Il vagone della disperazione

A colloquio con Luca Bondi dell’associazione «Semi di pace»

di Fausta Speranza

Non una sola giornata per la memoria, ma un laboratorio sempre aperto per ricordare e capire: è la scelta fatta dall’associazione Semi di pace, che ha voluto un memoriale permanente della Shoah, che richiama migliaia di ragazzi in ogni periodo dell’anno. Si trova alla Cittadella, la sede della onlus nei pressi di Tarquinia, nel Lazio, che porta avanti progetti di carattere sociale e culturale, creando a vari livelli inclusione. La visita non è paragonabile all’esperienza drammatica di recarsi nel campo di concentramento di Auschwitz, ma è comunque un salto dentro un vagone autentico tra quelli protagonisti della deportazione degli ebrei da Roma. Proprio perché è un’esperienza più circoscritta è possibile proporla ai giovanissimi delle scuole medie.

Il vagone merci (foto di Nina Maurizi)

L’ingresso nel vagone, dove uomini, donne, bambini, hanno conosciuto la disperazione, la fame, in alcuni casi la morte, e sempre l’umiliazione di non sentirsi più esseri umani, rappresenta un momento fortissimo, accompagnato da letture e da testimonianze di sopravvissuti o studiosi, e anche di rappresentanti di altre fedi religiose o confessioni cristiane. Permette, dunque, di lasciare semi di comprensione dell’orrore della Shoah anche a ragazzi meno maturi per l’impatto agghiacciante di Auschwitz o Birkenau.
È quanto spiega all’«Osservatore Romano» Luca Bondi, presidente dell’associazione Semi di pace. Docente da anni, Bondi esprime bene l’obiettivo: «Non lasciare che si perda la memoria, ma soprattutto far conoscere il contesto in cui è maturato l’orrore della Shoah». Bondi avverte che «non basta ricordare per evitare che accada di nuovo». Ci vuole la «comprensione storica della situazione sociopolitica che ha permesso l’istituzionalizzazione dell’odio».
Il memoriale è permanente anche per questo: perché giovani e professori abbiano un riferimento non per una cerimonia di commemorazione, che pure ha significato e valore, ma per lo studio, attento e rinnovato. E Bondi è chiarissimo: «Tutto ciò era significativo quando cinque anni fa è stato pensato il progetto, realizzato poi due anni e mezzo fa. Ma con il passare del tempo diventa sempre più tristemente urgente: «Constatiamo rigurgiti crescenti di razzismo e intolleranza, campagne di odio». Con il linguaggio semplice di chi è abituato a far passare concetti difficili ai ragazzi, Bondi ci dice: «I giovani, che sono sempre più bombardati sul web da fake news che relativizzano se non negano la Shoah, devono capire le coordinate che ottanta anni fa hanno reso possibile concepire lo sterminio degli ebrei e devono far propri gli strumenti critici per capire le coordinate del loro tempo». Conoscere e rileggere la storia deve aiutare a farsi «sentinelle, antenne che intercettano e respingono logiche di morte».
La soddisfazione più grande che ci confessa Bondi è quando, a seguito della visita al vagone, gli insegnanti raccontano poi della voglia dei ragazzi di continuare ad approfondire, di saperne di più. «Dal silenzio che si crea dentro il vagone sempre — ci assicura Bondi — si passa alle domande». Se in termini di età e di gestione delle proprie emozioni, si parla di giovanissimi acerbi, in termini di riflessioni lasciate dopo la visita, stupisce la capacità di restituire con parole semplici sensazioni e moti dell’anima con l’impronta dell’incredulità, dello stupore, dello sdegno. Qualcuno, nel librone che raccoglie centinaia di riflessioni, ha scritto: «Mi sembrava di sentire le voci di quelle persone che mi hanno spiegato facevano viaggiare più lentamente rispetto alle possibilità del treno: è terrificante pensare che doveva esserci una selezione naturale e che i sopravvissuti dovevano arrivare distrutti fisicamente e moralmente». Una ragazza ha ammesso: «Mi hanno spiegato i fatti e li ho capiti, ma non riesco a capire come possano degli uomini arrivare a tanto». Gli anni di questi giovani sono pochi, ma questa ammissione non è cosa da poco.

L’Osservatore Romano, 26 gennaio 2019