Libano, il tragico destino di un paese fragile

di Fausta Speranza

Nell’aria irrespirabile, con la voce troppo rassegnata per la sua età, un bambino asseconda lento il soccorritore che gli porge il braccio. Lo guarda e chiede: «Ma siamo morti?». È il racconto di Aarif, l’operatore della Croce Rossa che lo ha trovato tra le macerie dei caseggiati popolari di Beìrut, dopo le violente esplosioni nel porto che, il 4 agosto, hanno lasciato la città devastata, con almeno 160 morti accertati, 5 mila feriti, tanti dispersi, 300 mila sfollati e molti dubbi sulle responsabilità. Il doppio boato e il fuoco nel cielo hanno come fermato il tempo dall’antica terra fenicia alle spiagge di Cipro. Poi la notizia ha scosso il mondo, fino a quel momento indifferente al disastro che si stava consumando in Libano, un Paese piccolo come l’Abruzzo, bello e impossibile, riflesso delle contraddizioni arabe e dei contrasti che investono Oriente e Occidente. Siamo nel quartiere di Karantina, sorto cento anni fa a ridosso del porto di Beirut come prima quarantena sanitaria della regione. Un nome tristemente tornato di moda in epoca Covid. Tra carcasse di navi, scheletri anneriti di capannoni e residenze in frantumi si fatica a riconoscere quella Beirut e quel Libano che, dopo anni di guerra e mille acciacchi, erano tornati a essere una sorta di Svizzera del Medio Oriente. Le deflagrazioni sono avvenute nel deposito di nitrato di ammonio, composto chimico utile in agricoltura e per produrre esplosivo: ne erano stoccate più di 2.700 tonnellate. Resta il dramma dei soccorsi: gli ospedali erano già prossimi al collasso per il coronavirus. Ora a Beirut tre sono rasi al suolo e due parzialmente distrutti.

All’ospedale di Geitawi si è recato subito il Patriarca di Antochia dei maroniti, il cardinale Bechara Boutros Rai.

Ha girato senza sosta tra le macerie, ha visitato la cattedrale di San Giorgio seriamente danneggiata, altri edifici colpiti come la chiesa di San Marone, il Patriarcato armeno cattolico, la sede vescovile greco-ortodossa e quella maronita, chiedendo aiuto al mondo perché il Libano continui ad essere luogo di convivenza, unità e libertà». Sono seguiti giorni di dolorosa rabbia della popolazione, con gravi disordini: un poliziotto morto e nuovi feriti. Di «convivenza ora molto fragile», ha parlato domenica 9 agosto anche papa Francesco, pregando perché «possa rinascere libera e forte». Tanti Paesi hanno promesso interventi: 250 milioni di euro che verranno dati alla Croce Rossa, a Ong e alle istituzioni, a patto della massima trasparenza e delle riforme necessarie. Il punto è che non c’è solo il ground zero di Beirut. La crisi economico-finanziaria e sociale denunciata dal default a marzo scorso è gravissima. I continui blackout dell’elettricità suggeriscono l’immagine di un Paese in cui a intermittenza di settimane arrivano notizie di suicidi tra la popolazione. Le situazioni allo  stremo sono tante e non soltanto tra  i profughi, in maggioranza siriani che da anni sono giunti nel Paese in  proporzioni bibliche: circa 1,7 milioni su 4,5 milioni di abitanti. Con la lira libanese meno dell’85% del valore, gli stipendi dimezzati, padre Michel Abboud, responsabile della Caritas Libano, afferma che metà della popolazione è caduta in miseria: oltre un  quarto di loro sopravvive a stento con meno di 5 dollari al giorno. Le suore del Buon Pastore, che nel dispensario Saint Antoine nel quartiere Roueissat già aiutavano 6.000 persone all’anno, accolgono ora molti bambini traumatizzati e si preparano ad assistere un numero crescente di famiglie. Gli scandali bancari si accompagnano alle proteste di piazza contro il carovita e la corruzione, che
proseguono da ottobre nonostante il cambio di Governo e nonostante il lockdown. La classe politica, che non riesce a negoziare aiuti dal Fondo monetario internazionale perché incapace di impegnarsi nelle riforme richieste, è condizionata da interessi stranieri e invischiata nella rete di clientele creatasi tra le maglie del delicato sistema di convivenza tra le tre principali comunità religiose. Nel paese che riconosce nella Costituzione 18 confessioni religiose, le più importanti cariche istituzionali – presidente della Repubblica, primo ministro, presidente del Parlamento – sono attribuite rispettivamente a un cristiano, un musulmano sunnita, uno sciita, in base alle proporzioni nella popolazione. Ma, in realtà, l’ultimo censimento risale al 1932. Si evitano verifiche dai potenziali effetti dirompenti.

Da tempo il commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet parla di <<situazione che sfugge al controllo>>. Si attribuiscono espressioni simili al presidente Michel Aoun, mentre l’esecutivo, presieduto da Hassan Diab, sull’onda dei moti di piazza ha perso tre ministri in due giorni. Nell’equilibro del Paese che confina con Israele e Siria si sono innescate pure altre dinamiche che hanno determinato il prosciugamento delle casse dello Stato, a partire dal passo indietro negli investimenti dell’rabia Saudita che mal sopporta che il partito sciita Hezbollah, filo iraniano, stia al Governo.

Sullo sfondo restano guerre per corrispondenza tra potenze regionali e quel confronto tra sunniti e sciiti che è il nodo dei nodi di tutta l’area.

Ci sono pagine di storia da completare: si aspetta il verdetto del Tribunale speciale dell’Onu sull’assassinio di Rafiq al-Hariri, il primo ministro ucciso, con altre 21 persone, in un’esplosione sul lungomare di Beirut nel 2005.  Sono state processate in contumacia quattro persone, membri di Hezbollah, che nega le accuse. Per rispetto alle vittime l’annuncio è stato posticipato dal 7 al 18 agosto. La ferita è ancora aperta e anche questa sentenza potrebbe avere la sua onda d’urto. Qualche settimana fa, il Patriarca maronita aveva invitato i politici a «restituire al Libano la sua neutralità», ma non basta più sottrarsi alle contese. Bisogna rimettere in sesto il Paese dei cedri, da 30 anni baluardo di pace e di convivenza nell’area del Medio Oriente, che non è mai stata così militarizzata dalla fine della Seconda guerra mondiale.

da Famiglia Cristiana del 16 agosto 2020