Radiogiornale Italiano ore 14.00

L’udienza e la messa a Santa Marta: due occasioni per Papa Francesco per ricordare la vicinanza sempre di Gesù, l’esempio di San Giovanni Paolo II a 15 anni dalla morte e per esprimere una preghiera per gli operatori della comunicazione

A proposito di Coronavirus, 30.000 i morti in Europa, cresce la  preoccupazione per Africa, America Latina e Stati Uniti

Le religioni si stringono nella preghiera: nel pomeriggio, l’iniziativa “Religions for peace”

Primo accordo per un governo di unità nazionale in Israele

In tempi di Covid 19, a Tel Aviv si stanno mettendo a punto i dettagli per l’annuncio di un esecutivo che faccia fronte all’emergenza. I due principali contendenti, Netanyahu e Gantz, dovrebbero alternarsi per gestire le necessità in un Paese in cui si contano oltre 4000 casi di contagi, 16 persone morte e 70 in condizioni gravi. Con noi l’esperto di relazioni internazionali Daniele De Luca

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dopo mesi di impasse politico, il primo ministro, Benyamin Netanyahu, e il suo ex avversario, Benny Gantz, sono a buon punto per la formazione di un governo di unità nazionale in Israele.  Tra i termini dell’intesa, sembra esserci la staffetta tra i due al vertice dell’esecutivo: i primi 18 mesi affidati a Netanyahu e poi dal settembre del 2021 la responsabilità passerebbe a Gantz. Ma l’accordo prevede anche che Gantz lasci la presidenza della Knesset –  alla quale è stato nominato nei giorni scorsi – per diventare ministro degli Esteri o ministro della Difesa. Giovedì 26 marzo Benny Gantz, il principale avversario politico del primo ministro conservatore Benjamin Netanyahu, è stato eletto infatti presidente del parlamento israeliano con 74 voti a favore e 18 contrari su 120 totali.

Le reazioni politiche all’apertura di Gantz a Netanyahu

La candidatura di Gantz è stata avanzata a sorpresa e ha suscitato forti perplessità nel suo partito di opposizione, Blu e Bianco. La fazione di Blu e Bianco che fa capo all’ex giornalista televisivo Yair Lapid e quella fedele all’ex generale Moshe Ya’alon hanno chiesto formalmente la separazione dal partito di Gantz, per guidare l’opposizione al nuovo governo. Lapid ha spiegato che «la crisi causata dal coronavirus non ci dà il diritto o il permesso di abbandonare i nostri valori. Non si può strisciare in un governo del genere e dire che l’hai fatto per il bene del paese». E ancora: «Ciò che si sta formando oggi non è un governo di unità nazionale e non è un governo di emergenza. È un altro governo di Netanyahu. Benny Gantz si è arreso senza combattere». E diversi deputati e leader di opposizione hanno definito le sue parole e le sue decisioni come un tradimento. «Questo è un giorno buio», ha detto ad esempio Nitzan Horowitz, leader di Meretz, l’unico partito di sinistra presente in Parlamento.

Da parte sua, Gantz ha sottolineato: “Intendo esaminare e promuovere in ogni modo l’istituzione di un governo di emergenza nazionale, ma non scenderemo a compromessi sui principi per cui più di un milione di cittadini hanno votato. Netanyahu lo sa bene”.

Un esecutivo solo per l’emergenza Coronavirus

In questi giorni Netanyahu ha adottato nuove misure restrittive a causa del coronavirus, incaricando tra l’altro i servizi segreti di individuare le persone contagiate, e ha rinviato il processo a suo carico – avviato a novembre 2019 per tre atti d’accusa: corruzione, frode e abuso d’ufficio – suscitando accuse da parte dell’opposizione di “golpe di Stato”.

La prospettiva di un governo di unità nazionale può essere finalizzata solo a gestire l’emergenza. Non potranno essere affrontate altre questioni come quella del conflitto israelo-palestinese, in cui lo stallo determinatosi da anni è stato scosso di recente dalle prese di posizione dell’amministrazione statunitense. Donald Trump ha deciso lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e poi ha presentato una proposta di accordo di pace che prevede in sostanza di consegnare Gerusalemme a Israele. Questa ed altre sfide dovranno rimanere sullo sfondo di un governo ipotizzato solo per gestire la vicenda Covid 19, nella quale Israele può svolgere un ruolo nella regione perché si tratta di una democrazia con mezzi di comunicazione liberi, come spiega Daniele De Luca, presidente dei corsi di studi  in relazioni internazionali all’Università del Salento:

Insieme in autoambulanza e nella preghiera anche se con fedi diverse

Intanto, due paramedici del Magen David Adom – equivalente israeliano della Croce Rossa internazionale – sono rimasti stupiti nell’apprendere che ha avuto una diffusione internazionale una immagine che li riprendeva mentre erano assorti in preghiera accanto alla loro ambulanza. Abraham Mintz indossava il ‘talled’ ebraico, mentre il suo compagno Zohar Abu Jana, un musulmano, era genuflesso per terra davanti al proprio tappetino. Quella pausa religiosa ha catturato l’attenzione dei media internazionali ed ha avuto eco anche negli Stati Uniti. Da un anno Abraham e Zohar prestano servizio assieme nella zona di Beer Sheva, nel sud di Israele. “Non compendiamo il clamore suscitato dalla foto” ha detto Abraham alla televisione Ch. 12. “Semplicemente pregavamo assieme. Questa è la nostra realtà quotidiana”. “Quando è il momento – ha aggiunto Zohar – fermiamo l’ambulanza per alcuni minuti. Ognuno prega anche per l’altro. In questo lavoro è normale lasciare da parte la politica perchè siamo chiamati ad aiutare persone in difficoltà”

Salute e solidarietà nel Dna dell’Europa

Fausta Speranza

Difesa della salute pubblica e solidarietà come priorità: si gioca su questi termini la scommessa dell’Ue di fronte alla pandemia da coronavirus. Da più parti si sente parlare di un’Europa “debole” e “egoista”. Si parla di una barca alla deriva e si moltiplicano le voci di chi vorrebbe scendere da quella imbarcazione. A ben guardare, difficilmente si trovano altrove le stesse basi giuridiche chiaramente espresse proprio a favore dei cittadini, che costituiscono le fondamenta della costruzione europea. E infatti è stato chiaro, nei giorni scorsi, il pronunciamento fattivo e concreto dell’Europarlamento e della Commissione stessa, che sono rispettivamente l’espressione diretta del voto dei cittadini e l’esecutivo comunitario. La battuta d’arresto c’è stata, venerdì 27 marzo, per la sospensione voluta dal Consiglio europeo, consesso dei capi di Stato e di governo, dove non di rado si arenano gli slanci in avanti per il prevalere di egoismi nazionali. Ma allora il problema non è nella barca, ma in chi la guida. Conviene dare uno sguardo al cantiere originario e alle regole che dovrebbero segnare la navigazione. Si scoprono le intenzioni chiarissime dei padri fondatori, ma non solo. Si scopre che in quel cantiere qualcuno ha continuato a lavorare e che nel Trattato di Lisbona si trovano àncore di tutto rispetto: a difesa proprio della salute di tutti i cittadini dell’Ue e del principio sacrosanto della solidarietà. Piuttosto che invocare l’abbandono della nave, bisognerebbe richiamare i capitani al rispetto delle normative.

C’era profonda idealità e grande concretezza su vari piani, ma anche una consapevolezza fondamentale: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto.” Non poteva che essere un working in progress di anni e anni. Dunque, invece di ipotizzare di buttare a mare la barca, bisogna avere più chiara la rotta e incalzare i capitani di bordo perché si vada avanti e non indietro, perché si superino gli egoismi nazionali piuttosto che lasciare loro campo libero senza freni. Certamente nessuna avventura di questo tipo si fa andando a rimorchio, senza progettualità o decisionalità. Resta valida, infatti, anche un’altra convinzione di Schuman: “La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”. Mandare la costruzione europea alla deriva, con tutti i suoi principi, non è un’idea creativa. Piuttosto apre a un naufragio assistito.

  29 Marzo 2020   MeridianoItalia.tv

L’Italia e la “terza guerra mondiale” a pezzi

Fausta Speranza 

Le sfide  della globalizzazione diventano più urgenti di fronte agli interrogativi suscitati dalla pandemia da coronavirus. Emerge l’esigenza di forme di governance globale all’altezza della complessità delle relazioni tra gli Stati e dei bisogni dei cittadini. In particolare cresce la domanda all’Europa di una risposta comune ed efficace, che scongiuri la disaffezione. Sullo sfondo restano i conflitti e le disuguaglianze che caratterizzano questo tempo in tutto il mondo e i possibili sviluppi di intese. Per l’Italia, primo Paese democratico ad affrontare lo tsunami del contagio diventato modello per altri, si profilano nuovi margini di impegno e l’orizzonte della presidenza di turno del G20 nel 2021. Il contributo particolare che l’Italia può dare è su più fronti, a partire dallo spessore umanistico che ha guidato il vecchio continente nei percorsi più illuminati della Storia.


L’interdipendenza da anni ci chiede di pensare un vero progetto comune, da tempo si parla di una globalizzazione che non può restare senza forme di governance globale. L’infezione da Covid 19 ci ha inchiodati alle urgenze. Non ci sono solo i sistemi sanitari, la viabilità mondiale ad essere messi in discussione dalla pandemia, ma un mondo che tende a ridistribuire la potenza politica e la ricchezza concentrandola in capo ai giganti emergenti. Mentre registravamo il moltiplicarsi di conflitti e l’inasprirsi della forbice delle disuguaglianze sociali in praticamente tutte le aree geografiche, è arrivato lo spettro di una debacle dell’economia ma, soprattutto, si profila il rischio di mettere in discussione l’ordine liberale su cui ci siamo basati per decenni.

L’Italia, primo Paese democratico ad affrontare lo tsunami del contagio, è diventata modello per altri Paesi che pensavano di gestirlo diversamente. Sembra l’occasione simbolicamente propizia per riscoprire le potenzialità della penisola a sud d’Europa e a nord del Mediterraneo. E la presidenza di turno del G20 nel 2021 può rappresentare l’orizzonte di un impegno che deve e può avere come faro lo straordinario spessore umanistico che ha salvato il vecchio continente dai periodi più bui.

Come dice papa Francesco, nel mondo è guerra mondiale a pezzi. Non si può negare visto l’attuale numero di focolai di violenze. Stanno in guerra per la sopravvivenza anche gli 820 milioni di persone che ogni giorno soffrono la fame, mentre il divario tra ricchi e poveri è aumentato al punto che l’un per cento della popolazione globale possiede una ricchezza pari a quella del restante 99 per cento. E hanno un nemico da sconfiggere anche i 40 milioni di vittime dell’ignobile tratta di esseri umani. Il fenomeno è trasversale perché, in una fase storica segnata dalle multinazionali, anche gli affari criminali viaggiano su scala globale. E la globalizzazione delle organizzazioni illecite non conosce crisi o recessioni: hanno accesso ai fondi che provengono dalle attività criminose che non si fermano e non rallentano durante i periodi di crisi.

Sarebbe bello pensare che siano motivo di speranza le mobilitazioni di piazza cui abbiamo assistito dal Nord Africa al Medio Oriente, da Hong Kong all’America Latina. Vogliamo credere che siano il segno di processi evolutivi, ma per il momento sono innanzitutto la manifestazione delle diverse profonde lacerazioni sociali che imbrigliano i Paesi.

Da una parte, la globalizzazione ha migliorato le condizioni di vita in larga parte del globo, dall’altra, ha provocato tensioni e disuguaglianze pronunciate nei Paesi a economia matura e ha finito di strozzare alcune piccole economie locali. Risulta insufficiente l’azione delle istituzioni economico-finanziarie multilaterali e questa consapevolezza ha generato una diffusa disaffezione delle popolazioni verso queste stesse istituzioni, Unione Europea inclusa. Il punto è che mentre aumentano le esigenze di governance globale vengono messi in discussione i mezzi che permettono di soddisfarle. Ma in discussione devono essere la soluzione multilaterale o, piuttosto, le insufficienze delle istituzioni che incarnano l’ordinamento internazionale? La chiarezza nel porsi questo interrogativo è doverosa. Si palesa la sfida delle sfide: quella di respingere la tentazione di tornare alla concorrenza fra gli Stati, come un secolo fa.

Il multilateralismo ha consolidato le prerogative dei cittadini, che, espresse e riconosciute in precedenza dalle sovranità individuali degli Stati, si sono successivamente trasfuse nella protezione offerta a livello internazionale. Basti pensare alla Dichiarazione universale sui diritti dell’uomo. Ma di questi tempi non possiamo dare per accantonato definitivamente il criterio della forza. Negli Stati Uniti d’America, ad esempio, ci si interroga sulla bontà di ambiti e sistemi in cui la applicazione del requisito “uno Stato un voto” può portare alla spiacevole sensazione di soggiacere a decisioni prese da altri. Prendono forza anche altrove posizioni a carattere revisionista, rispetto a quelle all’origine della creazione dell’architettura degli organismi internazionali. Sostituire alle politiche di cooperazione quelle di competizione certamente non aiuterebbe. E’ urgente difendere pace e giustizia al centro dei doveri degli Stati nei rapporti internazionali. E’ quello che emerge dalla Costituzione italiana in particolare dagli art. 10 e 11 che indirizzano e guidano l’azione della Repubblica. Può essere la prima indicazione di rotta per la presidenza italiana del G20.

Dopo la crisi finanziaria del 2008 i leader mondiali hanno cercato soluzioni multilaterali anche in tema di economia e hanno tenuto il primo vertice dei leader del G20 a Washington, andando oltre il ristretto orizzonte dei 7 (o 8 con la Russia) Paesi più industrializzati. Insieme, i membri del G20 rappresentano circa il 90 per cento del Pil mondiale, l’80 per cento del commercio globale e i due terzi della popolazione, nonché circa il 60 per cento dei terreni coltivabili e l’80 per cento circa del commercio di prodotti agricoli. Avevamo pensato di circoscrivere così il dibattito al margine da dare o meno al multilateralismo, mentre si discuteva di una possibile riforma delle Nazioni Unite che rispettasse meglio gli equilibri attuali tra Paesi. Il coronavirus, invece, con la sua spiazzante capacità di intrusione in quasi ogni angolo di mondo e di scuotimento di ogni sistema Paese, ha centrifugato i dibattiti. Resta una prospettiva sopra qualunque altra: mettere al riparo dalle spinte nazionalistiche i pilastri della democrazia e i presupposti del bene comune: significa lotta alla povertà e alle ingiustizie sociali, difesa di valori come la solidarietà. Pensavamo di averlo fatto con la costruzione europea, ma è ancora troppo fragile in tema di politica estera e di politica economica. Due aree chiamate direttamente in causa dalla pandemia del Covid 19. La sensazione è davvero di essere a un bivio: o rafforziamo le architravi istituzionali o ci sarà spazio solo per nazionalismi e potenze regionali. I cittadini europei, passata l’emergenza e i flash mob di incoraggiamento, potrebbero scoprirsi più disorientati, più arrabbiati di prima. Si può fare tanto su tematiche specifiche come quella urgente della questione fiscale. L’Ocse lavora per la creazione di un nuovo sistema internazionale adeguato al ventunesimo secolo, che corregga almeno due grossi vulnus. Il primo è che gli utili dei colossi tecnologici – siano statunitensi, europei o cinesi – non sono tassati in modo adeguato. Il secondo è che l’attuale sistema consente il dumping fiscale e distorce la concorrenza.

Vale la pena ricordare l’intelligente provocazione che George Orwell mette in bocca a uno dei suoi personaggi di 1984: “La scelta per l’umanità è tra libertà e felicità e per la stragrande maggioranza la felicità è meglio”. Se il prezzo della crisi che inesorabilmente si pagherà a seguito del Coronavirus dovesse essere riversato sui cittadini – come è stato per i danni della finanza creativa a partire dal 2008 – potremmo assistere a un’onda di nazionalsocialismi populisti, razzisti, totalitari più lunga e invasiva del previsto. Potremmo scoprire che, nonostante i numeri sull’alfabetizzazione, ampie fette della popolazione non hanno consapevolezza che non può esserci felicità senza libertà. Abbiamo già avuto un’idea di cosa comporti manipolare fette di popolazione con le fake news. Non significa solo una rovinosa resistenza nei confronti dei vaccini. Significa far passare i limiti delle democrazie come più gravi di ogni limitazione dei regimi dittatoriali o semi dittatoriali che assicurano il soldo. Va scomodato Toqueville, che insegna: “La democrazia è il potere del popolo informato”. Se è solo potere di popolo è populismo. Servono buon giornalismo e Sapere. Ma innanzitutto ci vogliono buone politiche da raccontare. Il punto è che, se viene meno la capacità da parte delle democrazie occidentali e in particolare dell’Europa di difendere i propri cittadini rischia di venir meno non solo la fiducia nell’Europa unita, ma anche in quello che rappresenta: un baluardo a difesa dello Stato di diritto. Per l’Italia c’è un terreno particolarmente fertile. Le politiche di sviluppo comprendono anche missioni negli ambiti della ricerca archeologica, antropologica, etnologica, che si estendono cronologicamente dalla preistoria all’epoca medioevale e geograficamente dal Vicino Oriente all’Africa, dall’Estremo Oriente all’America Latina. Non si tratta solo di attività scientifica di studio, ma di un prezioso strumento di formazione nel settore del patrimonio culturale in cui l’Italia si colloca a un livello di eccellenza internazionalmente riconosciuto. Come avremo bisogno di regole comuni per affrontare la crisi delle aziende – quello del settore aereo è solo un esempio – così avremo bisogno di regole comuni per difendere lo spazio culturale, che rappresenta il più privilegiato luogo di incontro, di promozione del dialogo, antitesi dei conflitti. E l’Italia deve sapersi giocare la carta della sua cultura così centrale nella vicenda del mondo Occidentale. Un patrimonio unico di umanesimo da rimettere in campo.

Alcuni scenari particolari:

Europa all’appello

Per i Paesi occidentali che ci siamo abituati a ritenere leader in tema di pace e di sviluppo dobbiamo considerare sfide cruciali.

       L’Europa ha aperto l’anno con la certezza della Brexit ma anche con tutti gli interrogativi sulla sua attuazione. Dal 1 febbraio è iniziato il periodo di transizione fissato fino alla fine del 2020. Fino al 31 dicembre di quest’anno non doveva cambiare nulla, ma il coronavirus non era previsto. Le incertezze hanno lasciato il posto a assoluti punti interrogativi. Diciamo che ci sono in ballo diverse centinaia di migliaia di posti di lavoro tra l’Europa e il Regno Unito. Finora il premier Boris Johnson ha detto che non ci sarà assolutamente nessun rinvio e che quindi o si chiude un accordo commerciale con l’Unione Europea entro dicembre oppure il Regno Unito sarà fuori senza accordo. Ma nel frattempo è arrivato il coronavirus e rinviare le scadenze potrebbe essere una priorità per tutti. Finora non si è mai vista l’Ue tanto unita come nel fronteggiare il Regno Unito. Sarebbe fallimentare cambiare registro.

       Intanto, l’Europa si è chiusa al mondo. E si spera sia un segno di compattezza e non la somma di tante chiusure. La decisione di serrare per un mese le frontiere esterne con le dovute eccezioni è  stata accompagnata da propositi di solidarietà: corsie preferenziali per il passaggio dei materiali medici, difesa della libera circolazione delle merci sul territorio, primi aiuti. E’ evidente che siamo davanti a una decisione senza precedenti in risposta alle serrate in ordine sparso tra i Paesi dell’area Schengen cui si è assistito man mano che il virus faceva la sua comparsa nei Paesi membri.

         Di fronte al Covid 19 l’Italia ha scelto, senza se e senza ma, la salute della popolazione e gli altri governi, dopo aver accarezzato l’idea della cosiddetta “immunità di gregge” per non fermare l’economia, hanno seguito lo stesso esempio. E, a quel punto, l’Europarlamento e la Commissione si sono sbilanciati a promettere che l’Ue sarà unita, mettendo in campo risorse considerevoli per fronteggiare il contraccolpo finanziario e soprattutto autorizzando deroghe al patto di stabilità. Si è tornato a parlare di bond comunitari, invocati come coronavirusbond dal presidente del consiglio dei ministri italiano Giuseppe Conte. Per anni nostri economisti, come il professor Alberto Quadrio Curzio, hanno invocato eurobond. E deve essere immediatamente chiaro che stare dalla parte dei cittadini in questa emergenza attuale deve significare combattere l’infezione ma anche prepararsi a gestire il dopo tsunami in termini di conseguenze economiche per cittadini, famiglie, imprese. Dopo anni di espressioni retoriche sull’ultima chiamata all’Ue, si avverte esattamente la sensazione che si sia arrivati all’ultimo appello.

Gli Stati Uniti al voto

         Negli Stati Uniti la rielezione di Trump nel voto presidenziale di novembre prossimo sembrava scontata fino all’arrivo del coronavirus, fattore in grado di rimettere in discussione le certezze della sua politica sotto lo slogan America first e il suo carisma. Trump ha prima relegato la questione a un virus cinese non arginato in un Paese come la Cina che “ha nascosto i pericoli” o “in un Paese piccolo come l’Italia”. Ha poi dovuto ammettere l’emergenza nazionale nel giro di pochi giorni prendendo atto del contagio in tutti e 50 gli Stati dell’Unione. Inizialmente ha annunciato lo stop ai voli nei Paesi europei ad eccezione del Regno Unito, dove il premier Johnson difendeva la scelta di non fermare nessuna attività, ma nell’arco di 24 ore ha tagliato fuori dalle rotte aeree anche la Gran Bretagna.  Nelle stesse ore, il fronte democratico, con le primarie, si è compattato intorno alla figura di Joe Biden. Potrebbe ora trovare terreno più fertile nella battaglia contro l’approccio iperliberista difeso da Trump anche in tema di sanità nazionale.

Il gigante cinese

         La Cina in pochi anni ha sviluppato una forte e moderna economia, che le ha fatto raggiungere nel 2014 il traguardo di prima economia mondiale per PIL a parità di potere d’acquisto. Non è più solo la “fabbrica” del mondo, ma ha anche una certa propensione al consumo, ed è diventata leader dell’high-tech, dell’alta velocità, dell’elettronica, dell’energia rinnovabile. Le scelte geopolitiche del governo di Pechino stanno rivelando la volontà di guidare il mondo. Ora, dopo diversi mesi sotto l’assedio del coronavirus fa i conti con i rientri di connazionali infettati all’estero e soprattutto con le conseguenze dello tsunami dei contagi.  Nell’immaginario resta la figura del dottor Li Wenliang che per primo ha segnalato in un gruppo privato di WeChat, l’app di messaggistica cinese, la possibile esistenza di un nuovo virus dello stesso genere della micidiale Sars. E’ stato interrogato dalla polizia locale con l’accusa di aver diffuso falsi allarmi e costretto a firmare una dichiarazione in cui ammetteva le sue responsabilità. È stato riabilitato solo dopo che il governo centrale ha diffuso la notizia ufficiale dell’epidemia. Alla sua morte per Covid 19, un gruppo di intellettuali ha immaginato una giornata per la libertà di espressione proprio nel giorno della sua scomparsa. Sui social effettivamente è esplosa la rabbia dei cittadini sui ritardi, ma il governo centrale ha risposto incriminando le autorità locali. Resta quell’hashtag condiviso milioni di volte prima di essere censurato: “Noi vogliamo la libertà di parola” (我们要言论自由 wŏmen yào yánlùnzìyóu).    In Cina si sta formando, lentamente, una società civile che cerca di erodere la centralizzazione politica. Ma l’emergenza da coronavirus in realtà, al di là della figura del dottor Li, rischia di limitare l’evoluzione di tale mobilitazione, in particolare con la quarantena forzata di milioni di cittadini e il controllo serrato su internet come sui movimenti delle persone.

         Non si può dimenticare Hong Kong, dove a quasi un anno dal loro inizio, le proteste non sono sparite a fine anno soltanto dalle home page dei siti internazionali, ma anche dalle strade della regione autonoma cinese nella quale per mesi centinaia di migliaia di manifestanti hanno chiesto più democrazia e maggiore indipendenza dalla Cina. Oltre 7.000 arresti, migliaia di feriti e almeno due morti direttamente legati alle proteste. La svolta c’è stata dopo il trionfo alle elezioni locali dei partiti   che sostenevano i movimenti delle proteste, con un tracollo di quelli legati all’establishment di Hong Kong e al partito comunista cinese.

L’incognita Russia

         Per la Russia è stato giallo coronavirus: per diverse settimane non si aveva notizia di casi nonostante i forti scambi con l’Europa e la Cina. Poi il 18 febbraio è arrivata la prima vittima. Il momento è cruciale per il presidente Putin: alla guida del Paese da vent’anni alternando il ruolo di primo ministro e di presidente, si prepara a succedere a se stesso con una riforma costituzionale che cancella il limite dei due mandati e consente al presidente in carica di ricandidarsi nel 2024. Dopo l’approvazione in parlamento e il placet della Corte Costituzionale che ha dichiarato le riforme “compatibili con la legge”, l’ultimo passo da fare è il referendum. La data individuata è quella del 22 aprile, ma non è detto che – a causa dell’emergenza coronavirus – non sarà rinviata.

  Sulla via della Seta polare

       Lo scorso 2 dicembre, in videoconferenza rispettivamente da Sochi e Pechino, il presidente Putin e il presidente Xi Jinping hanno assistito all’inaugurazione del gasdotto Forza della Siberia e simbolicamente rilanciato le relazioni commerciali e politiche tra i loro due Paesi. Il prezzo del gas rimane un segreto commerciale, ma fonti confermano che il valore complessivo del contratto (valido per i prossimi 30 anni) si aggira sui 400 miliardi di dollari. Sebbene in passato le relazioni tra i due Paesi siano spesso state animate da sentimenti contrastanti, ora viene rilanciato “il partenariato strategico russo-cinese nel settore energetico a un livello completamente nuovo”, per usare le parole dello stesso presidente russo.

         Oltre a gasdotti ed esercitazioni militari congiunte, Russia e Cina puntano anche a rafforzare i loro legami commerciali. L’anno scorso il volume degli scambi commerciali sino-russi ha raggiunto per la prima volta la cifra di 100 miliardi di dollari, e si punta al raddoppio entro il 2024. C’è la Via della Seta Polare. La regione artica è ricca di risorse e ha un grande valore politico e commerciale. Idealmente connette Asia, Europa e Nord America, cioè le regioni dove si concentra il 90 per cento del commercio internazionale. I cambiamenti climatici e lo scioglimento dei ghiacci, in particolare nei mesi estivi, potrebbero aprire un nuovo ventaglio di opportunità che sia Russia e Cina sono ansiose di esplorare.

         Mosca e Pechino hanno infatti subito entrambe delle “sanzioni” da Washington, sia di tipo politico che economico. Entrambi i Paesi contestano l’egemonia statunitense e cercano di trovare nuove alternative all’attuale ordine mondiale, seppur ovviamente con mezzi e modalità diverse. Vedremo se il 2020 rafforzerà o meno l’intesa tra Mosca e Pechino e cosa potrà il coronavirus. In questa e in altre convergenze.

 Nel bollente contesto del Vicino e Medio Oriente

         Il conflitto israelo-palestinese si è riacutizzato mentre non si fermano le violenze a Gaza e in Cisgiordania. C’è nuova tensione dopo la scelta del presidente Usa Trump di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, nel 2019, e poi, a inizio del 2020, di proporre un piano di pace che prevederebbe, tra l’altro, il riconoscimento da parte palestinese di “Gerusalemme capitale indivisa di Israele”.

          Il braccio di ferro tra Stati Uniti e Iran è stato segnato il 3 gennaio del 2020 dall’uccisione voluta da Trump del generale di Teheran Qasem Soleimani, capo della Niru-ye Qods, l’unità delle Guardie della Rivoluzione responsabile per la diffusione dell’ideologia khomeinista fuori dalla repubblica islamica.  Al di là dell’immediata rappresaglia iraniana l’8 gennaio contro basi statunitensi in Iraq, si sono aperte nuove falde di conflittualità e si sono rafforzate alcune distanze su quello internazionale, a partire dalla difficile posizione dell’Ue nei confronti della politica estera statunitense e dall’accentuata lontananza tra l’amministrazione a Washington e la presidenza di Vladimir Putin a Mosca, da sempre alleato dell’Iran.

         Peraltro in Iran, mentre cresce l’epidemia di coronavirus e aumentano le sue vittime, a causa della mancanza di personale medico e della loro stanchezza per il grande numero di pazienti, riemerge il rischio di una rivolta popolare.

       Tralasciando l’escalation di tensione tra Israele e Hezbollah nel sud del Libano, bisogna guardare alla crisi siriana. Il conflitto è entrato nel suo drammatico decimo anno di carneficina. Nel nord ovest si continua a combattere mentre in tutto il Paese scarseggia cibo e oltre la metà delle strutture sanitarie risulta distrutta. Gli ospedali, infatti, sono stati e sono presi di mira dai bombardamenti. E’ solo una delle prove dell’assenza ormai totale di qualunque rispetto del diritto internazionale in materia di belligeranza. La crisi in Siria, scoppiata il 15 marzo 2011 con le prime dimostrazioni pubbliche contro il governo, è diventata “guerra civile”, segnata dal dilagare tra Siria e Iraq del cosiddetto califfato del sedicente Stato islamico (Is) sconfitto solo nel 2017. Sono intervenuti sul campo Russia, Stati Uniti, Turchia, oltre ad altri attori regionali, come l’impegno delle forze curde contro l’Is e la partecipazione dell’Iran – insieme con Mosca e Ankara – ai colloqui di pace ad Astana, in Kazakhstan, in parallelo a quelli dell’Onu a Ginevra. A inizio 2020 sono saltate alcune alleanze contro i ribelli: l’esercito siriano e quello turco si scontrano. Damasco accusa Ankara di ingerenza sul suo territorio e Ankara accusa Damasco di non rispettare la zona di de-escalation stabilita in precedenza nell’ambito dei colloqui tra Siria, Russia, Turchia, Iran. Di fatto, nella fase finale del conflitto si è aperta la questione della spartizione di potere sul territorio siriano tra quanti hanno appoggiato il presidente al-Asad. In gioco c’è il controllo di porti e pozzi petroliferi. A questo punto è evidente che si ragiona solo in termini di capacità di azione di potenze regionali con buona pace del diritto internazionale. E l’Occidente non dovrebbe girarsi dall’altra parte.

         L’aggravarsi della situazione umanitaria nello Yemen è un altro motivo di seria preoccupazione. Dopo l’accordo di Hodeidah tra l’esercito appoggiato dalla coalizione a guida saudita e i ribelli non è finito il dramma delle forniture e degli approvvigionamenti essenziali per una popolazione stremata.

         L’Iraq, dopo gli indicibili crimini inflitti dal sedicente Stato islamico alla popolazione – in particolare ai membri di minoranze religiose ed etniche – offre qualche speranza nel procedere verso la via della riconciliazione e della ricostruzione, ma la fase è estremamente delicata tra forti proteste e scontri. E il Paese è diventato terreno di confronto, tra l’altro, tra Washington e Teheran, che vorrebbe vedere ritirarsi tutte le forze statunitensi dal territorio iracheno. Anche in questo caso si palesa con sempre maggiore inquietudine la questione dello sfruttamento delle risorse energetiche.

         C’è poi la tensione nello Stretto di Hormuz, un limitato tratto di mare che divide il Golfo Persico dal Golfo dell’Oman che è stato al centro delle cronache a metà 2019. Da non dimenticare: anche qui, tra attacchi alle petroliere e abbattimenti di droni, si gioca la competizione tra Iran e Stati Uniti. Sullo sfondo rimane l’irrisolta contrapposizione tra Arabia Saudita e Iran.

         Spostando lo sguardo all’Afghanistan troviamo un Paese che gioca la sua partita più importante: per la pace con i talebani. Si sono seduti al tavolo delle negoziazioni con gli Stati Uniti ma non si può sapere cosa succederà se le forze Usa si ritireranno. A diverso titolo sono tanti gli altri attori statali coinvolti: Pakistan, Russia, Cina ed Iran sono tra i principali e tutti con interessi contrastanti. E  il cosiddetto Stato Islamico è stato sconfitto in Iraq e Siria, ma da sempre ha scelto l’Afghanistan come una delle sue principali basi operative.

L’Africa tra conflitti e carestie

       Al conflitto in Libia fa da sfondo la crisi nella martoriata zona del Sahel che si protrae da anni tra vecchio terrorismo, disgregazione militare, traffico di esseri umani. La sensazione è che ci sia un filo stretto tra questi fattori e che l’uno giochi a sostegno dell’altro. Di fatto, Nigeria, Niger, Burkina Faso sono solo alcuni dei 16 Paesi dell’area colpiti da guerre, instabilità, carestie, in un’area vastissima che parte dalle coste mediterranee libiche e si spinge fin giù alla cosiddetta “linea del sale”, per commerciare esseri umani o i loro organi. E la pace vacilla anche oltre questo orizzonte se si pensa che nel pacifico Camerun sono scoppiate violenze in seguito alle rivendicazioni delle regioni anglofone, mentre proseguono le scorribande di Boko Haram. La speranza va alla vicina Algeria dove abbiamo assistito per mesi a proteste sempre e solo di stampo pacifico, dove però, dopo la caduta di Bouteflika, le manifestazioni non si sono fermate perché sono state forti le forze in difesa del sistema autoritario anche senza la presenza del presidente al potere da 20 anni.

L’America Latina in rivolta contro le disuguaglianze  

       Un punto fermo in America Latina è il dramma del traffico degli stupefacenti e delle armi. E poi c’è una certezza: anche qui i trafficanti di esseri umani, che “masticano” di geopolitica, si adattano alle situazioni, rimodellano i percorsi, ma non perdono il business. C’è stata l’emergenza delle carovane di migliaia di persone in fuga dagli Stati dell’America centrale verso il Messico e verso gli Stati Uniti. Poi, la crisi politica e la crisi umanitaria in Venezuela – ormai il 90 per cento della popolazione si trova in condizioni di povertà o comunque di insicurezza alimentare – ha mobilitato milioni di persone sulla Ruta andina, la rotta verso Perù, Cile, Argentina. Si sono intrecciati fattori come la caduta del prezzo del petrolio e la resa dei conti per politiche che hanno affamato il grosso della popolazione. In tutto questo frangente, sono esplose proteste e rivendicazioni in un Paese dopo l’altro. E’ un grido ripetuto contro la corruzione e le ingiustizie sociali. E questo accade anche in un Paese come il Cile che consideravamo un’oasi di crescita economica, la Svizzera dell’America Latina. In realtà, rischiavamo di dimenticare un record: è fra i 14 Paesi con maggiore disuguaglianza al mondo. E anche qui, come in Bolivia, Ecuador, Repubblica Dominicana, etcetera, è scoppiato il malcontento. Anche in Colombia, a tre anni dalla firma finale dell’accordo di pace tra governo e il gruppo guerrigliero delle Farc – sottoscritto dopo 53 anni di conflitto – restano tensioni di carattere politico sociale e forti rivendicazioni contro le politiche economiche del presidente Ivan Duque.

         In tutto questo l’America Latina è forse il continente dove si possono trovare le donne più “potenti” e, allo stesso tempo, più maltrattate, ma una speranza viene proprio dall’universo femminile. Sono state diverse le presidenti elette in vari Paesi – un numero molto più alto rispetto all’Europa – e allo stesso tempo prosegue l’escalation di violenze sessuali e soprusi. Negli ultimi anni l’Argentina e il Cile hanno dato vita a movimenti contro la violenza sulle donne, con interessanti flash mob e prese di posizione. Stessa cosa anche in Messico, dove si consuma la più silenziosa guerra civile al mondo con 95 omicidi al giorno e un tasso di impunità in alcune zone del 90 per cento.  Anche in Messico, Paese nel Nord America ma di cultura latina, le iniziative nella giornata internazionale della donna 2020 hanno registrato una partecipazione di massa mai vista.

23 Marzo 2020  MeridianoItalia.tv

No al decimo anno di carneficina in Siria

Drammatico appello dell’Onu perché “non proseguano le stesse atrocità e la stessa violazione dei diritti umani” cui abbiamo assistito finora nell’ambito del conflitto in Siria. Il segretario generale Guterres parla di reiterata “crudeltà” e invoca il ritorno a un processo di pace. Per l’Oms indegno il numero di attacchi alle strutture sanitarie. Con noi l’esperto di geopolitica Germano Dottori

 Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Abbiamo visto atrocità orribili, compresi crimini di guerra”, afferma il segretario generale delle Nazioni Unite chiedendo a gran voce che “non ci sia impunità”. All’inizio del decimo anno di guerra, il 15 marzo prossimo, Guterres  sottolinea che “i passi per porre fine alla sofferenza del popolo siriano sono ben noti ma devono essere realizzati”. In primo luogo, il protocollo aggiuntivo del 5 marzo al memorandum sulla stabilizzazione della situazione nell’area di Idlib, concordato tra Russia e Turchia, deve portare a una cessazione duratura delle ostilità che spiani la strada a un cessate il fuoco permanente a livello nazionale. Guterres ribadisce: “Le parti devono tornare al processo politico facilitato dall’Onu, che rimane l’unica strada percorribile per porre fine al conflitto e offrire una pace duratura al popolo”.

Per un’analisi delle ragioni del conflitto, delle implicazioni per l’area regionale, del ruolo delle potenze straniere coinvolte e del peso della crisi umanitaria, abbiamo intervistato Germano Dottori, docente di Studi strategici all’Università Luiss:

Un conflitto su tanti fronti

Nel marzo del 2011 sono iniziate le prime dimostrazioni pubbliche contro il governo di Damasco che si sono poi trasformate in rivolte su scala nazionale e quindi in guerra civile.  Le forze del sedicente Stato islamico (Is) sono state arginate tra il 2017 e il 2018 ma le armi non si sono fermate. La crisi siriana rimane una delle più grandi crisi mondiali, con sei milioni di sfollati interni e oltre cinque milioni di siriani registrati come rifugiati nei Paesi vicini, Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto. Circa un milione sono arrivati in Germania e alcune migliaia in altri Paesi europei.

La sofferenza indicibile della popolazione

Il segretario dell’Onu l’ha definita “una crisi umanitaria di proporzioni monumentali”.  Basti dire che il servizio sanitario è stato distrutto: oltre metà delle strutture sono completamente fuori uso. In alcune zone del Paese le strutture sanitarie in genere, sono tuttora i luoghi meno sicuri perché costantemente presi di mira da attacchi aerei e bombardamenti. Lo sottolinea l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che rileva come “i dati sugli attacchi ai servizi sanitari in Siria sono una triste testimonianza di una palese mancanza di rispetto per il diritto umanitario internazionale e per la vita dei civili e degli operatori sanitari”.  Richard Brennan, direttore regionale delle emergenze per l’Ufficio dell’Oms nel Mediterraneo orientale parla di 500 attacchi a strutture sanitarie in quattro anni.

Tra il 2016 e il 2019, due terzi degli attacchi, 337, sono stati registrati nella Siria nord-occidentale, tra le ultime aree del Paese che non sono sotto il controllo del governo. Sono state le città di Idlib, Aleppo e Hama a subire le maggiori distruzioni, osserva l’Oms. La Siria nordoccidentale conta anche il più alto numero di decessi in questi quattro anni, con oltre 300 morti su un totale di 470 vittime. Inoltre, 1000 persone sono rimaste ferite e rese disabili dagli attacchi in tutta la Siria tra il 2016 e il 2019. L’Oms ritiene che, ”tra tutti i conflitti armati del mondo, la Siria rappresenti da anni uno dei peggiori esempi di violenza che colpisce l’assistenza sanitaria”. Ciò che preoccupa, inoltre, secondo l’Oms è che si è arrivati al punto in cui gli attacchi alla salute, che la comunità internazionale non dovrebbe tollerare, ”sono ora considerati la normalità”.

Inoltre, Le Nazioni Unite hanno calcolato che oltre l’83 per cento della popolazione vive ormai stabilmente in condizioni di grave povertà, con un tasso di disoccupazione schizzato al 57 per cento e circa 12 milioni di persone rimaste senza alcuna fonte di guadagno.

Il drammatico capitolo della provincia di Idlib

L’ultima offensiva è stata lanciata dal presidente siriano Assad e dal suo alleato russo Putin nella regione di Idlib, nel nordovest del Paese, scatenando la reazione da parte della Turchia. La tensione è massima proprio perché nelle ultime settimane sono saltate sul campo alcune delle alleanze contro i ribelli: le forze turche hanno attaccato le stesse forze siriane parlando di sconfinamenti alla frontiera fissata per la zona di de-escalation.

Dallo scorso dicembre ad oggi si calcola che siano circa 1 milione e 300.000 gli sfollati che sono scappati per provare ad entrare in Turchia. A proposito della situazione delle strutture sanitarie, nel governatorato di Idlib due ospedali sono stati attaccati solo due settimane fa, e la violenza ha causato il ferimento di quattro operatori sanitari e la sospensione dei servizi. Con così tanta violenza nella Siria nord-occidentale, solo la metà delle 550 strutture sanitarie rimane aperta sia a causa dell’insicurezza, sia dei danni causati da precedenti attacchi, sia delle minacce di futuri attacchi.

da Vatican NEWS del 14 marzo 2020

Sale il numero dei contagi da Coronavirus ma anche dei guariti

L’emergenza coronavirus continua a toccare 110 Paesi mentre le Borse europee ieri sono crollate. Salgono i numeri dei morti e dei contagi ma anche delle persone guarite. In Cina è la svolta: solo otto casi. In Italia, che è stato il secondo Paese in pieno allarme, i casi sono oltre 12.000 ma quanti hanno superato l’infezione sono di più di quanti non ce l’hanno fatta.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Negli Stati Uniti 1.600 contagiati, 41 morti. E arriva il fatidico annuncio della chiusura delle scuole: per il momento a San Francisco. In Europa l’annuncio rimbalza dopo la prima decisione in Italia: l’ultimo in ordine di tempo in Belgio che ha serrato anche ristoranti e bar. Ieri anche la Francia ha sospeso le attività in scuole e università, mentre il presidente Macron ha confermato lo svolgimento delle elezioni dei sindaci domenica prossima.

Nomi noti  tra i contagiati

Intanto, ci sono nomi noti della politica tra i contagiati, dopo quello del presidente della regione Lazio in Italia Zingaretti. In Spagna due ministre e il leader di Vox positivi. In Canada contagiata la moglie del premier e anche Trudeau è in quarantena. E l’Iran fa sapere che anche il consigliere per gli affari internazionali della guida suprema Ali Khamenei risulta affetto dal Covid 19.

E mentre Pechino registra ormai l’80 per cento delle guarigioni con solo otto casi tra le province di Hubei e di Shandong, dalla Cina sono arrivati a Roma ieri sera materiali sanitari e medici a supporto dell’Italia, dove il governo sta varando un provvedimento a carattere finanziario per sostenere i medici, imprese e cittadini.

La rete della Croce rossa internazionale

Tra la strumentazione sanitaria assicurata dal primo Paese in cui è scoppiata l’emergenza, ci sono nove  bancali con ventilatori, materiali respiratori, elettrocardiografi, decine di migliaia di  mascherine.  Con l’aereo da Shanghai è arrivata anche una task-force di nove medici specializzati: sei uomini e tre donne guidati dal vicepresidente della Croce Rossa cinese, Yang Huichuan, e dal professore di rianimazione cardiopolmonare, Liang Zongan. Sono rianimatori, pediatri, infermieri e figure che hanno gestito con successo la crisi in Cina. Dalla Croce rossa internazionale il plauso alla capacità di fare rete. Lo ha sottolineato Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa Italiana presente ieri sera all’aeroporto di Fiumicino.

da Vatican NEWS del 13 marzo 2020

Libano in default finanziario

Proseguono le proteste popolari a Beirut e a Tripoli dopo le manifestazioni, cortei e sit-in che si sono svolti durante il fine settimana. Il governo ha annunciato che il sistema finanziario è incapace di assolvere i suoi impegni nei confronti di creditori esteri. Con noi Luigi Serra, esperto dell’area del Mediterraneo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il debito pubblico del Libano è pari a circa 77 miliardi di euro e corrisponde al 150 per cento del Prodotto interno lordo. I flussi delle entrate necessarie per finanziare la spesa pubblica si sono notevolmente ridotti. Il primo ministro libanese, Hassan Diab, ha fatto sapere che lunedì 9 marzo il Libano non è in grado di pagare la rata da 1,2 miliardi di dollari di interessi e cercherà nuovi accordi con i creditori. E’ la prima volta che il Libano, che da anni attraversa una grave crisi economica, non paga una rata del suo debito e rappresenta un segnale delle difficoltà nel Paese. In un discorso tenuto al termine di un lungo incontro con i suoi ministri e i rappresentanti delle banche del Paese, sabato 7 marzo, Diab ha spiegato che «il debito è diventato più grande di quanto il Libano possa sostenere ed è impossibile per i libanesi pagare gli interessi» sottolineando che sono in corso incontri con i creditori per ristrutturare l’enorme debito pubblico ed evitare la bancarotta.

Gli antefatti del default

Dopo anni di crescita, la crisi economica in Libano è cominciata nel 2011. Certamente l’impegno ad accogliere più di un milione di profughi in fuga dalla guerra in Siria – in un Paese di poco più del doppio di abitanti – non ha contribuito a stabilizzare l’economia, ma il punto centrale è che si sono ridotte da tempo le riserve di valuta straniera necessaria per ripagare debitori esteri. Le banche hanno imposto grossi limiti ai prelievi e si sono rifiutate di convertire la lira libanese in dollari. Tutti questi fattori hanno ridotto la capacità del Paese di importare beni dall’estero, riducendo le merci disponibili e rendendo ancora più grave la crisi economica. Si tratta di decidere se continuare a usare le sue riserve di valuta per ripagare il debito o saltare il pagamento di lunedì e conservarle per le importazioni.

Per ricordare cosa rappresenti il Libano in tutta l’area mediorientale e per spiegare alcuni degli elementi alla base della crisi economica, abbiamo intervistato Luigi Serra, docente all’Università Orientale di Napoli:

Quanto sta accadendo in Libano si inquadra nel difficile orizzonte pan mediterraneo di paesi in crisi politica ed economica, tra disagi, drammi, compreso quello dei morti in mare. Il Libano è circondato da scenari tragici e da Paesi gestiti da regimi e toccati dal terrorismo.  Finora ha rappresentato nell’area una sponda di libertà, di tranquillità, di una gestione più meno democratica della vita, un esempio di solidarietà con i profughi.

Il malessere della gente nelle proteste di ottobre

I problemi per l’economia del Paese sono stati già al centro delle manifestazioni scoppiate ad ottobre scorso: gli slogan erano diretti contro la corruzione e contro il carovita. Il default di oggi arriva da lontano. Di fronte alle proteste sono state fatte promesse che non risulta si possano mantenere.

Negli anni Settanta il Libano era considerato la Svizzera del Medio Oriente. Era un luogo dove depositi finanziari arrivavano da molti altri paesi perché ritenuto sicuro. Poi è arrivata la guerra civile (1975-1990) e da allora il paese non si è mai davvero ripreso, anche se non si pensava in questi anni che il Libano arrivasse al crollo dell’economia. Certamente negli ultimi vent’anni è cambiato il flusso finanziario e sono cambiati i paesi di provenienza. In alcuni casi si è trattato di transiti non ufficiali, non sempre legalmente controllati

da Vatican NEWS del 9 marzo 2020

Un giorno senza donne

Che il Messico non sia il paese più amichevole del mondo con le donne non è una novità. Ma l’efferatezza degli ultimi due feminicidi, quello di un ragazza di 25 anni – privata successivamente degli organi interni dal suo fidanzato/aguzzino – e di una bambina di 7 anni, sono stati il fattore scatenante di nuove proteste in tutto il paese. E della chiamata a uno sciopero generale di tutte le donne messicane il prossimo 9 marzo con lo slogan: “un dia sin nosotras”, un giorno senza di noi. L’America Latina è forse il continente dove si possono trovare le donne più potenti e, allo stesso tempo, più maltrattate. Negli ultimi anni sono state diverse le presidenti elette in vari paesi – un numero molto più alto rispetto all’Europa – e allo stesso tempo i movimenti femministi e di difesa dei diritti hanno dato incredibili passi avanti al punto di fare scuola a molti altri Stati considerati, sulla carta, “primo mondo”. In Argentina ci sono alcuni comportamenti che non vengono proprio tollerati e il vicino Cile segue la stessa strada, soprattutto negli ultimi tempi,  a partire dallo sciopero delle studentesse universitarie contro gli abusi di un professore fino ad arrivare al flash mob “uno stupratore sul tuo cammino” del “colectivo las tesis” che ha fatto il giro del mondo, realizzato proprio durante le proteste che da mesi stanno infiammando il paese e minando le certezze del presidente Sebastián Piñera.

Venerdì 6 marzo alle 11.00 Luigi Spinola ne ha parlato con Fausta Speranza, giornalista della redazione esteri dell’Osservatore Romano ed esperta di Messico, autrice del libro “Messico in bilico, viaggio da vertigine nel paese dei paradossi” (ed. Infinito, 2018).

Il volto femminile della fratellanza umana

Esponenti delle diverse religioni rilanciano insieme l’impegno a dare attuazione al Documento di Abu Dhabi, firmato il 4 febbraio 2019 da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar. Si sono ritrovate a Roma per firmare una Dichiarazione congiunta per la pace mondiale e la convivenza umana. Con noi rappresentanti della prospettiva musulmana, buddista, ebraica e cattolica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Donne costruttrici di fratellanza umana”: questo il titolo dell’incontro organizzato a Roma – il 3 marzo in prossimità della Giornata internazionale della donna – dall’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche (Umofc) in collaborazione con il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Un incontro per promuovere l’impegno comune e concreto delle donne di fede sulla via dell’attuazione di quanto contenuto nel Documento firmato da Francesco e dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb circa un anno fa. Come ha sottolineato allora lo stesso Francesco, il 4 febbraio del 2019, per la prima volta, un Pontefice ha messo piede nella penisola arabica ed è stato il Papa che ha scelto il nome del poverello di Assisi che, ottocento anni prima, in tempo di crociate, si era recato senza armi in terra musulmana a parlare di pace.

A ricordare la straordinarietà dell’evento di Abu Dhabi e le tappe storiche che lo hanno preceduto è stata la teologa iraniana Shahrazad Houshmand:

Dell’importanza di un impegno interreligioso e del ruolo delle donne ha parlato la vice presidente dell’Unione italiana buddisti Reverenda Elena Seishin Viviani:

La consigliera dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei) Sabrina Coen ha sottolineato l’importanza di un impegno a difesa dei valori di fratellanza in un momento storico segnato da un diffuso senso di crisi:

Nella prospettiva femminile è centrale l’impegno educativo, come ha spiegato la Servidora Presidente generale dell’Umofc, Maria Lia Zervino. Nella nostra intervista tra l’altro, sottolinea che il valore principale della Dichiarazione è di essere una risposta alla “chiamata” di Papa Francesco rappresentata dal Documento sulla fratellanza umana:

No alla dittatura dell’algoritmo

“Call for AI Ethics”, appello per un’etica dell’intelligenza artificiale: si chiama così la Carta firmata dall’Accademia per la vita, i vertici di Microsoft, di Ibm, con la partecipazione del Parlamento europeo e della Fao, a conclusione del convegno in Vaticano intitolato “The good Algorithm?”. Con noi monsignor Vincenzo Paglia

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’umanità usi la tecnologia e non viceversa, perché non sia “dittatura dell’algoritmo”. Oltre 450 persone – tra informatici e filosofi, teologi e dirigenti di azienda – si sono ritrovati concordi nel condividere questa raccomandazione che nasce dalla consapevolezza della sfida rappresentata dalla crescente diffusione dei sistemi a cosiddetta intelligenza artificiale. Centrale la riflessione del Papa affidata al messaggio letto in aula dal presidente dell’Accademia per la vita.