderazione ma la libertà del più autentico spirito  religioso”:  è la convinzione del Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulle questioni di credo, Heiner Bielefeldt. Incontriamo Bielefeldt a colloquio, a Strasburgo, con il segretario degli Affari esteri della Santa Sede, monsignor Paul Gallagher, che della libertà religiosa dice: “Non è solo diritto umano basilare ma è fondamento politico di convivenza”.

Si parla della dimensione religiosa del dialogo interculturale. Padrone di casa è il Consiglio d’Europa. Si tratta di una tappa di riflessione in vista del Seminario che la presidenza di turno della Bosnia Erzegovina sta preparando a Sarajevo per l’8 e il 9 settembre. Il tema è: “Costruire societa’ inclusive”.

A dettare l’agenda è quella che Bielefeldt definisce “l’urgenza esistenziale del mondo di oggi”, cioè il terrorismo legato a radicalismo e  fondamentalismo. Colpisce la raccomandazione del laico rappresentante Onu: “Guai a pensare che la religione sia questione da etnografi”. Guai a tornare a pensare, come a volte si è fatto, che la laicità possa o debba fare a meno delle religioni nel dialogo tra culture.  Dimensione religiosa, dunque, imprescindibile: su questo concordano Chiesa e Onu e Consiglio d’Europa che, ci ricorda la vicesegretario generale Gabriella Battaini Dragoni, dal 2008 organizza incontri annuali dedicati proprio a questi temi e che ammette che prima non c’era la stessa sensibilità ma piuttosto una certa pretesa di neutralità in tema di convinzioni religiose.

Dunque, emerge l’importanza di difendere la libertà di religione e di credo.  Ma il punto più interessante è sul perché vada difesa. Lo spiega mons. Gallagher: “Va difesa perché ha un importante valore politico”. Non è tolleranza, aggiunge, ma rispetto e condivisione di una piattaforma comune di valori.  La liberta’ religiosa è fondamento di convivenza.

Forte il richiamo di mons. Gallagher:  “Nessuno ha il monopolio dei diritti umani”. “Nelle attuali società pluralistiche e multiculturali, bisogna saper riconoscere i valori e dialogare”. Dunque, la raccomandazione:  “Lo Stato deve essere laico ma non indifferente ai valori religiosi”. Ma poi c’e’ un richiamo forte anche alle religioni stesse: “Se le religioni non si fanno parte della soluzione contro il terrorismo, diventano parte del problema.”

Guardando all’obiettivo finale di avere società inclusive, il Relatore speciale dell’Onu ammette: “La comunità internazionale ha molto ancora da fare”. Parlando con Famiglia Cristiana, tiene però a sottolineare un esempio positivo: la Sierra Leone, appena visitata. Un Paese, dice, dove la pacifica convivenza tra cristiani e musulmani è esemplare. Dispiace sentirla citare come una felice eccezione di fronte alle violenze che imperversano dal Centrafrica al Sud Sudan, per non parlare del Nord Africa. Ci piacerebbe che ad essere un’eccezione fossero le violenze.

In ogni caso, Bielefeldt spiega che quello che lo ha colpito in Sierra Leone è che “l’armonia non è convivenza alla Voltaire ma è frutto di impegno”. Li’,  dice,  si percepisce quello che in troppi posti del mondo si e’ perso: “La voglia di lottare per il bene, l’impegno a pensare ai diritti umani come a un progetto di pace e non come a rivendicazioni personali”.  E’ proprio nella spinta verso i valori piu’ alti del bene comune che risiede a suo avviso il contributo più alto delle religioni.

Da parte sua, mons. Gallagher chiede agli organismi internazionali una visione alta della dignità dell’uomo, che sia aperta al contributo di tutte le parti delle società multiculturali ma nella ricerca della verità.

da Famiglia Cristiana del 10 giugno 2015

La fede che aiuta

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Le associazioni a carattere religioso garantiscono oggi aiuti a 80 milioni di persone coinvolte da guerre e catastrofi. L’incontro, organizzato da Onu e Ordine di Malta, per riflettere sul ruolo delle religioni nelle emergenze.
di Fausta Speranza

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La platea dell’incontro di Ginevra.
“Siamo tutti in un grande reality di guerra, con 180 milioni di persone vittime di sofferenze in scenari senza precedenti di violenze, di cui 9 su 10 sono civili”. Sono parole della persona che il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, ha scelto per guidare il team internazionale che prepara il primo summit umanitario mondiale, che si terra’ a maggio 2016  a Istanbul.

Parliamo di Jemilah Mahmoud, per anni medico in prima fila in vari conflitti, sfuggita alla morte in un agguato in Afghanistan. Incontriamo la signora Mahmoud a Ginevra, al Simposio che vuole preparare quello che lei definisce uno dei dossier piu’ importanti del World Humanitarian Summit: il dossier sul ruolo delle religioni. L’84% della popolazione mondiale segue un credo religioso, ricorda Mahmoud, sottolineando che organizzazioni a carattere religioso assicurano la maggior parte dell’assistenza umanitaria da cui dipendono attualmente nel mondo 80 milioni di persone. Lo dice raccomandando di non parlare solo delle distorsioni politiche degli estremismi. Bisogna ricordare il lavoro silenzioso e essenziale che fanno, in contesti di guerra, persone ispirate a quei principi di solidarieta’, bene comune, pace che le religioni custodiscono.

Il Simposio del 27 maggio 2015 a Ginevra, che riunisce leader di quattro confessioni, cristiana, ebrea, musulmana e buddista, e’ frutto della collaborazione tra le Nazioni Unite, padrone di casa, e il sovrano Ordine di Malta, tra i protagonisti sulla scena mondiale e in particolare in Medio Oriente dei piu’ importanti progetti di assistenza umanitaria, come sottolineato dal direttore della sede a Ginevra dell’Onu, Michael Moller.

E’ molto concreto il Gran Cancelliere e ministro degli Esteri dell’Ordine, H. E. Albrecht Freiherr von Boeselager, a chiarire che le organizzazioni religiose sono le prime a portare aiuto anche perche’ hanno istituzionalmente  infrastrutture di assistenza nei vari paesi e perche’  hanno esperienza di cooperazione tra varie confessioni. Questo dunque il segreto, oltre allo spessore etico e allo spirito di sacrificio, del ruolo delle religioni. Un ruolo pero’ che va studiato, ripensato e accompagnato, come va ripensato tutto l’impegno umanitario su terreni dove i conflitti sono cosi’ diversi dal passato. Le guerre sono asimmetriche, ci ricorda von Boeselager, sottolineando che troppo spesso non c’e’ rispetto dei piu’ basilari principi dei regolamenti internazionali. E questo perche’ – avverte – ci sono forze terroristiche che travalicano qualunque principio ma anche perche’ la tecnologia stessa contribuisce a cambiare i termini della questione. Ci fa un esempio pesante: i droni, aerei senza piloti che  allontanano per vari motivi dalla dimensione umana. Tutto contribuisce a rendere piu’ difficile lo sforzo di salvare vite umane e diminuire le sofferenze. Un paradosso nel mondo sempre piu’ globalizzato.

Da sempre le organizzazioni ispirate a valori religiosi, se non sono gia’ presenti,  sono le prime ad arrivare e le ultime a partire in caso di grandi emergenze umanitarie.  Un’altra caratteristica fondamentale e’ che il loro arrivo non e’ legato a interessi politici.
Ma c’e’ altro su cui lavorare. Ed e’ il ruolo che i leader religiosi possono giocare nella battaglia contro i fondamentalismi. Al Simposio a Ginevra si dicono tutti d’accordo su questo, a partire dal Gran Rabbino Marc Raphael Guedj, presidente della Fondazione Radici e fonti. E’ d’accordo anche il dottor Hani El-Banna, co-fondatore di Islamic Relief e fondatore del Muslim Charities Forum. El-Banna pero’ sottolinea anche insistentemente il rischio di islamofobia.

In ogni caso, il ruolo delle religioni non finisce qui. C’e’ il rapporto con il mondo della politica, dai governi alle istituzioni internazionali. E’ l’Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Onu a Ginevra, l’arcivescovo Silvano Tomasi, ad affermare che i leader religiosi devono interpellare i politici a vari livelli. Mons.Tomasi dice: “Dobbiamo fare una domanda importante sul ruolo delle organizzazioni internazionali, che in questo momento sembrano paralizzate e non in grado di dare una risposta alle crisi gia’ avvenute e incapaci, o non all’altezza, di prevenire le esplosioni di violenza”.

E monsignor Tomasi ci porta al cuore del problema affermando: “Gli Stati che compongono queste organizzazioni hanno interessi piu’ forti della solidarieta’ e degli impegni che hanno preso quando si sono associati in queste organizzazioni”. L’ambasciatore di Papa Francesco chiede  “coraggio di dialogare nonostante le crisi sempre piu’ complesse e la violenza sempre piu’ efferata dei terroristi”.

Dunque, le religioni protagoniste  di assistenza umanitaria, cooperazione e riconciliazione, ma anche doverose spine nel fianco del mondo della politica.

da Famiglia Cristiana del 1° giugno 2015

Ambiente, la Cina s’ispira a Venezia

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Un museo internazionale dell’acqua a Venezia, diretto dal cinese Zheng Xiao Yun. Che dice: “La Cina deve ispirarsi a voi per una politica dell’ambiente”. di Fausta Speranza
zheng    Zheng Xiao Yun

Entro un anno Venezia ospiterà il primo museo internazionale dell’acqua grazie a un cinese. Ma non si tratta di un finanziamento economico.  Parliamo del prezioso contributo del presidente della International Water History Association,  Zheng Xiao Yun, che,  in Cina, è a capo della nazionale Accademia delle Scienze Sociali. A chiamarlo a Venezia è il Centro internazionale della civiltà dell’acqua, guidato dall’italiano Eriberto Eulisse. Il Centro promuove, da oltre dieci anni,  una concezione alta dell’acqua non solo in quanto essenziale risorsa naturale ma come elemento costitutivo di culture e civiltà.

In particolare,  con l’incontro voluto in questi giorni dal 13 al 15 maggio a Venezia, il direttore Eulisse ha aperto il dibattito sulla valorizzazione del patrimonio rappresentato dalle antiche vie dell’acqua europee. Ha richiamato studiosi non solo d’Europa ma di Egitto,  Australia, Canada, Cina perchè il dibattito fosse arricchito dal punto di vista esterno al Vecchio Continente. Ma la Carta che viene sottoscritta a conclusione è una Carta della Storia dei canali europei.  Vuole essere un punto di riferimento per il mondo politico per la promozione dell’identità europea legata al patrimonio della rete idrica creata dall’uomo a partire dal Medio Evo. Una rete che ha favorito relazioni commerciali e espansione di centri urbani.

In sostanza si tratta di attivare una collaborazione internazionale su temi di civiltà, senza trascurare le specificità europee. E il Centro Internazionale dell’acqua,  promuovendo questo forum 2015,  ha creato il bacino giusto perchè prendesse il largo l’iniziativa del Museo dell’acqua. Nell’intervista a Famiglia Cristiana, il prof. Zheng Xiao Yun, che è un nome a livello internazionale per la promozione del valore di eredità culturale rappresentato dall’acqua, tiene a sottolineare che la sua organizzazione ha pagato le spese della sua partecipazione al convegno sui fiumi e canali europei, perchè – dice – “la Cina ha molto da imparare dallo spessore culturale europeo e dalle politiche di tutela dell’ambiente dell’Unione Europea”.

Zheng Xiao ci dichiara senza mezzi termini, in perfetto inglese, che “la Cina deve mettere in moto una politica ambientale seria”. Ci spiega con un sorriso cordialissimo: “Nel mio Paese mi batto perchè si capisca che l’acqua non ha bisogno solo di ingegneri ma di intellettuali e poeti che ne capiscano il respiro culturale. E’ il respiro che trovo in Europa”.

Dunque, constatiamo che l’Europa stanca e depressa, che chiama un cinese a guidare il Museo dell’acqua,  resta leader culturale. Con la responsabilità grande di non dimenticarlo, presa da vicende finanziario-economiche, e  in preda a paure identitarie. Intanto, il Museo dell’acqua si farà entro un anno, massimo due, ci assicura Zheng.

E sarà un prodotto culturale della buona globalizzazione. Quella che ha portato, in questi giorni a Venezia gioiello artistico unico al mondo, esponenti di diverse nazioni e continenti ma di affine sensibilità sull’urgenza di un approccio nuovo  all’ambiente. Non come territorio da depredare ma come humus per un nuovo umanesimo. L’acqua, dunque, come paradigma di risorse e bisogni  primordiali dell’uomo.

Resta da dire che, ascoltando interventi di francesi, britannici, spagnoli e italiani colpisce come gli interventi appassionati di questi ultimi fossero per la realizzazione di progetti pensati e faticosamente abbozzati,  mentre le altre testimonianze portavano la documentazione di progetti realizzati. Un solo esempio: dalla Spagna la valorizzazione delle rive urbane del fiume  Manzaranes che taglia Madrid. Fino a pochi anni fa correva una strada a doppia corsia laddove fino al 1955 si poteva fare il bagno, e oggi si è recuperato un lungo spazio di verde e pista ciclabile.

Esempio italiano: il veneto Francesco Calzolaio, presidente dell’associazione Venti di cultura, ha difeso con convinzione il bel progetto di Lagunalonga che faticosamente cerca di valorizzare tutta la ricca laguna veneta. Un progetto che trova per la prima volta la complicità del Comune di Venezia che dal 21 maggio inaugura il suo spazio con marchio Expo ospitato però a Venezia. Uno spazio che intende proprio presentare al mondo l’intero spaccato lagunare per una valorizzazione più ampia e – si spera – più consapevole dei bisogni. Una valorizzazione tutta da fare. Anche in base ai bisogni di Venezia, al di la’ delle polemiche politiche sul Mose e dell’attesa del nuovo sindaco che uscirà dal voto del 31 maggio, dopo un anno di commissariamento.

In definitiva,  si spera di veder fiorire il nuovo umanesimo di cui abbiamo sentito parlare e di veder presentare al prossimo Forum del Centro internazionale dell’acqua, che sceglie ogni anno una citta’ diversa, sempre più progetti italiani realizzati e non solo ideati. Insieme al Museo dell’acqua pensato con pensiero internazionale su territorio italiano.

da Famiglia Cristiana del 16 maggio 2015