Intervento Fausta Speranza

Testo dell’intervento di Fausta Speranza al convegno il 13 luglio 2001 a Genova
Parliamo di Internet non in quanto strumento o mezzo mediatico ma, piuttosto, come metafora della comunicazione di oggi. La rete, infatti, è sinonimo di simultaneità, velocità, annullamento o restringimento dello  spazio e del tempo. Inoltre, si può guardare all’informazione non solo come comunicazione di dati giornalistici ma come trasmissione in tempo reale di quei dati.  In questo modo riflettiamo sul concetto di globalizzazione dal punto di vista dei sistemi informativi e cioè intendendo per globalizzazione la copertura globale dell’informazione.
A questo proposito possiamo affermare, un po’ provocatoriamente, che non è tutto globale quel che connette. Internet è certamente il mezzo che ha bruciato più tappe nella storia delle tecnologie. Il telefono per raggiungere il 30% della popolazione mondiale ha impiegato trentotto anni, la TV  diciassette, il pc tredici, mentre Internet lo ha fatto in soli sette anni. La rete ha realmente cambiato il concetto di distanza e di tempo e ha allargato lo sguardo sul mondo. Non si può dimenticare, però, che il pianeta rimane diviso tra ricchi e poveri, istruiti e non istruiti, tra informatizzati e non informatizzati.  Se pensiamo che un computer costa in Bangladesh una cifra pari ad otto anni di stipendio medio mentre negli Stati Uniti si acquista con lo stipendio medio di un mese, ci rendiamo conto che la possibilità di accesso alla rete non è un fenomeno che si può definire globale.  In Malawi ci vogliono circa vent’anni di lavoro per comprare un pc e in Sierra Leone si dovrebbe approssimativamente parlare di centoventi anni.  Si potrebbe continuare non tralasciando alcuni luoghi dell’Africa dove ancora esiste il baratto e i calcoli diventerebbero impossibili.    Non meraviglia, inoltre, che  l’88% degli utenti di Internet viva nei paesi industrializzati che racchiudono, però, soltanto il 17% della popolazione del pianeta.  Colpisce che l’Asia del Sud, nella quale risiede il 23% della popolazione  mondiale, abbia circa l’1% di navigatori digitali.
Possiamo affermare che Internet, fedele al suo nome World Wide Web, è una rete ad estensione globale che connette prodigiosamente le persone di tutto il mondo ma dobbiamo aggiungere che collega chi è connesso. Gli altri sono esclusi. Il tempo si contrae, lo spazio si restringe, le frontiere scompaiono, però rischiamo di affidarci ad una conversazione dai toni alti che esclude i molti che non hanno voce. Può trattarsi di una comunicazione che non lascia spazi per inserirsi perché compattata come accade nell’ambito degli scambi digitali di dati.
Un’altra riflessione che può essere utile riguarda la lingua inglese: viene utilizzata nell’80%  dei  due miliardi e mezzo di siti web registrati al mondo fino ad oggi, eppure meno di una persona su dieci la parla.   Sono dati riportati dal Rapporto mondiale sulla popolazione pubblicato ogni anno dall’ONU. Si riferiscono al Rapporto del 2000 e forse qualche cifra nell’aggiornamento cambierebbe, ma senza alterare la fotografia della situazione.
A questo punto va chiarito che non si intende demonizzare il processo di globalizzazione dei sistemi informativi che piuttosto rappresenta la chiave di accesso al Terzo Millennio. Si deve tenere presente, però, che questa magia rende ancora più esclusi gli esclusi. Vale la pena di ricordare che all’inizio del secolo scorso la proporzione tra ricchi e poveri era indicata con la cifra di 8 a 1, oggi viene indicata come 75 a 1.  La fiducia che sembrava si potesse riporre nell’effetto “vasi comunicanti” che, prodotto dalla globalizzazione, sarebbe stato in grado di livellare le condizioni sociali della popolazione mondiale, si è rivelata una illusione.  Ormai siamo in grado di valutare che, se la copertura globale dell’informazione, come altre forme di globalizzazione, non viene gestita, non arriva affatto a ricoprire il mondo abitato. Su questo si sono espresse personalità molto autorevoli come il Presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, il Segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, e il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Ritengo, in ogni caso, che i dati numerici siano utili alla riflessione e se finora abbiamo parlato di esclusione per ciò che concerne i paesi poveri, ora vale la pena di dare uno sguardo all’Italia.  Più di un italiano su quattro risulta conquistato da Internet. Nel 1999 gli utenti erano circa sei milioni e solo due anni più tardi sono arrivati ad essere undici milioni, pari al 23,4% della popolazione. Siamo, con questo dato, vicini alla Francia (25%), più lontani dall’Inghilterra (34%) e ben distanti dalla Svezia (69%).  Possiamo comunque vantare una posizione dignitosa.  Ma se facciamo l’identikit di questo 23,4 % di popolazione italiana scopriamo che il 99,5% ha un’età inferiore ai 40 anni, è maschio, vive al Nord ed ha un reddito medio-alto.
In ogni caso, non dobbiamo parlare solo di esclusione, perchè perderemmo di vista altri aspetti significativi sui quali rimanere vigili. Ragioniamo su questo:  i vari mass media stanno convergendo in Internet. Si guarda felicemente alla rete come ad una fonte globale: ci ritroviamo connessi con le principali biblioteche e con web cam in tutto il mondo e il prodigio è reale, ma c’è sempre l’altro aspetto delle “magnifiche sorti e progressive” della civiltà, delle quali ci parlava Leopardi. Siamo collegati con le biblioteche del mondo ma il nostro mass media diventa uno solo. C’è il rischio di assottigliamento delle fonti.  I vari mezzi di comunicazione, infatti,  stanno convergendo in Internet. Si parla del famoso medium totale che raccoglie intorno al web, radio, TV e telefono oltre che la scrittura e il pc. Collegati con tutto il mondo, dunque, potremmo usufruire di un solo medium totale e delle fonti di informazione da lui veicolate. Non è un processo negativo di per sè ma uno sviluppo da capire. Stiamo già vedendo oggi come la conversione di molti gruppi editoriali e centri di informazione abbia creato una concentrazione di potere che non ha nulla a che vedere con la pluralità delle fonti che ci si aspettava da uno strumento globale come Internet.
Parlando da giornalista, inoltre, sottolineo che la grande velocità dei nuovi mezzi di comunicazione, la cosiddetta “notizia in tempo sempre più reale”  apre una problematica enorme: la verificabilità delle fonti. Non c’è il tempo necessario per il controllo delle notizie che pubblichiamo  perché siamo costretti ad inseguire a livelli estremi l’attualizzazione. In questo modo la notizia si coriandolizza. Abbiamo sempre l’ultimo aggiornamento e nelle redazioni è forte la tentazione di dare sempre l’ultimo dettaglio ma si dimentica sempre di più di ricostruire l’antefatto. Mi chiedo quanti possano realmente capire il continuum di una notizia, che non riguardi un fatto di cronaca che viene spesso morbosamente riproposto in tutti i suoi dettagli.
Mi sembra che il rischio paradossale sia la difficoltà di possedere e gestire le informazioni a fronte delle nuove illimitate possibilità che abbiamo di essere raggiunti dalle notizie. L’autorevole massmediologo canadese Derrick De Kerckhove afferma che i mass media deformano la nostra psiche perché sono un’estensione del pensiero, una specie di arto-fantasma mai abbastanza integrato al corpo e alla mente. Ci ricorda che anche di fronte ad Internet dobbiamo cercare di tutelare  la connessione tra l’estensione dei nostri sensi, la mente e il corpo. Si tratta di essere in grado di gestire ciò di cui stiamo usufruendo  e certamente non di rinnegarlo.   Accenniamo soltanto al problema della extraterritorialità di Internet che si pone come zona franca che sfugge alle normative territoriali. Un eventuale controllo su fenomeni come la pedofilia, che ha tristemente trovato nella rete  un utilissimo strumento di promozione, deve fare i conti con accordi internazionali finora impensabili perché da riferire ad un ambito virtuale e non a confini geografici. Non può mancare uno sforzo di inventiva per aggiornare, in questo caso, gli aspetti legislativi di battaglie a crimini di vecchia data. E il punto è sempre quello: capire e gestire fenomeni in fieri che accanto a grandissime potenzialità  presentano forti rischi.
Anche per sottolineare le non scontate potenzialità, propongo due esempi di dati, questa volta  di natura decisamente positiva. Il primo riguarda la Russia: nascono ogni giorno cinque nuovi siti web dedicati all’informazione,  tuttora risalgono in tutto a circa 4000 ed è certamente una vittoria della libertà di informazione.  Gleb Plavonsky, sociologo dissidente ora consigliere di Putin, ha detto che Internet rappresenta l’occasione unica e la vera speranza di riequilibrio dell’informazione, essenziale per pluralismo e democrazia.   Il secondo esempio ci porta in Spagna, precisamente in Andalusia, in  un paesino vicino a Granada dove hanno avviato un sistema di teledemocrazia. Ricordiamo che la zona ha il reddito più basso di tutta la Spagna. Il Consiglio comunale è connesso ad Internet e dopo il dibattito, durante la pausa telematica,  si chiede alla popolazione di esprimere la propria opinione sulle proposte. Solo più tardi si vota. Anche qui, certamente, è fondamentale la differenza tra chi è connesso e chi no. Ma la vincente positività del caso è riposta nelle scelte fatte in fase progettuale. Prima di avviare il sistema di teledemocrazia, infatti, nel 1999, lo Stato ha provveduto alla distribuzione di un computer per ogni abitante e all’istituzione di corsi di aggiornamento anche per i cittadini più anziani. In tema di esclusione, d’altra parte, gioca un ruolo fondamentale  la scelta di un percorso formativo per quanti ancora non hanno acquisito gli strumenti per “navigare”.  Un percorso formativo che deve passare attraverso la diffusione dei pc, ma soprattutto attraverso una scolarizzazione dell’informatica, anche per chi per andare a scuola non ha più l’età.
In definitiva, anche per quanto riguarda i media e i sistemi informativi,  la globalizzazione è un fenomeno ineluttabile che non va nè ostacolato nè osteggiato ma neanche subito. Piuttosto, va governato, che non significa censurato ma, piuttosto,  progettato, promosso e tutelato. Non può essere abbandonato a se stesso.

IL GUSTO DEI MEDIA PER LA CATASTROFE

IL GUSTO DEI MEDIA PER LA CATASTROFE
“Guerra e media: il gusto della catastrofe” è il titolo di un convegno organizzato dall’Università degli Studi Roma Tre e dall’Associazione Stampa estera, promotrice Marcelle Padovani, corrispondente de “Le Nouvelle Observateur”. Di fronte all’ennesimo dibattito, viene da chiedersi se è ancora utile riflettere sulla relazione guerra e media. La risposta è, senza dubbio alcuno, sì. Primo, perché la guerra non è finita e secondo, perché l’analisi di come i media si comportano all’interno dei grandi eventi dovrà diventare una delle nostre funzioni critiche fondamentali. Capire i media sarà nei prossimi anni vitale per la libertà dell’informazione e dei cittadini stessi. Anche la globalizzazione, infatti, altro non è che un fatto comunicativo.
Gli organizzatori di questo convegno hanno sottolineato una verità che è sotto gli occhi di tutti (basta lasciarsi andare alle serate in tv),  “questa è stata una guerra combattuta dai media, più che con i media, in cui l’uso dell’immagine da trasmettere ha giocato e gioca ancora un ruolo fondamentale”. Per l’appunto, dunque, potere mediatico sommato al potere delle immagini, cioè alla televisione.
Gli interventi di apertura sono stati affidati ad alcuni docenti, togliendo in questo modo al convegno la visuale degli storici del momento, anteponendo quella dei filosofi, che hanno dato così della guerra una visione più analitica e distaccata.
Hanno parlato con vivacità Franco Monteleone, docente di storia della Radio e della Televisione, Giacomo Marramao, docente di Filosofia Politica, Enrico Menduni, docente di Linguaggio Radiotelevisivo ed è poi intervenuto Giampiero Gamaleri, docente di comunicazioni di massa a Roma Tre. Molto interessanti per le informazioni che hanno dato e per il diverso punto di vista gli interventi di Samir Al Quariati della televisione araba Al Jaazira e di Francisco Arajo Neto, corrispondente per il brasiliano “O Globo”. Altri esponenti del giornalismo hanno portato la loro esperienza e riflessione:  Roberto Morrione, direttore di “Rainews 24”,  Guido Rampoldi, inviato di “Repubblica” e Fausta Speranza, di Radio Vaticana e collaboratrice di Comunicazione di Massa all’Università RomaTre, che ha parlato di “buchi neri dell’informazione” spiegando che nessuno poteva immaginare né prevedere l’11 settembre però non si giustifica  il silenzio e l’assenza di informazione nel prima. Nessuno parlava di Bin Laden e delle sue reiterate minacce, dei Taleban e delle efferate scelte di un regime che lanciava proclami di odio contro gli Stati Uniti, della Jihad, dell’Islam.   D’accordo con questa valutazione, Roberto Morrione ha aggiunto come nella disinformazione ci si ricade subito dopo l’effetto allarmismo da catastrofe, ricordando che l’Afghanistan è scomparso dalle pagine dei giornali  con i combattimenti ancora in atto e senza una conclusione del conflitto e, dunque, senza analisi o riflessioni.

La chiave della lettura di questa guerra è stata in questo convegno la parola “catastrofe”. Con l’aiuto del vocabolario leggiamo il senso profondo di questa parola che ha a che vedere con rivolgimenti, sciagure ed eventi gravissimi, qualcosa che attiene alla natura e sembra una calamità, senza soluzione nella sua negatività. Ma è qualcosa di più che la parola catastrofe sottolinea in questa guerra. Un po’ come nella tragedia greca l’accadimento così come viene proposto dai media è subito, più che spiegato o illustrato ai lettori, come dovrebbe. Questa guerra vista dai e sui giornali è stata chiamata da Franco Monteleone la cultura del disastro, una guerra tutta diversa dalle altre, senza un nemico identificabile, una guerra che ha creato il rischio della narcosi. Telespettatori e lettori sono stati vicini all’ assuefazione ad un dramma, come ha detto Giacomo Maramao, un dramma prigioniero di una estetica delle immagini televisive. Tanto da diventare simile ad una specie di serial del terrorismo, una narrazione a puntate trasmessa in diretta, come ha detto Enrico Menduni.  «Le gesta delle Brigate Rosse furono un cupo serial, così gli attentati dell’Eta». Un attentato diventa per la tv dunque un evento mediale. In altre parole, ha detto Menduni: «Il parlarne produce un effetto positivo sull’organizzazione che l’ha realizzato come la performance di una industria migliora i corsi borsistici delle sue azioni».
Ma le notizie sull’11 settembre davvero erano così catastrofiche e virtuali nella loro esposizione su giornali e tv? L’analisi critica della stampa italiana e straniera è stata realizzata da un gruppo di studenti del corso di Sociologia dei media, coordinati da Marina Loi, nel corso di una ricerca promossa da Marcelle Padovani e dal professor Meduni, per il corso di Studi “La comunicazione nella società della globalizzazione”. La ricerca ha dimostrato quanto il giornalismo italiano non sappia rinunciare allo spettacolo, creando consapevolmente o meno un’atmosfera di catastrofismo, come si diceva  in apertura. Cominciando con i grandi quotidiani, come “La Repubblica” (ricerca di Marco Tullio Liuzza), “Il Corriere della Sera” (Silvia De Feo, Davide Scafuro, Maria Chiara Di Felice), che troppo spesso cedono alla tentazione di trasformare ogni protagonista in personaggio e di enfatizzare le notizie e puntare al colore più che ai fatti, sino a giornali come il “Messaggero” (Valentina Proscio), che puntano decisamente i riflettori sul lato emotivo, enfatizzando uno stile da romanzo e da intrattenimento stile fiction tv, al “Mattino di Napoli” (Patrizia Corsaro) che ha evocato atmosfere da fine del mondo. Nessuno è esente da quello che oggi si chiama preziosamente infotainment, nemmeno l'”Espresso” (Luca Patrignani, Alessandro Marascia e Francesco Riccardi), tantomeno le televisioni, “Canale 5” (Simon Cittati, Pietro Bardelli, Diego Nannuzzi),  “Sciuscià” di Michele Santoro (Ilario PIagnerelli, Lucia Bracci, Maria Chiara Perugini, Raffaella Polselli).
E gli stranieri? Tutti più bravi di noi. La stampa francese (ricerca di D’Onofrio, Denti e Loi) si fregia di “Approfondimenti, sobrietà, rigore e toni poco inclini al sensazionalismo, di un rapporto misurato tra scrittura e immagini, meno grafici, meno virgolettati, meno fotografie”. Insomma più contenuti.
“Le Nouvel Observateur” (Silvia Tarquini) usa “toni pacati ma determinati, ha attenzione ai musulmani che hanno condannato l’attentato”, etc.. Serietà e accuratezza nelle fonti per “L’Economist” (Paola Taqruini); riflessivo l'”International Herald Tribune”. Elogi dunque alla stampa estera dagli studenti. Aggiungiamo noi una critica. Sono elogi facili, visto che partiamo da un confronto con un giornalismo notoriamente sensazionalista, come il nostro, viziato da uno strapotere e da una competizione difficile come quella della tv. Fausta Speranza, giornalista di Radio Vaticana e collaboratrice di Comunicazioni di Massa dell’università Roma Tre, che ha analizzato le tv ha sottolineato come dopo un iniziale impegno per un giornalismo serio, anche le tv abbiano ceduto al sensazionalismo scegliendo la strada dell’allarmismo, sia nelle immagini che nei contenuti.   Un comportamento che sembra ancora più colpevole perché quella professionalità,  che non manca anche in Italia e che scende in campo di fronte all’evento straordinario, viene poi sacrificata, in una seconda fase più ragionata, alle logiche di un giornalismo-spettacolo. Quell’allarmismo che di solito si nutre di delitti, di stupri, di incidenti, di ondate di immigrati, nei giorni successivi  all’11 settembre  è ritornato  sotto forma di terrore dell’antrace, accompagnato da vaiolo, peste, veleni chimici.  Salvo poi, ha sottolineato Fausta Speranza, non parlarne più dall’oggi al domani.

Interessantissimo e da ampliare lo spunto sui bambini che hanno visto la guerra in tv (Valentina Diaco). Ottima idea per una ricerca anche istituzionale. Tre milioni di piccoli telespettatori, dai 4 ai 10 anni, hanno visto la tv in prima serata: 40 mila bambini per “Porta a Porta”, 53 mila per “Sciuscià”, 180 mila per il “TG2” e 210 mila per il “TG1”. Gli effetti? Scontati: ansia, assuefazione e abbassamento della soglia della sensibilità. I lettori di domani saranno, dunque, potenzialmente meno critici di noi.

Clinica degli aborti illegali

Corriere della sera di domenica 16 aprile 2000

Intervista in esclusiva di Fausta Speranza  alla superteste Feliziana Alesse, segretaria di Ilio Spallone, sugli aborti illegali a Villa Gina

In prima pagina
Roma, parla l’infermiera che ha svelato lo scandalo: “Non dimenticherò mai quei corpicini”

“Io, la superteste, vi racconto  la clinica degli aborti illegali”

ROMA – “Ho denunciato lo scandalo degli aborti illegali perchè erano sette mesi che lavoravo a Villa Gina e non volevo più vedere o sapere”. Feliziana Alesse, 22 anni, la segretaria di Ilio Spallone che ha svelato la vicenda degli aborti praticati oltre il tempo limite imposto dalla legge, parla per la prima volta in un’intervista a una giornalista di Radio Vaticana: “Non posso dimenticare le ecografie di quei feti, per me erano foto di bambini: avevano già piedini, mani e testa”. “Tante donne – prosegue – arrivavano dall’ospedale, tante dai consultori, altre su segnalazione di un’amica. Erano tantissime, italiane e straniere, anche minorenni. Prima dell’intervento alle italiane facevano esami completi; alle extracomunitarie solo l’elettrocardiogramma”.

In cronaca a pagina 11
Feliziana Alesse, segretaria di Ilio Spallone, è la donna che ha raccontato per prima al PM Staffa dei presunti aborti clandestini. E’ stata ascoltata nell’agosto del 1999 e poi in ottobre ha fornito testimonianze e documentazione in seguito alle quali Spallone è stato incarcerato a Regina Coeli mentre suo nipote Marcello è agli arresti domiciliari. Alcuni componenti dell’equipe medica della clinica di Roma sono colpiti da provvedimenti restrittivi, altre 27 persone sono indagate. Anche la supertestimone è sotto accusa perchè, per un periodo, ha lavorato a Villa Gina consapevole di ciò che vi accadeva.
Feliziana Alesse ha 22 anni, occhi azzurri molto chiari, capelli biondissimi, carnagione slavata. Il volto è minuto, il fisico robusto. Ha qualcosa da dire su come l’hanno descritta. “Non sono una tossicodipendente e non sono una cubista. Non ho mai fatto uso di anfetamine e quando mia nonna ha sentito questa cosa si è sentita male. Non ho mai fatto la cubista anche se penso che farlo non significa essere una poco di buono o una che mente”.

Perchè ha deciso di denunciare tutto ai magistrati?

“Perchè ho una coscienza. Erano sette mesi che lavoravo a Villa Gina e non volevo più sapere o vedere. L’ho fatto per tutte le donne che possono avere un problema ad affrontare una gravidanza e io non le giudico se decidono di abortire. Ma quello non è il modo di trattare nessun essere umano”.

C’è qualcosa che non può dimenticare?

“Quando la paziente superava le dodici settimane il modo in cui le procuravano l’aborto non potrò mai dimenticarlo. Vengono somministrati farmaci in quantità eccessiva e la donna si vede che soffre in un modo tremendo, innaturale. E poi non posso dimenticare le foto dei bambini”.

Quali bambini?

“Quelli fotografati dalle ecografie”.

Vuol dire i feti?

“Sì, ma erano bambini, per me erano foto di bambini”.

Perchè?

“Avevano i loro piedini, le loro testoline, i loro corpi, le manine. Avevano tutto. Io non giudico quelle donne in difficoltà ma non dovrebbe succedere così”.

In sala operatoria che cosa ha visto?

“Vedevo che mettevano il bimbo in una bacinella. Poi il bimbo lo portavano nell’inceneritore nella stanza accanto, mentre il resto, cioè le acuqe e quello che esce dopo, lo gettavano nel water”.

Lei ha lavorato per un periodo nello studio privato del dottor Ilio Spallone, poi in un laboratorio di famiglia e poi, dal gennaio 1999, a Villa Gina. Quando ha deciso di denunciare?

“Il 5 agosto ho raccontato tutto al maresciallo Michele Di Laroni della Compagnia Divino Amore”.

Lei si è allontanata per un periodo da Villa Gina e poi è rientrata a lavorare. Perchè?

“Sono rientrata per avere delle prove. Io non ho fatto molte scuole, ma ho capito che altrimenti nessuno mi avrebbe creduto”.

Adesso c’è qualcosa che la spaventa?

“Sì, lui”.

Lui chi?

“Ilio Spallone, il dottor Ilio Spallone. Tanti all’interno della clinica avrebbero voluto denunciarlo ma avevano paura di perdere il posto”.

Qualcuno ha detto che si è voluta vendicare dopo un litigio con Ilio Spallone. C’è stata questa litigata?

“Una volta mi ha puntato contro l’antenna del telefonino e mi ha detto in malo modo di andarmene. Ma lui trattava sempre tutti male. Diceva anche alle pazienti un sacco di parolacce. Non è quell’episodio che mi ha spinto a denunciare anche se quel giorno mi sono sentita male”.

Ma nel litigio c’entravano gli aborti clandestini?

“No. Lui mi insultò perchè ero stata assente per un periodo. A Villa Gina si diceva che girava la scabbia e che io ero infetta. Allora io sono stata a casa qualche giorno per farmi vedere da un dottore esterno che ha detto che non avevo nulla. Quando sono rientrata lui mi ha fatto quella scenata e mi ha strattonata.”

Si ricorda l’espressione di una donna che l’ha particolarmente colpita?

“Ricordo gli occhi di una donna che piangeva tanto, per quello che stava facendo. Le pazienti che dovevano interrompere la gravidanza oltre la dodicesima settimana, dopo aver dato i farmaci che procurano l’aborto, le lasciavano tutta la notte sole in una stanza. Lui diceva che non dovevano lamentarsi perchè non le sentisse nessuno. La mattina si faceva l’intervento e poi uscivano senza che altri le vedessero.”

E’ vero che doveva fare la segretaria ma ha svolto anche altre mansioni?

“Sì, ho fatto l’infermiera tuttofare. Sono stata in sala operatoria, passavo i ferri e ho scritto sui registri della sala. Facevo le ricette alle pazienti prima di uscire dalla clinica”.

Come arrivavano le donne in stato interessante a Villa Gina?

“Tante arrivavano dall’ospedale, tante dai consultori e tante venivano su segnalazione di un’amica”.

Le donne pagavano tutte allo stesso modo?

“No. Il prezzo variava. Da un milione  e mezzo fino a otto o dieci milioni”.

Secondo lei, da che cosa dipendeva?

“Da quanto risultava sull’ecografia, dal periodo della gestazione.”

Hai mai riflettuto su quante persone passavano a Villa Gina?

“Erano tantissime, italiane o da fuori, straniere, anche minorenni”.

Secondo lei, la salute delle pazienti era comunque tutelata?

“No. Ad alcune italiane si faceva l’elettrocardiogramma, il gruppo sanguigno con azotemia e glicemia e un’ecografia che però spesso si modificava. Invece, alle extracomunitarie, alle rumene, alle prostitute si faceva solo il gruppo sanguigno e l’elettrocardiogramma e qualche volta anche solo l’elettrocardiogramma, prima di procedere all’aborto”.

C’è stato un caso in cui ha temuto per la salute di una persona?

“Più di una volta. In un caso l’intervento è venuto male. Mi dispiace per quella povera ragazza che credo proprio non avrà mai figli. E poi c’è la vicenda di una donna di 40 anni. Non era d Roma e faceva un’interruzione per una gravidanza molto al di là delle dodici settimane. Le hanno perforato l’uretere: dovrà andare avanti con una sacchettina per urinare”.

Adesso come si sente?

“Mi sento la forza di andare avanti. Questi mesi sono stati drammatici ma ora tanti sanno. E penso che non vedrò più quello che succedeva a Villa Gina. Qualcuno che oggi mi giudica un giorno penserà: Feliziana è stata brava, non poteva tacere”.

Incontro con Padre Cremona

In occasione dell’anno 2000 e del millenario giubileo, ho realizzato diverse interviste ad alcune personlità. Mi accorgo che ho conservato solo questa, una lunga conversazione con il giornalista scrittore agostiniano Carlo Cremona. E’ la riflessione arguta e appassionata di un credente che non  abdica dalla sua natura di intellettuale.

3 dicembre 1999

Partecipazioni varie

Fausta Speranza ha partecipato in qualità di relatore, tra gli altri, ai seguenti convegni:

24-25  ottobre 2009

“Siamo in onda: la radio e l’informazione globale”

organizzato dall’Azione Cattolica a Meta di Sorrento

25 ottobre 2008

“Chiesa e media:  dialogo e scommessa

organizzato a Grottaferrata da Il Centro interprovinciale dei Carmelitani scalzi

 

12 febbraio 2002

I media e la guerra: il gusto della catastrofe”  “WAR AND PRESS”

promosso dalla Stampa Estera e dell’Università Roma Tre (presso la sede della Stampa Estera, in via dell’Umiltà 83\c)

Testo

Testo dellìarticolo pubblicato dopo il convegno

5 dicembre 2002

“La copertura giornalistica dei diritti umani: le elezioni, i media e le missioni di osservazione elettorale”

organizzato dall’Osservatorio di Pavia nell’ambito del Progetto Eurosservatori
(presso il Collegio Giasone del Maino, via Luino 1)

13 luglio 2001

Sistemi informativi e di comunicazione di massa”

nell’ambito della  “BERC – Biennale europea delle riviste culturali” (Università degli Studi di Genova, Stradone Sant’Agostino, 37)

Testo dell’articolo pubblicato

14-16 settembre 2000

12th  “European Television and Film Forum”

dell’Istituto Europeo per i Media, organizzato a Bologna nell’ambito del Prix Italia

Testo dell’intervento in inglese:

1-2 dicembre 1999

“Nuove frontiere di comunicazione in ambito militare”

presso la base militare di Pozzuoli

11 maggio 1999

“I Caschi blu dell’informazione” Presentazione-dibattito a Roma, presso Università La Sapienza

Testo dell’intervento in italiano:

Testo dell’intervento in inglese:

Il “grande esule” ha trovato una patria in tutto il mondo

Il “grande esule” ha trovato una patria in tutto il mondo
di Fausta Speranza

Il profondo misticismo, l’amore per la donna, l’incrollabile fede:  sono queste le ragioni della passione nutrita nei confronti della poesia di Dante dalla giovane letterata Farideh Mandavi Damghani che ha aperto quest’anno la rassegna La Divina Commedia nel mondo, a Ravenna. La quarta edizione si è svolta come di consueto nella Basilica di San Francesco, negli ultimi tre venerdì di settembre, e ha riscosso  proprio il consueto successo.  Mai come in questo momento avvertiamo che esigenze e realtà del mondo più lontano si fanno urgenti e vicine e che la nostra realtà deve aprirsi a comprendere altro. Non possiamo sottrarci a un incontro tra culture e popoli e abbiamo il dovere di fare di tutto ad ogni livello perché sia confronto e non scontro. Mai come quest’anno ascoltare l’eco che la poesia di Dante suscita in altri paesi e in altre culture è stato fonte di profonda speranza. “Nati non foste a viver come bruti ma per seguir vertute e conoscenza”: è un famoso versetto del sommo poeta che ha riassunto, in un viaggio fantastico e straordinariamente vero, la parabola dell’essenza umana e spirituale dell’uomo alla ricerca di se stesso e del valore di se stesso. La speranza, dunque, è quella che nell’uomo di oggi, sotto ogni latitudine, prevalga il desiderio di ricercare tale valore, nel rispetto delle differenze culturali.   Dopo la serata dedicata alla lettura comparata in italiano e persiano, nei due appuntamenti successivi,  il viaggio sulle orme dell’Alighieri ci ha portato in Ungheria e in Spagna. In questi due casi le versioni riproposte appartengono a due illustri poeti scomparsi, rispettivamente per l’Ungheria  Mihaly Babits, morto nel 1941, e per la Spagna Angel Crespo, morto nel 1995. Come sempre a condurre la conversazione che precede la lettura comparata di un canto, sono stati chiamati i più autorevoli esperti in materia. Ecco dunque, l’introduzione del persianista Angelo Michele Piemontese dell’Università di Roma, poi, per la seconda serata, l’italianista Jozsef Pal dell’Università di Szeged e dell’italianista-magiarista Peter Sakozy dell’Università di Roma-Budapest. Infine, l’ultimo appuntamento ha visto la partecipazione dell’ispanista Gaetano Chiappini dell’Università di Firenze, dell’ispanista e comparatista Pilar Gomez Bedate Crespo dell’Università di Barcellona e dell’italianista Isabel Gonzales Fernandez dell’Università di Santiago de Compostela. Il loro prezioso contributo ha permesso ai partecipanti di conoscere qualcosa dell’accoglienza di Dante in ciascun paese e, soprattutto, degli elementi più caratteristici di tale accoglienza. Non si tratta solo di curiosità letterarie ma di spiragli di comprensione che raccontano molto della ricchezza culturale e letteraria di un paese.  Tra tante differenze tra la nostra vita quotidiana e quella del suo popolo, una donna come Farideh, che vive a Teheran, capitale dell’Iran, e che nasconde i capelli sotto il velo, ci invita a capire quanto possano  insegnare alla sua gente il profondo misticismo, l’amore per la donna e l’incrollabile fede di Dante. E’ un preziosissimo stimolo a riscoprire qualcosa che ci appartiene ma che a volte dimentichiamo. La cultura è anche la capacità di riconoscere il senso più profondo e più vero delle parole e ci conforta l’attenzione alla parola misticismo. Ci conforta pensare che  può essere recuperata, dunque, in ogni tempo, riscoprendo che l’uomo che ama l’uomo rispetta il misticismo ma rifugge dal fanatismo religioso o da una scarsa considerazione della vita. Il fanatismo religioso fa sì che ancora oggi i Talebani compiano comportamenti disumani in nome di dio,  ma le migliaia di morti ogni anno sulle nostre strade, in particolare le giovani vite spezzate per una corsa di notte verso una discoteca, nascondono una scarsa considerazione della vita che ancora non ci inquieta come dovrebbe. Sono solo esempi della nostra realtà che non può essere un’altra faccia della medaglia rispetto alla cultura ma dovrebbe nutrirsi del bagaglio di umanità che appartiene alla letteratura.  “Un uomo che ha goduto di buona fama non morirà”, ha affermato Farideh ricordando le parole di un poeta persiano.  E’ anche per questo che lei ha caparbiamente voluto pubblicare la sua traduzione completa in lingua persiana della Divina Commedia. Si tratta di tre volumi, che raccolgono anche molti commenti dei più illustri dantisti, e che soprattutto rispettano la terzina dantesca, mentre la traduzione precedente riassumeva  in prosa i versi di Dante. Un uomo che ha goduto di buona fama, dunque, non morirà nemmeno in Iran nonostante che abbia messo all’Inferno proprio Maometto. Anche questo è fonte di speranza in questo inizio secolo segnato dall’affacciarsi della spettro della guerra.  Farideh ammette che non ha potuto tradurre i versi di Dante relativi a Maometto, perché la religione musulmana non lo permette, però ha spiegato ai suoi lettori il significato di quelle terzine mancanti e cioè le critiche, magari esasperate, di Dante. Il coraggio di Farideh che non pubblica in un paese che rispetta la libertà di espressione è il coraggio, in questo caso sofferto come è sofferta la situazione in Iran, di uscire dalle proprie sclerotizzate certezze. Un coraggio che sempre la letteratura chiede a chi voglia avventurarsi in ciò che l’uomo di ogni tempo e di ogni luogo ha vissuto e espresso. Un coraggio da riscoprire anche  difendendo la riflessione dalla velocità e dalla banalità della nostra epoca. L’immagine del vagare di Dante tra Inferno, Paradiso e Purgatorio è sempre l’immagine di un uomo che varca confini difficili da varcare, cercando di imparare a vivere e a morire.

del 25 settembre 1999

Nuovi media: intervista a Derrick de Kerchhove, 1997

Cercando di riflettere sul valore della comunicazione ho partecipato a convegni e realizzato diverse interviste con i massimi esperti. Ho conservato questa lunga conversazione con Derrick De Kerckhove, realizzata nel 1997 quando internet stava diventando una realtà per tanti.

del 3 marzo 1997

50 ANNI FA, LA LIBERAZIONE DELL’ITALIA DALL’OCCUPAZIONE NAZISTA

L’intenso dibattito politico intorno ai risultati delle elezioni amministrative cade in un anniversario d’eccezione per la Repubblica italiana: 50 anni dalla liberazione dall ‘occupazione tedesca. E’ passato, infatti, mezzo secolo dal 25 aprile del 1945, data-simbolo della vittoria della Resistenza e della conclusione, per l’Italia, della II guerra mondiale. Il servizio di Fausta Speranza:

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Il 25 aprile del 1945, Milano e Genova insorgono, cacciando i tedeschi; con la liberazione, il 28, di Torino da parte delle forze alleate, la vittoria sugli occupanti è sancita, dopo 20 mesi di resistenza, vissuti diversamente nelle varie regioni d’Italia. Gli alleati, infatti, sbarcano in Sicilia nell’estate del 1943. Nel settembre dello stesso anno c’è la firma dell’armistizio da parte di re e  governo, la dichiarazione ufficiale di guerra contro i tedeschi, lo sbarco degli americani a Salerno. Il sud. dunque, viene in tempi relativamente rapidi strappato dalle mani dei nazisti .

Più lunga la lotta al centro: solo il 4 giugno del 1944, viene liberata Roma. Straziante, poi, l’agonia nella parte settentrionale della penisola che, prima dello sfondamento della linea gotica, negli ultimi mesi del ’44 e nei primi del ’45 è teatro delle più feroci rappresaglie dei nazisti, ormai sulla via della disfatta.

La storia della resistenza, dunque, è la storia delle diverse esperienze vissute sul territorio italiano. ma è anche e soprattutto storia di unità, quell ‘unità che le più diverse forze politiche trovano nel combattere il nazismo e la dittatura e nel fondare, poi, la Repubblica. Come spiega il professor Pietro Scoppola, docente di storia contemporanea all ‘Università “La Sapienza” di Roma, e autore del volumetto: “25 aprile. Liberazione”, pubblicato di recente da Einaudi:

Il modo in cui la guerra si è conclusa ha contribuito ad accentuare differenze già esistenti nel nostro Paese. Ma al di sotto di questo, c’è da scoprire e valorizzare un elemento unitario, che è quello di un coinvolgimento profondo e vitale di tutti gli italiani. E bisogna soprattutto rileggere il passsato secondo la grande intuizione di don Giuseppe Dossetti, uomo che ha fatto la resistenza ed è stato fra gli esponenti più significativi dell’assemblea costituente, oggi monaco. Il quale, ripensando a quel passato, ha individuato e ha indicato il nesso stretto tra liberazione e costituzione repubblicana, fra evento epocale rappresentato dalla guerra e la rifondazione della convivenza sui grandi valori della Costituzione, alla quale – come noto – i cattolici hanno dato un contributo decisivo.

A questo proposito, a mezzo secolo di distanza, nuove letture storiografiche sembrano superare le polemiche sull’attendismo della Chiesa e dei cattolici. Ancora il Prof. Scoppola:

Un grande storico di formazione laica crociana, Federico Chabod, ha paragonato il ruolo che la Chiesa svolge in particolare a Roma negli anni dell’occupazione tedesca a quello che svolse al tempo delle invasioni barbariche, nei primi secoli cristiani, negli anni del disfacimento dell’Impero romano. Questo per dirle quanto anche in una cultura di ispirazione laica ci sia stato di sensibilità a questo ruolo della Chiesa. Non dobbiamo andare a misurare quanto si è sparato, quanti sono stati i corpi militari di estrazione cattolica o di estrazione della sinistra. Dobbiamo chiederci, piuttosto, e capire quale sia il contributo qualitativo che la presenza cattolica e cristiano ha portato a questo grande movimento della resistenza morale di tutto il popolo. Ha contribuito a ricostituire il tessuto etico della convivenza. E senza convivenza non c’è democrazia, non c’è possibilità di ricostruire la democrazia. La democrazia, infatti, non si ricostruisce semplicemente sparando, partendo dalle armi. Si icostruisce con uno sforzo in positivo.

UNA MOSTRA A RIMINI SUI POPOLI DEL MAR NERO

 APPORTATORI IN OCCIDENTE NON SOLO DI RIVOLGIMENTI, MA ANCHE DI DINAMISMO E CIVILTA’

– Ai nostri microfoni, il Prof. Giancar10 Susinio –

“Dal Mille al Mille: ori dei popoli del Mar Nero” è il titolo del1a grande mostra sui tesori delle genti delle steppe, allestita a Rimini – su iniziativa del Meeting per l’Amicizia fra i popoli – presso la Sala del1 ‘Arrengo e il Palazzo del Podestà, fino al 25 giugno prossimo. Il servizio di Fausta Speranza:

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Il Mar Nero, il cosiddetto “grande catino” con un imbuto verso il Mediterraneo, ha tre versanti: quello meridionale, l’Anatolia, che ha conosciuto culture imbevute del mondo greco, il dominio persiano, l’ellenismo; il versante orientale, dominato dal Caucaso, dal quale spuntano popoli lontani quali gli armeni; il versante europeo, dove trovano sbocco grandi fiumi, tra i quali il Danubio, e dove l’ampia penisola della Crimea rappresenta un avanposto tra Europa e Asia. Proprio dei popoli che abitarono ìl versante europeo si occupa la Mostra a Rimini, ricca di materiali che provengono da rinvenimenti recentissimi.
Pensando ai popoli di questa zona, ci vengono subito in mente le invasioni in Occidente e forse solo immagini di devastazione e distruzione. Che cosa c’è, invece, da sapere di questi popoli lontani e favolosi? Quali le loro caratteristiche? Lo chiediamo al prof. Giancarlo Susinio, ordinario di Storia antica all ‘Università di Bologna, membro de1l ‘Accademia Nazionale dei Lincei ed esponente parte del Comitato scientifico della Mostra:

E’ vero. Portano rivolgimenti, portano tante cose che noi conosciamo come devastazioni, ecc. Portano anche energie nuove e soprattutto – a mio parere – portano la conoscenza della possibilità di muoversi con una tecnica e un modulo nuovo. Per esempio, il cavallo. Mi domando, la cavalleria, come noi la conosciamo nel Medioevo, quale profonda ispirazione ha ricevuto dal costume del movimento di questi popoli? Poi, un’altra cosa: sono popoli abituati a lavorare i metalli preziosi e portano delle tecnologie di lavorazione che per la metallurgia sono davvero importanti. Non li possiamo considerare esclusivamente come nomadi nelle loro
scorrerie di tenda in tenda, ecc. ma anche come popolazioni che si attestano con città in simbiosi, un sincretismo con gli elementi greci, con gli elementi romani, con la cultura bizantina. Sono protagonisti a un certo momento, per esempio in Crimea, dei santuari – nella prima evangelizzazione cristiana – che sono degli autentici insediamenti civili.

CENTO ANNI FA IL BREVETTO DEI FRATELLI LUMIERE

Oggi un nuovo strumento informatico a servizio degli aspetti culturali del cinema

– Intervista con Andrea Piersanti –

100 anni fa, come ieri, il 13 febbraio 1895, veniva registrato il brevetto del cinematografo da parte dei fratelli Louis e Auguste Lumière. inventori e industriali nel campo della fotografia. Il servizio di Fausta Speranza:

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Quando nel 1894. i Fratelli Lumière scoprono il cinetoscopio di Edison, in una bottega del Boulevard Poissoniere, a Parigi, la macchina cinematografica è praticamente pronta. L’apporto, dal punto di vista scientifico, dei famosi fratelli è in realtà poca cosa: un procedimento di trascinamento periodico della pellicola, ispirato al funzionamento della macchina da cucire. Pertanto. dopo il brevetto del fonografo nel 1887 e quello del cinetoscopio nel 1893, praticamente bisogna inventarne un impiego.
Sta qui la genialità dei fratelli Lumière: mettere insieme un proiettore ed uno schermo in una grande sala che raccoglie persone, attratte e stregate da “animate scene”. Esattamente i l cinermatografo. Con loro, dunque, l’evento culturale è compiuto.

Oggi la straordinaria moderna arte del XX secolo riceve un ennesimo regalo dalla tecnologia: un piccolo disco ottico in cui sono memorizzati dati, foto, stralci di recensioni critiche di più di 35 mila film di tutto il mondo. Si tratta del CD-ROM intitolato “Cine-enciclopedia 2”, realizzato dall’Ente dello Spettacolo e da Editel, con la collaborazione del Dipartimento spettacolo della Presidenza del Consiglio dei ministri. Su questa iniziativa editoriale, praticamente unica al mondo, ascoltiamo il presidente dell’Ente dello Spettacolo, Andrea Piersanti …

R. – Si possono fare ricerche in tutti i possibili campi di interrogazione di una scheda cinematografica. In questo dischetto sono contenute le schede filmografiche di più di 35 mila film, italiani e stranieri, prodotti a partire dal 1928, a partire cioè dall’avvento del sonoro nella tecnica cinematografica. Si possono cercare informazioni partendo dal titolo italiano, dal titolo originale, dal nome del regista, dall’anno di produzione, dal nome degli attori, da parole – ed è questa la novità più interessante – contenute nelle sinossi, cioè nelle trame dei film. In poche frazioni di secondi il “software” che fa muovere questo CD-ROM tira fuori tutte le schede dei film, dove compare quella determinata parola.

D. – Quale importanza attribuire al mettere insieme e archiviare tali dati ed informazioni sul cinema?

R. – Secondo indagini serissime, commissionate da produttori e distributori, il pubblico cinematografico è sempre più attento all’aspetto culturale dell’evento cinematografico. Di consenguenza, questo pubblico vuole saperne di più. Uno strumento come questo permette di soddisfare le curiosità e permette quindi anche di contrastare quel terribile “effetto marmellata”, che la programmazione in Italia di 7 mila film l’anno – tanti ne sono stati censiti dalla nostra rivista del cinematografo – induce dal piccolo schermo.