I padri dell’Europa

Il pontificio Consiglio di Scienze Storiche presenta il volume “I padri dell’Europa. Alle radici dell’Unione Europea” di Cosimo Semeraro. Partecipano il cardinale PAUL POUPARD e gli ambasciatori dell’Unione Europea e della Germania presso la Santa Sede. Modera il dibattito Fausta Speranza.

https://www.faustasperanza.eu/images/stories/videos/cosimosemeraro.wmv

 

Contributi a Libri

Al mio Paese Sette vizi. Una sola Italia.

 libro di nove giornalisti italiani, tra cui Fausta Speranza.  Un viaggio inedito nella storia d’Italia


Dalla strage di Capaci al Concilio Vaticano II, passando per il delitto Pasolini, il colera del ’73, il nuovo meridionalismo e il Codice Da Vinci.

 Vanni Truppi, Carlo Puca, Luciano Ghelfi, Luca Maurelli, Carlo Tarallo, Tiziana Di Simone, Giuseppe Crimaldi, Fausta Speranza, Gianmaria Roberti hanno firmato i contributi in bilico tra cronaca e narrazione che compongono il libro pensato e scritto da Melania Petriello. Il prologo è del giornalista inviato Franco Di Mare e l’epilogo dello storico Fabrizio Dal Passo, docente di storia moderna all’Università La Sapienza di Roma. Edimedia Edizioni. Giugno 2012

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In tema di comunicazione Fausta Speranza ha scritto:

il capitolo Radio e tecnologie avanzate del volume Lo scenario dei media, Edizioni Kappa, 2007

il capitolo Internet: metafora della comunicazione, del volume Globalizzazione e nuovi conflitti, Biennale Europea Riviste Culturali, 2002

il capitolo L’evoluzione del sistema radiofonico del volume La galassia dei media. Viaggio dalla old alla new communication, Edizioni Kappa, 2001

War e Press

IL GUSTO DEI MEDIA PER LA CATASTROFE O GUERRA IN TV:

TRE MILIONI DI TELESPETTATORI BAMBINI

Dagli Atti del convegno

“Guerra e media: il gusto della catastrofe” è il titolo di un convegno organizzato dall’Università degli Studi Roma Tre e dall’Associazione Stampa estera, promotrice Marcelle Padovani, corrispondente de “Le Nouvelle Observateur”. Di fronte all’ennesimo dibattito, viene da chiedersi se è ancora utile riflettere sulla relazione guerra e media. La risposta è, senza dubbio alcuno, sì. Primo, perché la guerra non è finita e secondo, perché l’analisi di come i media si comportano all’interno dei grandi eventi dovrà diventare una delle nostre funzioni critiche fondamentali. Capire i media sarà nei prossimi anni vitale per la libertà dell’informazione e dei cittadini stessi. Anche la globalizzazione, infatti, altro non è che un fatto comunicativo.
Gli organizzatori di questo convegno hanno sottolineato una verità che è sotto gli occhi di tutti (basta lasciarsi andare alle serate in tv),  “questa è stata una guerra combattuta dai media, più che con i media, in cui l’uso dell’immagine da trasmettere ha giocato e gioca ancora un ruolo fondamentale”. Per l’appunto, dunque, potere mediatico sommato al potere delle immagini, cioè alla televisione.
Gli interventi di apertura sono stati affidati ad alcuni docenti, togliendo in questo modo al convegno la visuale degli storici del momento, anteponendo quella dei filosofi, che hanno dato così della guerra una visione più analitica e distaccata.
Hanno parlato con vivacità Franco Monteleone, docente di storia della Radio e della Televisione, Giacomo Marramao, docente di Filosofia Politica, Enrico Menduni, docente di Linguaggio Radiotelevisivo ed è poi intervenuto Giampiero Gamaleri, docente di comunicazioni di massa a Roma Tre. Molto interessanti per le informazioni che hanno dato e per il diverso punto di vista gli interventi di Samir Al Quariati della televisione araba Al Jaazira e di Francisco Arajo Neto, corrispondente per il brasiliano “O Globo”. Altri esponenti del giornalismo hanno portato la loro esperienza e riflessione:  Roberto Morrione, direttore di “Rainews 24”, Guido Rampoldi, inviato di “Repubblica” e Fausta Speranza, di Radio Vaticana e collaboratrice di Comunicazione di Massa all’Università RomaTre, che ha parlato di “buchi neri dell’informazione” spiegando che nessuno poteva immaginare né prevedere l’11 settembre però non si giustifica  il silenzio e l’assenza di informazione nel prima. Nessuno parlava di Bin Laden e delle sue reiterate minacce, dei Taleban e delle efferate scelte di un regime che lanciava proclami di odio contro gli Stati Uniti, della Jihad, dell’Islam. D’accordo con questa valutazione, Roberto Morrione ha aggiunto come nella disinformazione ci si ricade subito dopo l’effetto allarmismo da catastrofe, ricordando che l’Afghanistan è scomparso dalle pagine dei giornali  con i combattimenti ancora in atto e senza una conclusione del conflitto e, dunque, senza analisi o riflessioni.

La chiave della lettura di questa guerra è stata in questo convegno la parola “catastrofe”. Con l’aiuto del vocabolario leggiamo il senso profondo di questa parola che ha a che vedere con rivolgimenti, sciagure ed eventi gravissimi, qualcosa che attiene alla natura e sembra una calamità, senza soluzione nella sua negatività. Ma è qualcosa di più che la parola catastrofe sottolinea in questa guerra. Un po’ come nella tragedia greca l’accadimento così come viene proposto dai media è subito, più che spiegato o illustrato ai lettori, come dovrebbe. Questa guerra vista dai e sui giornali è stata chiamata da Franco Monteleone la cultura del disastro, una guerra tutta diversa dalle altre, senza un nemico identificabile, una guerra che ha creato il rischio della narcosi. Telespettatori e lettori sono stati vicini all’ assuefazione ad un dramma, come ha detto Giacomo Maramao, un dramma prigioniero di una estetica delle immagini televisive. Tanto da diventare simile ad una specie di serial del terrorismo, una narrazione a puntate trasmessa in diretta, come ha detto Enrico Menduni.  «Le gesta delle Brigate Rosse furono un cupo serial, così gli attentati dell’Eta». Un attentato diventa per la tv dunque un evento mediale. In altre parole, ha detto Menduni: «Il parlarne produce un effetto positivo sull’organizzazione che l’ha realizzato come la performance di una industria migliora i corsi borsistici delle sue azioni».
Ma le notizie sull’11 settembre davvero erano così catastrofiche e virtuali nella loro esposizione su giornali e tv? L’analisi critica della stampa italiana e straniera è stata realizzata da un gruppo di studenti del corso di Sociologia dei media, coordinati da Marina Loi, nel corso di una ricerca promossa da Marcelle Padovani e dal professor Meduni, per il corso di Studi “La comunicazione nella società della globalizzazione”. La ricerca ha dimostrato quanto il giornalismo italiano non sappia rinunciare allo spettacolo, creando consapevolmente o meno un’atmosfera di catastrofismo, come si diceva  in apertura. Cominciando con i grandi quotidiani, come “La Repubblica” (ricerca di Marco Tullio Liuzza), “Il Corriere della Sera” (Silvia De Feo, Davide Scafuro, Maria Chiara Di Felice), che troppo spesso cedono alla tentazione di trasformare ogni protagonista in personaggio e di enfatizzare le notizie e puntare al colore più che ai fatti, sino a giornali come il “Messaggero” (Valentina Proscio), che puntano decisamente i riflettori sul lato emotivo, enfatizzando uno stile da romanzo e da intrattenimento stile fiction tv, al “Mattino di Napoli” (Patrizia Corsaro) che ha evocato atmosfere da fine del mondo. Nessuno è esente da quello che oggi si chiama preziosamente infotainment, nemmeno l'”Espresso” (Luca Patrignani, Alessandro Marascia e Francesco Riccardi), tantomeno le televisioni, “Canale 5” (Simon Cittati, Pietro Bardelli, Diego Nannuzzi),  “Sciuscià” di Michele Santoro (Ilario PIagnerelli, Lucia Bracci, Maria Chiara Perugini, Raffaella Polselli).
E gli stranieri? Tutti più bravi di noi. La stampa francese (ricerca di D’Onofrio, Denti e Loi) si fregia di “Approfondimenti, sobrietà, rigore e toni poco inclini al sensazionalismo, di un rapporto misurato tra scrittura e immagini, meno grafici, meno virgolettati, meno fotografie”. Insomma più contenuti.
“Le Nouvel Observateur” (Silvia Tarquini) usa “toni pacati ma determinati, ha attenzione ai musulmani che hanno condannato l’attentato”, etc.. Serietà e accuratezza nelle fonti per “L’Economist” (Paola Taqruini); riflessivo l'”International Herald Tribune”. Elogi dunque alla stampa estera dagli studenti. Aggiungiamo noi una critica. Sono elogi facili, visto che partiamo da un confronto con un giornalismo notoriamente sensazionalista, come il nostro, viziato da uno strapotere e da una competizione difficile come quella della tv. Fausta Speranza, giornalista di Radio Vaticana e collaboratrice di Comunicazioni di Massa dell’università Roma Tre, che ha analizzato le tv ha sottolineato come dopo un iniziale impegno per un giornalismo serio, anche le tv abbiano ceduto al sensazionalismo scegliendo la strada dell’allarmismo, sia nelle immagini che nei contenuti.   Un comportamento che sembra ancora più colpevole perché quella professionalità,  che non manca anche in Italia e che scende in campo di fronte all’evento straordinario, viene poi sacrificata, in una seconda fase più ragionata, alle logiche di un giornalismo-spettacolo. Quell’allarmismo che di solito si nutre di delitti, di stupri, di incidenti, di ondate di immigrati, nei giorni successivi  all’11 settembre  è ritornato  sotto forma di terrore dell’antrace, accompagnato da vaiolo, peste, veleni chimici.  Salvo poi, ha sottolineato Fausta Speranza, non parlarne più dall’oggi al domani.

Interessantissimo e da ampliare lo spunto sui bambini che hanno visto la guerra in tv (Valentina Diaco). Ottima idea per una ricerca anche istituzionale. Tre milioni di piccoli telespettatori, dai 4 ai 10 anni, hanno visto la tv in prima serata: 40 mila bambini per “Porta a Porta”, 53 mila per “Sciuscià”, 180 mila per il “TG2” e 210 mila per il “TG1”. Gli effetti? Scontati: ansia, assuefazione e abbassamento della soglia della sensibilità. I lettori di domani saranno, dunque, potenzialmente meno critici di noi.

La globalizzazione e le contraddizioni dell’informazione

pubblicato su TABLOID, n°8 Settembre-ottobre 2001 da Fausta Speranza

Un esame di coscienza sulla comunicazione in relazione al G8 prima ancora che il summit si tenesse. E’ stato anche questo il senso dell’incontro che ha riunito studiosi della comunicazione e giornalisti, a Genova, la settimana prima del fatidico vertice. L’incontro si inseriva nel ciclo di conferenze, dedicate ai vari aspetti della globalizzazione,promosse nell’ambito della Biennale Europea delle Riviste Culturali, che dal ’99 offre l’occasione di un confronto sulle diverse proposte culturali, perchè l’Europa unita non sia solo economica. Nelle varie giornate si è parlato di globalizzazione e cooperazione con i paesi poveri del mondo, di frontiere nazionali e conflitti, di diritti alla cultura e modelli di sviluppo. Un’intera giornata, poi, è stata dedicata ai sistemi informativi e di comunicazione di massa. L’esame di coscienza ha riguardato il clima di alta tensione che si era creato alla vigilia dell’appuntamento, prima ancora dell’inizio delle manifestazioni e del triste epilogo della prima giornata, chiusasi con la morte del giovane Carlo Giuliani. Diversi i contributi alla riflessione.
Il profesosr Anthony Delano, che è stato inviato di importanti quotidiani anglosassoni e che ora è insegnante della School of Media di Londra, ha parlato di un’esasperazione dei toni che tradisce i principi di oggettività e professionalità del buon giornalismo. I giornalisti Paola Pastacaldi, Gianni Minà e chi scrive hanno soprattutto denunciato il rischio di una progressiva perdita di contenuti. Allargando lo sguardo oltre l’evento, Delano ha messo in luce i rischi dell’informazione globalizzata che fa rima con digitalizzata. E’ innegabile che la tecnologia abbia rivoluzionato il modo di fare giornalismo, basta pensare alla quantità di siti web a disposizione che fa impallidire la rosa dei quotidiani esistenti al mondo. Fin qui, pochi rischi, anzi opportunità. Il punto – ha spiegato Delano – è che la globalizzazione delle agenzie di stampa fa sì che sempre meno giornalisti “producano” la notizia e sempre di più la “lavorino” semplicemente. Da autorevole veterano, Delano araccomanda ai giovani di conservare la curiosità e la grinta per andare a caccia delle notizie, ma si rende conto che la necessità di trovare un lavoro, in un campo che non offre neanche in Gran Bretagna larghi spazi, catalizza le energie dei novelli giornalisti. L’obiettivo diventa un posto al desk che facia guadagnare qualche cosa e che inserisca in una struttura. Con buona pace delle notizie da andare a scovare, ci si dedica a quelle già a disposizione sullo schermo, ricco di lanci di agenzie e di tutto il ben di Dio offerto da Internet. Ma – sottolinea Delano – si trova non ciò che si cerca ma quello che c’è. Su questo ha espresso il suo punto di vista Michele Mezza, giornalista Rai che ha curato l’avvio di Rainews24, esperimento pilota della Rai in tema di nuovi media. “Non era smepre verde la mia vale”, ha tenuto a ribadire, perchè la concentrazione nella produzione di n otizie non è cosa di oggi. Secondo Mezza non si ricorda abbastanza che trent’anni fa il 30% delle news passava attraverso il caporedattore della Reuters, autorevole e più antica agenzia di stampa. Mezza ha poi contribuito alla riflessione rispondendo idealmente ad alcune affermazioni attribuite al cosiddetto popolo di Seattle. Naturalmente anche di loro si è parlato o meglio di quello che avevano comunicato fino alla vigilia del vertice: molta confusione e inesattezze ma sicuramente la voglia di “disturbare” il lavoro dei compunti rappresentanti delle potenze più industrializzate.
Il G8 – ha spiegato Mezza – non è la celebrazione del potere assoluto dell’economia, che sicuramente produce anche situazioni più che discutibili nel mondo, ma al contrario è una sorta di democratica pubblicizzazione di quanto avviene nelle stanze dei bottoni. “L’ipotesi alternativa – fa presente Mezza- è che le decisioni vengano prese al 14esimo piano di un grattacielo finanziario”. Sicuramente senza foto di gruppo. E’ chiaro il messaggio: il potere della finanza e dell’economia non si può demolire impedendo un vertice, che nel regno delle decisioni resta il momento forse più democratico di “partecipazione” ai popoli. Sono le decisioni cui non “assistiamo”, di cui l’informazione non rende conto, come per gli appuntamenti ufficiali, quelle che dovrebbero inquietarci e, semmai, far scendere in piazza. Mantenendo forte il senso dell’autocritica, si dovrebbe dire, però, che si avverte quantomeno il rischio che questa democratica pubblicizzazione dei contenuti diventi il resoconto del menu, delle aree shopping frequentate più o meno dalle varie lady, quando non si debba discutere sull’eventuale assenza della consorte proprio del primo ministro del paese ospitante. D’altra parte, non si sta parlando di globalizzazione?
Il discorso non può che essere sempre allargato a trecentosessanta gradi sui vari livelli della società e spalmato a livello mondiale. E’ l’ottica che, seriamente, ha ispirato la relazione del professor Jo Groebel, direttore dell’European Institute for the Media, istituto di ricerca no profit fondato dall’ex direttore del Corriere della Sera, Alberto Cavallari. Jo Groebel ha voluto mettere in luce importanti potenzialità dell’informazione nel villaggio globale e digitale in relazione al singolo cittadino. La prospettiva più significativa sarà quella di personalizzare sempre di più il suo sempre più attivo rapporto con tutti i mezzi di comunicazione, che, peraltro, vanno verso la convergenza in un unico medium, annunciato da tempo da Negroponte. Significa, ad esempio, che con la televisione on demand potrà scegliere programma e orario, con il proprio telefonino potrà navigare in rete e seguire la Borsa. Inoltre, la realtà del singolo utente si fa metafora di una condizione soggettiva da salvaguardare in uno scenario sempre più virtuale.
La scommessa – afferma Groebel – resta quella, se vogliamo antica, di rispettare l’umanesimo e la cultura. Una scommessa che in particolare deve vivere l’Europa unita. Altrimenti la logica del profitto che regna nel mondo dell’economia, avrà campo di azione in qualunque ambito del villaggio della comunicazione globale in tempo reale. Più umanesimo – pensiamo – significa allora, senza tante implicazioni filosofiche, vita reale dei popoli: affetti e sentimenti, dignità e lavoro. Certamente qualcuno all’interno del popolo di Seattle approverebbe ma non è detto che ci si metterebbe d’accordo sul come mettere in pratica tutto questo. Anche al convegno l’atmosfera si è scaldata quando Gianni Minà, giornalista ben noto che ha assunto recentemente la direzione di una rivista che si chiama Latinomerica, ha parlato di lobby economiche , “poteri più o meno occulti”, “dittature moderne che affamano interi popoli con l’autorizzazione della comunità internazionale e di un’informazione a caccia di tette famose”. E’ tornato il problema spettacolarizzazione, davanti alla quale non ci tiriamo mai indietro se l’ambito di discussione gira intorno ai sistemi informativi perchè, altrimenti, certi temi invocano analisi geopolitiche ben più complesse.
Di informazione si è parlato non solo come comunicazione di notizie ma anche come trasmissione di dati, in relazione all’informatica, che non a caso condivide la stessa radice linguistica. Internet, dunque, può essere considerata non solo come uno dei media ma anche come metafora della comunicazione di oggi: globale e in tempo reale. La globalizzazione è anche copertura globale dell’informazione. E qui, conservando la lezione sui rischi di un eccesso di tecnologia ma anche sulle potenzialità nuove, vale la pena di chiedersi quale sia la reale diffusione della World Wide Web nel mondo. Va detto che rappresenta lo strumento di comunicazione a crescita più rapida della storia: il telefono per raggiungere il 30% della popolazione ha impiegato 38 anni e la televisione 17 mentre Internet lo ha fatto in soli 7 anni. Si può trionfalmente affermare che ha cambiato il concetto di spazio e di tempo ma non si può dimenticare che il mondo resta diviso tra ricchi e poveri, tra istruiti e analfabeti, tra informatizzati e non. Nel concreto un computer costa all’abitante medio del Bangladesh una cifra pari a otto anni del suo reddito, mentre l’amercnao medio lo acquista con lo stipendio di un mese. In Kenya occorrerebbero 12 anni e in Sud Sudan non si riesce a calcolare perchè c’è ancora il baratto, per non parlare del fatto che non c’è energia elettrica. Ma è sbagliato pensare che resti l’Africa il fanalino di coda perchè situazioni altrettanto difficili si trovano nelle regioni più povere d’Europa, della Russia, delle zone dell’ex Unione Sovietca. Per non parlare poi degli squilibri di casa nostra: in Italia Internet ha raddoppiato negli ultimi due anni il numero di utenti, ha conquistato un italiano su quattro raggiungendo quasi i progrediti livelli della Francia, ma se si individua l’identikit del 95% degli internauti si scopre che ha meno di 44 anni, è giovane, maschio e del nord.
A uno sguardo globale inoltre che l’88% degli utenti Internet vive nei paesi industrializzati che rappresentano, però, solo il 17% della popolazione mondiale. Non si tratta di mettere in dubbio la positività di Internet, che rappresenta la chiave di accesso al terzo millennio. Resta da chiarire però che la magia attraverso la quale lo spazio si restringe, il tempo si contrae, le frontiere scompaiono è affidata a una rete che connette sempre di più chi è connesso ma rischia di escludere sempre di più chi è escluso. Rischia di diventare una conversazione dai toni alti che tacita chi ha poca voce, un discorso compattato che fa a meno di tutti gli spazi per inserirsi, proprio come il sistema digitale che compatta i dati. Tutto ciò va tenuto presente insieme con la consapevolezza che le forze del mercato da sole non correggeranno squilibri e disuguaglianze.
L’illusione che il processo di globalizzazione potesse funzionare secondo il principio dei vasi comunicanti, livellando miracolosamente le differenze nella qualità di vita dei popoli, è ormai superata. All’inizio del secolo scorso la proporzione della ricchezza tra Nord e Sud del mondo era in rapporto di 8:1, oggi è di 70-80:1. D’altra parte, è ormai un concetto acquisito quello per cui si deve seguire e gestire la globalizzazione e non lasciarla a se stessa. Proprio in occasione del G8 questo è stato ribadito da autorevoli pulpiti. Resta un esame di coscienza sempre valido: l’informazione dà conto abbastanza di questi dati e soprattutto delle possibili vie di fuga da un mondo sempre più sbilanciato tra chi ha il problema di come mantenere la linea, dosando o dissolvendo calorie, e chi ha ancora l’incubo di come riempire la pancia.? E’ sempre difficile raccontarli nelle stesse pagine.
Infine, visto che ci permettiamo un esame di coscienza, ci concediamo anche una raccomandazione: lasciamo aperta la comunicazione e vigile l’informazione sulle ragioni, anche confuse o mescolate, del cosiddetto popolo di Seattle, nonché popolo di Genova. E questo sia che i vertici si tengano in Italia sia che siano ospitati in altri paesi con spazi più o meno aperti. Ci dovremmo chiedere cosa avrebbe fatto Carlo Giuliano, nel dopo Genova, se la scena dell’estintore non fosse stata girata, cosa fanno o non fanno tanti suoi compagni di piazza all’interno o ai margini della società civile.
C’è ancora da domandarsi chi organizza in vista degli eventi i black block, o da approfondire le ragioni dei missionari che, come suor Patrizia Pasini o Frei Betto, non hanno esitato ad esserci a Genova, nonostante il tam tam informativo sui rischi del vertice, sul rischio annunciato che tutto venisse comunicato in secondo piano rispetto alla voce della violenza.

Partecipazioni varie

Fausta Speranza ha partecipato in qualità di relatore, tra gli altri, ai seguenti convegni:

24-25  ottobre 2009

“Siamo in onda: la radio e l’informazione globale”

organizzato dall’Azione Cattolica a Meta di Sorrento

25 ottobre 2008

“Chiesa e media:  dialogo e scommessa

organizzato a Grottaferrata da Il Centro interprovinciale dei Carmelitani scalzi

 

12 febbraio 2002

I media e la guerra: il gusto della catastrofe”  “WAR AND PRESS”

promosso dalla Stampa Estera e dell’Università Roma Tre (presso la sede della Stampa Estera, in via dell’Umiltà 83\c)

Testo

Testo dellìarticolo pubblicato dopo il convegno

5 dicembre 2002

“La copertura giornalistica dei diritti umani: le elezioni, i media e le missioni di osservazione elettorale”

organizzato dall’Osservatorio di Pavia nell’ambito del Progetto Eurosservatori
(presso il Collegio Giasone del Maino, via Luino 1)

13 luglio 2001

Sistemi informativi e di comunicazione di massa”

nell’ambito della  “BERC – Biennale europea delle riviste culturali” (Università degli Studi di Genova, Stradone Sant’Agostino, 37)

Testo dell’articolo pubblicato

14-16 settembre 2000

12th  “European Television and Film Forum”

dell’Istituto Europeo per i Media, organizzato a Bologna nell’ambito del Prix Italia

Testo dell’intervento in inglese:

1-2 dicembre 1999

“Nuove frontiere di comunicazione in ambito militare”

presso la base militare di Pozzuoli

11 maggio 1999

“I Caschi blu dell’informazione” Presentazione-dibattito a Roma, presso Università La Sapienza

Testo dell’intervento in italiano:

Testo dell’intervento in inglese: