Conclave al via il 7 maggio: attese e incognite nella elezione del nuovo Papa

Conclave al via il 7 maggio: attese e incognite nella elezione del nuovo Papa

29 Aprile 2025

Dopo i funerali di Papa Francesco, il 7 maggio inizia il Conclave per l’elezione del suo successore tra questioni aperte, messaggi di speranza e il ricordo del pontificato di Jorge Mario Bergoglio

di Fausta Speranza

su National Geographic

https://www.nationalgeographic.it/conclave-al-via-il-7-maggio-attese-e-incognite-nella-elezione-del-nuovo-papa

Sarà presieduto dal cardinale Pietro Parolin, già Segretario di Stato, il Conclave per l’elezione del successore di papa Francesco che avrà inizio il 7 maggio prossimo. La prima votazione si terrà nel pomeriggio mentre al mattino è prevista la Missa pro eligendo Romano Pontifice e la processione dei cardinali elettori verso la Sistina. Non ci sarà il cardinale Giovanni Angelo Becciu, condannato in primo grado per peculato e truffa in Vaticano e mai inserito nella lista dei partecipanti al Conclave. Becciu ha fatto sapere di “obbedire” alla volontà’ di Francesco pur dichiarandosi “innocente”.

Per eleggere il Papa sarà necessaria una maggioranza qualificata di due terzi. In caso si arrivasse oltre le 32 votazioni, si passerebbe direttamente e obbligatoriamente al ballottaggio fra i due cardinali che avessero ricevuto il maggior numero di voti nell’ultima votazione. Anche in questo caso, però, sarebbe sempre necessaria una maggioranza dei due terzi. La Cappella Sistina è stata chiusa alle visite per poter essere allestita con i banchi per gli scrutini e la stufa dove saranno bruciate le schede delle votazioni.

L’omaggio a Francesco: dalle esequie alla sepoltura

Intanto continuano le file per andare a rendere omaggio alla tomba di Papa Francesco tumulata, con una cerimonia privata, nella basilica di Santa Maria Maggiore sabato scorso, dopo i funerali sul sagrato di piazza San Pietro alla presenza di quasi tutti i “grandi” della terra e 250.000 fedeli. Tra tante parole, colpiva l’appellativo di “Maestro y poeta” comparso su uno striscione in spagnolo dei ragazzi delle Scholas Occurrentes, l’organizzazione internazionale di diritto pontificio, senza scopo di lucro, creata da Papa Bergoglio nel 2013, con l’intento di promuovere una rete mondiale di possibilità in campo formativo. Studio ed educazione si traducono in crescita e sviluppo: parliamo del crinale su cui si gioca la variabile tra miseria e autonomia. Oggi Scholas Occurrentes conta 2,5 milioni di partecipanti in 70 Paesi di cinque continenti. Rappresenta un frutto tangibile e concreto dell’impegno pastorale di Francesco, e non deve sfuggire il valore simbolico della modalità scelta: fare rete.

La connessione tra persone così diverse ma unite dall’affetto per Papa Francesco si è sentita fortissima: in piazza e sul sagrato è stata vissuta in una cerimonia che nella sua Liturgia Francesco ha voluto invariata. Se ha chiesto di avere solo una delle tre tradizionali bare o di non essere posto su catafalco, in tema di Liturgia non ha alterato nulla. Ed è significativo. La connessione poi è stata intatta e viva lungo tutti i sei chilometri che dal Vaticano hanno portato il feretro in papamobile bianca all’ingresso della più piccola delle basiliche papali che conserva da secoli l’immagine Salus Populi Romani cara a Francesco. Una lapide bianca e la scritta Franciscus segnalano la tomba per una bara in cui è stato inserito il Rogito, il “riassunto” del Pontificato, che non poteva certamente riepilogare tutte le opere o tutti i documenti e le decisioni di Francesco ma che dispiace non citi la storica nomina di una donna prefetto, Suor Simona Brambilla, a capo di uno dei Dicasteri che formano la Curia.

E proprio quando il cardinale Giovanni Battista Re, decano del Collegio cardinalizio che ha presieduto la celebrazione dei funerali, ha espresso questa consapevolezza è scoppiato l’applauso più forte dalla parte della piazza occupata per lo più da giovanissimi. I ragazzi erano presenti e non soltanto per la concomitanza con il Giubileo dei giovani. Il loro applauso si è fatto sentire, insieme con quello di tanti altri, anche quando il cardinale Re ha ricordato come la voce di Francesco si sia levata con forza contro gli “orrori disumani” della guerra, definita “una dolorosa e tragica sconfitta per tutti”, e per chiedere “ragionevolezza” e “onesta trattativa”.

Non possiamo sapere cosa sia rimasto davvero nel cuore dei “grandi” presenti: 52 capi di Stato, 14 capi di Governo; 12 sovrani regnanti. E i rappresentanti ad altissimo livello dell’Onu, dell’Unione Europea e di tutti gli altri organismi internazionali. Tutti “schierati” sostanzialmente in ordine alfabetico ma francese, lingua della diplomazia. Tra tanti, è stata evidente l’assenza di esponenti di vertice della Cina. C’è da dire che da Pechino sono giunte in Vaticano condoglianze che in altri tempi sarebbero state difficilmente immaginabili. Restano tante immagini e quella foto: Trump e Zelensky seduti a dialogare dentro la basilica di San Pietro e le attese accese dalle dichiarazioni dei due leader seguite da aperture al negoziato che sembrano arrivare dal Cremlino. Tutte aspettano di essere declinate nei fatti.

Il Cardinale Pietro Parolin celebra

la Messa della Domenica della Divina Misericordia in suffragio di Papa Francesco in Piazza San Pietro, il 27 aprile 2025, nella Città del Vaticano

 I riti funebri per il defunto Papa Francesco si svolgono per nove giorni dopo la sua sepoltura, mentre i fedeli lo commemorano e lo celebrano. Durante questo periodo, il Vaticano si prepara al processo per eleggere un nuovo Papa, noto come Conclave, che deve iniziare entro 15-20 giorni dalla morte del Pontefice.

Il Giubileo dei giovani

È stato importante vedere che i giovani sono tornati in piazza San Pietro il giorno seguente ai funerali, domenica 27 aprile, quando non c’erano più i capi di Stato e di Governo. C’erano comunque di nuovo 200.000 persone alla Messa presieduta la mattina dal cardinale Pietro Parolin, già Segretario di Stato, nell’ambito dei Novendiali, i nove giorni di celebrazioni in suffragio del Papa defuntoche da lunedì 28 fino a domenica 4 maggio proseguono in San Pietro, ma alle ore 17:00.

Nel corso dell’omelia Parolin ha raccomandato: “Siamo chiamati all’impegno di vivere le nostre relazioni non più secondo i criteri del calcolo o accecati dall’egoismo, ma aprendoci al dialogo con l’altro”. La certezza è la stessa: “Solo la misericordia guarisce, solo la misericordia crea un mondo nuovo: questo è il grande insegnamento di Papa Francesco.” Il cardinale, capo della Segreteria di Stato da agosto 2013 e dunque in tutti gli anni di Pontificato di Francesco, ha parlato di “dolore”, “turbamento”, “sensazione di smarrimento” chiedendo che l’affetto per Francesco “non resti una semplice emozione del momento” quanto piuttosto che “la sua eredità diventi vita vissuta”.

Ai giovani, giunti da tutto il mondo, ha parlato delle tante sfide ricordando anche “quella della tecnologia e dell’intelligenza artificiale che caratterizza in modo particolare la nostra epoca”. Sempre ai giovani è dedicato il video registrato con smartphone l’8 gennaio scorso e diffuso nel giorno dei funerali. Francesco, seduto nella sua stanza di Santa Marta con un maglione bianco, dice: “Cari ragazzi e ragazze, una delle cose molto importanti nella vita è ascoltare, imparare ad ascoltare. Quando una persona ti parla, aspettare che finisca per capirla bene e, poi, se me la sento dire qualcosa. Ma l’importante è ascoltare”.

Un testamento spirituale

Prendersi cura delle relazioni è davvero il cuore di tutte le scelte pastorali di Papa Francesco. Nei suoi 12 anni di pontificato, ha chiesto di combattere la “cultura dello scarto” con la medicina della “cura” delle relazioni. Innanzitutto la relazione con Dio, che non ha affatto trascurato. Poi, in stretta correlazione, ha concepito la relazione con l’altro, visto come fratello nella famiglia umana. Inoltre ha parlato della relazione con l’ambiente, “casa comune” in cui – ha chiarito – non si possono più immaginare sistemi sociali slegati dai sistemi naturali e viceversa. Il messaggio centrale dell’Enciclica Laudato Sì del 2015 è che “tutto è in relazione” e “nessuno si salva da solo”.

Di Papa Francesco restano centinaia di appelli per la pace e quelle parole pronunciate per ultime: “Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo”, alla benedizione Urbi et Orbi di Pasqua. Francesco ha ribadito che “l’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo” e ha chiesto di “abbattere le barriere che creano divisioni e sono gravide di conseguenze politiche ed economiche”.

In poche parole nel messaggio di Pasqua dell’anno giubilare ha fotografato la drammatica evidenza: “Quanta volontà di morte vediamo ogni giorno nei tanti conflitti che interessano diverse parti del mondo! Quanta violenza vediamo spesso anche nelle famiglie, nei confronti delle donne o dei bambini! Quanto disprezzo si nutre a volte verso i più deboli, gli emarginati, i migranti!”. Con una consapevolezza fondamentale: “Nessuna pace è possibile laddove non c’è libertà religiosa o dove non c’è libertà di pensiero e di parola e il rispetto delle opinioni altrui”.

E questo è l’appello che, come ha sottolineato il cardinale Parolin, non deve solo emozionare in questi giorni: “Non venga mai meno il principio di umanità come cardine del nostro agire quotidiano”.

read also (24 aprile 2025): https://www.faustasperanza.eu/wordpress/2025/04/24/su-national-geographic-le-ultime-volonta-di-francesco/

su National Geographic le ultime volontà di Francesco

24 Aprile 2025

  National Geographic

di Fausta Speranza

Le ultime volontà di Papa Francesco: semplicità, fede e umanità

https://www.nationalgeographic.it/le-ultime-volonta-di-papa-francesco-semplicita-fede-e-umanita

In attesa della Messa esequiale di Papa Francesco – che si terrà sabato 26 aprile alle ore 10.00 sul sagrato della Basilica di San Pietro – migliaia di fedeli sono accorsi per rendergli omaggio. Ripercorriamo le ultime volontà del Papa della Gente che evocano il suo credo di umiltà.

“Solamente per quanto riguarda il luogo della mia sepoltura”: con queste parole Papa Francesco ha chiarito al mondo di non avere altre disposizioni testamentarie se non in relazione alle sue spoglie mortali. A colpire tutti è stata la scelta di essenzialità: “Il sepolcro deve essere nella terra; semplice, senza particolare decoro e con l’unica iscrizione Franciscus”.

È la semplicità alla quale il Papa morto il 21 aprile 2025 ci aveva abituato da subito: il 13 marzo 2013 era apparso dalla Loggia di San Pietro augurando “buonasera” e chiedendo “pregate per me”. Lo ha chiesto fino all’ultimo respiro ed è certo che alle esequie, il 26 aprile, nella celebrazione presieduta dal cardinale decano Giovanni Battista Re, saranno in tanti a farlo, in presenza o da lontano. Ma è una semplicità da comprendere appieno, ricordando che il Papa che ha scelto il nome del Santo di Assisi era un colto gesuita. La semplicità non è soltanto spontaneità.

Il testamento

Non manca lo spirito di concretezza di Papa Francesco nel testamento redatto, e in parte reso noto, tre anni prima della morte: “Chiedo che la mia tomba sia preparata nel loculo della navata laterale tra la Cappella Paolina (la Cappella della Salus Populi Romani) e la Cappella Sforza della suddetta Basilica Papale…”. E ci sono anche le risorse previste: “Le spese per la preparazione della mia sepoltura saranno coperte con la somma del benefattore che ho disposto”. L’auspicio: “Il Signore dia la meritata ricompensa a coloro che mi hanno voluto bene continueranno a pregare per me”. E c’è poi la sofferenza “offerta per la pace nel mondo e la fratellanza tra i popoli”.

Perché la sepoltura in Santa Maria Maggiore

C’è una preferenza precisa: “Chiedo che le mie spoglie mortali riposino aspettando il giorno della risurrezione nella Basilica Papale di Santa Maria Maggiore”, dove si recava in preghiera all’inizio e al termine di ogni viaggio apostolico. Si tratta di una Basilica Papale ma non è quella dove ci eravamo abituati a pensare i sepolcri dei papi. Si può essere semplici e controcorrente. Ma non nel senso in cui a volte ci è sembrato di sentire raccontare Francesco: quasi una sorta di “Giamburrasca” del Vaticano. Dietro alle scelte, piuttosto, c’è un bagaglio di comprensione da non sottovalutare.

Oltre la dichiarata personale devozione per la Madre di Dio e Madre della Chiesa, c’è quella lettera che Papa Francesco ha scritto cinque anni fa al presidente della Pontificia Accademia Mariana Internazionale (PAMI), padre Stefano Cecchin, firmata il 15 agosto 2020. Francesco ha chiesto di liberare Maria dall’immagine di una donna sottomessa che tanto è utile alle logiche familistiche e impenetrabili delle mafie, e di tutti gli apparati di potere.

Si comprende l’importanza e l’urgenza di riscoprire l’umiltà di Maria che non è sottomissione o sudditanza. È la scelta libera di una donna forte di aderire totalmente al Mistero della Salvezza. Peraltro, già l’esortazione apostolica Marialis Cultus di Paolo VI nel 1974 chiariva che “Maria non è donna passivamente remissiva o di una religiosità alienante, ma donna che non dubitò di proclamare che Dio è vindice degli umili e degli oppressi e rovescia dai loro troni i potenti del mondo”. Francesco ha inoltre nominato suor Raffaella Petrini Presidente del Governatorato e suor Simona Brambilla primo Prefetto donna. Sono gesti concreti che suonano come promesse di un cambio di passo al quale solo il futuro potrà dare compimento. Nel linguaggio e nei fatti.

Il papato di Francesco e il consesso internazionale

A livello di equilibri internazionali sembrano di nuovo sdoganate le logiche di potenza, con l’emergere di poteri forti vecchi e nuovi, strutture, condizionamenti che non rispondono a criteri evangelici e neanche a principi del diritto internazionale. A questo proposito, Papa Francesco si è inserito nella tradizione curiale che risale a Paolo VI, chiedendo il rispetto del diritto internazionale e il coinvolgimento dell’ONU, un organismo che però risulta bloccato nel fuoco incrociato di veti.

Da Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin ha parlato di una organizzazione caduta nella “apatia” e nella “irresponsabilità” e per giunta “passiva dinanzi alle ostilità subite da popolazioni indifese”. Da qui alcune mediazioni. Pensiamo ai buoni uffici posti dalla Santa Sede nel processo di normalizzazione delle relazioni bilaterali cubano-statunitensi, rotte dopo la rivoluzione castrista, giunto ad un accordo nel 2014. Inoltre, Francesco ha coinvolto altri personaggi, nei casi conosciuti alcuni cardinali, come Ortega per Cuba e Zuppi per l’Ucraina, per attivare una diplomazia più “personalizzata”. Peraltro si sa di altri contesti come nel Sud Sudan e in Repubblica Democratica del Congo. In ogni caso, sono canali ricondotti sotto il lavoro della Segreteria di Stato, confermando “creatività” e tradizione. Un binomio in cui restano centrali i valori.

Tra guerre vecchio stampo e ripensamenti dell’ordine mondiale, tra antiche diseguaglianze e moderne forme di rapacità economica, è urgente infatti ricordare – e Papa Francesco come altri Papi ha cercato di chiarirlo – che le istituzioni occidentali vanno ricongiunte alle loro radici di civiltà più profonde: quelle che dal nomos greco, dallo ius romano, dalla Legge ebraica conducono all’affermazione netta della centralità assoluta della persona umana, e della sua superiorità rispetto a ogni potenza terrena, asserita dall’umanesimo cristiano. Anche l’obiettivo è urgente: frenare la consunzione delle barriere contro l’abuso del potere, alla quale stiamo assistendo. E sulla centralità della persona c’è tutta la fermezza della Chiesa.

Le ultime volontà di Papa Francesco

ROMA, ITALIA – 8 DICEMBRE: Papa Francesco celebra la Festa dell’Immacolata Concezione donando tre Rose d’Oro all’antica icona romana “Maria Salus Populi Romani” nella Basilica di Santa Maria Maggiore, l’8 dicembre 2023 a Roma, Italia. FOTOGRAFIA DI Vatican Media

Le esequie

Tornando al commiato, ci sono poi le nuove regole volute da Francesco per le esequie. In questo caso, non ha disposto per sé ma in generale per i Pontefici. Tra le novità c’è stata la constatazione della morte non più nella camera del defunto ma nella cappella dell’abitazione Domus Sanctae Marthae; la deposizione immediata dentro la bara; l’eliminazione delle tradizionali tre bare di cipresso, piombo e rovere a favore di una di legno e zinco. La bara di Papa Francesco, esposta nei giorni 23, 24 e 25 aprile nella Basilica vaticana, è stata deposta davanti all’Altare della Confessione su una piccola pedana leggermente inclinata, posta su un tappeto a terra, e non sul catafalco come è sempre avvenuto nel passato.

La salma è rivestita delle vesti liturgiche rosse, con mitra e pallio, e il rosario tra le mani. Manca il pastorale papale. Francesco si è presentato da vescovo di Roma. D’altra parte, ha diffuso di sé l’immagine del “parroco del mondo”, vicino alla gente, lontano dalle aristocrazie. Un’immagine alla quale hanno dimostrato di essere affezionati i fedeli che nel primo giorno di esposizione a san Pietro sono arrivati in 20.000. Un modo di fare che ha conquistato molti ma che ha rischiato di essere assimilato al vento di populismo che ha contagiato la nostra epoca.

Ma il punto importante non è soltanto come abbia presentato al mondo il vicario di Cristo ma anche cosa abbia disposto per vescovi e cardinali: nel 2021 con Motu proprio ha stabilito che i cardinali e i vescovi, quando sono accusati di reati penali comuni (non religiosi), siano processati nel Tribunale vaticano, come tutti gli altri cittadini, secondo i tre gradi di giudizio. Ha eliminato il privilegio di un pronunciamento da parte di una commissione per gli alti prelati. È una decisione destinata a rimanere, salvo un intervento diretto ed esplicito del prossimo Papa, più di un’immagine.

I Novendiali

Nessuna variazione per l’antica consuetudine dei Novendiali: per nove giorni consecutivi si svolgono particolari celebrazioni dell’Eucaristia, a partire dalla Messa esequiale il 26 aprile alle ore 10.00 sul sagrato della Basilica di San Pietro. I Novendiali sono celebrazioni aperte che in realtà prevedono, ogni giorno, la partecipazione di un “gruppo” diverso, in base all’Ordo Exsequiarum Romani Pontificis. Interessante notare chi celebri in questo caso. Domenica 27 aprile, ore 10.30, presiede il cardinale Pietro Parolin per i dipendenti del Vaticano. Si tratta del “già” Segretario di Stato perché tutte le cariche risultano automaticamente decadute alla morte di un Papa.

Il richiamo è all’art. 6 della Costituzione apostolica Pastor Bonus di Giovanni Paolo II abrogata dalla Praedicate Evangelium di Francesco ma non per tale articolo. Tutti i Capi dei Dicasteri della Curia Romana, sia il Segretario di Stato sia i Prefetti sia i Presidenti Arcivescovi, come anche i Membri dei medesimi Dicasteri cessano dall’esercizio del loro ufficio. Fanno eccezione il Camerlengo di Santa Romana Chiesa e il Penitenziere Maggiore, che continuano a svolgere gli affari ordinari, facendo riferimento al Collegio dei cardinali. Allo stesso modo, in base alla Costituzione apostolica Vicariae potestatis, il Cardinale Vicario per la diocesi di Roma non cessa dal suo ufficio e non cessa, per la sua giurisdizione, l’Arciprete della Basilica e Vicario Generale per la Città del Vaticano.

La Sede vacante verso il conclave

Ci si augura che la Salus Populi Romani, l’icona così tanto venerata da Papa Francesco, vegli sulle sue spoglie mortali, sui suoi propositi migliori e sulla Chiesa che si presenta all’appuntamento del prossimo Conclave. I cardinali hanno giurato di osservare fedelmente le norme della Costituzione apostolica Universi Dominici Gregis circa la vacanza della Sede Apostolica e l’elezione del Romano Pontefice promulgata da Giovanni Paolo II nel 1996. Una costituzione che, come mille altre, introduceva cambiamenti. A conferma di un cammino della Chiesa che ci ricorda la definizione della Chiesa secondo il Concilio Vaticano II: “Un popolo di Dio in cammino”. Un’espressione, usata da Francesco in quel primo affaccio dalla Loggia, che presuppone passi concreti senza immobilismi ma che va letta nel suo insieme: soffermarsi troppo sulle specificità di un tratto finirebbe per far passare per nuovo anche ciò che non lo è.

Papa Bergoglio non è stato un “intruso” nella storia della Chiesa, come sembrerebbe da analisi protese a sottolinearne la novità, ma un figlio di questa storia, fatta dalle gerarchie e dal popolo di Dio. Nessuno si avverta esente da responsabilità. Una storia che prosegue e che ci interroga sul futuro di una Chiesa, al di là degli entusiasmi, missionaria anche in Paesi un tempo cattolici.

a Fausta Speranza Premio Bramante per il Giornalismo 2024

Premio Riccardo Bramante

29 Gennaio 2024

Per il Giornalismo a Fausta Speranza con il piacere di averlo consegnato dalle mani di Ester Campese Bramante

per la sezione Scienze e Cultura

il Prof. Gianluigi Rossi

Per le Arti Visive, Premio alla carriera a Paola Gassman

in rassegna stampa tra l’altro:

su eurocomunicazione: https://mail.google.com/mail/u/0/#inbox?projector=1

fausta speranza

Aggiornamento in tempo reale ⋅ 31 gennaio 2024
NOTIZIE

Consegnato il Premio Bramante, tributo ai giovani e personalità – Askanews

Fabrizio Santori. Per il Giornalismo Roberto Rossi, Manuela Biancospino, Fausta Speranza, Manuela Lucchini e Margerita Romaniello in qualità di …
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I giovani al centro dell’edizione 2024 del Premio Riccardo Bramante – The Dailycases

Fausta Speranza, Manuela Lucchini e Margerita Romaniello in qualità di Presidente della Lucana Film Commission. Un’altra giovane, a cui è stato …
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Premio Riccardo Bramante ai giovani e riconoscimenti a molte personalità – Informazione.it

Per il Giornalismo Roberto Rossi, Manuela Biancospino, Fausta Speranza, Manuela Lucchini e Margerita Romaniello in qualità di Presidente della Lucana …

Nessuna resa alla guerra

16 Gennaio 2024

di Fausta Speranza sul sito  www.meridianoitalia.tv:

Negli ultimi quattro decenni le istanze pacifiste hanno dato vita a molte iniziative, ma in tanti si sono rassegnati all’ineluttabilità della guerra, vista come l’unica via per risolvere, pur dolorosamente, situazioni di ingiustizia. Eppure non solo le guerre mondiali della prima metà del Novecento, ma tutti i conflitti succedutisi dagli anni Ottanta ad oggi hanno dimostrato che la logica della violenza produce solo altra violenza, che la dinamica del riarmo innesca un meccanismo ad orologeria in cui la variabile riguarda solo il momento in cui scoppierà un’altra guerra e non la possibilità che ci sia o meno. Serve ragionare di pace. Pubblichiamo di seguito la prefazione di Fausta Speranza al libro di Alberto Zorloni «Pacifismo – Storia e analisi del caso italiano» (Infinito Edizioni)

«L’esasperazione dell’individualità è il primo degli atti di guerra». Questa considerazione del filosofo francese Emmanuel Mounier offre il migliore snodo concettuale per comprendere quanto possa essere fragile una pace pensata o propagandata in un mondo che svilendo il diritto internazionale perde il desiderio di difendere i diritti fondamentali; che assiste alla polarizzazione tra ricchissimi e poverissimi; che arretra di fronte alla necessità di una governance globale di beni materiali e immateriali essenziali per la vita. In una modalità tecnologicamente aggiornata, anche oggi «quasi tutte le nazioni si affannano nella gara febbrile degli armamenti», come denunciato nel 1902 da Leone XIII, nella Lettera apostolica Principibus populisque universi in cui parlava di «stato di pace armata divenuto intollerabile».

Nel proseguo della storia ci sono i due devastanti conflitti mondiali del secolo scorso e gli appelli per la pace di altri dodici papi, tra cui Francesco che, ben prima dell’invasione dell’Ucraina a febbraio 2022, ha cominciato a parlare di «guerra mondiale a pezzi» (o «a capitoli»), denunciando la gravità del fenomeno delle cosiddette proxy war, guerre per “procura”. Si tratta di combattimenti all’interno di Paesi ma per interessi esterni di attori che spesso riescono ad avere un controllo, proprio all’interno di quei Paesi o quelle aree, attraverso milizie locali: senza riferimento agli eserciti regolari. E’ la modalità che maggiormente accresce la mancanza di sicurezza a livello internazionale: una sorta di pace che è di fatto guerra senza veri interlocutori e senza regole.

Non si possono tralasciare i passi avanti fatti da parte della società globale negli ultimi sessant’anni, ma questa vera e propria architettura di pace va difesa. Si è solidificato un ampio consenso attorno ai diritti umani e alla difesa delle libertà personali; sono stati istituiti a livello internazionale diversi organismi per cooperare su tematiche come le pari opportunità, il rispetto delle minoranze, la tutela dei rifugiati. Torna in mente la considerazione sulla Grande guerra del protagonista de La coscienza di Zeno, il romanzo di Italo Svevo pubblicato nel 1923: «Io avevo vissuto in piena calma in un fabbricato di cui il pianoterra bruciava e non avevo previsto che prima o poi tutto il fabbricato con me si sarebbe sprofondato nelle fiamme». Lo scrittore è scomparso nel 1928, poco prima che il mondo riproponesse un copione di guerra perfino peggiore.

Dopo decenni di processi di disarmo, dal 2014 è corsa al riarmo. La spesa militare mondiale, secondo le stime del Sipra di Stoccolma, ha raggiunto nel 2022 la somma di 2.240 miliardi di dollari complessivi, che corrisponde ad una crescita del 3,7 per cento in termini reali rispetto all’anno precedente. Intanto si esaspera il gap economico: negli ultimi 10 anni l’1 per cento più ricco ha accumulato, in termini reali, un ammontare di ricchezza 74 volte superiore a quella del 50 per cento più povero. Inoltre dal 2020 la ricchezza dei miliardari è cresciuta al ritmo di 2,7 miliardi di dollari al giorno, in termini reali. Una situazione che si palesa come un investimento planetario sulla conflittualità, come polvere da sparo rilasciata nell’aria che aspetta l’innesco per deflagrare. Nel 1965 Paolo VI all’Onu lanciava il grido «mai più la guerra» chiarendo che «non c’è pace senza giustizia». Per tutte queste argomentazioni è davvero significativo, oltre che coraggioso, un libro dedicato al pacifismo. Nel testo si argomenta sui significati e sulle implicazioni di questa definizione con il pregio di offrire una chiave di lettura che storicizza. Indubbiamente si fa focus sulla situazione in Italia, ma sono tanti gli opportuni richiami impliciti o espliciti a contesti più larghi. L’autore invita a pensare – «oltre alle giuste scelte personali» – di organizzare «un’azione comune, incisiva e macroscopica, relativa a un argomento di importanza capitale nel quale si è tutti coinvolti». E’ di tutto rilievo l’invito contenuto nel libro a «superare la parcellizzazione delle associazioni competenti in materia di pacifismo». Con la consapevolezza che «ben difficilmente se ne libereranno», l’autore ribadisce l’importanza di «poter correre tutti insieme verso un obiettivo più grande». Ci permettiamo di allargare idealmente l’orizzonte dell’invito auspicando che qualunque leadership al mondo – che siano politici al potere o multinazionali che fatturano introiti superiori al Pil di alcune nazioni – comprendano che tutte le parcellizzazioni frutto di interessi particolaristici contribuiscono a disgregare il tessuto sociale e a incrinare la pace. Il mondo ha bisogno di multilateralismo che non è affatto scontato.

Approccio multilaterale significa bilanciamento degli equilibri di potere tra potenze attraverso il diritto internazionale, che è sempre più messo in discussione nei fatti. Inoltre significa saper guardare in modo sinergico ai sistemi naturali e ai sistemi sociali: non c’è cura dell’ambiente che possa pacificare la relazione tra esseri umani e risorse del pianeta senza un’adeguata cura delle sperequazioni che colpiscono le fasce più deboli delle popolazioni. Il primo esempio dovrebbe essere uno sguardo d’insieme a cambiamenti climatici e migrazioni. Concretamente dovrebbe significare concepire una politica in grado di cogliere la dimensione umana planetaria delle questioni.

Osiamo parlare di una sorta di costituzionalismo mondiale che metta l’umanità al centro, in cui l’umanità diventi soggetto di diritto al riparo da ottuse logiche nazionalistiche e statualistiche e in grado di contrastare dinamiche come quelle che permettono che l’acqua sia venduta da privati in terre aride a prezzi esponenziali: tra il 2021 e il 2022, secondo l’Oxfam, nel sud dell’Etiopia, nel nord del Kenya e in Somalia sono lievitati del 400 per cento.

Uscire a tanti livelli dai binari degli interessi particolaristici è l’obiettivo principale al quale si deve lavorare. In parallelo, vanno sostenute e incoraggiate tutte quelle dinamiche locali di pacificazione che possono fare la differenza nel “piccolo”. Si devono tenere a bada estremismi, estremizzazioni, esasperazioni relativistiche di tanti generi, che generano conflittualità, anche grazie al fenomeno, ancora troppo poco discusso rispetto all’entità, delle fake news.

Le nostre democrazie devono ancora imparare a fare i conti davvero con l’impatto della disintermediazione informativa sui processi di formazione dell’opinione pubblica, che tanti scherzi può giocare alla pace. Basti ricordare l’episodio alimentato dai social dell’assalto a Capitol Hill negli Stati Uniti d’America, impensabile prima del 6 gennaio 2021.

Il fenomeno della disinformazione non è nato oggi e non è orfano: è figlio della bramosia di manipolare le masse, evidente mutatis mutandis in tutte le epoche della storia umana. Ai nostri tempi si nutre dell’automatizzazione e delle sue «magnifiche sorti e progressive» – per dirla con Leopardi — che stanno sotto gli occhi di tutti: algoritmi che ci raggiungono in base a studi di mercato, notizie scritte da pc, sistemi di software che offrono pseudo relazioni con persone scomparse. Si parla di human enhancement, di “gemello digitale” dell’essere umano, di esternalizzazione delle nostre facoltà cognitive: non solo memoria e giudizio ma anche la coscienza fonte di auto-determinazione. Facile immaginare le conseguenze di un consenso “prodotto” a partire da conclusioni tratte da Big Data e Data Analytics.

Se multilateralismo si traduce con un’ottica di bene comune, in quest’ottica deve innanzitutto restare centrale la persona, con la sua interiorità da difendere, con il suo consenso da esprimere o da negare. C’è il rischio che guerre e conflitti, che da sempre vengono decisi dai pochi e vissuti dai tanti, siano sempre meno messi in discussione.

C’è il rischio di dimenticare la verità sulla differenza di punti di vista tra potenti e popoli che nell’interiorità di Bertolt Brecht ha preso la forma dei versi della poesia Chi sta in alto dice: pace e guerra.

«Sono di essenza diversa. La loro pace e la loro guerra
son come vento e tempesta.0  La guerra cresce dalla loro pace
come il figlio dalla madre.

Ha in faccia i suoi lineamenti orridi. La loro guerra uccide quel che alla loro pace  è sopravvissuto.»

https://www.meridianoitalia.tv/index.php/cultura1/658-nessuna-resa-alla-guerra

Tra i finalisti del Premio europeo Caruana Galizia

Il video reportage “La discarica della vergogna”, firmato da Fausta Speranza con la regia di Stefano Gabriele e pubblicato sul sito www.MeridianoItalia.tv il 22 febbraio 2022,  e’ tra i 10 finalisti del Premio Daphne Caruana Galizia 2022 del Parlamento europeo.  Il 19 ottobre prossimo a Strasburgo si svolge la cerimonia di premiazione, in ricordo della giornalista maltese uccisa nel 2017 per le sue denunce di delitti ambientali e corruzione.
Questo il link per rivedere il reportage “La discarica della vergogna”:
https://www.meridianoitalia.tv/index.php/ambiente/460-la-discarica-della-vergogna

L’emergenza Ucraina e le grandi sfide da non dimenticare

Dopo anni di Trattati internazionali per il disarmo, si torna a parlare di aumento delle spese militari in ambito Nato. Al di là del  dibattito parlamentare all’interno di ogni singolo Paese dell’Ue, è importante  fare riflessioni di carattere globale. Il primo pensiero va alle spese mondiali per gli armamenti degli ultimi anni, al progressivo e significativo aumento: è stato registrato dai dati ma forse non dalla percezione generale in Occidente. Una distrazione da non ripetere.

E poi c’è la febbre del pianeta, quel surriscaldamento che già presenta il conto in termini di disastri ambientali e umanitari, da non dimenticare. Su questo piano rischiamo oggi – nessun Paese è escluso – un’altra colpevolissima distrazione.

Come dice Papa Francesco “la vita umana indifesa viene prima di qualunque strategia”. Certamente la priorità assoluta è salvare le persone facendo cessare il conflitto in Ucraina. Ma è importante e doveroso anche non perdere di vista alcuni orizzonti di riflessione importanti per la vita stessa sul pianeta. L’Unione europea, finora compatta come solo nel caso della pandemia avevamo visto, nell’ambito delle strategie di reazione all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia – oltre all’impegno straordinario per i profughi – ha stabilito che tutti i Paesi europei dovranno, nei prossimi anni, aumentare le spese militari fino al 2 per cento del Pil, secondo quanto già previsto a livello di Alleanza Atlantica. Per l’Italia si tratta di passare da 25 a 38 miliardi di euro e il dibattito è in corso.

Dobbiamo ricordarci dell’aumento che non abbiamo voluto vedere. E’ come se la percezione generale si fosse fermata a dopo il 2001 quando in Occidente, nonostante l’11 settembre e la guerra in Iraq e altri fatti molto gravi, il trend delle spese militari mondiali era in diminuzione anche se leggera. Ma già negli anni successivi se  diminuivano le spese  dei Paesi occidentali – Stati Uniti in testa  in particolare con la presidenza Obama  –  aumentavano quelle in Asia in generale, e nell’Asia orientale in particolare, come anche nel Medio Oriente. Quello che è successo poi, nel 2014, è che, per la prima volta da molti anni, c’è stata una inversione di tendenza: il complesso delle spese militari mondiali seppure di “qualche” decina di miliardi di dollari ha progressivamente registrato rialzi, anche di quasi un punto percentuale in un anno. Da quel momento i Paesi impegnati a ridurre la spesa non sono stati più in grado di compensare quelli impegnati ad aumentarla. Da allora lo stesso trend si è esasperato fino al 2021 quando nel mondo le spese militari sono aumentate di 50 miliardi di dollari, superando i 2000 miliardi di dollari. E fino al conflitto in Ucraina che porta ad un aumento di spesa in armamenti anche nei Paesi europei. Il discorso è complesso ma in ogni caso va considerato nella sua intera parabola.

“Un obiettivo che consentirà di creare una vera e propria difesa europea”: così, in sede di Consiglio europeo  che si è tenuto il 24 e 25 marzo, il presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi ha definito l’aumento della spesa militare. Si spera davvero che possa essere il momento di svolta per il processo che manca alla costruzione europea: la formazione di una difesa comune per una reale politica estera comune. E’ uno degli indispensabili anelli mancanti insieme con la fiscalità. Non si tratta, dunque, solo di raggiungere un’intesa per l’Ucraina. Dobbiamo ricordarci che sono tante e significative le vie da percorrere per scongiurare le sabbie mobili della conflittualità su diversi fronti, sotto diverse latitudini. Serve un’Europa compatta e unita sul fronte della pace che non è fatto solo da trincee vere e proprie. Non dimentichiamo tutta la questione delle cosiddette “guerre per procura”   che in questo momento rappresentano il punto cruciale di tanti conflitti in singoli Paesi o in  aree geografiche. Ci si combatte all’interno ma per interessi esterni di attori che riescono ad avere, proprio all’interno di questi Paesi o di queste aree, un controllo, magari attraverso milizie locali e  cioè senza far riferimento agli eserciti regolari. Si tratta di modalità che  contribuiscono ad accrescere la mancanza di sicurezza a livello internazionale. Anche per questo serve la Difesa europea.

Fa effetto parlarne nel giorno in cui è venuta a mancare Maria Romana De Gasperi che sempre ricordava il forte rammarico del padre nel presagire il fallimento della Comunità Europea di Difesa. Lo statista tra i padri fondatori della casa comune europea morì due giorni prima della bocciatura fondamentale da parte della Francia, ma purtroppo aveva intravisto l’esito.

Ci sono poi altre spese da non dimenticare. Nel 2021 le Nazioni Unite hanno chiesto di triplicare la cifra prevista a livello mondiale per far fronte alle conseguenze dei cambiamenti climatici e per assicurare una transizione ecologica. In ballo c’è il ripristino dell’ecosistema degradato e del suolo compromesso.  Nel 2020 la spesa è stata di 120 miliardi. Tra le promesse emerse nel G20 di Roma e rimbalzate alla Conferenza di Glasgow COP26, tra fine ottobre e inizio novembre scorsi, c’è quella di assicurare una spesa di 350 miliardi di dollari l’anno entro il 2030. Per arrivare a 536 miliardi di dollari l’anno entro il 2050. Sono obiettivi che aspettano una prima verifica alla prossima Conferenza delle Parti della Convenzione quadro sul cambiamento climatico voluta dall’Onu, COP27, fissata a novembre prossimo in Egitto, tra soltanto otto mesi. Ma ci si chiede con quale consesso internazionale ci si arriverà.

Oltre all’urgenza assoluta di far cessare “la selvaggia crudeltà della guerra” in Ucraina – come l’ha definita Papa Francesco nella quarta udienza generale dall’inizio dell’invasione russa il 24 febbraio scorso – c’è la “battaglia” sul clima da portare avanti, che l’Unione europea per prima al mondo ha lanciato. Lo ha fatto da anni, in considerazione della gravità delle conseguenze per tutti ma anche nella consapevolezza che è necessario adottare misure efficaci ma anche costruire un consenso globale niente affatto scontato e “inventare” nuove forme di governance per problematiche globali e interconnesse.

Tematiche scottanti come le guerre, le emergenze climatiche, migrazioni, la povertà, la crisi sanitaria sono tremendamente interconnesse. La posta in gioco va ben oltre le doverose misure di contenimento dei rischi e dei danni.  La sfida – ora è più palese che mai –  non consiste solo nel raggiungere accordi per contrastare il surriscaldamento globale, ma nel ritrovare, dopo lo strappo della guerra in Ucraina che segue gli scossoni della globalizzazione e della pandemia, un nuovo equilibrio di collaborazione a livello internazionale. In sostanza, si tratta di recuperare la prospettiva che ha portato in precedenza a concepire le Nazioni Unite. Mettere a punto una Difesa europea può significare mettere insieme le forze su diversi fronti compreso quello di difendere propositi fondamentali e assicurare strumenti giuridici sempre nuovi per poter garantire modalità all’altezza delle sfide più attuali.

I drammatici fatti in Ucraina hanno messo bruscamente in discussione, dopo altri evidenti vacillamenti, il presupposto di un consesso internazionale all’interno del quale far sviluppare confronti e accordi che permettano di superare le logiche di equilibri di potenza. Già si sentiva parlare di fallimento o di riforma dell’Onu, ora in realtà si deve puntare l’attenzione sulla volontà politica dei vari Paesi di far funzionare il meccanismo delle Nazioni Unite, perché bisogna recuperare il presupposto di base: trovare accordi e modalità di collaborazione seppure nel rispetto delle peculiarità di ogni Paese. Serve un’Europa sempre più forte dei suoi valori migliori. L’alternativa è lasciare il campo alle armi.

Provvedere ai bisogni militari, creare un’Europa della Difesa deve significare tenere ben presente tutto l’orizzonte di necessità.

La condanna della guerra che costruisce la pace: la voce di Papa Francesco

“Guerra ripugnante”: Papa Francesco, dopo altri accorati appelli dall’attacco del 24 febbraio, torna a dare un nome al “massacro insensato” che avviene in Ucraina. E’ la voce del Pastore di anime, e tradisce tutta l’intensità della preghiera fatta all’Angelus della terza domenica di Quaresima, ma è anche la voce dell’uomo di Dio che tuona potente come la condanna: “Tutto questo è disumano, anzi è anche sacrilego perché va contro la sacralità della vita umana indifesa”. C’è tanto in comune con i Papi che lo hanno preceduto, ma c’è anche qualcosa di nuovo in quello che resterà anche come uno dei più significativi moniti all’umanità e uno dei più importanti contributi alla pace. A patto che venga ascoltato – e non solo da chi lancia ora sull’Ucraina missili e bombe –  quando sottolinea che “la vita umana indifesa viene prima di qualunque strategia”.

Tanti, nell’ultimo secolo, gli appelli e le condanne da parte di Papi di fronte a guerre e conflitti, ma queste parole di Francesco arrivano come un vento in grado di spazzare via la definizione di “operazione militare” di Putin e quella di “guerra giusta” del Patriarca di Mosca Kirill. C’è qualcosa che accomuna tutti i pronunciamenti e qualcosa, come sempre, che distingue.  Come i suoi predecessori, Papa Francesco non nomina mai l’aggressore, in questo caso palesemente la Russia di Putin. Al di là di tutte le possibili responsabilità immaginabili di ogni parte in causa sul territorio e altrove, è chiaro chi ha fatto la scelta scellerata e anacronistica dei missili e delle bombe su case e ospedali. Ma Papa Francesco – non solo a questo Angelus ma in tutti gli interventi in varie occasioni – non chiama l’aggressore per nome. Il motivo è preciso ed è in perfetta continuazione con l’attività diplomatica della Santa Sede dal secolo scorso: non nominare l’interlocutore per lasciare aperta la porta del dialogo. Suggerisce nella sua formalità un’importante sostanza: la verità della condanna non può significare mettere all’angolo l’altro, perché equivarrebbe a chiudere la porta di un dialogo vero.  Vale per tutti, potenti e politici della terra, e per tutti i conflitti che purtroppo, al di là della concentrazione mediatica sul caso ucraino, continuano a portare lo stesso “massacro insensato” in altre parti del mondo, a partire dallo Yemen ma non solo.

In comune con i predecessori anche il tentativo di smantellare alle radici qualunque giustificazione della violenza e della sopraffazione. Di particolare, però, c’è il contesto che non è rappresentato solo dalle bombe. L’intervento ai primi di marzo del Patriarca ortodosso di Mosca Kirill, in cui ha parlato di “giusta guerra come lotta contro la promozione di modelli di vita anti cristiani come i gay pride”, resta come un’inquietante pietra miliare, anche se è stato poi accompagnato da un appello alla pace dopo il colloquio il 16 marzo con Papa Francesco.

Anche lo scenario di cui parliamo va chiamato per nome: si chiama fondamentalismo religioso etno-filetico, di carattere totalitario. Si tratta in sostanza dell’incontro tra nazionalismo e religione presa a pretesto come copertura ideologica. Di etno-filetismo si parla dal Concilio di Costantinopoli del 1872 come di “moderna eresia” ma torna come tornano i nazionalismi. In Russia oggi si parla di Russkii mir: significa semplicemente mondo russo, ma rappresenta proprio il fenomeno di identificazione tra chiesa e nazione che affascina tanti estremisti e fondamentalisti tra gli ortodossi. Ma non mancano proseliti anche altrove tra cattolici e protestanti.

Per tutti Francesco ribadisce che non si può fare male in nome di Dio: Da Dio – dice nello stesso Angelus – non può mai venire il male o l’ispirazione del male, perché “non ci tratta secondo i nostri peccati, ma secondo la sua misericordia”. Piuttosto – aggiunge – “sono i nostri egoismi a lacerare le relazioni; sono le nostre scelte sbagliate e violente a scatenare il male”. Secondo Francesco, la soluzione è chiaramente solo una: “Convertiamoci dal male, rinunciamo a quel peccato che ci seduce, apriamoci alla logica del Vangelo: perché, dove regnano amore e fraternità, il male non ha più potere!”.