200 anni dalla morte di Immanuel Kant

A 200 anni dalla morte di Immanuel Kant, dibattiti e cerimonie rievocative ripercorrono il bagaglio di pensiero che il massimo filosofo tedesco ha lasciato. In particolare nella città dove Kant è nato, nel 1724, le iniziative culturali sono accompagnate anche da una scelta politica: proprio oggi nella cittadina, che allora si chiamava Koeningsberg e apparteneva alla Prussia orientale e che oggi si chiama Kaliningrad e appartiene alla Russia, viene inaugurata, alla presenza del ministro degli esteri Fischer, la prima rappresentanza diplomatica tedesca, dopo dieci anni di trattative tra Germania e Russia. Nella stessa cittadina Kant ha sempre vissuto, ha insegnato, ha scritto le sue opere e il 12 febbraio del 1804 è morto. Ma la profondità della sua riflessione ha valicato confini ben più ampi, segnando profondamente la cultura dell’Occidente. Di tanti, lunghi, articolati scritti tentiamo di focalizzare un aspetto di quanto rimane di più significativo per il sentire moderno. Scegliendo il tema kantiano dell’imperativo categorico Fausta Speranza ha chiesto aiuto al prof. Giuseppe Modica, ordinario di filosofia morale e presidente del Corso di laurea in filosofia e scienze etiche all’Università di Palermo.

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R. – Si capisce l’imperativo categorico ricordando sempre un assunto chiave di tutto il pensiero kantiano: il rapporto tra moralità e libertà. Kant rivendica un rapporto intrinseco tra moralità e libertà perché non c’è l’una senza l’altra. Le due categorie si richiamano a vicenda a conferma del fatto che l’imperativo categorico è certamente assoluto e perentorio proprio perché ha dinanzi a sé una libertà che in qualsiasi momento può disfarne l’imperatività. E’ quindi importante capire che l’appello kantiano è un appello rivolto alla capacità dell’uomo di realizzare la legge morale nella sua assolutezza e nella sua universalità, senza cedimenti a forme di utilitarismo o di sentimentalismo che possono inquinarne la purezza. Credo che questo sia importante considerando la ricaduta che può avere il messaggio kantiano sul mondo contemporaneo.

D. – Oggi è molto difficile parlare di “morale”, eppure c’è profondità di pensiero e di sensibilità dietro a questo termine. Che cosa impariamo da Kant, che ha saputo parlarne tanto?

R. – Con un’espressione assolutamente generalista ma anche metaforica possiamo definire il mondo di oggi come il mondo variegato dell’industria e del commercio. E vi siamo tutti immersi e sommersi. Ci porta a considerare le persone come mezzi, come mezzi utilizzabili per il raggiungimento di scopi, che in genere riguardano direttamente noi. Spesso, quindi, la persona è asservita a questo intendimento. L’appello kantiano, anche qui posto sotto forma di imperativo categorico, è quello per cui nessuno deve mai trattare se stesso o gli altri semplicemente come mezzo ma sempre ed anche come fine. Questo è fondamentale. La distinzione che Kant fa tra il valore inteso come prezzo e il valore inteso come dignità è essenziale, anche per comprendere non solo l’attualità di Kant ma anche l’esemplarità. Quando una cosa ha un prezzo possiede un valore relativo e perciò è commerciabile e può essere comprata, costasse pure tutto l’oro dell’universo. Quando, invece, una cosa ha dignità, non è commerciabile, non può essere comprata ma ha un valore assoluto e incondizionato. E’ proprio la dignità e non il prezzo ciò che contraddistingue la personale morale, secondo Kant.

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