Palestinesi in trappola

 Gaza vs Cisgiordania

di Fausta Speranza

Intervista a Jamal Zakhouta, consigliere politico del primo ministro palestinese Salam Fayyad, incontrato nel suo studio a Ramallah

Nove mesi dopo lo scontro sul campo, e due anni dopo la vittoria alle elezioni di Hamas, quali sono i contatti politici tra leader di Fatah a Ramallah e uomini di Hamas a Gaza?

Anche i politici di Ramallah che lavorano per l’unità e per il futuro del popolo palestinese sono sotto minaccia se si recano a Gaza, non soltanto per gli israeliani ma per i fratelli che controllano Gaza con la loro ideologia. Io ho fatto parte di delegazioni per incontri a Gaza, prima dell’assedio, ma in questi giorni a Gaza nessuno può uscire e nessuno può entrare.

Come è maturata, secondo lei, la frattura tra i palestinesi?

I palestinesi continuano una lotta disperata dopo 40 anni di occupazione per costruire il loro Stato e per vivere in pace vicino ad Israele. Durante l’occupazione sono stati arrestati mezzo milione di palestinesi: consideri che, compreso Gaza e Cisgiordania, sono 3 milioni e mezzo. Praticamente non ci sono adulti palestinesi che non abbiano avuto un’esperienza in carcere. Quando c’è stata l’opportunità di Oslo, i combattenti palestinesi hanno fermato le ostilità. Si lottava contro l’occupazione non per odio ma per il dovere di lottare e di fronte a una finestra di opportunità di pace noi ci impegniamo fortemente. Io sono stato un testimone di quella opportunità non soltanto come attivista politico ma come negoziatore e posso dire che, dopo 14 anni di ricerca della pace, il governo israeliano siede al tavolo dei negoziati come fosse a un match. Chi vincerà? Ai match ci sono vinti e vincitori. Io lo ripeto sempre: questo processo di pace non può concludersi con un vincitore e un vinto. O vinciamo entrambi, superando occupazione, depressione e paura, o entrambi perderemo.

Negli ultimi 7 o 8 anni, in particolare, l’establishment israeliano ha preso decisioni unilaterali, dettando le regole del gioco. Non cercano un mutuo accordo basato sulle condizioni del negoziato che prevedono la fine dell’occupazione, iniziata nel 1967. Questa è stata la ragione principale già del fallimento di Camp David, nel 1978. Il punto è che noi palestinesi dobbiamo capire come fronteggiare questa strategia senza cadere in trappola, in un vortice di violenza. Noi abbiamo il diritto di resistere all’occupazione, ma come possiamo far sì che la nostra popolazione sia in grado di affrontare questa strategia israeliana? Come possiamo rendere la resistenza efficace e nello stesso tempo accettabile per la comunità internazionale? Tutto questo ha segnato l’inizio della divisione tra palestinesi. Alcuni di noi hanno preso il fallimento di Camp David come una svolta e hanno cominciato a sviluppare la loro politica non soltanto contro Israele ma anche contro i palestinesi che continuavano a cercare la pace. Guardando a tempi più recenti, considero gli ultimi 7 anni una trappola per tutti i palestinesi pronti a sacrificare la loro vita. Il nodo è questo: a causa della sproporzione nel rapporto di forza, noi non possiamo raggiungere i nostri obiettivi. Ma noi possiamo ottenere qualcosa soltanto se lavoriamo insieme, cercando nuovi sostenitori non solo nella comunità internazionale ma anche in Israele.

Dunque è vitale ricucire la frattura tra palestinesi e ritrovare l’unità?

E’ fondamentale l’unità nazionale ma basata su quali presupposti? Non voglio unità con qualcuno che non accetta due stati, perché questa posizione non porta a niente di buono. Questa radice della divisione si manifestava già ai tempi della prima intifada, che io ho vissuto. Hamas va avanti facendo a Gaza quello che vuole. Fatah ha fatto degli errori ma Hamas ha proprio la strategia sbagliata. Quelli di Hamas smantellano il sistema giudiziario e si basano su criteri non democratici per il parlamento. Qualcuno in Hamas deve essere pragmatico e capire che uno stato islamico in Gaza è solo sotto assedio e va contro una soluzione complessiva palestinese.

Le condizioni a Gaza sono quelle di una terra sotto assedio, dove ogni giorno aumenta la disoccupazione e diventa più tragica la situazione negli ospedali. E’ stata definita un carcere a cielo aperto. In Cisgiordania nuovi insediamenti frammentano il territorio ed è sempre più difficile la mobilità.
Perché la popolazione in favore di Hamas aumenta?

La popolazione non mangia gli ideali. La vita di ogni giorno in Cisgiordania va sempre peggio. Le persone normali voglio andare a lavorare in pace. Vogliono migliorare la loro vita e non solo avere giustizia. Le persone disperate si chiedono: da che parte stare? Con Stati Uniti e Unione Europea che non fanno nulla? Oppure con l’Iran? Il risultato è stato un cambiamento di voto, un cambiamento di mappa politica palestinese. Certamente noi di Fatah dobbiamo rispettare i risultati delle elezioni ma non abbandoniamo i nostri obiettivi: anche con la vittoria di Hamas dobbiamo continuare a lavorare per due Stati. Tutti quelli che non cercano la soluzione di due Stati vogliono la vittoria di Israele.

Quale vittoria vuole Israele?

Israele continuando a costruire insediamenti in Cisgiordania non lavora per due Stati. Israele ha lasciato Gaza a Hamas, perché gli israeliani si sentono molto sicuri di fronte alla debolezza dei palestinesi, anche se i palestinesi non possono accettare meno di un ritorno ai confini che c’erano prima dell’invasione del 1967. Con la scusa di non negoziare con Hamas perché non li riconoscono, aiutano Hamas. Creare situazioni differenti a Gaza e in Cigiordania è un’opportunità d’oro per Israele per scongiurare il ritorno ai confini del 1967. Che si può fare con questa che io chiamo la “black map”? Il mondo e Israele vogliono punire Hamas ma la strategia di Israele è di distruggere lo spirito dei palestinesi, di spezzare la loro forza di andare avanti. Non è di distruggere Hamas. La strategia piuttosto è di usare Hamas. Hamas e Israele hanno interessi in comune.

Lei crede che Israele abbia supportato o stia supportando concretamente Hamas?

Se parliamo di un supporto diretto di armi, la risposta è no. Ma Israele lavora sistematicamente, con l’assedio o con altre misure, per radicalizzare la posizione dei palestinesi nella Striscia di Gaza, per esasperarli con la povertà, per dividere e indebolire tutti i palestinesi. Quello che fanno è chiudere gli occhi sulle armi che arrivano e che servono per armare fratelli contro fratelli. Molte delle armi di cui dispone Hamas anche in Cisgiordania, sono armi israeliane. Penso agli M16. Io non dico che Israele consegni queste armi ai palestinesi, ma se queste armi creano guerra civile, creano pubblicità negativa per i palestinesi nel mondo, perché non chiudere un occhio? La causa palestinese era più forte prima della seconda intifada e prima di giugno scorso. Noi siamo responsabili per questo ma c’è da chiedere perché Israele non blocca l’importazione delle armi da Rafah? Sono armi per uccidersi tra fratelli…

Si può fare la pace senza negoziare con Hamas?

Israele non ha bisogno di Hamas per fare la pace: se volesse potrebbe farla con il presidente Abu Mazen. Io condanno molto Hamas ma non si può dare a Hamas tutta la colpa del fallimento del negoziato. Il fondamentalismo islamico di Hamas si distingue da altre espressioni in altri Paesi perché si nutre di nazionalismo, ma Hamas sventola solo la bandiera del suo movimento.

Che dire della tappa di Annapolis a novembre scorso?

L’incontro di Annapolis è stato organizzato non dai palestinesi ma da Stati uniti e Unione Europea. Si tratta di documenti americani. E’ evidente che Israele non è che non rispetta i palestinesi: non rispetta la comunità internazionale. La comunità internazionale deve far rispettare le sue risoluzioni. Tanto tempo è stato perso e diventa sempre più difficile la soluzione di dueStati, a causa degli insediamenti. Da parte palestinese sono stati fatti errori, ma la strategia non è sbagliata perché noi vogliamo rispettare i patti. Io chiedo una forza di peacekeeping internazionale per difendere la road map internazionale. Quando la leadership palestinese ha accettato di recarsi ad Annapolis voleva una cosa: sedersi allo stesso tavolo degli israeliani e firmare un trattato sotto l’ala internazionale. Questo è l’unico modo per una soluzione palestinese. Noi ribadiamo il fallimento dell’unilateralismo e il fallimento di ogni soluzione militare.
La divisione tra Gaza e Cisgiordania incoraggia Israele a non mantenere nessuna promessa presa ad Annapolis, anche se la comunità internazionale appoggia Abu Mazen.

Qual è il più grave di questi impegni mancati?

Il primo impegno in base ai patti dei Trattati era di bloccare gli insediamenti dappertutto, inclusa Gerusalemme. E invece Israele continua a inviare avamposti e a costruire insediamenti. Ritornare alle linee di confine di settembre 2000 sarebbe il minimo grazie al quale le autorità palestinesi potrebbero riottenere la fiducia della popolazione, per poter lavorare a riforme economiche e politiche, per poter creare le condizioni per una vita possibile. In particolare negli ultimi due anni tutti i palestinesi che possono se ne vanno, soprattutto da Gaza. Qualunque presidente o premier palestinese, Abu Mazen o Fayyad, o qualunque buona politica si facesse, senza il coinvolgimento della comunità internazionale non si vedrebbero buoni esiti. Non c’è granché da sedersi al tavolo. Gli israeliani dichiarano ai media che dal momento che le autorità palestinesi non sono in grado di controllare la violenza, Israele non può rispettare la road map. In realtà è la politica degli insediamenti che crea insicurezza e alimenta la violenza. Israele continua con questa politica e usa questa insicurezza. E’ una politica che non soddisfa il bisogno di sicurezza degli israeliani. Ci vorrebbe l’invio di una forza internazionale per un periodo per assicurare la sicurezza sul territorio. Questo sarebbe l’unico modo per garantire entrambi. Quattro settimane fa ho incontrato in Gaza il principale advisor di Hamas, Mahamed Yussef, e lui ha detto solo due parole: resistenza e rockets, cioè razzi contro Israele. Tre settimane dopo la stessa persona ha annunciato di fermare i rockets perché sono una scusa per Israele. Si discute se Hamas prende potere e se Fatah è debole, ma non è questo il punto: il punto è essere uniti. Essere veramente uniti e non solo cercare compromessi. Il mondo chiede a Hamas di rispettare le richieste di Israele ma nessuno sta chiedendo il rispetto dei diritti umani dei palestinesi. Palestinesi muoiono sotto interrogatorio in Cisgiordania o soffrono a Gaza le angherie dei poliziotti, ma se una persona è toccata a Sderot si fa la rivoluzione. E’ tempo di preoccuparsi della sicurezza di ogni palestinese, da proteggere non solo dagli israeliani ma anche da altri palestinesi, che siano spinti ufficialmente o siano cani sciolti. Bisogna intervenire sul campo.

Secondo lei, si fanno breccia tra la popolazione israeliana perplessità o dubbi sulla politica dei loro leader che lei illustra?

Ci sono spazi di dissenso ma sono sempre meno. La maggior parte degli israeliani vorrebbe vivere in pace, ma ci sono dei ma. C’è una contraddizione ad esempio in alcune dichiarazioni della popolazione: mentre ogni sondaggio dice che il 60-75% della popolazione è a favore del processo di pace basato sulla soluzione di sue stati, la stessa percentuale giustifica e sostiene la soluzione militare. In questa fase in particolare, c’è un modo di pensare molto pericoloso: la gente non vuole sapere cosa accade oltre il muro, è cieca e non si interessa. Questo rappresenta un pericolo non solo per noi palestinesi ma anche per gli israeliani.

Che ne dice del ruolo che giocano i Paesi arabi per una soluzione complessiva palestinese?

Qualcuno offre soldi e sostegno ma sono divisi e deboli. La Siria supporta Hamas.

A 4 anni dalla morte di Yasser Arafat, come lo ricorda?

Ho motivi di critiche, ma ricordo il più grande successo di Arafat: è riuscito a mantenere uniti i palestinesi ed è riuscito a portare avanti la questione palestinese evitando interferenze di altri paesi. Ha lasciato fuori Iran e Siria.

Commenti di alcuni lettori

inviato da Gianni il 06 aprile 2008 alle 12:27

Complimenti per l’intervista. Grazie per farci capire, in questi tempi pieni di facili slogan, la complessità della situazione palestinese in modo chiaro, equilibrato ed essenziale.

inviato da Roberta il 04 aprile 2008 alle 12:34

“O vinciamo entrambi, superando occupazione, depressione e paura, o entrambi perderemo”: mi sembra davvero questa la premessa da cui partire per ricucire la frattura palestinese. Un’intervista-testimonianza estremamente lucida e interessante. Complimenti!

inviato da Roberto il 01 aprile 2008 alle 21:17

Un’ottima intervista. Su queste premesse il conflitto israelo-palestinese è destinato ancora a durare moltissimi anni, sicuramente ancora decenni.

inviato da Luigi il 01 aprile 2008 alle 14:19

Faccio i complimenti al giornale e alla giornalista per la chiarezza dell’articolo su un tema molto difficile. E’ raro trovare su questo argomento equilibrio e competenza.

inviato da Agatoni Luca il 01 aprile 2008 alle 16:43

Mi unisco al giudizio di Luigi: l’intervista tocca con ottima lucidità tutti i punti principali dell’attuale situazione. Israele non vuole la pace e usa scuse ridicole per legittimare sul campo la politica del ‘fatto compiuto’. Molto razionale anche il giudizio su Hamas, che ha gravi responsabilità, ma non la totale colpa del fallimento della politica palestinese degli ultimi anni. Condivido anche il fatto che i palestinesi non debbano MAI abbandonare la lotta e la resistenza, ma trovo al contempo necessario che si torni ad avere un fronte comune e unito. Arafat ha commesso errori imperdonabili – in particolare chiedendo al suo popolo immani sacrifici senza poi aver ottenuto niente di concreto – ma, come si afferma alla fine dell’articolo, ha cmq avuto il merito di tenere i palestinesi uniti e di fare in modo che i vicini arabi non si intromettessero più del dovuto in una questione che rimane – e deve rimanere – una questione nazionale del popolo palestinese. E di nessun altro. Ancora complimenti per il vostro lavoro, tanto il cartaceo quanto questo sito!