Ancora fiato sospeso in Libano

Attesa per la sentenza sull’assassinio di Rafīq al-arīrī e preoccupazione per le possibili ripercussioni

di Fausta Speranza

Il Libano rischia un’altra devastante onda d’urto. Preoccupano le possibili reazioni al verdetto – previsto il 18 agosto – sull’omicidio dell’ex primo ministro Rafīq al-Ḥarīrī, avvenuto nel 2005.

Il processo del Tribunale Speciale voluto dall’Onu a L’Aja vede imputati membri del movimento Hezbollah. Il leader Nasrallah ostenta indifferenza e chiede “pazienza” ai suoi, mentre il figlio di al-Ḥarīrī, Saad, fa sapere che attenderà la sentenza nei Paesi Bassi. Dopo le devastanti esplosioni del 4 agosto – oltre 220 morti e 7000 feriti – e la caduta del governo, la settimana seguente, l’equilibrio del Paese del Levante, modello di convivenza ma in preda da mesi a una profondissima crisi economica e sociale, si presenta precario. Antiche tensioni potrebbero riaccendersi andando ad infiammare la disperazione crescente di una popolazione ridotta alla fame.

La sentenza del Tribunale Speciale voluto dalle Nazioni Unite per la prima volta per un atto terroristico – e non per crimini in contesti di guerra – difficilmente si potrà davvero liquidare con l’indifferenza.  Raīq al-Ḥarīrī, che era stato capo del governo dal 1992 al 1998 e dal 2000 al 2004 e che stava per tornare ad assumere l’incarico, è stato ucciso con altre 21 persone in una esplosione sul lungomare di Beirut il 14 febbraio 2005Anche se ha inaugurato la stagione del proliferare del debito pubblico,che ha portato al default finanziario a marzo scorso, viene ricordato dalla maggior parte della popolazione come il leader politico che ha saputo regalare al Paese il periodo recente di maggiore stabilità“Niente a che fare con il figlio”, ci si sente dire in Libano dalla maggior parte della popolazione, che non perdona a Saad lo scandalo delle sue spese pazze: sposato con tre figli, è stato calcolato che abbia fatto regali in poco tempo per 16 milioni di dollari all’amante, la modella sudafricana Candice van der Merwe, che ha raccontato tutto sotto la pressione dei controlli fiscali per il suo nuovo tenore di vita. Sembra fossero soldi del patrimonio di famiglia, ma spenderli così mentre il Paese passava da un ammanco e un disservizio all’altro, nell’impossibilità di far fronte ai debiti internazionali e con continui blackout energetici, è molto difficile da tollerare anche per un popolo abituato a scandali e corruttele. In ogni caso, la sentenza dovrebbe punire chi ha privato il Paese del padre Raīqun sunnita passato alla storia come sostenitore dei cristiani, che in tante interviste che abbiamo realizzato in Libano abbiamo sentito definire “mister Lebanon”,perché considerato il padre del Libano contemporaneo migliore. La sua uccisione è stato un momento storico: ha provocato, tra l’altro, una presa di posizione netta e forte della popolazione contro le truppe siriane che occupavano il Paese da più di 29 anni e che sono state costrette al ritiro. La posizione della Siria, da sempre profondamente coinvolta nella politica libanese, nonché sostenitrice del movimento divenuto poi partito politico Hezbollah, è stata seriamente messa in discussione.

Per noi sarà come se nessuna decisione fosse mai stata annunciata, ha dichiarato in questi giorniil leader di Hezbollah, Sheikh Hassan Nasrallah, chiedendo ai suoi “indifferenza” per il verdetto, ma aggiungendo ancheSe i nostri fratelli vengono condannati ingiustamente, come ci aspettiamo, manterremo la loro innocenzaHa avvertito che alcuni tenteranno di sfruttare il Tribunale speciale per prendere di mira la resistenza e Hezbollah e ha esortato i suoi sostenitori a essere pazienti, ma ha anche ribadito di rifiutare la giurisdizione e l’indipendenza del Tribunale.  

Una sentenza in piena crisi politica

Due governi caduti sotto il tiro della piazza in dieci mesi. In seguito a settimane di accese manifestazioni contro la corruzione e il carovita, a ottobre scorso, ha fatto un passo indietro l’esecutivo del primo ministro Saad al-arīrī, proprio il figlio del politico ucciso. Le proteste sono proseguite perfino in tempo di lockdown e sono esplose, con tutta la rabbia popolare, a inizio mese, quando 2,7 tonnellate di nitrato di ammonio sono deflagrate nella capitale. La conseguenza è stata la caduta dell’altro governo, nato a gennaio e guidato dall’ingegnere e accademico, considerato un tecnico, Hassan Diab. Le cause delle esplosioni restano tutte da accertare.  Di certo c’è solo che la pericolosità di quel composto chimico, utile per l’agricoltura ma anche per produrre esplosivo, era stata segnalata a tutte le autorità competenti, a partire dal ministero della Difesa e da quello dell’Interno. 

Al momento, mentre l’esecutivo Diab resta incaricato solo del disbrigo delle formalità, Nasrallah chiede la formazione di un governo di unità nazionale. Ha liquidato l’idea di un governo neutrale come una perdita di tempo per un Paese dove il potere e l’influenza sono distribuiti secondo le confessioni religiose: in base al dettato costituzionale, la carica di presidente spetta ai cristiani maroniti, quella di primo ministro a un sunnita e quella di presidente del parlamento a uno sciita. In questo equilibrio, Hezbollah vorrebbe riproporre  “un governo di unità nazionale, e se ciò non è possibile, allora un governo che assicuri la più ampia rappresentanza possibile per politici ed espertiE’ la proposta difesaanche da Nabīh Barrī, che dal1980 è capo politico del movimento a predominanza sciita Amal dal 1990 è presidente del ParlamentoBarrī non ha nascosto il fastidio per l’ipotesi di elezioni anticipate fatta dal dimissionario Diab. 

La voce della piazza

Una sorta di rimpasto tra gli stessi leader di sempre, fosse anche con qualche innesto di esperti o tecnicinon è quello che chiede la popolazione, che a gran voce reclama il rinnovo del Parlamento, ipotizzando anche un possibile cambio al vertice perfino per il capo dello Stato. Lo ripete in questi giorni Samy Gemayel, presidente del partito cristiano Kataeb, che dice di ritenere che il governo dimissionario, e tutte le parti che lo sostengono, siano responsabili del disastro e dovrebbero essere tutti assicurati alla giustizia. Gemayel, che l’8 agosto ha rassegnato le dimissioni assieme agli altri deputati del suo partito, spiega che la decisione è stata motivata dalla mancanza di fiducia. Il Libano ha bisogno di un nuovo governo, indipendente e neutrale, di elezioni anticipateche portino a un chiaro cambiamento politico e di una indagine internazionale sull’esplosione secondo il diritto internazionale, ripete Samy Gemayel, che è figlio dell’ex presidente Amine e nipote di Bachir Gemayel, il ministro dell’Industria ucciso in un attentato a Beirut il 14 settembre del 1982.

I rischi di strumentalizzazioni interne e esterne

Ci si chiede come il verdetto potrebbe essere strumentalizzato, da una parte o da un’altra, in funzione dell’attuale cruciale dibattito politico. Vanno considerate le pagine di storia recente, in cui pesano la guerra civile 1975-’90 e la difficile fase di riconciliazione e ricostruzione, i gravi atti terroristici, gli scandali – in particolare quelli bancari – che hanno accompagnato,nell’ultimo anno, la perdita dell’85 per cento  del potere di acquisto della lira libanese, il taglio del 35 per cento dei salari, il crollo dell’occupazione. Fino ad arrivare alle devastanti esplosioni che hanno squarciato il porto di Beirut, lacerato le ultime speranze, moltiplicato gli interrogativi. La popolazione è scesa in piazza questa volta davvero scossa e esasperata. Non sono mancati disordini e irruzioni nelle sedi istituzionali e, dopo il passo indietro del governo, è in attesa degli sviluppi. In questo contesto di dinamiche interne cadrà l’annuncio della sentenza, che doveva essere fatto il 7 agosto ma che, per rispetto delle vittimedella tragedia di tre giorni prima, è stato posticipato al 18. 

C‘è anche il contesto regionale da considerare per questo piccolo Paese crocevia da sempre: basta ricordare che da Tiro e Sidone, città più volte citate nelle Scritture per il passaggio di Gesù, partirono le navi dei fenici che fondarono Cartagine. Oggi lo scenario geopolitico che va dal Medio Oriente al Nord Africa è infiammatoNon lascia certo ben sperare nel confronto tra sunniti e sciiti che si ripropone nella contrapposizione tra i sostenitori della famiglia sunnita al-arīrī e la base del movimento sciita Hezbollah. Una contrapposizione parallela a quella tra lArabia Saudita, che ha ritirato i suoiinvestimenti a Beirut da quando Hezbollah filoiraniano sta al governo, e la leadership sciita dell’Iran, appunto nemico di RiadQuello tra sunniti e sciiti resta uno dei nodi cruciali di tutto il Vicino e Medio Oriente e anche un punto fermo del confronto tra Oriente e Occidente. 

Spazio ai giovani

Resta un’immagine di speranza: le migliaia di studenti accorsi per affiancare la Croce rossa nel prestare aiuto, riparando i vetri o la porta di persone anziane e sole, spazzando i detriti in zone segnate ma non distrutte. Lo hanno fatto cantando per darsi e dare forza e al loro canto idealmente si sono uniti, anche grazie alla tecnologia digitale, i tantissimi ragazzi libanesi che studiano o lavorano all’estero. Ovunque si distinguono per capacità e forza d’animo. Nel loro canto c’è una richiesta fortissima di giustizia, legalità, lavoro, ma soprattutto di pace. Si tratta di una generazione nata tra le macerie della guerra che si spera terrà lontano il Paese da altre macerie. 

La comunità internazionale deve ascoltare i loro appelli, ricordando che oltre ai 250 milioni di euro in aiuti ià stanziati una settimana fanon c’è solo l’ennesimo impegno che chiede l’Onu, e cioè 565 milioni di dollari per assicurare assistenza sanitaria, cibo e acqua a Beirut. C‘è ancora dell’altro: c’è da fare di tutto per sostenere chi voglia tenere a bada istinti di prevaricazione interni e logiche di guerre per procura. 

da meridianoitalia del 7 agosto 2020

 

Libano, il tragico destino di un paese fragile

di Fausta Speranza

Nell’aria irrespirabile, con la voce troppo rassegnata per la sua età, un bambino asseconda lento il soccorritore che gli porge il braccio. Lo guarda e chiede: «Ma siamo morti?». È il racconto di Aarif, l’operatore della Croce Rossa che lo ha trovato tra le macerie dei caseggiati popolari di Beìrut, dopo le violente esplosioni nel porto che, il 4 agosto, hanno lasciato la città devastata, con almeno 160 morti accertati, 5 mila feriti, tanti dispersi, 300 mila sfollati e molti dubbi sulle responsabilità. Il doppio boato e il fuoco nel cielo hanno come fermato il tempo dall’antica terra fenicia alle spiagge di Cipro. Poi la notizia ha scosso il mondo, fino a quel momento indifferente al disastro che si stava consumando in Libano, un Paese piccolo come l’Abruzzo, bello e impossibile, riflesso delle contraddizioni arabe e dei contrasti che investono Oriente e Occidente. Siamo nel quartiere di Karantina, sorto cento anni fa a ridosso del porto di Beirut come prima quarantena sanitaria della regione. Un nome tristemente tornato di moda in epoca Covid. Tra carcasse di navi, scheletri anneriti di capannoni e residenze in frantumi si fatica a riconoscere quella Beirut e quel Libano che, dopo anni di guerra e mille acciacchi, erano tornati a essere una sorta di Svizzera del Medio Oriente. Le deflagrazioni sono avvenute nel deposito di nitrato di ammonio, composto chimico utile in agricoltura e per produrre esplosivo: ne erano stoccate più di 2.700 tonnellate. Resta il dramma dei soccorsi: gli ospedali erano già prossimi al collasso per il coronavirus. Ora a Beirut tre sono rasi al suolo e due parzialmente distrutti.

All’ospedale di Geitawi si è recato subito il Patriarca di Antochia dei maroniti, il cardinale Bechara Boutros Rai.

Ha girato senza sosta tra le macerie, ha visitato la cattedrale di San Giorgio seriamente danneggiata, altri edifici colpiti come la chiesa di San Marone, il Patriarcato armeno cattolico, la sede vescovile greco-ortodossa e quella maronita, chiedendo aiuto al mondo perché il Libano continui ad essere luogo di convivenza, unità e libertà». Sono seguiti giorni di dolorosa rabbia della popolazione, con gravi disordini: un poliziotto morto e nuovi feriti. Di «convivenza ora molto fragile», ha parlato domenica 9 agosto anche papa Francesco, pregando perché «possa rinascere libera e forte». Tanti Paesi hanno promesso interventi: 250 milioni di euro che verranno dati alla Croce Rossa, a Ong e alle istituzioni, a patto della massima trasparenza e delle riforme necessarie. Il punto è che non c’è solo il ground zero di Beirut. La crisi economico-finanziaria e sociale denunciata dal default a marzo scorso è gravissima. I continui blackout dell’elettricità suggeriscono l’immagine di un Paese in cui a intermittenza di settimane arrivano notizie di suicidi tra la popolazione. Le situazioni allo  stremo sono tante e non soltanto tra  i profughi, in maggioranza siriani che da anni sono giunti nel Paese in  proporzioni bibliche: circa 1,7 milioni su 4,5 milioni di abitanti. Con la lira libanese meno dell’85% del valore, gli stipendi dimezzati, padre Michel Abboud, responsabile della Caritas Libano, afferma che metà della popolazione è caduta in miseria: oltre un  quarto di loro sopravvive a stento con meno di 5 dollari al giorno. Le suore del Buon Pastore, che nel dispensario Saint Antoine nel quartiere Roueissat già aiutavano 6.000 persone all’anno, accolgono ora molti bambini traumatizzati e si preparano ad assistere un numero crescente di famiglie. Gli scandali bancari si accompagnano alle proteste di piazza contro il carovita e la corruzione, che
proseguono da ottobre nonostante il cambio di Governo e nonostante il lockdown. La classe politica, che non riesce a negoziare aiuti dal Fondo monetario internazionale perché incapace di impegnarsi nelle riforme richieste, è condizionata da interessi stranieri e invischiata nella rete di clientele creatasi tra le maglie del delicato sistema di convivenza tra le tre principali comunità religiose. Nel paese che riconosce nella Costituzione 18 confessioni religiose, le più importanti cariche istituzionali – presidente della Repubblica, primo ministro, presidente del Parlamento – sono attribuite rispettivamente a un cristiano, un musulmano sunnita, uno sciita, in base alle proporzioni nella popolazione. Ma, in realtà, l’ultimo censimento risale al 1932. Si evitano verifiche dai potenziali effetti dirompenti.

Da tempo il commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet parla di <<situazione che sfugge al controllo>>. Si attribuiscono espressioni simili al presidente Michel Aoun, mentre l’esecutivo, presieduto da Hassan Diab, sull’onda dei moti di piazza ha perso tre ministri in due giorni. Nell’equilibro del Paese che confina con Israele e Siria si sono innescate pure altre dinamiche che hanno determinato il prosciugamento delle casse dello Stato, a partire dal passo indietro negli investimenti dell’rabia Saudita che mal sopporta che il partito sciita Hezbollah, filo iraniano, stia al Governo.

Sullo sfondo restano guerre per corrispondenza tra potenze regionali e quel confronto tra sunniti e sciiti che è il nodo dei nodi di tutta l’area.

Ci sono pagine di storia da completare: si aspetta il verdetto del Tribunale speciale dell’Onu sull’assassinio di Rafiq al-Hariri, il primo ministro ucciso, con altre 21 persone, in un’esplosione sul lungomare di Beirut nel 2005.  Sono state processate in contumacia quattro persone, membri di Hezbollah, che nega le accuse. Per rispetto alle vittime l’annuncio è stato posticipato dal 7 al 18 agosto. La ferita è ancora aperta e anche questa sentenza potrebbe avere la sua onda d’urto. Qualche settimana fa, il Patriarca maronita aveva invitato i politici a «restituire al Libano la sua neutralità», ma non basta più sottrarsi alle contese. Bisogna rimettere in sesto il Paese dei cedri, da 30 anni baluardo di pace e di convivenza nell’area del Medio Oriente, che non è mai stata così militarizzata dalla fine della Seconda guerra mondiale.

da Famiglia Cristiana del 16 agosto 2020

Il Centrafrica a 60 anni dall’indipendenza

Il 13 agosto 1960 la Repubblica Centrafricana arrivava con una dichiarazione ufficiale alla completa indipendenza. Un territorio con grandi potenzialità che resta uno dei più poveri della terra. Da questo Paese dell’Africa equatoriale, nel 2015, Papa Francesco ha voluto dare avvio al Giubileo straordinario della misericordia. Da Bangui con noi il missionario Padre Aurelio Gazzera

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Sessant’anni in cui si sono susseguiti inizialmente colpi di stato e poi una lunga guerra civile. A novembre 2015 la prima porta santa ad essere aperta personalmente da Papa Francesco è stata quella della cattedrale di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, che in quel momento era l’ultima tappa, dopo il Kenya e l’Uganda del primo viaggio del Pontefice nel continente nero. “Vengo come pellegrino di pace e mi presento come apostolo di speranza”, disse il Papa al suo arrivo a Bangui, dove l’allarme attentati era altissimo ma dove Francesco non volle rinunciare alla papamobile scoperta. Cinque anni dopo, alcuni passi avanti verso un vero processo di pacificazione del tessuto sociale sono stati fatti, ma non mancano fattori di destabilizzazione per i forti interessi in campo, come ci ha confermato padre Aurelio Gazzera, che vive tra Bangui e il nord del Paese:

Padre Aurelio ricorda che da tempo il governo non ha il completo controllo del territorio e sacche di illegalità sono registrate nelle campagne e nelle province del nord, dove ancora avvengono, meno che in passato, scontri tra i due maggiori gruppi ribelli e forze governative. Ci sono gruppi di ribelli che negli ultimi tempi accettano di sedersi a un tavolo per negoziare equilibri di potere sul territorio ma è anche vero che alternano momenti di disponibilità con decisioni improvvise di abbandonare il dialogo. Una delle attività in cui si intrecciano lecito e illecito è quella della tassazione della transumanza. La missione Onu Minusca cerca in continuazione di neutralizzare ribelli che spadroneggiano, recuperando armi, munizioni e motociclette. Ma il missionario sottolinea anche che l’instabilità dei Paesi confinanti – Ciad, Sudan, Sudan del Sud e Repubblica Democratica del Congo – influisce negativamente sulla stabilità interna del Paese. Poi ricorda le ingenti risorse naturali di cui è ricco il territorio – citando legno, oro etc – per sottolineare che bisogna considerare, in particolare negli ultimi tempi, l’ingerenza sempre più significativa di potenze straniere che si aggiungono ad altri interessi di multinazionali occidentali. In definitiva, non si vive più la guerriglia e la serie di attentati di qualche anno fa ma non si può neanche dire che nel Paese ci sia una vera pace e tantomeno un processo di ordinato sviluppo. Padre Gazzera racconta che la decisione di Papa Francesco di aprire la prima porta santa del Giubileo a Bangui ha acceso i riflettori internazionali: da allora – afferma – non si sono mai davvero spenti, ma certamente i progressi sono lenti perché purtroppo le risorse non vengono sfruttate per il bene del Paese. Il rischio purtroppo è sempre quello che in una situazione così precaria, di scarso controllo delle forze governative sul territorio e di popolazione affamata, si possano infiltrare forze terroristiche, che non mancano di agire in tutta la regione. A proposito della pandemia, Padre Gazzera conferma che il Covid-19 rappresenta un problema sottolineando che in questo momento la sua missione è proprio quella di portare, e seguire la distribuzione sul campo, le risorse che la Conferenza episcopale italiana (Cei) e la Caritas hanno messo a disposizione per il Paese. Ma il missionario ricorda anche che, purtroppo, dal punto di vista sanitario il Centrafrica soffre di altre emergenze croniche, come quella della malaria, del morbillo, della denutrizione.

Sessant’anni fa l’indipendenza

Il territorio è stato una colonia francese  con il nome di Ubangi-Sciari o Uubangui-Schari. Il referendum costituzionale francese del settembre 1956 porta all’approvazione della nuova costituzione, che sarebbe entrata in vigore nel 1958, per la neo Repubblica Centrafricana all’interno della neo Comunità francese, sorta allo scioglimento dell’Africa Equatoriale Francese. Nel 1958 è attiva l’Assemblea centrafricana che elegge capo del governo Boganda, che però a marzo 1959 muore in un incidente aereo. Suo cugino David Dacko, lo sostituisce e conduce la Repubblica Centrafricana alla completa indipendenza con la dichiarazione del 13 agosto 1960. In questi sessant’anni si sono susseguiti colpi di stato e guerre. Dopo trent’anni di governo prevalentemente militare, nel 1993 si insedia un governo civile durato dieci anni. Ha assunto il nome attuale prorpio al momento dell’indipendenza nel 1960. Dopo trent’anni di governo prevalentemente militare, nel 1993 si insedia un governo civile durato dieci anni. Nel marzo 2003 il presidente Patassé ed il suo governo sono deposti con un colpo di Stato dal generale Francois Bozizé, che  forma un governo di transizione. Nelle contestate elezioni generali del 2005 il generale Bozizé viene eletto presidente. Il governo non ha però il completo controllo del territorio e sacche di illegalità sono registrate nelle campagne e nelle province del nord, dove continuano gli scontri tra i due maggiori gruppi ribelli ed il governo.

La guerra civile

Il 24 marzo 2013 Bozizé è costretto alla fuga dopo la presa della capitale Bangui da parte dei ribelli Seleka. Abbandonata la città, avrebbe raggiunto la Repubblica Democratica del Congo attraversando il fiume Ubangi. In seguito alla caduta di Bozizé e alla sua fuga in Congo e poi in Camerun, i ribelli di Séleka decidono di porre uno dei propri leader come Capo di Stato della Repubblica Centrafricana: Michel Djotodia, uno dei più strenui oppositori dell’ex presidente. Il primo ministro, invece, resta al suo posto anche con la nuova presidenza. Il 10 gennaio 2014 Djotodia si dimette insieme con il suo primo ministro durante un summit straordinario della Ceeac, e viene nominato presidente provvisorio Alexandre-Ferdinand Nguendet. Il 20 gennaio 2014 Catherine Samba-Panza prende il posto di Nguendet, venendo eletta presidente di transizione della Repubblica Centrafricana grazie al voto del parlamento.  Il 23 luglio 2014, i belligeranti firmano un accordo di cessazione delle ostilità a Brazzaville, lasciando tuttavia il Paese diviso in regioni controllate da milizie sulle quali né lo Stato né la missione dell’Onu hanno presa.

Il processo di riconciliazione di Touadéra

In occasione delle presidenziali del 2015-2016, viene eletto ca po dello Stato Faustune-Archange Touadéra, il quale lancia un processo di riconciliazione nazionale per rendere giustizia alle vittime delle guerre civili, per la maggior parte dislocate all’interno e all’esterno del Paese. Incarica per decreto il suo ministro Regina Konzi Mongot di elaborare il Programma nazionale di riconciliazione nazionale e di pace, proposto nel dicembre 2016, adottato all’unanimità dagli organismi internazionali. Da allora, un comitato è al alvoro per giudicare i principali attori e risarcire le vittime. Non si tratta di un processo né breve né facile. Tra gli episodi più gravi, bisogna ricordare, a giugno 2017, gli scontri a Bria, nel centro-est del Paese, con cento morti.

da Vatican NEWS del 13 agosto 2020

 

L’Aise rilancia la recensione di Gianni Lattanzio

LA TRAGEDIA DI BEIRUT DEVE RISVEGLIARE IL MONDO – DI GIANNI LATTANZIO

ZURIGO\ aise\ 
“Le devastanti esplosioni che hanno colpito Beirut il 4 agosto rappresentano una catastrofe per il Libano, ma anche uno schiaffo per la comunità internazionale: non si può continuare a dimenticare il Paese che è stato la Svizzera del Medio Oriente e che nel default finanziario rivela inquietanti mutamenti negli equilibri di potere regionali”. Questa la premessa del pezzo di Gianni Lattanzio pubblicato ieri su “Il Corriere dell’Italianità”, già “Corriere degli italiani”, storica testata di lingua italiana in Svizzera.
“Il Paese è in preda ad una gravissima crisi economica, frutto di politiche miopi e di corruzione al suo interno, ma anche di mutate congiunture internazionali in un contesto mediorientale che non è mai stato così militarizzato dai tempi dei conflitti mondiali. Si tratta di un territorio chiave,specchio delle contraddizioni arabe, riflesso della penetrazione europea nel Vicino Oriente e soprattutto cartina tornasole di contrasti che investono Oriente e Occidente. E tutto questo emerge nel libro Fortezza Libano, scritto dalla giornalista Fausta Speranza, pubblicato per i tipi di Infinito Edizioni.
Su un territorio così geopoliticamente strategico l’Italia è in prima linea. Per la seconda volta è il comando italiano a guidare la missione di pace dell’Onu in questo lembo del Levante. La prima volta, nel 1982, ha coinciso con la prima missione di peacekeeping dell’Italia all’estero, che avveniva in un territorio dilaniato dalla guerra civile. La Brigata Sassari ai primi di agosto ha assunto il comando del contingente italiano e del settore ovest di Unifil, l’interforze delle Nazioni Unite posizionato nel Libano del sud per garantire il rispetto della risoluzione 1701 emanata l’11 agosto 2006 da parte del Consiglio di Sicurezza. Ma c’è anche una sede a Beirut e infatti due militari italiani sono rimasti feriti nelle esplosioni. Di fatto, mille militari italiani saranno dislocati per sei mesi in Medio Oriente e monitoreranno, sotto l’ombrello dell’Onu, lo stop alle ostilità tra Israele e Libano, aiuteranno il governo libanese a garantire la sicurezza dei suoi confini, assisteranno la popolazione civile e sosterranno le forze armate libanesi nelle operazioni di sicurezza e stabilizzazione dell’area. A comandare l’operazione, denominata Leonte, è il generale Andrea Di Stasio, comandante della Brigata Sassari, a capo di 3.800 caschi blu di 16 nazionalità.
La missione dell’Onu non è mai stata interrotta anche se la guerra civile, scoppiata nel 1974, si è conclusa con gli accordi del 1989. Si tratta di un territorio delicatissimo in particolare nella zona meridionale confinante con Israele carica di tensioni. Ma negli ultimi dieci anni il conflitto in Siria ha messo a dura prova anche il nord, confinante con quella zona di territorio siriano dove ha spopolato il sedicente Stato islamico. Anche questa guerra ha contribuito a impoverire il Libano per il quale la Siria era il primo partner commerciale dell’area. In ogni caso, il carovita, che ha alimentato mesi di proteste da ottobre scorso, non basta a giustificare il tracollo finanziario che ha portato, a marzo scorso, il governo a dichiarare il default. Ci sono altre dinamiche, in quest’area del Vicino Oriente, a partire dal passo indietro dell’Arabia Saudita che mal sopporta che il partito sciita Hezbollah, legato all’Iran, stia al governo. Tutto questo e molto altro delle ingerenze straniere viene raccontato nel libro di Speranza, inviata dell’Osservatore Romano con diversi premi internazionali alle spalle per i suoi reportage da diverse parti del mondo.
C’è anche una significativa provocazione di carattere politico: Speranza intravede nel Libano un terreno fertile per quel processo verso l’acquisizione del concetto di cittadinanza nel mondo mediorientale auspicato di recente anche da alcune voci autorevoli dell’Islam. In Occidente è qualcosa di scontato, ma non lo è altrove dove non è codificato, ricorda l’autrice. Si tratta del riconoscimento formale e costituzionale di uguali diritti e doveri per cittadini di uno Stato nazione, al di là della confessione religiosa. Nell’Islam si è imposta per secoli una concezione non territoriale del diritto, piuttosto personale e dipendente dalla fede professata in cui non c’è stato spazio per l’idea di essere cittadini di pari diritti seppure di religioni diverse. Il termine Umma, che da sempre indentifica la comunità, ha un senso transnazionale e universale, infatti, e non territoriale. Il concetto di nazione, che in arabo non esisteva fino all’Ottocento, è stato sempre interpretato in termini etnici o religiosi. Ma di recente – come ben spiega il libro di Speranza – si è aperto il dibattito sulla necessità di acquisire il concetto di cittadinanza nel mondo mediorientale, per vivere insieme, da cittadini uguali, senza subordinazioni o primati, etnici o religiosi. Speranza ricostruisce nel volume le tappe recentissime di questo processo, che portano fino al Documento sulla Fratellanza umana firmato da Papa Francesco e dall’Imam di Al Azhar il 4 febbraio 2019, che parla di valori e di pace, ma – come giustamente mette in luce la giornalista – anche proprio della necessità del concetto di cittadinanza. In sostanza, non più precari e esplosivi equilibri tra maggioranze e minoranze più o meno rispettate o tollerate, ma la svolta di avere cittadini portatori di diritti e di doveri.
E Speranza chiede, dunque, maggiore attenzione da parte della comunità internazionale per il precario equilibrio in Libano, fondato sulla particolarissima governance religiosa tra cristiani e musulmani, nonché tra sunniti e sciiti. Riconosce i limiti di questo sistema definito confessionalismo, ma giustamente chiede che non ci si arrenda al fallimento di un sistema che rappresenta in nuce proprio un primo baluardo del diritto di cittadinanza in terra mediorientale. Il libro di Speranza avverte sull’urgenza di far sì che in Libano si vada avanti rispetto a quel sistema e non indietro, come purtroppo si rischia fortemente nella grave instabilità economico sociale che si vive attualmente.
Il Paese dei cedri viene raccontato anche nel suo spessore culturale, che va dagli influssi di fenici, bizantini, arabi fino alla modernità, con tantissimi riferimenti letterari e con una lettera inedita di Guttuso al suo amico pittore libanese Fedhan Omar. Nel volume c’è anche la ricostruzione della continuità archeologica che dal Libano porta in Siria, una traccia che l’autrice indica come un ideale percorso di pace da riscoprire.
In definitiva, il volume Fortezza Libano che già dal titolo suggerisce la straordinaria resistenza di questo piccolo lembo del Levante a venti di odio identitario in una delle aree più calde del mondo, offre una testimonianza stimolante di come nella cultura e nell’arte ci sia sempre uno spazio di incontro e di dialogo e che non ci si debba arrendere al cosiddetto scontro di civiltà. Ed è proprio anche questo “l’ombrello” sotto il quale è importante pensare che stiano operando i nostri militari accanto alla popolazione civile”. (aise) 

AISE agenzia di stampa estera

 

Sul Corriere dell’Italianità di Zurigo l’urgenza espressa da Fortezza Libano

La tragedia di Beirut deve risvegliare il mondo

Il Paese dei cedri è raccontato nelle sue urgenze e nelle sue potenzialità nel volume Fortezza Libano

di Gianni Lattanzio

Le devastanti esplosioni che hanno colpito Beirut il 4 agosto rappresentano una catastrofe per il Libano, ma anche uno schiaffo per la comunità internazionale: non si può continuare a dimenticare il Paese che è stato la Svizzera del Medio Oriente e che nel default finanziario rivela inquietanti mutamenti negli equilibri di potere regionali.

Il Paese è in preda ad una gravissima crisi economica, frutto di politiche miopi e di corruzione al suo interno, ma anche di mutate congiunture internazionali in un contesto mediorientale che non è mai stato così militarizzato dai tempi dei conflitti mondiali. Si tratta di un territorio chiave,specchio delle contraddizioni arabe, riflesso della penetrazione europea nel Vicino Oriente e soprattutto cartina tornasole di contrasti che investono Oriente e Occidente. E tutto questo emerge nel libro Fortezza Libano, scritto dalla giornalista Fausta Speranza, pubblicato per i tipi di Infinito Edizioni. 

Su un territorio così geopoliticamente strategico l’Italia è in prima linea. Per la seconda volta è il comando italiano a guidare la missione di pace dell’Onu in questo lembo del Levante. La prima volta, nel 1982, ha coinciso con la prima missione di peacekeeping dell’Italia all’estero, che avveniva in un territorio dilaniato dalla guerra civile. La Brigata Sassari ai primi di agosto ha assunto il comando del contingente italiano e del settore ovest di Unifil, l’interforze delle Nazioni Unite posizionato nel Libano del sud per garantire il rispetto della risoluzione 1701 emanata l’11 agosto 2006 da parte del Consiglio di Sicurezza. Ma c’è anche una sede a Beirut e infatti due militari italiani sono rimasti feriti nelle esplosioni. Di fatto, mille militari italiani saranno dislocati per sei mesi in Medio Oriente e monitoreranno, sotto l’ombrello dell’Onu, lo stop alle ostilità tra Israele e Libano, aiuteranno il governo libanese a garantire la sicurezza dei suoi confini, assisteranno la popolazione civile e sosterranno le forze armate libanesi nelle operazioni di sicurezza e stabilizzazione dell’area. A comandare l’operazione, denominata Leonte, è il generale Andrea Di Stasio, comandante della Brigata Sassari, a capo di 3.800 caschi blu di 16 nazionalità. 

La missione dell’Onu non è mai stata interrotta anche se la guerra civile, scoppiata nel 1974, si è conclusa con gli accordi del 1989. Si tratta di un territorio delicatissimo in particolare nella zona meridionale confinante con Israele carica di tensioni. Ma negli ultimi dieci anni il conflitto in Siria ha messo a dura prova anche il nord, confinante con quella zona di territorio siriano dove ha spopolato il sedicente Stato islamico. Anche questa guerra ha contribuito a impoverire il Libano per il quale la Siria era il primo partner commerciale dell’area. In ogni caso, il carovita, che ha alimentato mesi di proteste da ottobre scorso, non basta a giustificare il tracollo finanziario che ha portato, a marzo scorso, il governo a dichiarare il default. Ci sono altre dinamiche, in quest’area del Vicino Oriente, a partire dal passo indietro dell’Arabia Saudita che mal sopporta che il partito sciita Hezbollah, legato all’Iran, stia al governo. Tutto questo e molto altro delle ingerenze straniere viene raccontato nel libro di Speranza, inviata dell’Osservatore Romano con diversi premi internazionali alle spalle per i suoi reportage da diverse parti del mondo. 

C’è anche una significativa provocazione di carattere politico: Speranza intravede nel Libano un terreno fertile per quel processo verso l’acquisizione del concetto di cittadinanza nel mondo mediorientale auspicato di recente anche da alcune voci autorevoli  dell’Islam. In Occidente è qualcosa di scontato, ma non lo è altrove dove non è codificato, ricorda l’autrice. Si tratta del riconoscimento formale e costituzionale di uguali diritti e doveri per cittadini di uno Stato nazione, al di là della confessione religiosa. Nell’Islam si è imposta per secoli una concezione non territoriale del diritto, piuttosto personale e dipendente dalla fede professata in cui non c’è stato spazio per l’idea di essere cittadini di pari diritti seppure di religioni diverse. Il termine Umma, che da sempre indentifica la comunità, ha un senso transnazionale e universale, infatti, e non territoriale. Il concetto di nazione, che in arabo non esisteva fino all’Ottocento, è stato sempre interpretato in termini etnici o religiosi. Ma di recente – come ben spiega il libro di Speranza – si è aperto il dibattito sulla necessità di acquisire il concetto di cittadinanza nel mondo mediorientale, per vivere insieme, da cittadini uguali, senza subordinazioni o primati, etnici o religiosi. Speranza ricostruisce nel volume le tappe recentissime di questo processo, che portano fino al Documento sulla Fratellanza umana firmato da Papa Francesco e dall’Imam di Al Azhar il 4 febbraio 2019, che parla di valori e di pace, ma – come giustamente mette in luce la giornalista – anche proprio della necessità del concetto di cittadinanza. In sostanza, non più precari e esplosivi equilibri tra maggioranze e minoranze più o meno rispettate o tollerate, ma la svolta di avere cittadini portatori di diritti e di doveri. 

E Speranza chiede, dunque, maggiore attenzione da parte della comunità internazionale per il precario equilibrio in Libano, fondato sulla particolarissima governance religiosa tra cristiani e musulmani, nonché tra sunniti e sciiti. Riconosce i limiti di questo sistema definito confessionalismo, ma giustamente chiede che non ci si arrenda al fallimento di un sistema che rappresenta in nuce proprio un primo baluardo del diritto di cittadinanza in terra mediorientale. Il libro di Speranza avverte sull’urgenza di far sì che in Libano si vada avanti rispetto a quel sistema e non indietro, come purtroppo si rischia fortemente nella grave instabilità economico sociale che si vive attualmente. 

Il Paese dei cedri viene raccontato anche nel suo spessore culturale, che va dagli influssi di fenici, bizantini, arabi fino alla modernità, con tantissimi riferimenti letterari e con una lettera inedita di Guttuso al suo amico pittore libanese Fedhan Omar. Nel volume c’è anche la ricostruzione della continuità archeologica che dal Libano porta in Siria, una traccia che l’autrice indica come un ideale percorso di pace da riscoprire. 

In definitiva, il volume Fortezza Libano, che già dal titolo suggerisce la straordinaria resistenza di questo piccolo lembo del Levante a venti di odio identitario in una delle aree più calde del mondo, offre una testimonianza stimolante di come nella cultura e nell’arte ci sia sempre uno spazio di incontro e di dialogo e che non ci si debba arrendere al cosiddetto scontro di civiltà. Ed è proprio anche questo “l’ombrello” sotto il quale è importante pensare che stiano operando i nostri militari accanto alla popolazione civile. 

dal Corriere dell’ Italianità

 

Libano, cade il governo ma non mancano gli aiuti

I morti e la devastazione causati dalla recente esplosione al porto di Beirut, le proteste di piazza, l’instabilità politica e l’enorme debito pubblico attanagliano il Paese dei Cedri. In questa situazione però c’è chi lavora senza sosta per la popolazione, come ad esempio la Fondazione Giovanni Paolo II
11/08/2020

Si festeggia a Beirut e a Tripoli per la caduta del governo di Hassan Diab, ma si tratta della soddisfazione di una popolazione stremata e preoccupata. Fuochi di artificio e spari in aria hanno salutato lunedì sera l’annuncio del passo indietro che il primo ministro ha fatto in Tv dopo le dimissioni di tre ministri nel fine settimana, in seguito alla tragedia del 4 agosto. E’ il secondo esecutivo a cadere in dieci mesi sotto i colpi delle proteste: a ottobre scorso, dopo settimane di massicce manifestazioni, lasciato Saad Hariri. Da allora le sedi istituzionali, in particolare nell’area di Piazza dei Martiri e delle vie super-protette del Parlamento, sono rimaste puntellate da eccezionali transenne, che in tutti questi mesi hanno ben rappresentato la distanza della popolazione dalle autorità. Si potrebbe tentare un altro governo tecnico o di unità nazionale, ma non è quello che chiede la piazza, che vorrebbe anche il rinnovo del Parlamento. Restano i dubbi su quando si potrà sapere qualcosa delle esplosioni al porto. Il numero delle vittime è salito a oltre 220, quello dei feriti a 7000. Ora l’ inchiesta passa dal tavolo del primo ministro all’Alta corte di giustizia. E resta l’incognita di come questa fase di transizione in Libano verrà considerata nel panorama regionale.

Nella prospettiva di elezioni, formalmente è il presidente Michel Aoun che dovrebbe avviare le consultazioni, ma su questo la costituzione non impone al capo dello Stato di avere fretta. Il Libano nel recente passato è rimasto mesi senza un governo. Diab, considerato un tecnico vicino al presidente Michel Aoun e sostenuto da Hezbollah, ha lasciato dopo giorni di disordini antigovernativi e all’ indomani dell’appello della comunità internazionale, che ha condizionato a serie riforme l’arrivo dei 250 milioni di euro stanziati per la ricostruzione e promessi però direttamente alla popolazione attraverso l’ Onu. Il Paese sta facendo i conti con la rabbia popolare per la tragedia nella capitale, ma fa anche i conti con l’angoscia per il default finanziario che ha tagliato dell’85 per cento il valore d’acquisto e ha bloccato qualunque conto in banca, e con la sfiducia palesata da mesi per una classe politica percepita come corrotta e inetta. Un solo esempio dei motivi di indignazione: del debito pubblico, che ammonta a 100 miliardi – cifra enorme per 4 milioni di abitanti – 40 miliardi dovevano essere destinati alle infrastrutture, ma l’ elettricità non è affatto assicurata e si passa da un black out ad un altro.

In prima linea da anni in Libano la Fondazione Giovanni Paolo II

C’è chi senza sosta da tempo lavora a favore della popolazione, senza nessuna discriminazione per credo religioso o politico. Tra le tante associazioni e realtà legate alle 1126 parrocchie del Libano, c’è quella della Fondazione Giovanni Paolo II che opera da 13 anni nel Levante. Dal 2017, ha un ufficio presso il Convento dei frati francescani della Custodia di Terra Santa a Beirut, che si trova ad un chilometro dal luogo delle esplosioni ed è stato, infatti, danneggiato. Il cooperante Stefano Baldini che si trovava all’ interno è rimasto ferito da schegge di vetro.

La Fondazione fa da ponte tra Siria e Libano: fa riferimento al Vicario apostolico dei latini di Aleppo, monsignor George Abou Khazen, e all’ altro francescano Vicario apostolico latino del Libano, Cesar Essayan. Negli anni passati l’ impegno è stato forte in Siria, in preda alla guerra civile, poi il collegamento è stato prezioso per seguire alcuni profughi fuggiti.

Nel paese dei cedri, gli operatori della Giovanni Paolo II hanno offerto aiuto alle scuole cattoliche nell’ accoglienza di  minori siriani non in grado di seguire i corsi in francese nelle scuole libanesi e hanno seguito 700 bambini nei campi profughi nel nord est del Paese. Hanno distribuito 2000 kit scolastici. C’ è poi un altro impegno concreto: la Fondazione, in collaborazione con l’ Aics, l’ agenzia del Ministero degli Esteri italiano, cura da vicino i progetti a favore di 700 produttori agricoli e personale impiegato nelle filiere agricole della ciliegia e dell’ albicocca nella Valle della Bekaa. Anche il lavoro della Fondazione risente dello scossone della tragedia e risentirà delle ripercussioni della difficile fase politica che si apre in piena crisi economica, ma è già partito il coordinamento per far sì che l’ impegno resti come punto fermo.

da Famiglia Cristiana

 

Nuova fase politica in Libano

Passo indietro del governo a Beirut: l’esecutivo di Hassan Diab resta in carica solo per il disbrigo delle formalità. Formalmente spetta al presidente, Michel Aoun, fissare le consultazioni per eventuali elezioni. L’annuncio c’è stato ieri praticamente ad una settimana dalla tragedia delle due esplosioni nel deposito di nitrato di ammonio. Con noi l’editorialista di Avvenire Camille Eid

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il disastro avvenuto il 4 agosto a Beirut “è il risultato di una corruzione cronica” in Libano, che ha impedito una gestione efficace del Paese. E’ quanto ha affermato il primo ministro Hassan Diab annunciando lunedì le dimissioni in un discorso televisivo. “La rete della corruttela è più grande di quella dello Stato”, ha aggiunto Diab, facendo così eco alla voce della piazza che da mesi  e con ancora maggior forza dopo le esplosioni al porto –  costate la vita a 220 persone e il ferimento di 7000 – chiede un cambio ai vertici delle istituzioni. Delle prospettive che si aprono abbiamo parlato con l’editorialista di Avvenire Camille Eid di origine libanese:

Ascolta l’intervista con Camille Eid:

La popolazione esasperata

Camille Eid ipotizza che ci siano tentativi di formare un governo tecnico o un esecutivo di unità nazionale, ribadendo che però quello che chiede la popolazione è un rinnovo anche del parlamento. Eid sottolinea inoltre l’esasperazione popolare ricordando vari scandali che hanno preceduto la tragedia del 4 agosto al porto, con la prima e la seconda esplosione di un carico di nitrato di ammonio che doveva essere considerato altamente a rischio. Domenica scorsa all’Angelus, il Papa ha lanciato il suo appello perchè nel Paese possa rinascere una convivenza “forte e libera” e il giorno stesso, sul fronte internazionale, la Conferenza dei donatori ha deciso lo stanziamento di 250 milioni di euro, che però si è voluto affidare alla gestione di associazioni o ong che fanno capo all’Onu perché  arrivino direttamente alla popolazione, che  ha perso da tempo ogni fiducia nella classe politica.  Il giornalista spiega alcuni episodi chiave che tornano nelle denunce della popolazione. Quasi un anno fa ci sono stati alcuni incendi e si è scoperto che gli elicotteri che si diceva fossero stati acquistati per le emergenze, non erano in realtà funzionanti. E’ solo un esempio, afferma, di vari scandali denunciati a gran voce dalla popolazione durate le proteste antigovernative che da mesi vanno avanti nel Paese. C’è anche l’indignazione espressa per 40 miliardi che sono stati messi in conto per le spese delle infrastrutture, mentre i cittadini continuano a soffrire continui black out per mancanza di elettricità.

La crisi economica

L’editorialista inoltre si sofferma su alcuni particolari della crisi economica che ha portato il Paese a dichiarare a marzo scorso il default finanziario non potendo pagare il debito di 100 miliardi di dollari, che è davvero ingente per un piccolo territorio con 4 milioni di abitanti. Ricorda come tutti i correntisti abbiano perso i risparmi di una vita per la perdita dell’80 per cento di valore della moneta locale e precisa che al momento neanche i libanesi all’estero possono mandare soldi ai familiari e alle persone care perché è bloccato per tutti l’accesso ai conti. Consegnarli di persona recandosi in Libano è molto complicato per via della pandemia. Resta alta dunque la preoccupazione per una fase che si prospetta non scontata e non facile.

da Vatican NEWS dell’11 agosto 2020

Beirut, il governo si è dimesso

L’intero governo del premier Hassan Diab rassegna le dimissioni. L’annuncio ufficiale in tv: le esplosioni al porto di Beirut, sono “il risultato di una corruzione endemica”. Intanto, la Conferenza dei donatori ha stanziato 250 milioni di euro in aiuti, da far arrivare attraverso l’Onu direttamente alla popolazione, e ha chiesto riforme che rispondano ai bisogni della popolazione. Nella capitale, ferita dalla catastrofe di martedì scorso, in tanti si offrono volontari per prestare soccorso. Con noi don Elia Mouannes di una parrocchia vicino al quartiere più colpito

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Repubblica di Cipro mette a disposizione gli aeroporti, i porti e le basi militari in chiave logistica a supporto degli aiuti umanitari e delle attività di protezione civile e ricostruzione nella città di Beirut. Lo ha annunciato il presidente cipriota Nicos Anastasiades a margine del summit in videoconferenza promosso domenica da Francia e Onu, che ha riunito tutti i Paesi che si sono offerti di aiutare il Libano con risorse finanziarie e personale specializzato. E’ emersa la disponibilità di 250 milioni di euro, con l’impegno a consegnarli direttamente a quanti operano sul campo. Del possibile impegno della comunità internazionale e della mobilitazione della gente locale, abbiamo parlato con don Elia Mouannes, parroco di una delle 1126 parrocchie di Beirut:

Don Elia ci racconta che subito nella sua parrocchia si è formato un gruppo che ha prestato soccorso nelle case della zona a ridosso di Karantine, il quartiere raso al suolo. Nelle aree circostanti gli edifici non sono crollati ma dentro le case hanno subito molti danni e il primo impegno, dice don Elia, è rimettere a posto come si può porte e finestre e assicurare da mangiare. Non manca in realtà l’aiuto neanche di volontari che vengono perfino da fuori Beirut. Don Elia descrive una popolazione angosciata, preoccupata sfiduciata, ma anche testimone di grande umanità e di fede. Dopo la grande prova della crisi economica, ora il terrore delle esplosioni e della tensione sociale. Per i cristiani, sottolinea don Elia, è proprio il momento di testimoniare quello in cui credono: parole e gesti di pace alla sequela di Cristo. Don Elia spiega che è normale essere inquieti per le ingiustizie ma l’espressione di questa inquietudine non può essere violenta, non può andare contro il messaggio di Cristo. Don Elia ci racconta come le parole del Papa, all’Angelus domenica, abbiano portato incoraggiamento e poi sottolinea che sempre ai suoi fedeli ricorda quello che Papa Francesco ha detto subito dopo la sua elezione al soglio pontificio e che ripete spesso: bisogna lavorare per costruire ponti e non muri. Poi, un appello alla comunità internazionale perché oltre ad impegnarsi, come è importante, per la ricostruzione materiale, si impegni anche a tenere vivo il messaggio di pacificazione, a evitare strumentalizzazioni, ingerenze, il prevalere di messaggi di odio. E una testimonianza personale: don Elia ci racconta che a 49 anni purtroppo deve affermare che gran parte della sua vita è trascorsa in un territorio in guerra. Ma anche da questa esperienza  è nata forse la sua vocazione sacerdotale, a servizio di Dio e della Chiesa, perché – spiega – Dio ha portato la vera pace nella sua vita.

Tensione e dimissioni

Ad una settimana dalla duplice esplosione che ha colpito il porto della capitale, l’intero  governo si è dimesso. Dopo la dichiarazione ai giornalisti del ministrio della Salute, il discorso del primo ministro Diab alla televisione. “L’esplosione del materiale immagazzinato nel porto della capitale negli ultimi sette anni – ha detto – è stato il risultato di una corruzione endemica. Oggi seguiamo la volontà del popolo nella sua richiesta di consegnare i responsabili del disastro che si nascondono da sette anni, e il suo desiderio di un vero cambiamento”. “Di fronte a questa realtà – ha concluso Diab – annuncio le dimissioni di questo governo”. E’ il secondo governo a cadere in seguito alle proteste contro la classe politica: a ottobre scorso si era dimesso Saad Hariri. L’inchiesta ora passa dalle stanze del governo all’Alta Corte mentre, purtroppo, il bilancio delle vittime si aggrava: 220 i morti e 7000 i feriti.

L’aiuto internazionale e l’invito a riforme

Il mondo deve agire in fretta, con efficacia e totale trasparenza per aiutare il Libano a rialzarsi dalla crisi in cui è piombato dopo la devastante esplosione a Beirut del 4 agosto. E’ questo il messaggio emerso dalla conferenza dei donatori fortemente voluta dal presidente francese Emmanuel Macron, il leader occidentale più attivo sin da subito sul fronte dell’assistenza, e sostenuta dall’Onu che ha riunito via internet i rappresentanti di circa 30 Paesi e istituzioni. I leader, tra i quali il presidente statunitense Donald Trump e il quello del Consiglio europeo Charles Michel, hanno risposto alla chiamata del Papa che anche all’Angelus ieri ha chiesto generosità, e hanno convenuto sul fatto che gli aiuti devono essere consegnati il prima possibile “direttamente” alla popolazione libanese. Questo era uno dei nodi alla vigilia della videoconferenza. Gli aiuti saranno gestiti dall’Onu attraverso le sua agenzie in totale “trasparenza” e consegnati “direttamente” alla popolazione. Inoltre, è stata ribadita la richiesta di un’inchiesta indipendente sul disastro avvenuto al porto di Beirut. Lo hanno ripetuto Macron e Michel, che nei giorni scorsi ne avevano parlato con le autorità libanesi, e lo ha chiesto anche Trump esortando “il governo a condurre un’indagine completa e trasparente, per la quale gli Stati Uniti sono pronti a portare il loro aiuto”. Al governo libanese i leader, Macron e Trump in testa, hanno anche rivolto un appello ad ascoltare i bisogni di chi manifesta legittimamente. “Bisogna fare il possibile affinché non prevalgano il caos e la violenza”, ha detto il presidente francese. Il Fondo monetario internazionale, che ha partecipato alla videoconferenza con il direttore Kristalina Georgieva, si è detto disponibile a “raddoppiare gli sforzi” a patto che il Libano si impegni ad attuare quelle riforme che vengono chieste da ben prima l’esplosione.

Il rischio impennata del Covid-19

Finora, secondo il conteggio della John Hopkins University, in Libano sono stati registrati 6223 casi e 78 morti per il Covid-19. Ieri, un medico che guida la lotta contro il Covid-19 nel Paese, l il dottor Firass Abiad, direttore del Rafik Hariri Hospital di Beirut, ha affermato che in seguito alla devastante esplosione nel porto di Beirut e alle manifestazioni di protesta, in Libano si verificherà probabilmente una nuova impennata di casi di coronavirus. “Purtroppo, questa atmosfera favorisce la trasmissione del virus”, ha affermato.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-08/beirut-libano-chiesa-aiuti-onu-pace.html