La tutela dell’ecosistema in Italia si fa diritto costituzionale

Non più produttività nel dispregio di salute e ambiente: il rispetto di ecosistema e biodiversità viene inserito nella Costituzione italiana. Per la prima volta si incide sulla parte dei principi fondamentali. Un intervento in linea con la normativa Ue e i pronunciamenti della Corte costituzionale, come spiega l’esperto di diritto Giampaolo Rossi parlando di corretto adeguamento e spiegando il riferimento agli animali

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La tutela dell’ambiente e della biodiversità diventa principio costituzionale in Italia. Ieri pomeriggio, dopo la doppia lettura del Parlamento, la Camera ha dato l’ok definito – con 468 voti a favore, uno contrario e sei astenuti, quest’ultimi tutti di Fratelli d’Italia – al provvedimento che aggiorna la Carta costituzionale in materia di rispetto dell’ecosistema. L’indicazione più evidente che emerge è di “non ledere salute e ambiente per iniziativa economica”. Con una precisazione: “Anche nell’interesse – si legge – delle future generazioni”.

Due gli articoli modificati

In concreto, il provvedimento modifica gli articoli 9 e 41 della Costituzione italiana e incide direttamente sullo Statuto delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano in materia di tutela degli animali. Da sottolineare che l’articolo 9 è nella prima parte della Costituzione, quella con i principi fondamentali ed è quello a tutela del patrimonio paesaggistico e di quello storico e artistico. Con la riforma si attribuisce alla Repubblica anche la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi. C’è poi la modifica all’articolo 41 che da ora in poi sancisce che l’iniziativa economica debba rispettare non solo la libertà e la dignità umana, ma anche – questa la novità – la salute e l’ambiente, prevedendo per questo anche programmi e controlli. Di fatto, dunque, sversare ad esempio liquami in un fiume nella post produzione diventa una vera e propria violazione della Costituzione.

Nel solco dei pronunciamenti della Corte costituzionale

Di corretto adeguamento parla Giampaolo Rossi, docente emerito di Diritto amministrativo, tra i primi ad occuparsi di diritto in relazione all’ambiente anche in ambito europeo:

Rossi sottolinea che in sostanza tra i principi costituzionali sino ad oggi c’era la cultura, la ricerca, la tutela del paesaggio del patrimonio storico e artistico, adesso c’è anche il riferimento diretto all’ambiente, alla biodiversità, alla tutela dell’ecosistema e degli animali. Era riduttivo riassumere ambiente, biodiversità ed ecosistemi, oggi a forte rischio, nel concetto di ‘paesaggio’, afferma Rossi. Si tratta di un passo importante  ma – afferma – è un adeguamento a quello che viene definito il diritto di fatto e cioè quello che fa riferimento alla giurisprudenza “viva”, ai pronunciamenti della Corte costituzionale che negli anni – ricorda – ha chiarito più volte che non si può anteporre il diritto alla produttività rispetto al diritto a vivere in un ambiente salubre, ad esempio. Rossi si sofferma sulla differenza tra il concetto di “principi supremi” e quello della loro concreta formulazione, che può sempre evolvere.

La radice nella normativa europea

Rossi invita inoltre a distinguere tra sensibilità del passato, quando non si pensava alle risorse ambientali in termini di emergenza, e a tempi più recenti in cui c’è una consapevolezza sui limiti e sulle esigenze del pianeta. Dunque ricorda che Costituzioni più antiche, come quella italiana finora, risentono della diversa impostazione mentale, mentre quelle più recenti tradiscono la nuova sensibilità. E infatti cita le normative europee, dal Trattato di Maastricht in poi, che hanno creato le basi per pronunciamenti a livello nazione come quello di ieri in Italia. Assicura dunque che trattandosi di normativa europea vincolante questo tipo di processo viene portato avanti in tutti i Paesi membri.

In tema di animali: divieto a trattamenti crudeli 

Rossi chiarisce che gli animali ovviamente fanno parte dell’ecosistema e in quanto tali sono considerati dalla nuova formulazione costituzionale, ma sottolinea anche che non è che gli animali diventino soggetti di diritto, perché non hanno capacità di agire, ma che d’ora in poi viene consolidato il principio di divieto di trattamenti crudeli.

La prima volta di un intervento sui principi fondamentali

E’ la prima volta che, nella storia della Repubblica, il Parlamento interviene sulla parte prima della Costituzione, quella che riguarda i princìpi fondamentali. Un intervento “rispettoso e necessario”. Si tratta di “un adeguamento reso necessario dai tempi”, ha sottolineato in Aula anche il deputato Stefano Ceccanti, docente ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università Sapienza di Roma, spiegando che “non banalizza l’iter di revisione costituzionale” né intacca l’equilibrio della prima parte della Costituzione che – ricorda – comprende 12 articoli  sui  ”principi fondamentali”. Almeno dagli anni “90, ci si è giustamente concentrati sugli aggiornamenti possibili sulla seconda parte, che evidenzia maggiormente i limiti del tempo, ribadendo spesso che i principi fondamentali sono intoccabili. Ma sarebbe sbagliato – ha avvertito Ceccanti – considerare le due parti della Costituzione come compartimenti stagni. Ovviamente Ceccanti ribadisce che resta la necessità di essere sempre prudenti in tema di interventi di modifica sui primi 12 articoli. A questo proposito ha ricordato che, negli anni ottanta, i componenti della Commissione Bozzi – tra i quali sedevano ancora esponenti dell’Assemblea Costituente e delle prime legislature repubblicane – avevano previsto un intervento analogo per la valorizzazione del diritto all’ambiente.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-02/italia-diritto-ambiente-costituzione-unione-europea-corte.html

Hinder: l’importanza dell’appello del Papa per lo Yemen

Un conflitto silenziato come un telefonino: così l’amministratore apostolico dell’Arabia, monsignor Paul Hinder, ribadisce l’urgenza di non voltarsi dall’altra parte di fronte al dramma delle guerre e – come detto da Francesco nell’intervista alla trasmissione televisiva Che tempo che fa – allo sfasamento delle priorità tra vita della gente e profitti delle armi. Il presule ricorda lo strazio dei bambini in un contesto di combattimenti e malattie

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dopo sette anni di combattimenti, il conflitto in Yemen si è intensificato nelle ultime settimane. Le forze della coalizione stanno cercando di strappare i territori conquistati dai ribelli Houthi, che controllano anche la capitale Sana’a.

Un drammatico scenario di guerra che il Papa ha citato, nell’intervista rilasciata domenica scorsa a Che tempo che fa, parlando di vite umane che per alcuni contano meno del profitto delle armi. L’eco dell’appello del Papa nelle parole di monsignor Paul Hinder, amministratore apostolico dell’Arabia:

Eccellenza, qual è stata la sua prima reazione al riferimento del Papa al conflitto dimenticato in Yemen?

Quando ho visto il commento di Papa Francesco, mi ha fatto piacere che abbia ricordato lo Yemen. La realtà è dolorosa e non fa certo piacere saperlo. Ma è vero che questo conflitto è come “silenziato”.  Qualche volta ho l’impressione che così come mettiamo il telefonino in silenzio – quando non vogliamo disturbare gli altri o anche se non vogliamo sentire noi gli squilli – così sembra che facciamo per quanto riguarda questo conflitto. E’ in ombra rispetto all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale.

Non piace neanche sentire quello che il Papa ha ricordato con forza a proposito di qualunque guerra, e cioè che significa dare la priorità alle armi piuttosto che alle persone, alla vendita di strumenti di morte piuttosto che alla vita delle persone…

E’ triste, ma è la realtà di quello che vediamo. Quelli che sono al potere evidentemente hanno interessi diversi da quanti hanno a cuore le persone. Come Chiesa siamo chiamati alla politica di riconciliazione e di pace, che rimane la nostra missione. Purtroppo spesso è una politica non vincente – dobbiamo essere onesti – nel senso che nella storia dell’uomo sono evidenti i conflitti.

Cosa può dirci della situazione in Yemen?

Da anni non mi è possibile andare in Yemen, io sono ad Abu Dhabi. Non ci sono voli diretti con Sana’a e non è possibile recarsi nel sud dello Yemen. Allora io non ho più una conoscenza diretta di quello che accade, ma posso solo avere l’eco di notizie.

Il Papa ha posto l’accento, tra l’altro, sul dramma dei bambini…

Sappiamo che nei teatri di guerra si diffondono molte malattie e che i bambini sono i più vulnerabili, non hanno la possibilità di difendersi, sono dipendenti dagli adulti. La guerra è un dramma, per i minori, quando c’è una famiglia, possiamo dire che va ancora bene invece, molto spesso, sono orfani di uno o di tutti e due i genitori. Sono il volto più fragile della società, a parte gli anziani.

Eccellenza, a parte i punti di vista sul conflitto, diverse popolazioni dei Paesi che partecipano alla coalizione che combatte i ribelli Houthi in Yemen hanno loro figli impegnati in questa guerra. Come si guarda al conflitto?

Credo ci siano stati degli eventi, ultimamente, che hanno risvegliato un po’ tutti ma, in alcuni casi, a fare la guerra sono stranieri. Certamente c’è una fascia di popolazione che prega per la pace o si augura la pace. Nelle chiese cristiane si prega per il bene di tutti.

Le parole del Papa

Nel corso dell’intervista, rilasciata sabato 5 febbraio alla trasmissione della Rai Radiotelevisione italiana ‘Che tempo che fa’, Papa Francesco ha detto: “Da quanto tempo lo Yemen soffre la guerra e da quanto si parla dei bambini dello Yemen?”. Per poi affermare che “ci sono categorie che importano e altre che sono in basso: i bambini, i migranti, i poveri, coloro che non hanno da mangiare”, aggiungendo: “Questi non contano, almeno non contano al primo posto, perché c’è gente che vuole bene a questa gente, che cerca di aiutare, ma nell’immaginario universale quello che conta è la guerra, la vendita delle armi”.

La cronaca

Dopo sette anni di combattimenti, il conflitto in Yemen si è intensificato nelle ultime settimane. Le forze della coalizione stanno cercando di strappare i territori conquistati dai ribelli Houthi che controllano anche la capitale Sana’a. Gli Houthi, da parte loro, hanno intensificato gli attacchi con missili e droni, che ora non colpiscono più solo obiettivi in Arabia Saudita ma, dallo scorso gennaio, anche negli Emirati Arabi Uniti. Nel fine settimana, fonti militari hanno fatto sapere che decine di soldati sono morti durante l’offensiva delle forze governative yemenite sferrata contro le posizioni dei ribelli Houthi a Harad, nella provincia di Hajjah, vicino al confine con l’Arabia Saudita. L’offensiva sembra sia ancora in corso.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2022-02/yemen-guerra-armi-popolazione-bambini-papa-francesco-tv.html

60 anni fa l’embargo Usa a Cuba

E’ passato alla storia come el bloqueo, l’embargo commerciale, economico e finanziario imposto dagli Stati Uniti all’isola conquistata dalla rivoluzione castrista. Nel bilancio di oltre mezzo secolo, a parte la parentesi di apertura voluta da Obama, non si trova traccia degli effetti auspicati da Washington, come chiarisce l’esperto di Americhe Raffaele Nocera

Fausta Speranza- Città del Vaticano

Il 7 febbraio 1962, con il “Proclama 3447” l’allora presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy impose l’embargo su ogni tipo di scambio con l’isola di Cuba dove si era imposto Fidel Castro.  Sessant’anni dopo, abbiamo parlato degli obiettivi e dei risultati di questa scelta con Raffaele Nocera, vice-presidente del Centro studi sull’America Latina (CeSAL) dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale:

Nel quadro storico tracciato dal professor Nocera si ricorda innanzitutto che Kennedy ampliò le restrizioni commerciali varate per Cuba da Eisenhower nell’ottobre 1960. Il Proclama 3447 richiamò l’autorizzazione emanata dal Congresso il 4 settembre 1961 con il Foreign Assistance Act, ma mentre questo provvedimento cercava le ragioni dell’embargo anche nel danno economico provocato ai cittadini statunitensi dagli espropri, il Proclama di Kennedy poneva l’accento solo sull’allineamento ideologico del governo di Cuba al comunismo sino-sovietico.

Il contesto americano

In ogni caso – sottolinea Nocera – si faceva riferimento agli esiti dell’incontro che si era svolto a Punta del Este, in Uruguay, dal 22 al 31 gennaio 1961, cioè l’ottavo Incontro di consultazione dei ministri degli Affari Esteri dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa). Il Documento finale approvato dai partecipanti parlava esplicitamente di “offensiva comunista in America”, paventando un pericolo per le istituzioni democratiche e l’unità del continente. Per questo istituiva un Comitato Speciale per la Sicurezza “contro la sovversione comunista” e dichiarava Cuba escluso dal Sistema Interamericano.

Obiettivi mancati dell’embargo

L’embargo doveva servire a mettere in difficoltà la popolazione, affamandola, per metterla contro la rivoluzione e dunque per far cadere Fidel Castro. E’ quanto si legge – chiarisce Nocera – in documenti statunitensi che negli anni sono stati declassificati e resi noti. Ma Nocera ricorda che questo non è successo: Fidel è rimasto al potere finché la salute glielo ha permesso e poi gli è succeduto il fratello Raul. Certamente nell’immediato la stretta dell’embargo si è sentita in modo forte e la popolazione ne avrà sofferto, ma poi i dirigenti di Cuba si sono avvicinati all’allora Urss trovando sostegno. C’è stata un’altra fase di evidente difficoltà quando, dopo la fine della guerra fredda, l’Unione sovietica si è dissolta. E bisogna ricordare che Bush senior prima nel 1992 e poi Clinton nel 1996 hanno perfino inasprito in quel momento le restrizioni, ma – ricorda Nocera –  a Cuba è venuto in soccorso il Venezuela. Quando poi Caracas ha conosciuto la gravissima crisi, di nuovo Cuba ha trovato l’aiuto della Russia e della Cina. Quindi, in sostanza non si sono mai visti gli effetti così come erano stati sperati da Washington.

Cuba tra difficoltà e ricerca di nuovi partner

La situazione di Cuba oggi. I rapporti sono – secondo la definizione di Nocera – nel solco della continuità. Il 17 dicembre 2014, il presidente statunitense Barack Obama aveva annunciato l’intenzione di porvi fine, ricorda Nocera spiegando che per poter essere effettivamente rimosso, sarebbe stato necessario il voto favorevole del Congresso controllato in quel momento dal Partito Repubblicano, che si è manifestato contrario. In ogni caso, comunque Obama ha alleggerito molto le restrizioni ma, con la fine della presidenza Obama, il presidente Donald Trump ha cancellato le decisioni di Obama. Trump ha rinnovato l’embargo fino a che non ci saranno “libere elezioni” nell’isola. In campagna elettorale – sottolinea Nocera – Biden ha annunciato di voler tornare alle posizioni di Obama ma finora nulla si è mosso. Di fatto oggi l’embargo resta sostanzialmente come il simbolo della criticità dei rapporti: Cuba resiste anche se tra tante difficoltà sul piano politico, democratico, economico sociale, e alla ricerca di rapporti con nuovi partner.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-02/stati-uniti-embargo-cuba-russia-venezuela-castro.html

Non solo economia: a 30 anni dal Trattato di Maastricht

Nell’anniversario del passaggio dalla Comunità all’Unione Europea, si devono valutare gli sviluppi socioeconomici, ma è importante anche riscoprire il bagaglio teorico che sta dietro al principio di sussidiarietà, altro caposaldo del Trattato del 1992. Le riflessioni dell’economista Paolo Guerrieri e dell’esperto di filosofia del diritto Mario Sirimarco

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il 7 febbraio 1992 i dodici Stati membri dell’allora comunità Europea sottoscrivevano – nella città olandese di Maastricht, nei Paesi Bassi sulle rive della Mose – il Trattato anche noto come Trattato sull’Unione europea (Tue), che comprendeva 252 articoli nuovi, 17 protocolli e 31 dichiarazioni, che sarebbe entrato in vigore il 1 novembre 1993. Con il Trattato di Maastricht si stabilivano i tre pilastri della nascente Ue, fissando anche le regole politiche e i parametri economici e sociali necessari per l’ingresso dei vari Stati aderenti, i cosiddetti parametri di convergenza di Maastricht.

Le principali novità

Col Trattato si creavano le premesse per la moneta unica europea, l’euro, e venivano istituiti la Banca centrale europea (Bce) e il Sistema europeo di banche centrali. Si avviava la politica estera e di sicurezza comune (Pesc) stabilendone con l’art. 11 gli obiettivi: sviluppo della democrazia e dei diritti dell’uomo attraverso un ampliamento dello spazio in cui ciò avviene. Nasceva anche l’Ufficio europeo di polizia, Europol, mentre in campo giudiziario e di affari interni venivano autorizzate nuove  procedure riguardo all’accesso di cittadini di Stati terzi nell’Unione e maggiore cooperazione doganale verso l’esterno, con il rafforzamento della lotta al terrorismo, al traffico di droga e alla grande criminalità.  Altro contenuto importante: col Trattato si introduceva la “Cittadinanza dell’Unione europea”, riconoscendo cioè che è cittadino dell’Unione chiunque possieda la cittadinanza di uno Stato membro, rafforzando tra l’altro il diritto di stabilimento, circolazione e soggiorno nel territorio Ue. Il Trattato garantiva un aumento dei poteri del Parlamento europeo, attraverso l’aggiunta della procedura di codecisione: il Parlamento otteneva il potere di approvare gli atti legislativi comunitari insieme al Consiglio, poi rafforzata dal Trattato di Lisbona del 2009. Veniva poi creato un Comitato delle regioni composto dai rappresentanti delle entità regionali e locali con poteri consultivi al fianco di Commissione e Consiglio nelle materie di interesse regionale.  Diverse competenze comunitarie venivano inoltre ampliate, come la politica di coesione economica e sociale che si arricchiva di un fondo ad hoc per finanziare progetti di sviluppo economico nelle regioni più arretrate; nel campo della legislazione sociale veniva adottata la regola della maggioranza qualificata nel processo decisionale, salvo per le questioni più spinose. Stesso discorso nell’ambito della ricerca, sviluppo e ambiente. Veniva riconosciuta come politica comunitaria anche la protezione dei consumatori e lo sviluppo delle reti transeuropee (trasporti, comunicazioni, energia).

Il dibattito sul piano dell’economia

Con il Trattato di Maastricht si stabiliva inoltre che, dopo la creazione dell’Istituto monetario europeo (Ime), entro il 1º gennaio 1999 sarebbe nata da esso la Banca centrale europea (Bce) e il Sistema europeo delle banche centrali (Sebc) che avrebbe coordinato la politica monetaria unica. Venivano distinte due ulteriori tappe: nella prima le monete nazionali sarebbero continuate a circolare pur se legate irrevocabilmente a tassi fissi con il futuro Euro; nella seconda le monete nazionali sarebbero state sostituite dalla moneta unica.Per passare alla fase finale ciascun Paese avrebbe dovuto rispettare cinque parametri di convergenza tra i quali il famoso rapporto tra deficit pubblico e Prodotto interno Lordo (Pil) non superiore al 3 per cento. Un bilancio a 30 anni dal riconoscimento di questi parametri lo traccia con noi Paolo Guerrieri, docente presso gli atenei Paris School of International Affairs di Science Po e Sapienza di Roma:

Innanzitutto Guerrieri chiarisce che l’adozione della moneta unica non era stata accompagnata da politiche di gestione comuni: un problema al quale si è dovuto far fronte negli anni e che si è palesato drammaticamente con la crisi del 2008. Il punto è che tanto è stato fatto – afferma – ma solo nell’emergenza della pandemia sono stati sospesi i parametri di stabilità. Oggi dunque si tratta di decidere come procedere per il futuro: tornare a quei paramentri è impensabile – sostiene con la maggioranza degli economisti europei – ma se  vanno certamente rivisti i cosiddetti parametri  e il principio del 3 per cento massimo di rapporto tra debito pubblico e Pil  – avverte – non si può teorizzare la deregulation. Un sistema di regole è necessario anche se devono essere regole aggiornate, perché i mercati e soprattutto quelli internazionali hanno bisogno di sapere che ci sono vincoli che danno in qualche modo garanzie. In definitiva, Guerrieri avverte che c’è ancora lavoro da fare per una vera unione economico-monetaria e non solo monetaria.

Guerrieri supporta il discorso ripercorrendo alcune tappe dei 30 anni trascorsi da Maastricht. L’economista ricorda che crescita, stabilità, convergenza sono i termini che si ritrovano in tutti gli annali che raccontano – cifre alla mano – l’economia europea da quel gennaio 1999, in cui entrava in vigore la valuta comune, fino all’arrivo della crisi in Europa nel 2008-2009, riverbero di quella scoppiata nel 2007 negli Stati Uniti. Una gravissima crisi, peggiore nei suoi effetti di quella degli anni Trenta dello scorso secolo. Prima che scoppiasse, in Europa c’era una situazione più che favorevole: dalla Germania alla Grecia gli stessi tassi di interesse. Mai avvenuto prima. Questo fattore, insieme con la stabilità dettata dalla moneta unica sui mercati mondiali, assicurava crescita. La cosiddetta Eurozona si allargava e si è arrivati all’adozione dell’Euro da parte di 19 paesi su 27 pensando di arrivare all’adesione di tutti. Quei problemi però di “debolezza strutturale” dell’euro si sono dunque manifestati proprio quando c’è stata la crisi mondiale.  La reazione immediata alla crisi del 2007-2008 messa in atto negli Stati Uniti, che avevano un sistema bancario unificato, non è stata possibile negli stessi veloci ed efficaci termini in Europa – ricorda Guerrieri – perché in Ue ogni singolo paese ha fronteggiato a livello nazionale l’emergenza, prima che ci si attivasse per creare l’Unione bancaria che mancava. Poi – spiega – sono state prese anche altre decisioni importanti, come l’istituzione del meccanismo comune di stabilizzazione, definito dalla sigla Esm, che prevede fondi e strumenti precisi. E’ anche grazie a questi strumenti – spiega – che nel caso della crisi provocata dalla pandemia la risposta delle istituzioni europee è stata efficace, molto più tempestiva  di quella arrivata dopo la crisi economica scoppiata circa dieci anni fa e prima ancora nel 2008 perché appunto il processo per la moneta unica è andato avanti. Oggi la ripresa in Europa è evidente -sottolinea Guerrieri – anche se  va consolidata.

Da non dimenticare il principio di sussidiarietà  

Vera innovazione con il Trattato che compie trent’anni è stata la definizione del principio di sussidiarietà. Il concetto sostiene in sostanza che, nei settori che non sono di sua esclusiva competenza, l’Unione interviene laddove l’azione dei singoli Stati non è sufficiente al raggiungimento dell’obiettivo. Un principio che si ritrova all’interno di un Paese nel rapporto tra Stato e istituzioni locali. Interessante è ricordare i fondamenti teorici di tale principio per capirne le potenzialità al di là di modalità e margini di applicazione e di possibili strumentazioni ideologiche. Per farlo ci aiuta Mario Sirimarco, docente di Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Teramo:

Sirimarco ricorda che dopo periodi di sostanziale silenzio sul tema, negli ultimi due o tre decenni diverse problematiche hanno riproposto prepotentemente il tema del principio di sussidiarietà: il processo di costruzione dell’Europa come entità politica e non più solo come mercato comune; il disfacimento del comunismo nei Paesi dell’est europeo; la crisi dello stato sociale, nella sua versione di Stato provvidenza, nei Paesi occidentali; la discussione intorno a una progettazione istituzionale più o meno federalista in Italia; la necessità di ripensare la fenomenologia dei rapporti tra lo Stato, gli organismi territoriali e i privati, basato su un nuovo modo di intendere i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione nella prospettiva di un rapporto di parità delle parti o comunque di un maggiore coinvolgimento dei cittadini; il fenomeno della info-globalizzazione e della crescente complessità della società e delle sue problematiche economiche ed ambientali. Sirimarco spiega che a tutti questi livelli si ritrova al cuore del dibattito la questione dell’autorità, del suo esercizio, dei suoi limiti, che è il vero punto focale del principio della sussidiarietà, sottolineando che ovviamente si deve distinguere tra la formulazione teorica e i tentativi di applicazione. Sirimarco cita a questo proposito lo snaturamento del principio avvenuto con il corporativismo fascista. E poi mette in luce anche i limiti di tante occasioni in cui l’ordinamento giuridico europeo ha proclamato  solennemente il principio, ma poi ha prodotto una normazione non esattamente all’altezza.

Le radici nel bene comune

Sirimarco rivendica una prospettiva essenziale per il giurista per dare un vero significato alla formula del principio: quella di riscoprirne, al di là di antichi presupposti filosofici, le radici della formulazione nei tempi moderni. In questo senso – spiega  – in passato sono state evidenziate  alcune assonanze, se non vere e proprie identità di formulazione, tra la Carta del lavoro (del 1927) e la Lettera Enciclica Quadragesimo anno (del 1931)  quasi a voler rivendicare una sorta di matrice fascista al principio della sussidiarietà, dimenticando però – avverte – la Enciclica Rerum Novarum, con tutta la riflessione successiva. Significherebbe ignorare  – aggiunge – la figura di Antonio Rosmini, non considerare o sottovalutare Luigi Sturzo, non tenere conto, insomma, di tutto uno sforzo culturale, anche grazie all’influenza di pensatori stranieri come Maritain, teso a stabilire un dialogo, un ponte tra mondo cattolico, pur nella sua straordinaria varietà sul piano della visione sociale e politica, e il mondo moderno. A questo proposito Sirimarco cita una studiosa in particolare che ha contribuito a   ritessere le fila del discorso: Chantal Millon-Delsol che – secondo Sirimarco – ha ben chiarito che il principio in questione rappresenta proprio un tentativo di gettare un ponte tra cattolici e modernità.

Dunque, Sirimarco mette in evidenza che il diritto della sussidiarietà, nel senso di diritto-dovere di ingerenza dello Stato, ha come fondamento la dignità della persona e il bene comune. La sua finalità deve essere quella di valorizzare la persona ponendola al centro della dimensione sociale e politica come soggetto responsabile e creativo, come singolo e nelle formazioni sociali in cui si trova ad operare.

Controcorrente

Sirimarco mette in luce i limiti che subito si ritrovano guardando alla realtà dei fatti: parla infatti di un contesto culturale di progressiva de-responsabilizzazione del cittadino che si vorrebbe mero individuo-consumatore-spettatore in una prospettiva che definisce di “una democrazia del marketing o dell’audience”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-02/unione-europea-trattato-firma-economia-principio-sussidiarieta.html

Democrazia e dignità della persona nel discorso di Mattarella

Il presidente della Repubblica italiana chiede al Parlamento processi riformatori in campi fondamentali come quello della giustizia, sottolineando gli attacchi ai sistemi democratici nel mondo e i crescenti rischi della prolungata instabilità in Italia. Invoca senso del dovere contro razzismi, discriminazioni, precarietà, mafie, chiede tutele per giovani e madri, misure per l’ambiente. Espressione di “riconoscenza” per Papa Francesco, ricordo di Sassoli e Vitti, omaggio a medici e sanitari

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Il mio pensiero, in questo momento, è rivolto a tutte le italiane e a tutti gli italiani: di ogni età, di ogni Regione, di ogni condizione sociale, di ogni orientamento politico. E, in particolare, a quelli più in sofferenza, che si attendono dalle istituzioni della Repubblica garanzia di diritti, rassicurazione, sostegno e risposte concrete al loro disagio”. Sono parole del presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, nel discorso al Parlamento dopo il giuramento per il secondo mandato oggi pomeriggio, in cui ha espresso raccomandazioni e indicato priorità. Hanno segnato l’intervento di Mattarella in Aula cinquantacinque applausi e un’ovazione finale durata oltre tre minuti. “I grandi cambiamenti che stiamo vivendo a livello mondiale – ha avvertito – impongono soluzioni rapide, innovative, lungimiranti, che guardino alla complessità dei problemi e non soltanto agli interessi particolari”.

Il pensiero a Papa Francesco

Mattarella ha rivolto un pensiero a Papa Francesco, “al cui magistero l’Italia guarda con grande rispetto, esprimo i sentimenti di riconoscenza del popolo italiano”, riscuotendo uno dei lunghi applausi dei parlamentari e delegati regionali in Aula che hanno accompagnato l’intervento.

Le ragioni del secondo mandato

Il capo dello Stato ha parlato di attese spiegando che “sarebbero state fortemente compromesse dal prolungarsi di uno stato di profonda incertezza politica e di tensioni, le cui conseguenze avrebbero potuto mettere a rischio anche risorse decisive e le prospettive di rilancio del Paese impegnato a uscire da una condizione di grandi difficoltà”. “Leggo questa consapevolezza dei rischi nel voto del Parlamento, ha affermato il capo dello Stato aggiungendo: “Il voto ha concluso giorni travagliati per tutti, anche per me”. Dunque, ha spiegato: “Questa stessa consapevolezza ha motivato il mio sì e sarà al centro del mio impegno di Presidente della Repubblica nell’assolvimento di questo nuovo mandato”.

Tra le priorità

Mattarella ha indicato l’obiettivo di “una Repubblica capace di riannodare il patto costituzionale tra gli italiani e le loro istituzioni libere e democratiche”. L’Italia sia “un Paese che cresce in unità, in cui le disuguaglianze, territoriali e sociali, che attraversano le  comunità vengano meno”. Nella visione di Mattarella c’è un’Italia che “offra ai suoi giovani percorsi di vita nello studio e nel lavoro per garantire la coesione del popolo”.  “Un’Italia – ha proseguito – che sappia superare il declino demografico cui l’Europa sembra condannata”. Un’Italia che tragga vantaggio dalla “valorizzazione delle sue bellezze, offrendo il proprio modello di vita a quanti, nel mondo, guardano ad essa con ammirazione”. Un’Italia “impegnata nella tutela dell’ambiente, della biodiversità, degli ecosistemi, consapevole della responsabilità nei confronti delle future generazioni”. “L’Italia è al centro dell’impegno di ripresa dell’Europa”, ha ribadito Mattarella ricordando che il Paese è il maggiore beneficiario del programma Next Generation e che si deve “rilanciare l’economia all’insegna della sostenibilità e dell’innovazione, nell’ambito della transizione ecologica e digitale”.

L’impegno del governo Draghi e di tutti

“Su tutti questi temi – all’interno e nella dimensione internazionale – è intensamente impegnato il governo guidato dal presidente Draghi”, ha affermato Mattarella, ricordando che è “nato, con ampio sostegno parlamentare, nel pieno dell’emergenza e che è ora proiettato a superarla, ponendo le basi di una nuova stagione di crescita sostenibile del Paese e dell’Europa”. Dunque, al governo “un convinto ringraziamento e gli auguri di buon lavoro”.

“La stabilità di cui si avverte l’esigenza – ha detto Mattarella – è fatta di dinamismo, di lavoro, di sforzo comune”. Ha parlato di “tempi duri che siamo stati costretti a vivere” che – ha chiarito – ci hanno lasciato “una lezione: dobbiamo dotarci di strumenti nuovi per prevenire futuri possibili pericoli globali, per gestirne le conseguenze, per mettere in sicurezza i concittadini”. Lo sguardo è rivolto al governo ma anche ai cittadini: “L’impresa alla quale si sta ponendo mano richiede il concorso di ciascuno. Forze politiche e sociali, istituzioni locali e centrali, imprese e sindacati, amministrazione pubblica e libere professioni, giovani e anziani, città e zone interne, comunità insulari e montane. Vi siamo tutti chiamati”.

La dignità delle persone “interrogata” da migrazioni e povertà

Il termine dignità è forse quello più ricorrente nel discorso del presidente italiano che ha promesso che sarà “come pietra angolare” dell’impegno, della passione civil richiesti. Ha sottolineato che la dignità viene “interrogata dalle migrazioni, soprattutto quando non siamo capaci di difendere il diritto alla vita, quando neghiamo nei fatti la dignità umana degli altri”. “E’ anzitutto la nostra dignità – ha sottolineato – che ci impone di combattere, senza tregua, la tratta e la schiavitù degli esseri umani”.  “Costruire un’Italia più moderna è il nostro compito – ha ribadito –  ma affinché la modernità sorregga la qualità della vita e un modello sociale aperto, animato da libertà, diritti e solidarietà, è necessario assumere la lotta alle diseguaglianze e alle povertà come asse portante delle politiche pubbliche”. Mattarella ha parlato di dignità anche per ribadire che significa “garantire e assicurare il diritto dei cittadini a un’informazione libera e indipendente”.

Sul piano internazionale no a esibizioni di forza

“Non possiamo accettare che ora, senza neppure il pretesto della competizione tra sistemi politici ed economici differenti, si alzi nuovamente il vento dello scontro; in un continente che ha conosciuto le tragedie della Prima e della Seconda guerra mondiale”, ha affermato ancora Sergio Mattarella, aggiungendo: “Dobbiamo fare appello alle nostre risorse e a quelle dei Paesi alleati e amici affinché le esibizioni di forza lascino il posto al reciproco intendersi, affinché nessun popolo debba temere l’aggressione da parte dei suoi vicini”.  In aderenza alle scelte della Costituzione, la Repubblica italiana – ha ricordato – ha sempre perseguito una politica di pace. In essa, con ferma adesione ai principi che ispirano l’Organizzazione delle Nazioni Unite, il Trattato del Nord Atlantico, l’Unione Europea, l’Italia ha “costantemente promosso il dialogo reciprocamente rispettoso fra le diverse parti affinché  prevalessero i principi della cooperazione e della giustizia”.

Nell’Ue rendere strutturali gli impegni presi in emergenza

“I popoli dell’Unione Europea – ha detto il capo dello Stato – devono esser consapevoli che ad essi tocca un ruolo di sostegno ai processi di stabilizzazione e di pace nel martoriato panorama mediterraneo e medio-orientale. Non si può sfuggire alle sfide della storia e alle relative responsabilità”. Dunque, “rafforzare l’Italia significa anche metterla in grado di orientare il processo per rilanciare l’Europa, affinché questa divenga più efficiente e giusta; rendendo stabile e strutturale la svolta che è stata compiuta nei giorni più impegnativi della pandemia. L’apporto dell’Italia non può mancare: servono idee, proposte, coerenza negli impegni assunti”.  “La Conferenza sul futuro dell’Europa non può risolversi in un grigio passaggio privo di visione storica ma deve essere l’occasione per definire, con coraggio, una Ue protagonista nella comunità internazionale”.

Lo scandalo delle morti sul lavoro

Forte il richiamo allo scandalo delle vittime di incidenti sul lavoro. Dignità – ha detto Mattarella – è “azzerare le morti sul lavoro, che feriscono la società e la coscienza di ognuno di noi. Perché la sicurezza del lavoro, di ogni lavoratore, riguarda il valore che attribuiamo alla vita”. Dunque, l’appello del capo dello Stato: “Mai più tragedie come quella del giovane Lorenzo Parelli”, entrato in fabbrica per un progetto scuola-lavoro e rimasto ucciso per un incidente. “Quasi ogni giorno veniamo richiamati drammaticamente a questo primario dovere della nostra società”.

Marginalità femminile e giovani in periferie esistenziali

A proposito di lavoro, Mattarella ha sottolineato che: “Nell’ultimo periodo gli indici di occupazione sono saliti ed è un dato importante ma ancora tante donne sono escluse dal lavoro, e la marginalità femminile costituisce uno dei fattori di rallentamento del nostro sviluppo, oltre che un segno di ritardo civile, culturale, umano. Tanti, troppi giovani sono sovente costretti in lavori precari e malpagati, quando non confinati in periferie esistenziali”.  “è doveroso ascoltare la voce degli studenti, che avvertono tutte le difficoltà del loro domani e cercano di esprimere esigenze, domande volte a superare squilibri e contraddizioni”.

L’inaccettabile violenza sulle donne

“Dignità è impedire la violenza sulle donne”, ha affermato infine con forza il capo di Stato definendo il fenomeno “una profonda, inaccettabile piaga che deve essere contrastata con vigore e sanata con la forza della cultura, dell’educazione, dell’esempio”.

Una riforma della giustizia e rinnovato rigore

Rivolgendo un saluto rispettoso alla Corte Costituzionale, presidio di garanzia dei principi della Carta costituzionale e nell’inviare un saluto alle Magistrature che Mattarella ha definito “elemento fondamentale del sistema costituzionale e della vita della società”, il presidente ha voluto sottolineare  che “un profondo processo riformatore deve interessare anche il versante della giustizia”, sottolineando che “per troppo tempo è divenuta un terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività”. E’ forte l’appello: “E’ indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento affinché il Consiglio superiore della Magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la Magistratura può contare, superando logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono rimanere estranee all’Ordine giudiziario. Occorre per questo che venga recuperato un profondo rigore”.

Il ruolo dei partiti

“I partiti sono chiamati a rispondere alle domande di apertura che provengono dai cittadini e dalle forze sociali. Senza partiti coinvolgenti, così come senza corpi sociali intermedi, il cittadino si scopre solo e più indifeso. Deve poter far affidamento sulla politica come modalità civile per esprimere le proprie idee e, insieme, la propria appartenenza alla Repubblica”. Lo ha detto il presidente Mattarella aggiungendo: “Il parlamento ha davanti a sé un compito di grande importanza perché, attraverso nuove regole, può favorire una stagione di partecipazione. Anche sul piano etico e culturale, è necessario  proprio nel momento della difficoltà  sollecitare quella passione che in tanti modi si esprime nella  comunità”. Spazio ai giovani: “Occorre che tutti, i giovani in primo luogo, sentano su di loro la responsabilità di prendere il futuro sulle loro spalle, portando nella politica e nelle istituzioni novità ed entusiasmo”.

Il parlamento e il tempo

“Una riflessione si propone anche sul funzionamento della democrazia, a tutti i livelli”, ha asscurato Mattarella spiegando: “Proprio la velocità dei cambiamenti richiama, ancora una volta, il bisogno di costante inveramento della democrazia. Un’autentica democrazia prevede il doveroso rispetto delle regole di formazione delle decisioni, discussione, partecipazione”. Ha messo in luce che “l’esigenza di governare i cambiamenti sempre più rapidi richiede risposte tempestive. Tempestività che va comunque sorretta da quell’indispensabile approfondimento dei temi che consente puntualità di scelte”. E c’è una raccomandazione precisa: “Quel che appare necessario,  nell’indispensabile dialogo collaborativo tra governo e parlamento, è che  particolarmente sugli atti fondamentali di governo del Paese  l parlamento sia sempre posto in condizione di poterli esaminare e valutare con tempi adeguati. La forzata compressione dei tempi parlamentari rappresenta un rischio non certo minore di ingiustificate e dannose dilatazioni dei tempi. Appare anche necessario un ricorso ordinato alle diverse fonti normative, rispettoso dei limiti posti dalla Costituzione”.

I rischi per la democrazia

A livello mondiale Mattarella ha evidenziato gli attacchi alla democrazia che giungono da “poteri forti  sovranazionali che tendono ad aggirare il processo democratico” e, su un altro piano, la pressione che viene “da regimi autocratici che tendono ad apparire più efficienti di quelli democratici” le cui decisioni basate su libero consenso prendono tempi diversi ma che sono invece “più solide ed efficaci”. Il presidente della Repubblica a questo proposito ha parlato di “sfida mondiale”.

La forza della cultura con il pensiero a Monica Vitti

“L’Italia è, per antonomasia, il Paese della bellezza, delle arti, della cultura”, ha ribadito Mattarella affermando che “la cultura non è il superfluo: è un elemento costitutivo dell’identità italiana”. Dunque il richiamo:  “Facciamo in modo che questo patrimonio di ingegno e di realizzazioni – da preservare e sostenere – divenga ancor più una risorsa capace di generare conoscenza, accrescimento morale e un fattore di sviluppo economico. Risorsa importante particolarmente per quei giovani che vedono nelle università, nell’editoria, nelle arti, nel teatro, nella musica, nel cinema un approdo professionale in linea con le proprie aspirazioni”. “Consentitemi – ha aggiunto – di rendere omaggio a Monica Vitti grande protagonista della vita culturale del Paese”.

Il ricordo di Sassoli

Mattarella ha ricordato il presidente del Parlamento europeo David Sassoli, scomparso a inizio anno affermando che “la sua testimonianza di uomo mite e coraggioso, sempre aperto al dialogo e capace di rappresentare le istituzioni democratiche ai livelli più alti, è entrata nell’animo degli italiani”. E ha ricordato: “Auguri alla nostra speranza” sono state le sue ultime parole in pubblico dopo aver detto: “La speranza siamo noi”.

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Nuove misure di sicurezza annunciate da Kiev

Il presidente ucraino Zelenskiy chiede al governo di preparare un piano all’altezza della situazione di tensione, assicurando che nel suo Paese l’economia sopravvive al “virus del panico”. Intanto nessuna decisione risolutiva all’Onu. E’ in atto un grande gioco tattico tra potenze mentre in Ucraina non c’è compattezza a livello di popolazione e a livello di leadership, sottolinea il direttore della Rivista Italiana Difesa Pietro Batacchi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il presidente ucraino, Volodymyr Zelenskiy, ha incaricato il suo governo di mettere a punto i necessari progetti di legge per rafforzare la capacità difensiva del Paese, mentre continuano le tensioni con la Russia. Secondo fonti di stampa, le leggi dovrebbero portare, tra l’altro, all’introduzione di un sistema di addestramento militare intensivo dei cittadini come possibile alternativa al servizio militare e la fine della coscrizione obbligatoria a partire dal primo gennaio 2024.

Il confronto in sede Onu

Duro confronto tra Washington e Mosca, ieri, nella prima riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu dedicata alla presunta minaccia di un’invasione russa in Ucraina, dopo l’arrivo di 100.000 soldati russi ai confini. Un’iniziativa statunitense che la Russia ha tentato  di evitare con un voto procedurale che ha riscosso soltanto il sostegno della Cina. Ma poi l’ambasciatore russo ha chiesto una nuova riunione il 17 febbraio prossimo.

La posizione degli Stati Uniti

“La situazione che stiamo fronteggiando in Europa è pericolosa e urgente e la posta in gioco per l’Ucraina, e per ogni Stato membro dell’Onu, non potrebbe essere più alta, ha sottolineato l’ambasciatrice statunitense alla Nazioni Unite, Linda Thomas-Greenfield, affermando che le azioni di Mosca colpiscono il cuore della Carta delle Nazioni Unite e sono una minaccia chiara alla pace e sicurezza e spiegando che “ora è il momento di un dibattito pubblico”.

La voce di Mosca

L’ambasciatore russo all’Onu Vasily Nebenzia ha negato ogni intenzione di invasione, ha accusato gli statunitensi di “creare isteria” e di usare la “diplomazia del megafono” per “ingannare la comunità internazionale” con “accuse infondate. Nebenzia ha proposto anche una nuova riunione del Consiglio di Sicurezza per il 17 febbraio, settimo anniversario degli accordi di Minsk, “per discutere della situazione per una soluzione in Ucraina”. La posizione russa è assecondata da Pechino, mentre Francia e Gran Bretagna si sono allineati con gli statunitensi difendendo Kiev, che poche ore prima aveva annunciato l’arresto di un gruppo di persone accusate di preparare una sommossa nella capitale e in altre città ucraine “per destabilizzare la situazione”, con l’ombra dei servizi russi.

Dell’impegno diplomatico a vari livelli abbiamo parlato con Pietro Batacchi, direttore della Rivista Italiana Difesa:

Batacchi spiega che si tratta di una sorta di “grande gioco” di tatticismi e strategie in cui fortunatamente si tenta in tutti i modi di evitare lo scontro armato, ma sottolinea che la situazione richiama alla mente però lo scenario della cosiddetta crisi di Cuba del 1962. Il direttore della Rivista Italiana Difesa ricorda che il presidente statunitense Joe Biden nel frattempo ha definito la riunione al Palazzo di Vetro  “un passo cruciale nel radunare il mondo per prendere posizione con una sola voce” contro l’uso della forza e a favore del dialogo. E ha dichiarato: “Se la Russia sceglie di allontanarsi dalla diplomazia e di attaccare l’Ucraina ne porterà la responsabilità e subirà conseguenze rapide e severe”. Ha ricordato che gli Stati Uniti e i suoi alleati “continuano a prepararsi per qualsiasi scenario”.

Diplomazia al lavoro su vari fronti

Batacchi ricorda anche che il premier britannico Boris Johnson ha parlato con Putin e che oggi vola da Zelenskiy a Kiev, dove sono attesi nei prossimi giorni anche i ministri degli Esteri francese, tedesco e polacco, dopo quello canadese. Il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha fissato un colloquio telefonico con il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov. Il primo ministro ungherese, Viktor Orban, nell’incontro oggi a Mosca con il presidente russo, Vladimir Putin, ha assicurato che “nessun leader europeo vuole la guerra”. “Siamo per accordi pacifici”, ha detto Orban all’inizio dell’incontro riferendosi alla crisi ucraina. A differenza di altri Paesi della regione come Polonia, Romania e Bulgaria, nelle ultime settimane l’Ungheria non ha espresso chiaramente il suo sostegno all’Ucraina nel conflitto con Mosca. I Paesi baltici hanno inviato armi all’Ucraina, anche se la speranza è che non sarà necessario usarle. Lo ha detto il ministro degli Esteri lettone, Edgars Rinkevics. Anche la Danimarca si è detta pronta a mandare a Kiev equipaggiamenti e munizioni.

A Kiev una situazione complessa

Si deve guardare anche a quanto accade nel mondo politico ucraino. Batacchi mette in luce i discorsi di piazza in queste ore dell’ex presidente Lukashenko che a suo avviso denunciano una certa debolezza della leadership o comunque una certa spaccatura. La situazione è complessa – dice – sia a livello di popolazione, e non solo nel Donbass, sia a livello di rappresentanza politica. Parlando al Parlamento, il presidente Volodymyr Zelenskiy ha detto che i cittadini e gli imprenditori “non hanno ceduto al virus del panico” e grazie a questo l’economia del Paese si sta stabilizzando. I cittadini e gli imprenditori – ha aggiunto -“sono rimasti uniti sullo sfondo delle notizie su una possibile guerra con la Russia e non hanno ceduto al virus del panico”. “La nostra economia si sta stabilizzando, tutto è sotto controllo nel sistema finanziario, la grivna (la moneta nazionale) va meglio”, ha affermato Zelenskiy, aggiungendo che da quasi una settimana si registra un trend positivo sui mercati finanziari internazionali per le obbligazioni ucraine. Nei giorni scorsi Zelenskiy aveva criticato gli allarmi degli Stati Uniti per una presunta imminente invasione russa dell’Ucraina, avvertendo che ciò rischiava di creare il “panico” tra la popolazione, di nuocere all’economia. Secondo Batacchi, Zelenskiy tenta di ricompattare il Paese.

Telefonata tra Draghi e Putin per una soluzione durevole

Il presidente del Consiglio dei ministri italiano, Mario Draghi, ha avuto stamattina una conversazione telefonica con il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin. Secondo quanto emerge da  Palazzo Chigi, al centro dei colloqui gli ultimi sviluppi della crisi ucraina e le relazioni bilaterali. Draghi ha sottolineato l’importanza di adoperarsi per una de-escalation delle tensioni alla luce delle gravi conseguenze che avrebbe un inasprimento della crisi. Sono stati concordati un impegno comune per una soluzione sostenibile e durevole della crisi e l’esigenza di ricostruire un clima di fiducia.

La preghiera e l’appello del Papa per la pace

Papa Francesco ha chiesto più volte che nella questione ucraina il bene comune prevalga su interessi di parte e ha indetto una giornata di preghiera per il popolo ucraino il 26 gennaio scorso.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-02/ucraina-presidente-italia-russia-stati-uniti-onu.html

La difficile sfida di riconciliare le fazioni palestinesi

L’Algeria tenta la mediazione tra Fatah e Hamas mentre esplode sui social media di molti abitanti della Cisgiordania una campagna di proteste contro la gestione politica a Gaza. Da 15 anni si cerca di superare la contrapposizione tra le due principali realtà del mondo palestinese che non conosce elezioni da 16 anni

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Inizia il processo per la “riconciliazione” tra le diverse fazioni palestinesi, tra il partito di al-Fatah e il movimento di Hamas che governa la Striscia di Gaza. Lo ha affermato il ministro degli Esteri algerino Ramtane Lamamra, annunciando l’avvio di colloqui ad Algeri, ma senza fornire dettagli. Ha usato la stessa espressione, “riconciliazione”, che ha scelto a dicembre il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune per rendere noto che avrebbe presto ospitato i colloqui tra i vari componenti della scena palestinese. Da tempo diversi Paesi arabi, tra cui l’Egitto, il Qatar e l’Arabia Saudita, hanno tentato di riavvicinare il partito di al-Fatah, guidato dal presidente palestinese Mahmoud Abbas, con il partito rivale Hamas che governa a Gaza. Dei molti gruppi di cui si compone il panorama politico palestinese, Fatah e Hamas sono gli attori principali. Da 16 anni non si tengono elezioni palestinesi.

In una campagna online il peso della contrapposizione

In questi giorni molti palestinesi hanno rilanciato una campagna sui social network per protestare contro il governo di Hamas sulla striscia di Gaza, accusando il movimento islamista d’essere responsabile della povertà, della disoccupazione e delle dure condizioni economiche e umanitarie. Hamas e i suoi sostenitori hanno reagito affermando che dietro alla nuova campagna ci sono l’Autorità Palestinese e Israele, e hanno lanciato contro-campagne online in cui accusano l’Autorità Palestinese di corruzione, collaborazionismo con Israele e di aver imposto sanzioni finanziarie ed economiche alla Striscia di Gaza nel quadro del tentativo di istigare una rivolta contro Hamas. La campagna anti-Hamas, intitolata “Hanno sequestrato Gaza” è partita sulla scorta di un rapporto della ong Euro-Med Human Rights Monitor, con sede a Ginevra, in cui si afferma che “circa un milione e mezzo dei 2,3 milioni di persone che vivono nella striscia di Gaza , è stato ridotto in povertà a causa del blocco israeliano e delle restrizioni imposte dal 2006” (l’anno delle elezioni vinte da Hamas, dopo il ritiro israeliano da Gaza del 2005). Parecchi attivisti palestinesi anti-Hamas respingono l’ennesimo tentativo di scaricare la colpa su Israele e chiamano direttamente in causa Hamas.

La situazione socioeconomica

Anni di stagnazione economica all’interno della Cisgiordania sono stati seguiti, a partire dal 2020, da un forte calo del Pil pro capite. Il quadro peggiora se si guarda alla Striscia di Gaza, dove l’economia continua nel suo declino pluridecennale con tassi di disoccupazione preoccupanti, soprattutto per quanto riguarda le donne. A fine 2021, Tor Wennesland, coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, ha dichiarato che  “è sempre più difficile per l’Autorità Palestinese coprire le sue spese minime, per non parlare degli investimenti essenziali per l’economia e per il popolo palestinese”. La situazione fiscale dell’Autorità Palestinese sta arrivando al punto di rottura, ha spiegato, affermando che secondo le  stime l’Autorità ha raggiunto nel 2021 un deficit di bilancio di 800 milioni di dollari,  quasi raddoppiato rispetto a quello del 2020.

Negli ultimi 15 anni

Dal 2007, dopo il conflitto civile, al Fatah e Hamas amministrano rispettivamente e in modo indipendente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. A Il Cairo, il 12 ottobre 2017 le due più importanti fazioni  palestinesi hanno firmato un accordo di riconciliazione che sembrava più promettente rispetto ai precedenti tentativi conclusisi con un nulla di fatto sul terreno, così come quelli che si sono susseguiti fino ad oggi.

Come nascono le maggiori fazioni palestinesi

Fatah è un’organizzazione nata nel 1959 per volontà di un gruppo di attivisti palestinesi, tra cui Arafat. Ha costituito per anni il caposaldo della causa nazionalista palestinese. Inizialmente il suo scopo era quello di promuovere lo scontro armato contro Israele e la creazione di uno stato palestinese indipendente. Nel 1964 è entrata a far parte dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), fondata in quell’anno a seguito della volontà degli Stati arabi di creare un gruppo riconosciuto a livello internazionale che rappresentasse il popolo palestinese.

Il ruolo di Fatah

Fatah è diventato  il membro principale dell’Olp a partire dal 1967, a seguito della disfatta della Guerra dei Sei Giorni e la conseguente perdita di credibilità dei Paesi arabi coinvolti nell’OLP. La situazione politica ha cominciato a cambiare nel 1988, a seguito delle tensioni causate dallo scoppio della cosiddetta Prima Intifada, ovvero le rivolte palestinesi contro l’occupazione da parte israeliana di Cisgiordania e Striscia di Gaza. Fatah, tramite l’OLP, ha iniziato a negoziare con Israele e i due siglarono infine, nel 1993, gli accordi di Oslo, che costituiscono il primo passo di un processo di pace con obiettivo la risoluzione del conflitto arabo-israeliano. In quel momento le due entità si riconobbero mutualmente e venne creata lAutorità Nazionale Palestinese (ANP), un organismo politico che avrebbe dovuto amministrare in modo provvisorio parte dei territori occupati, in attesa di un accordo di pace definitivo. L’OLP e l’ANP rimangono tutt’ora due entità separate, anche se Fatah resta il principale attore in entrambe. La prima è formata da una serie di organizzazioni e movimenti nati nel corso degli anni ed è stata riconosciuta come membro osservatore all’Onu – dal 2012 con il nome di Palestina; la seconda ha poteri limitati che riguardano sostanzialmente gli affari interni e possiede un organo legislativo, il Parlamento, che viene eletto dai cittadini.

La realtà di Hamas

Sotto le pressioni della Prima Intifada è nata anche Hamas (movimento islamico di resistenza). Originariamente gli obiettivi dichiarati dell’organizzazione erano due: la promozione di diversi programmi di previdenza sociale a favore della popolazione e lo scontro armato contro Israele fino alla sua totale distruzione attraverso la sua ala militare, le Brigate Izz ad-Din al-Qassam. Successivamente, dopo la fine della Seconda Intifada dei primi anni 2000, ha cominciato a prendere parte alla vita politica palestinese. Nel frattempo gli insediamenti israeliani dentro la Striscia di Gaza sono stati smantellati e le forze armate si sono ritirate, lasciando il territorio  sotto il controllo dell’ANP, ad esclusione degli spazi aereo e marittimo. Nel 2006 Hamas ha partecipato alle elezioni legislative dell’ANP, ottendendo il 44 per cento dei voti, mentre Fatah solo il 41 per cento. Le tensioni con Fatah hanno continuato a crescere fino a sfociare in un conflitto civile armato. Il conflitto è terminato nel 2007 con il ritiro di Fatah da Gaza e l’assunzione del controllo  da parte di Hamas della Striscia – nel frattempo isolata politicamente, economicamente e diplomaticamente da una parte della comunità internazionale che non aveva riconosciuto i risultati delle elezioni. Da allora l’ANP controlla i territori in Cisgiordania, mentre Hamas ogni aspetto della vita nella Striscia di Gaza. L’organizzazione ha compiuto diversi attentati suicidi e attacchi missilistici potenzialmente in grado di raggiungere le principali città israeliane. Dal 2007, quindi, Gaza è anche sottoposta a un blocco da parte di Israele ed Egitto. La Striscia è chiusa da mura difensive, in cui sono rimasti aperti solo pochi punti di accesso, e da una buffer zone, ovvero un’area cuscinetto interna inaccessibile ai palestinesi; l’aeroporto internazionale distrutto durante i conflitti non è più stato ricostruito e le acque territoriali accessibili alla pesca sono sempre più ridotte vicino alla costa. Il blocco regola e limita l’arrivo di cibo, acqua, elettricità, gas, materiali per le costruzioni e altri beni. Sul confine egiziano sono stati scoperti  tunnel sotterranei  per far entrare nella Striscia prodotti di contrabbando. Sullo sfondo resta l’irrisolta questione israelo-palestinese. Da mesi si continuano a registrare episodi di forte tensione o di violenza in località della Cisgiordania e anche a Gerusalemme Est.

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Italia: partiti alla prova decisiva del dialogo sul Quirinale

E’ il momento del dialogo vero tra i partiti e all’interno degli schieramenti: al sesto giorno di votazioni e al settimo scrutinio per l’elezione del capo dello Stato non c’è più tempo per giochi di potere e antagonismi, come sottolinea il docente di Filosofia del diritto Mario Sirimarco ricordando che non è il numero dei giorni trascorsi a preoccupare ma la sensazione di impasse

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si svolge oggi, sabato 29 gennaio, il settimo scrutinio in Italia per l’elezione del Capo dello Stato. Inizio fissato alle ore 9,30. Qualora dovesse andare a vuoto anche il settimo scrutinio, è già prevista un’altra votazione nel pomeriggio dalle 16,30. Secondo le dichiarazioni dei leader di partito è scattata una fase di reale dialogo. Dell’impasse che si è avvertita in questi giorni abbiamo parlato con Mario Sirimarco, docente di Filosofia del diritto all’Università di Teramo:

Il professor Sirimarco esprime la delusione di non aver visto subito un’assunzione di responsabilità forte per il dialogo. Parla di partiti che non riescono a trovare al loro interno o all’interno della coalizione dei punti fermi condivisi, di uno scenario che esprime più lotte e antagonismi di potere che un confronto all’altezza di una cultura politica.

Il problema non è il numero di votazioni

Ricorda che anche in passato ci sono stati diversi turni di voto prima della scelta del Capo dello Stato, ma spiega che in questo caso non si è trattato di tempo trascorso a mediare o a elaborare strategie senza capire che non si può rimanere fermi in una situazione di impasse. Inoltre, è un tempo – lamenta – in cui più che a dibattiti si assite a lotte tra partiti e correnti.

Una fase di crisi della rappresentanza

Secondo Sirimarco emerge quello che molti studiosi tematizzano come crisi dei partiti e della rappresentanza. Mancano culture politiche. Dunque, sottolinea l’importanza di un appello alla responsabilità, a riscoprire il senso del bene comune che deve sempre accompagnare, pur in un sano gioco democratico, le battaglie politiche. Mancano punti di riferimento essenziali, ricordando che nascono partiti e schieramenti intorno a personalità piuttosto che intorno a vere progettualità. Finora non si è vista un’effettiva volontà di dialogo, afferma Sirimarco, ricordando che i datiparlano chiaro: nessuno degli schieramenti è autonomo nei numeri. C’è anche un’altra considerazione: al di là di tutto; Sirimarco mette in luce che in ogni caso non può essere facile trovare una figura che regga il confronto con il profilo di Mattarella, che è stato “un grande presidente” secondo il parere di tutti e che ha acquisito grande popolarità. E, secondo il filosofo del diritto, c’è anche la figura di Mario Draghi da non trascurare. L’attuale presidente del Consiglio dei ministri, ha un peso e una credibilità a tanti livelli ed è difficile trovare una personalità da accostargli al Quirinale.

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Voto in Italia, Giovagnoli: in evidenza la debolezza dei partiti

Si moltiplicano incontri e consulti all’interno dei partiti e tra diversi schieramenti e delegazioni dopo il secondo giorno di votazione senza risultati in Parlamento per scegliere il capo dello Stato. Lo storico Agostino Giovagnoli: la forza di ciascun schieramento non sta nel cercare visibilità e posizioni di potere, ma nel fare scelte di convergenza

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Anche al secondo giorno di scrutini per l’elezione del presidente della Repubblica italiana è stata pioggia di schede bianche. Mercoledì 26 è il terzo e ultimo giorno di votazione a maggioranza qualificata, poi da giovedì il regolamento prevede la maggioranza assoluta. Ma c’è chi chiede di valutare l’ipotesi di  una seconda votazione giornaliera.

Non è la prima volta che si devono attendere più votazioni per arrivare all’elezione, ma indubbiamente in questi giorni si sta scrivendo una particolare pagina della storia politica dell’Italia per una elezione presidenziale che ha dirette ricadute sull’equilibrio del governo. Della particolare situazione parla lo storico Agostino Giovagnoli, professore ordinario presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore:

Per usare un’espressione che esprima le difficoltà che si respirano per questo voto lo storico Giovagnoli usa una metafora: la politica è malata, ma la malattia è la debolezza dei partiti. Le vicende di questi giorni rilevano – mette in luce Giovagnoli – questa debolezza, che rappresenta una costante degli ultimi ultimi 30 anni e che oggi si avverte con particolare forza. E’ evidente, perché – spiega –  i partiti non sono in grado di indicare la strada,  che non deve corrispondere alla espressione di “forza” di uno o dell’altro, ma dovrebbe essere espressione del sistema dei partiti nel loro complesso. Il punto – sottolinea – è che il sistema risulta indebolito.I partiti dovrebbero convergere in scelte per il bene del Paese ma, meno sono forti, meno riescono a convergere su una scelta.

I rischi di un Parlamento diviso

Lo storico spiega ancora che è normale che il Parlamento raccolga personalità, idee più diverse. Ma oggi si parla di Parlamento particolarmente diviso in base a un concetto preciso e legato al fatto che i partiti non sono in grado di far convergere rappresentanze parlamentari in alleanze o altre forme di convergenza. E’ normale che ogni parlamentare abbia un suo bagaglio ma i partiti dovrebbero costituire quel fattore di equilibrio che spinge alla ricerca di convergenze. Dunque – commenta Giovagnoli –  torna evidente oggi la questione della loro debolezza, una debolezza che sembra destinata anche in futuro a pesare sul governo. Secondo Giovagnoli i partiti vogliono avere un peso, giocare un ruolo cercando visibilità, e questo significa avere obiettivi limitati e non un grande disegno strategico. La forza reale – secondo lo storico  – non corrisponde alla capacità dei partiti di occupare posizioni di potere, piuttosto a quella di compiere delle scelte.

La particolarità di un affollato gruppo misto

Altro aspetto messo in luce dallo storico in questa fase è che nel Parlamento si è raggiunto un numero senza precedenti di deputati che hanno lasciato la parte politica di appartenenza, al momento in cui sono stati eletti, per ritrovarsi nel cosiddetto gruppo misto. Certamente, se il fenomeno è eccessivo nei numeri siamo di fronte a una “degenerazione del sistema”:si tratta di quasi cento persone su 1009 grandi elettori. La risposta però  – sottolinea Giovagnoli – non può essere quella di mettere in dubbio la legittimità di cambiare, tutelata dalla Costituzione con l’Articolo 67.  Non è un problema di norme da cambiare per impedire il passaggio. Piuttosto – ribadisce – bisogna interrogarsi su quanto accade a monte: un numero così alto indica quanto è cambiata la politica in Italia e quanto rapidamente siano cambiati i partiti. Alcuni – sottolinea – hanno proprio cambiato natura.

La presidenza, un ruolo decisivo

Viene riconosciuto – come ha ricordato il presidente uscente Mattarella – che il  presidente della Repubblica in Italia è arbitro nel gioco costituzionale. Giovagnoli a questo proposito spiega che in uno scenario frammentario è chiaro che diventa ancora più importante il ruolo di arvitro. Se i partiti acquistano forza – ribadisce –  il suo  ruolo è meno impegnativo, al contrario ci può essere una situazione difficile come quella che ha affrontato e gestito Mattarella nel suo mandato. Il presidente – afferma Giovagnoli – non è una figura politica, ma deve avere una grande cultura  politica e una forte sensibilità politica.

 

 

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In Italia schede bianche al primo voto per il Quirinale

Alla prima convocazione per l’elezione presidenziale i partiti scelgono di non esprimere nomi. Sono in ritardo nel doveroso compito delle trattative per concordare su una personalità di alto profilo, commenta lo storico Piero Craveri sottolineando che si tratta di “un voto di importanza capitale”, per le implicazioni sulla stabilità dell’esecutivo e per l’attesa sul piano internazionale

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si è svolta nel pomeriggio la prima votazione per l’elezione del Presidente della Repubblica in Italia: i grandi elettori hanno votato in gruppi di 50, prima i senatori a vita, poi i senatori, i deputati, i delegati regionali. Alle 21:00 l’esito del voto: scontato dopo le annunciate dichiarazioni di voto dei partiti nell’arco della giornata che hanno confermato la scelta di lasciare la scheda bianca per guadagnare tempo alle trattative.

Il prossimo appuntamento

Domani, martedì 25 gennaio, alle 15:00 è fissato il secondo voto. In seguito alla scomparsa avvenuta ieri del deputato Vincenzo Fasano, nella votazione odierna, i grandi elettori sono stati 1008 e non 1009, e di conseguenza il quorum dei due terzi richiesto nei primi tre scrutini per l’elezione del presidente della Repubblica è sceso a 672. Da domani, dovrebbe essere ripristinato il plenum di 1009 grandi elettori con il subentro del successore di Fasano e il quorum dovrebbe tornare ad essere pari a 673 voti.

Potrebbe seguire, il giorno seguente, un terzo voto a maggioranza qualificata. Se si arriverà a giovedì, si passerà ad uno scrutinio a maggioranza semplice. Dal punto di vista costituzionale, nell’improbabile caso in cui non si chiuda prima del 3 febbraio, giorno di scadenza del mandato di Mattarella, si può ipotizzare la prorogatio del mandato del presidente uscente oppure una supplenza della presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, seconda carica dello Stato.

Per riflettere su un voto presidenziale che potrebbe avere effetti sul governo, abbiamo intervistato lo storico Piero Craveri:

Il professor Craveri riconosce che si tratta della prima volta in cui non si parla più di alternanza tra un presidente riconosciuto di formazione cattolica o come laico. Ricorda, però, che non sempre negli anni passati il criterio, non scritto, ma usuale, dell’alternanza è stato precisamente rispettato. In ogni caso, Craveri mette in luce quella che ritiene sia la più importante caratteristica di questa elezione presidenziale italiana: il fatto che non solo potrebbe portare a un nuovo capo del governo, nel caso in cui al Quirinale fosse eletto Mario Draghi, attuale primo ministro, ma che in ogni caso avrebbe delle ripercussioni sul governo stesso. Si tratta, quello attuale, – ricorda – di un esecutivo di unità nazionale in una fase politica particolare e il cambio del capo dello Stato produrrà comunque uno scossone all’equilibrio odirno. Nella situazione attuale – afferma Craveri – serve un nome di alto profilo, sul quale far convergere i partiti, perché non è ipotizzabile un’elezione che sia espressione di una parte di maggioranza, perché l’attuale parlamento non esprime nessuna maggioranza certa. Nelle parole dello storico c’è il rammarico per il tempo perso finora a discutere nomi che non potrebbero raccogliere un ampio consenso, mentre si sarebbe dovuti arrivare – sottolinea – alla giornata di oggi già con ipotesi valide. Sottolinea questo proprio per le implicazioni sull’esecutivo e perché sul piano internazionale si vive una congiuntura sanitaria e sociale che non ammette perdite di tempo. Infine, l’ipotesi di chiedere a Mattarella di rimanere al Quirinale per un altro paio di anni – aggiunge Craveri – apparirebbe come una sconfitta della politica.

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