Nuove restrizioni senza lockdown contro il Covid-19

Continuano ad aumentare i casi di contagio e il numero di vittime negli Stati Uniti, mentre l’Oms esprime preoccupazione per il crescente numero di ospedalizzazioni in Europa. Rinnovate restrizioni si registrano in vari Paesi ma nessuno ipotizza un lockdown generalizzato. In Italia firmato il nuovo Decreto del presidente del Consiglio dei ministri. Con noi l’esperto di politiche della sicurezza Marco Lombardi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Negli Stati Uniti si registrano oltre 7.800.000 casi confermati di coronavirus e oltre 214.000 decessi. E’ quanto rileva il conteggio della Johns Hopkins University, che registra quasi 42.000 nuovi casi in 24 ore. New York non è più lo Stato con il maggior numero di contagi, ma rimane il più colpito in termini di morti con 33.301 vittime: nella sola New York city ne sono morte quasi 24.000. Seguono Texas (16.983 morti), California (16.585), New Jersey (16.175) e Florida (15.412). Altri Stati si attestano intorno ai 10.000 casi.  Guardando all’Europa, l’Organizzazione mondiale della sanità si dice preoccupata per l’aumento delle ospedalizzazioni in Francia e in Regno Unito. L’Ue vara criteri condivisi per definire le aree a rischio: saranno classificate secondo colori in base alla gravità dell’epidemia. A Parigi si studia un coprifuoco serale sul modello di Berlino e Francoforte, mentre il premier britannico Johnson si appresta a introdurre un lockdown differenziato per aree. La Repubblica Ceca chiude bar e ristoranti, stretta in Croazia. Intanto, la sperimentazione del vaccino anti-Covid al quale lavora la Johnson&Johnson è stata sospesa dopo che uno dei partecipanti allo studio si è ammalato, senza che gli esperti siano finora riusciti a trovare le cause.

In Italia nuovo Decreto

In Italia è stato firmato nella notte il nuovo Decreto del presidente del Consiglio dei ministri, in accordo con le regioni. In sostanza, tra le novità, ci sono innanzitutto quelle sul piano sanitario: la quarantena passa da 14 a 10 giorni, con un solo tampone di controllo in uscita, e si dà la possibilità di fare i tamponi anche ai medici di base e ai pediatri, anche nell’ottica di una riduzione delle file ai drive in. Per quanto riguarda i comportamenti da tenere, c’è il bando a feste private al chiuso o all’aperto con più di sei familiari o amici non conviventi. Ristoranti e bar potranno chiudere alle 24, ma dalle 21 sarà vietato consumare in piedi. Vietate le gite scolastiche e gli sport amatoriali di contatto come il calcetto. Mascherine obbligatorie ovunque non si sia soli, con le eccezioni già in vigore, e consigliate anche in casa se si ricevono persone non conviventi. Ai matrimoni e alle cerimonie funebri possono partecipare al massimo 30 persone. Secondo i dati a disposizione delle autorità, il 75 per cento dei contagi attualmente avviene in ambito familiare o strettamente personale. Previsto anche il potenziamento del ricorso allo smart working per i dipendenti pubblici con l’introduzione di una soglia del 70 per cento negli uffici. Il decreto firmato questa notte sarà in vigore per i prossimi trenta giorni e sostituisce il Decreto in scadenza il 15 ottobre.

Per una riflessione sulle misure allo studio o al varo nelle varie aree del mondo e sull’evolversi della percezione nei confronti di tutto ciò che riguarda il coronavirus, abbiamo intervistato l’esperto di politiche della sicurezza Marco Lombardi, direttore del centro di ricerca ITSTIME e professore ordinario di Sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore:

Il professor Lombardi, considerando gli Stati Uniti, ricorda come l’approccio iniziale sia stato di “una certa presa di distanza” dal problema, così come è avvenuto in tutti i Paesi angloamericani. E poi sottolinea che il fatto che lo stesso presidente Trump sia stato contagiato ha messo in luce quanto il Covid-19 sia entrato a far parte delle tematiche della campagna elettorale. Al suo rientro al lavoro dopo il ricovero,  Trump ha sottolineato di essere più sicuro che mai, di voler proseguire sulla linea di ridottissime misure restrittive e ha parlato proprio di scelte da considerare nell’esprimere il voto per le presidenziali del 3 novembre. Lombardi commenta poi l’impegno a livello di istituzioni europee di sottoscrivere criteri condivisi per definire le aree a rischio affermando che si tratta di una mossa fondamentale. Aggiunge che si dovrebbe lavorare anche per misure da condividere in tema di restrizioni, dunque per le varie forme di lockdown o di chiusure parziali. Per quanto riguarda la percezione del rischio e il ruolo dei mass media, il professor Lombardi sottolinea sostanzialmente la necessità di informare senza allarmismi, ma contribuendo ad assicurare la giusta consapevolezza in tema di pandemia e cioè che con il coronavirus dovremo convivere ancora e che in ogni caso ci saranno in futuro altre pandemie. Bisogna contribuire tutti, a livello di istituzioni o di cittadini, ad assicurare responsabilmente una situazione di contenimento. La parola chiave è consapevolezza, di fronte alla realtà che con il virus bisognerà ancora convivere ma anche con la speranza che si potrà guarire.

da Vatican NEWS del 16 ottobre 2020

 

 

Il Nobel dell’economia a due studiosi di aste

Agli statunitensi Paul R. Milgrom e Robert B. Wilson va il massimo riconoscimento in tema di economia nel 2020. Al centro dei loro studi c’è la teoria delle “aste” e ad essere premiato è il loro impegno a migliorare meccanismi di assegnazione che vanno dal settore delle telecomunicazioni a quello delle esplorazioni petrolifere. L’economista Luigino Bruni: “Si tratta di meccanismi che interessano da vicino grandi compagnie, ma un settore lontano dalla vita delle persone”

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Gli studiosi statunitensi Paul R. Milgrom, 72 anni, e Robert B. Wilson, 83 anni, entrambi docenti all’Università di Stanford vincono l’edizione 2020 del cosiddetto Nobel per l’economia. Nella motivazione si legge che si sono distinti “per i miglioramenti della teoria delle aste e l’invenzione di nuovi format per aste”. Il loro lavoro innovativo è stato utilizzato, in particolare, nell’assegnazione delle frequenze di tlc e hanno risolto diversi problemi, per esempio nell’assegnazione dei campi di esplorazione petroliferi. Per capire significati e implicazioni degli studi premiati quest’anno abbiamo intervistato l’economista Luigino Bruni:

Il professor Bruni spiega che si tratta di studi che migliorano i meccanismi di assegnazione in aste complesse, che hanno a che fare ad esempio con compagnie che gesticono grandi risorse. E’ questione di gestione dei dati in relazione a esigenze precise di equilibri tra prezzi e intuizioni del mercato,sottolinea Bruni, ricordando l’importanza che sta ssumendo la cosiddetta “teoria dei giochi” dove gli esperti, come in una sorta di partita a scacchi, si muovono intuendo le mosse che farà la controparte. Si tratta di meccanismi che interessano da vicino grandi compagnie e tutti colori che partecipano alle aste, ma Bruni sottolinea come si tratti di un ambito economico lontano dalla vita delle persone.

Un ambito ristretto rispetto alla maggior parte della popolazione

Non si tratta solo di gap tra economia teorica e economia reale, ma anche di problematiche che non incidono e che non interessano la maggior parte delle persone che in particolare di questi tempi vorrebbero ragionare di conti che non tornano e di lavoro. Bruni ricorda che in tutte le cose si dovrebbe considerare quello che i greci antichi chiamavano Kairos (καιρός), traducibile con tempo cairologico, in sostanza “momento giusto o opportuno”. Bruni ricorda anche che l’anno scorso il premio è andato a tre studiosi che si erano distinti per gli studi in tema di lotta alla povertà globale. Premiare i metodi teorici non significa promuovere soluzioni concrete, afferma ma comporta un dibattito significativo. Lo conferma Bruni ricordando che dopo il premio 2019 ad esempio in vari convegni si è avuta più che nel passato l’attenzione di invitare alcuni economisti che di povertà parlano spesso. Un segno che il Premio può creare consenso intorno a certi temi. Non è quello che accade quest’anno – afferma Bruni – perché l’ambito premiato è troppo ristretto appunto per interessare ampi spazi della popolazione. A proposito poi del fatto che tornano ad essere premiati due statunitensi, Bruni spiega che il Nord America resta un territorio ricco di risorse economiche e speculative, ma che forse qualcosa sta cambiando perché altri sistemi di altri Paesi hanno accresciuto in questi anni il livello di competenza.

Un Premio che si affianca ai Nobel

L’importante riconoscimento precisamente non è un Nobel come gli altri, ma un premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel. Viene assegnato dal 1969. Non era previsto dal testamento di Alfred Nobel, ma viene gestito dalla Fondazione Nobel e consegnato assieme agli altri premi. La cerimonia di consegna del premio viene svolta in dicembre.

I vincitori dell’edizione 2019

L’anno scorso il riconoscimento è andato congiuntamente agli economisti Abhijit BanerjeeEsther Duflo Michael Kremer per l’approccio sperimentale nella lotta alla povertà globale. Banerjee e Duflo, marito e moglie, insegnano al Massachusetts Institute of Technology mentre Kramer è docente ad Harvard. Duflo è la seconda donna a vincere il riconoscimento in questa categoria.
Nell’annunciare i vincitori dell’edizione 2019, il Comitato per i Nobel aveva sottolineato come i risultati delle ricerche dei tre vincitori “hanno migliorato enormemente la nostra capacità di lottare in concreto contro la povertà”, “hanno introdotto un nuovo approccio per ottenere risposte affidabili sui modi migliori per combattere la povertà globale”. Tra le proposte, “suddividere questo problema in questioni più piccole e più gestibili, come ad esempio gli interventi più efficaci per migliorare la salute dei bambini”.

Tra le curiosità, nel 1975 il Premio a un sovietico e uno statunitense

Leonid Kantorovič e Tjalling Charles Koopmans sono stati i vincitori insieme nel 1975 «per i contributi alla teoria dell’allocazione ottimale delle risorse». Kantorovič è stato l’unico sovietico a ricevere il riconoscimento. Lo ha avuto insieme con lo studioso olandese Koopmans, che dopo essersi trasferito a lavorare negli Stati Uniti ne aveva ottenuto la cittadinanza.

da Vatican NEWS del 12 ottobre 2020

 

Competenza e gentilezza: l’eredità di Massimo Campanini

di Fausta Speranza

“Non c’è grandezza dove non c’è semplicità, bontà e verità”. Così diceva Lev Tolstoj e queste parole dello scrittore russo possono contribuire a ricordare Massimo Campanini, lo studioso  di fama mondiale scomparso il 9 ottobre.

E’ stato tra i più autorevoli esperti di Islam e del Vicino Oriente, ma chi lo ha conosciuto da vicino ricorda un uomo colto che non ostentava la sua impareggiabile competenza su questioni così complesse, un insegnante generoso che non disdegnava chi si accostava al suo sapere, un intellettuale appassionato ma non ripiegato sulle proprie convinzioni.  

       La ricerca accademica è stata arricchita da oltre 50 libri e centinaia di pubblicazioni di Massimo Campanini, che era nato a Milano il 3 novembre 1954, si era laureato in Filosofia nel 1977 con una tesi su Giordano Bruno, e si era poi diplomato in lingua araba  nel 1984.

Tra i più apprezzati storici del Vicino Oriente arabo contemporaneo, nonché storico della filosofia islamica, è stato professore in varie prestigiose Università: a Milano, a Urbino, a Trento, all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, a Pavia. Membro dell’Accademia Ambrosiana “Classis Orientalis Araba”, nel 2016-2017 ha fatto parte del Consiglio per l’Islam italiano istituito presso il Ministero dell’interno.

Ha sviscerato aspetti storici o contemporanei dell’universo islamico affrontando, tra l’altro, la questione del rapporto tra politica e islam. Tra le sue principali opere ricordiamo: “Il pensiero islamico contemporaneo”; “Storia del Medio Oriente”; “Ideologia e politica nell’Islam”; “I sunniti”; “Storia dell’Egitto dalla conquista araba ad oggi”; “Quale Islam? Jihadismo, radicalismo, riformismo”; “L’Islam, religione dell’Occidente”. Nel 2019 ha pubblicato “I giorni di Dio. Il viaggio e il tempo tra Occidente e Islam” e “Pensare nell’Islam”. In questo 2020 in cui ci ha lasciato, ha firmato “Maometto, l’Inviato di Dio”  e una nuova edizione di “Il Corano e la sua interpretazione”.

Ha pubblicato per i tipi di diverse case editrici e da qualche anno dirigeva presso l’editore Jaca Book di Milano la collana di pubblicazioni specialistiche ‘Nell’Islam’. Si tratta della prima collana  a comparire nel panorama editoriale italiano su questi temi, con testi di filosofia, religione, storia, musica, letteratura, arte e attualità, tradotti, commentati e curati da studiosi e giovani ricercatori di differenti ambiti e Paesi.

La firma di Massimo Campanini compare in uno dei contributi che arricchiscono l’edizione commentata della nuova enciclica di Papa Francesco Fratres omnes, per i tipi di Scholé, che si trova in libreria dal 12 ottobre. Un testo che ha l’introduzione del teologo Bruno Forte e che propone le riflessioni di studiosi esperti delle tre diverse religioni abramitiche. Con loro, su queste pagine, Campanini parla di Fratellanza umana, un valore che gli stava profondamente a cuore.

       In tutti i suoi impegni, Massimo Campanini ha profuso la conoscenza e la passione che lo hanno contraddistinto come studioso e ha espresso il garbo e la gentilezza d’animo per il quale rimane nella memoria e nel cuore di chi lo ha conosciuto. Per sua volontà, i funerali si sono svolti in forma privata, ma l’omaggio è corale e va da Oriente a Occidente.

da meridianoitalia.tv del 12 ottobre 2020

 

Una scelta politica lungimirante che ha segnato l’Europa

di FAUSTA SPERANZA
Ancora alla metà degli anni Ottanta, sembrava un sogno cancellare la spartizione del territorio tedesco decisa in tempi di guerra fredda dalle potenze alleate nella seconda guerra mondiale. Eppure il 3 ottobre del 1990, la Germania tornava unita dopo i drammatici anni del Muro di Berlino. Sono state diverse le tappe e diverse le strategie per rendere possibile la riunificazione. Si sono distinti protagonisti del mondo della politica e dell’economia tedeschi ed europei, ma anche intellettuali. Non mancavano ferite profonde per la drammatica pagina di storia da cui si usciva, seri interrogativi e timori concreti, voci allarmistiche su flussi migratori insostenibili, ma su tutto ha prevalso una visione del futuro dettata da uno slancio ideale.

I problemi non sono mancati e non tutte le scelte sono state le migliori, ma, 30 anni dopo, resta l’esempio di quella prospettiva di ferma volontà e di lungimiranza, diversa dall’attitudine a ragionare in funzione di “ora e subito”, spendibile in termini di consenso immediato, che oggi riconosciamo come “pre-sentismo”. All’inizio degli anni Novanta, i Länder che uscivano dalla dissolta Repubblica Democratica Tedesca (Ddr) erano arretrati di decenni rispetto a quelli che li accoglievano nella Repubblica Federale Tedesca(Rft). Non c’era paragone per standard di vita, infrastrutture, capacità  produttive, libertà di ricerca, innovazione, imprese capaci di stare sui mercati. Alla promessa dell’allora cancelliere Helmut Kohl di elevare gli standard di vita al livello di quelli dell’Occidente non si può dire che non seguirono i fatti. Non è mancato il business: nel giugno 1990, è stata fondata la Treuhandstalt, alla quale è stato dato il compito di ristrutturare 8.500 imprese di Stato della Ddr, con oltre quattro milioni di dipendenti. Sono state privatizzate le caserme, le proprietà dei partiti, le case popolari, 2,4 milioni di ettari di terreni agricoli e foreste. In parallelo, è partito un grande piano di infrastrutture che ha portato nei Länder orientali strade, ferrovie, ponti, parchi, e che ha permesso di rinnovare il 65 per cento del patrimonio abitativo e di eliminare il 95 per cento delle emissioni di anidride solforosa, delle quali la Ddr era il primo emettitore europeo. Ma non è stata solo una questione di affari.

Con atto di generosità tutta politica, Kohl decide, contro il parere di quasi tutti gli economisti, di trasformare i marchi dell’Est in marchi dell’Ovest alla parità, quando i primi avevano un valore inferiore. E’ possibile con l’entrata in vigore, il 1 luglio 1990, del Trattato sull’unione monetaria, economica e sociale (Währungs-, Wirtschafts- und Sozialunion) tra i due Stati. E nel 1991 viene introdotta la Solidaritätszuschlag, una tassa del 5,5 per cento sul reddito di tutti i cittadini tedeschi per finanziare la ricostruzione dell’Est. Di recente è stata ridotta, ma nel trentennio ha finanziato uno spostamento di risorse da Ovest a Est per migliaia e migliaia di miliardi.
Nessun leader europeo ha messo in discussione le scelte di Kohl, piuttosto si è colta l’occasione per dare impulso al progetto di moneta unica europea, passo decisivo, anche se non l’unico ovviamente da fare, verso una maggiore integrazione. Le cancellerie europee in realtà erano anche timorose della forza che sarebbe andata acquisendo la Germania unita e, in sostanza, avevano dato il via libera alla riunificazione proprio in cambio della rinuncia, da parte della Germania, alla sovranità monetaria.

Era stato previsto anche il fattore migrazione e infatti un milione e novecentomila persone sono passate in poco tempo da Est a Ovest, tantissimi piccoli centri e le campagne si sono spopolati, soprattutto le ragazze se ne sono andate. Alcune zone sono indubbiamente rimaste ai margini. Ma ci sono state anche alcune città, come Lipsia e Dresda in Sassonia, che hanno riscoperto e messo in campo forte spirito imprenditoriale: sono nate imprese ad alta tecnologia.
La storia di questi trent’anni è anche una storia di diseguaglianze e di crescenti insofferenze sociali. realtà è la stessa storia che si è vissuto e si vive in altri territori europei. Il divario tra Länder occidentali e Länder orientali oggi è minore di quello che si registra in Italia tra regioni come Lombardia e la Calabria.
In Germania, però, si è creata una forte tensione politica: nelle elezioni del 2019, rispetto a quelle del 2014, l’estrema destra ha raddoppiato i consensi in Brandeburgo raggiungendo il 23.7 per cento dei voti, e li ha quasi triplicati in Sassonia ottenendo il 27.8 per cento. Dunque, nell’Est la media è del 25 per cento di elettori dell’estrema destra. È’ evidente la sfida a livello sociale che di questi tempi Berlino e in realtà l’intera Unione europea devono affrontare insieme con le incognite della crisi sanitaria ed economica. Al di là delle possibili soluzioni concrete, aiuterebbe una visione non “presen-tista”, cioè non schiacciata sul presente, ma di grado di ricordare il passato e di pensare il futuro.
Oggi il pensiero va al giorno della Deutsche Wiedervereinigung, la riconquista dell’unità nazionale tedesca, in relazione al più antico processo di Deutsche Einigung, l’unificazione che portò alla costituzione dello Stato tedesco nel 1871.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale in Europa, la Germania era stata divisa in quattro zone di occupazione. La vecchia capitale Berlino, in quanto sede del Consiglio di controllo alleato, era stata suddivisa in quattro zone di occupazione. Benché l’intento delle quattro potenze occupanti fosse di governare insieme una Germania con i confini del 1947, l’avvento delle tensioni della guerra fredda fece sì che le zone francese, britannica e statunitense formassero nel 1949 la Repubblica Federale Tedesca (e Berlino Ovest), escludendo la zona di occupazione russa, che divenne nello stesso anno la Repubblica Democratica Tedesca (comprendente Berlino Est). Oltre a ciò, diverse parti dell’ex Reich tedesco vennero annesse alla Polonia e all’Unione Sovietica.
Si è arrivati alla Wiedervereinigung grazie ai negoziati tra i due Stati culminati in un Trattato di Unificazione, mentre i negoziati tra le due “Germanie” e le quattro potenze occupanti — Francia, Regno Unito, Stati Uniti d’America e Unione Sovietica — avevano prodotto il cosiddetto Trattato due + quattro, che garantiva la piena indipendenza a uno Stato tedesco riunificato.
Legalmente non si trattò di una riunificazione tra i due Stati tedeschi, ma dell’annessione da parte della Germania Ovest dei cinque Länder della Germania Est e di Berlino Est: una scelta che ha velocizzato il processo evitando la creazione di una nuova costituzione e la sottoscrizione di nuovi trattati internazionali. Le prime elezioni libere nella Germania Est, si sono tenute il 18 marzo 1990.
A livello simbolico, la tappa fondamentale è stata e rimane la caduta del Muro di Berlino, avvenuta il 9 novembre 1989. Le emozioni tornano a quel tardo pomeriggio quando la barriera di mattoni, filo spinato e nidi di mitragliatrice, che dal 13 agosto 1961 aveva spezzato la città, si sgretolava. Nessuno pensava alla produttività, alla disoccupazione, alla crescita dell’economia. Il pensiero dei berlinesi e di tutto il mondo era per la vittoria della democrazia.

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2020-10/una-scelta-politica-lungimirante-che-ha-segnato-l-europa.html

a Pag. 2 del Numero cartaceo del 4 Ottobre 2020

https://media.vaticannews.va/media/osservatoreromano/pdf/quo/2020/10/QUO_2020_227_0410.pdf

Il rischio “transitocrazia” nei Balcani

Sicurezza e democrazia per sconfiggere traffici di esseri umani, corruzione, riciclaggio. E’ la scommessa dei Paesi della penisola balcanica che da tempo si muovono verso l’integrazione europea. Intanto, si moltiplicano gli investimenti da parte di altri attori internazionali che non parlano di diritti umani. E’ quanto emerso al convegno di studi su “La prospettiva balcanica” organizzato a Roma dal Nato Defence College. Con noi diversi esperti dell’area e dell’Osce

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Da un regime repressivo a un regime depressivo: è il passaggio che rischiano di vivere i Paesi dei Balcani nella percezione della popolazione. Lo spiega Remzo Lani, Direttore esecutivo dell’Istituto per i Media di Tirana. Ricorda che negli ultimi anni l’opinione pubblica in Albania e in altri Paesi limitrofi non ha avuto dubbi nell’identificare il passato e il futuro:

Alle spalle il comunismo da superare, all’orizzonte l’integrazione nell’Ue. Ma il processo – che Lani riconosce non poteva che essere lungo – rischia di essere una  lenta fase in cui “le trasformazioni sono tantissime per la generazione adulta, ma non abbastanza per i giovani”, che infatti continuano a emigrare in modo massiccio.

Il processo di allargamento è sottoposto a “stop and go” ciclici. La crisi economica del 2008 e poi quella del 2012 non hanno certamente aiutato e ora la pandemia complica ulteriormente le cose, come sottolinea Maciej Popowski, della Direzione per l’allargamento della Commissione europea:

Il rischio – denuncia Lani – è quello che prevalga la sfiducia in quella che i media definiscono “la transitocrazia”:

Andrea Orizio, capo missione dell’Osce in Serbia, sottolinea l’importanza di un impegno concreto di assistenza:

L’avvicinamento all’Europa

Montenegro, Serbia, Macedonia del Nord, Albania sono impegnati nei negoziati per l’adesione al’Ue. La Bosnia ed Erzegovina  ha presentato la sua richiesta di adesione all’Unione Europea il 15 febbraio 2016, dopo essere stata ufficialmente riconosciuta dalla Commissione europea come stato “potenzialmente candidato”. Il Kosovo  è riconosciuto solo da 22 dei 27 membri dell’Unione come stato indipendente, tuttavia, è ufficialmente considerato un “potenziale candidato” all’adesione. Intanto, negli ultimi anni il 70 per cento del volume commerciale dei Paesi balcanici si è svolto con l’Ue, che ha investito nella regione oltre 10 miliardi di euro e ha agito come principale partner e garante esterno di sviluppo.

Gli standard da ottemperare in tema di diritti

Da costruire, per la piena appartenenza dei Balcani Occidentali all’universo Ue, è l’adesione ai valori comuni liberaldemocratici enumerati nell’articolo 2 del Trattato dell’Unione Europea (rispetto per la dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, rispetto della legge e per i diritti umani). I valori comuni rappresentano un “core business” dell’allargamento e la loro assimilazione, così come quella dei cosiddetti criteri di Copenaghen, è necessaria ai Balcani per uscire dal limbo storico-politico. Lo ricorda Orizio, sottolineando l’importanza di cooperare su tutti questi piani e in particolare su quello della lotta ai trafficanti di esseri umani:

Nell’area l’adesione a questi valori è recente: ha iniziato a svilupparsi negli ultimi 30 anni, dopo la fine del comunismo.

Alta attenzione durante le crisi

Storicamente l’attenzione dell’Europa e dell’Alleanza atlantica verso i Balcani è stata alta soprattutto durante le ricorrenti crisi nell’area. I conflitti o l’emergenza della cosiddetta rotta balcanica nel 2015, quando i Paesi dell’area erano diventati corridoio di passaggio dei rifugiati dall’Asia. Senza uno sbocco esterno questi Paesi non possono affrontare tali fenomeni senza rischiare la loro tenuta sociale. Ogni  crisi migratoria rafforza nell’area il razzismo e le forze estreme, che covano sotto la cenere. E a risvegliarle purtroppo – assicura Lani – ci pensa l’inquietante macchina di produzione di fake news molto attiva nell’area: da fuori dell’Europa arriva un certo tipo di disinformazione, che fomenta l’odio nei confronti di modelli democratici dipinti come fallimentari e colonialisti e – sottolinea Lani –  arriva  spazzatura informativa anche da quelli che definisce “gruppi radicali in Occidente”, che rifiutano qualunque dialogo con altre facce del mondo. Si tratta di un’area che l’Occidente definisce euroatlantica e che viene “rivendicata” come affine per motivi storici dalla Russia e per motivi culturali e religiosi dalla Turchia, come  Ahmet Evin, preside fondatore della facoltà di Arte e Scienze sociali all’Università Sabanci di Instanbul:

Inoltre, l’area dei Balcani rappresenta una linea di passaggio ideale della cosiddetta nuova via della seta cinese.

Commerci e investimenti

Valbona Zeneli, del George C. Marshall European Center for Security Studies, sottolinea come la pandemia da coronavirus sia stata una sorta di “autostrada” per arrivi da Paesi extraeuropei: la crisi sanitaria con la sua urgenza ha scardinato alcuni parametri. Ma ha anche ricordato che la presenza di investimenti cinesi non è fenomeno recente: negli ultimi dieci anni si è andata affermando e, a differenza di Bruxelles, Pechino non discute di processi democratici o di questioni ambientali. In Serbia  alcune fabbriche risollevate dai suoi investimenti espongono anche la bandiera cinese. Così anche in Bosnia, dove Pechino sta finanziando l’espansione delle centrali a carbone, in particolare la centrale di Tuzla, per la quale la Commissione europea ha più volte richiesto valutazioni sull’impatto ambientale e trasparenza nelle procedure di appalto pubblico. Zeneli non ha dubbi: la stabilità, in primis quella economica, è questione di sicurezza. Ricorda il potenziale negativo della “combinazione di povertà, carenza del diritto, corruzione”:

Zeneli sottolinea che l’area dei Paesi dei Balcani è terra appetibile per investimenti, sottolineando però che, vista dal punto di vista dei Paesi dell’area, la loro posizione sul piano dei commerci globali è debole arrivando solo allo 0,23 per cento:

Cresce l’export cinese e il peso nel campo delle infrastrutture. Alcuni elementi da citare: l’autostrada in Montenegro per collegare il porto di Bar a Belgrado: un sogno antico, un progetto nato già quando la piccola Nazione era Yugoslavia, ma costoso per via del passaggio attraverso le montagne. Sono intervenuti finanziamenti cinesi. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), il governo montenegrino si è indebitato con Pechino per circa 1,3 miliardi di euro, cifra che ha fatto aumentare il debito del Paese dal 63 per cento del pil a quasi l’80 per cento in sette anni. Secondo il Fmi, se l’autostrada non fosse stata costruita, il suo rapporto debito/pil sarebbe sceso al 59 per cento entro il 2019, anziché aumentare creando una situazione di disavanzo superiore agli standard dell’Ue, proprio mentre il Montenegro è in fila per diventare un Paese membro.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-09/balcani-unione-europea-traffici-esseri-umani-diritti.html

Nella rubrica #40Secondid’Autore

Tempo di un #caffè? Addolciamolo con #40secondidautore, la mia #rubrica in #collaborazione con @infinitoedizioni. Oggi torniamo ad incontrare @speranzafausta.
🔸D: Fausta è?
🔸R: “Una donna piena di debolezze che a volte scopre una forza straordinaria”.
🔸D: Perché #fortezzalibano?
🔸R: “Perché mi sono innamorata di un Paese che resiste all’odio identitario e alla banalità”.
🔸D: Se io volessi leggerti?
🔸R: “Ti tufferesti nell’angolo di mondo che conserva Bylos la più antica città abitata in continuità della storia e che resta teatro delle più cruciali dinamiche geopolitiche attuali”.
🔸D: #leggopensosono quando…
🔸R: “Mi incuriosisco per un orizzonte nuovo di comprensione del reale e quando mi stacco da terra sul tappeto volante della letteratura”.
A presto con “40″ D’AUTORE”
@leggopensosono

 

 

 

A Beirut fumata nera sul governo

di Fausta Speranza

Non si vede l’orizzonte in Libano. La matassa politica è troppo aggrovigliata e il primo ministro designato, Mustapha Adib, rinuncia a formare il tanto atteso nuovo esecutivo che doveva traghettare il Paese fuori dall’emergenza dopo le esplosioni al porto di Beirut  e fuori dalla soffocante crisi economica e finanziaria. Adib, un diplomatico poco conosciuto in patria fino al mandato conferitogli il 31 agosto, ammette la sconfitta chiedendo “scusa al popolo libanese”. Il punto è che, mentre la popolazione è allo stremo, la classe politica rischia di navigare a vista ancora per mesi prima che si sblocchi l’impasse che tiene in ostaggio il più piccolo Paese dell’Asia nella più strategica posizione del Vicino Oriente.

E’ evidente come stia vacillando l’accordo di condivisione del potere che finora, con il termine “confessionalismo”, ha assicurato  un fragile equilibrio tra tutte le parti che fanno capo alle tre principali confessioni religiose, delle 18 riconosciute dalla Costituzione. E’ altrettanto evidente la difficoltà della sfida: tutti i principali partiti politici, legati alle comunità cristiana, sunnita e sciita,  devono concordare decisioni importanti, compresa la composizione di qualsiasi futuro gabinetto anche prima che sia sottoposto all’approvazione parlamentare. Ma in questo momento sono fuori di dubbio anche la fragilità dell’equilibrio e soprattutto l’esasperazione della popolazione.

Gli sforzi di Adib per elaborare una nuova proposta sembra siano stati bloccati nei fatti dai due principali partiti che rappresentano la grande comunita’ sciita del Paese: Amal e Hezbollah. Le due formazioni non hanno voluto rinunciare, come richiesto da Adib, al controllo del ministero delle Finanze.
Non sono bastate le pressioni internazionali – a partire dal presidente francese Macron e dal presidente del Consiglio dei ministri italiano Conte – perché si formasse un nuovo esecutivo il prima possibile, con l’obiettivo di attuare le urgenti riforme. Il fine non è da poco: sbloccare miliardi di dollari in aiuti esteri. In un discorso televisivo, Adib ha espresso il suo rammarico parlando della sua “incapacita’ di realizzare le sue aspirazioni per una squadra riformista”. La questione rischia di porsi al di là delle capacità o incapacità. Se tutte le parti concordano sulla necessità di riformare, non c’è più accordo quando si discute anche solo degli equilibri della squadra “riformatrice”.

Le scuse possono far onore ad Adib, ma tutte le parole perdono di senso a sette settimane  dalla drammatica esplosione al porto, che ha causato 200 morti e 6000 feriti, e a sette mesi  dalla dichiarazione di default da parte del governo, costata alla popolazione il blocco dei conti bancari, la svalutazione dell’85 per cento della moneta, l’inflazione giunta ormai al 700 per cento. Il rappresentante dell’Ordine di Malta nel Paese dei cedri, Marwan Senhaoui, è chiaro: manca tutto – ci ha detto in un incontro nei giorni scorsi – dal cibo alle medicine, dall’elettricità alla benzina: “Metà della popolazione è ormai al di sotto della soglia di povertà o appena al limite”.  Nel frattempo, ufficialmente nell’area del porto l’esercito ha rinvenuto oltre una tonnellata di articoli pirotecnici. I media parlano di diversi depositi di armi.

Il tempo che passa stride con l’urgenza  e stride con gli appelli  decisi e accorati del Patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Béchara Boutros Raï: “Salvare la città di Beirut al di là della politica e dei conflitti”; “il Libano non è in grado di far fronte a questa catastrofe umana”. E stride con l’eco dell’iniziativa di Papa Francesco: la giornata di preghiera e di digiuno con la visita del segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, venerdì 4 settembre, a un mese esatto dalla deflagrazione che ha ricordato al mondo quale polveriera rappresenti il Libano. Anche se non è solo questo: Francesco ha ricordato che, come diceva Giovanni Paolo II, il Libano sa essere “più di un Paese,  un messaggio di dialogo e di fraternità”.

Il momento è delicatissimo e la gravità  emerge nel commento dell’inviato delle Nazioni Unite, Jan Kubis, che, all’annuncio del passo indietro di Adib, ha esclamato:  “Un tale grado di irresponsabilita’, quando e’ in gioco il destino del Libano e del suo popolo!”. In realtà in ballo c’è un territorio chiave, punto nevralgico di un contesto mediorientale che non si è mai presentato così militarizzato dagli anni dei conflitti mondiali, teatro di confronti per corrispondenza di altre potenze regionali e di contrasti dall’onda lunga tra Oriente e Occidente.

26-09-2020
Autore: Fausta Speranza
Giornalista e Scrittrice

https://www.meridianoitalia.tv/index.php/italia-e-il-mondo/geopolitica/238-a-beirut-fumata-nera-sul-governo

Lavoro e salario minimo: un’altra sfida europea

“Per troppe persone il lavoro non paga”: a riconoscerlo è stata la presidente della Commissione europea nel suo discorso sullo stato dell’Unione, a metà settembre. Ursula von der Leyen ha lanciato la sfida di uno standard comune per i salari minimi. Con noi l’economista Carlo Altomonte

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il salario minimo, nel diritto del lavoro, è la più bassa remunerazione o paga oraria, giornaliera o mensile che in taluni stati i datori di lavoro devono per legge corrispondere ai propri lavoratori dipendenti ovvero impiegati e operai. Non esiste una legislazione uniforme in materia di salario minimo all’interno dell’Ue. In varie costituzioni, fra le quali in quella italiana, è sancito il diritto ad un’equa retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto. La maggior parte degli Stati adotta un salario minimo, mentre gli altri non hanno un salario minimo imposto per legge, ma delegano alla contrattazione fra le parti sociali tale decisione.

Le parole di Ursula von der Leyen

“Tutti nell’Unione devono avere i salari minimi. Funzionano ed è giunto il momento che il lavoro ripaghi”. E’ quanto ha detto la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione, al Parlamento europeo riunito a Bruxelles il 16 settembre scorso. Un concetto ribadito con forza: “La verità è che per troppe persone il lavoro non paga, il dumping salariale distrugge la dignità del lavoro e penalizza gli imprenditori, distorce la concorrenza del mercato interno, e bisogna porre fine a questa situazione”. La Commissione avanzerà una proposta su una normativa per sostenere gli Stati membri e istituire un quadro sui salari minimi. Tutti devono avere accesso ai salari minimi o attraverso contrattazioni collettive e con salari mini statutari”. Per capire i significati, le difficoltà e le potenzialità di questa sfida, abbiamo intervistato Carlo Altomonte, docente di politiche economiche all’Università Bocconi:

Il professor Altomonte spiega che la sfida lanciata dalla presidente della Commissione europea in tema di salario minimo è in sostanza figlia dei tempi duri della crisi sanitaria e economica e soprattutto di una nuova mentalità della Commissione stessa, che si è presentata da subito come fortemente operativa. Si inserisce in una serie di misure che l’economista ricorda a partire dal provvedimento Sure legato al Recovery Fund con la quale la  Commissione si è fatta carico di disoccupati e persone colpite dalla cassa integrazione nei singoli Paesi europei, a partire dall’Italia. E mette in relazione il discorso sul salario minimo ricordando che la perdita di posti di lavoro diventa un motivo di minor preoccupazione per il singolo lavoratore, quando insieme al salario minimo si istituisce un sussidio di disoccupazione che funziona come ammortizzatore sociale. Altomonte si sofferma anche sulle difficoltà concrete di attuare un vero e proprio salario minimo europeo. Ricorda che alcuni Paesi hanno il loro standard legato a varie politiche che andrebbero dunque ammortizzate e  cita poi anche la questione del costo della vita, diverso da Paese a Paese. Ma Altomonte parla di una sfida significativa che va nella direzione di una Commissione europea che vuole difendere gli stadanrd di wellfare  dell’Unione europea in un mondo di globalizzazione dove si vanno affermando altri standard ben diversi, come quello cinese ma anche lo stesso statunitense che non assicura le stesse tutele.

Pro e contro secondo le ipotesi accademiche

Anche se le leggi sul salario minimo sono in vigore in molte nazioni, esistono differenti opinioni su vantaggi e svantaggi sulla sua eventuale introduzione. I sostenitori affermano che esso aumenta il tenore di vita dei lavoratori, riduce la povertà, ridurrebbe le disuguaglianze sociali, aumenterebbe il benessere lavorativo e costringerebbe le aziende ad essere più efficienti. Viceversa, gli oppositori lamentano il fatto che esso aumenti la povertà e la disoccupazione (in particolare tra i lavoratori non qualificati o senza esperienza) e che sia dannoso per le imprese. Un primo argomento sostiene che in un libero mercato qualsiasi limitazione introdotta da soggetti esterni (una legge dello Stato) da lato della domanda e/o dell’offerta sia ai prezzi che alle quantità (quote) di vendita e produzione, porta a un’area di mancato incontro tra domanda e offerta, quindi un equilibrio peggiore del mercato libero. L’introduzione di un salario minimo limita il funzionamento del mercato del lavoro, creando un divario tra lavoratori disponibili e richiesti, vale a dire disoccupazione. Argomento in senso opposto è la constatazione pratica che nessun mercato del lavoro libero e totalmente deregolamentato ha mai raggiunto l’obiettivo teorico della piena occupazione.

 Le situazioni nazionali attuali

Sono 23 su 27 i Paesi dell’Unione Europea che lo hanno adottato, di importo molto variabile anche in relazione al costo della vita locale. Il Belgio si differenzia dagli altri per il suo sistema “sistema duale”, in cui la contrattazione di settore si aggiunge alla determinazione statale del salario minimo. L’ultimo Paese europeo ad aver introdotto il salario minimo è stata la Germania (dal 1º gennaio 2015). In Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia non esiste, invece, previsione legislativa per un salario minimo: la determinazione dei minimi retributivi viene affidata alla competenza negoziale di settore.

La Direttiva Bolkestein

La Direttiva 96/71/CE sulla liberalizzazione dei mercati europei è stata emendata nel 2006, sottraendo al principio dell’Home Country Control diversi aspetti, fra i quali il salario minimo. Il lavoratore straniero ha diritto al salario minimo previsto dalle leggi del Paese nel quale lavora, in modo indipendente dal proprio Paese di origine e da quello dove ha sede legale il datore di lavoro. La Direttiva, nota con il nome del relatore Bolkestein, regolamenta le tutele dei lavoratori distaccati per una prestazione di servizi transnazionali. A questi si applica il trattamento retributivo, ricavabile da leggi e contratti collettivi di lavoro, più favorevole (art. 3.7) fra quello dello Stato di origine, dove ha sede legale il datore di lavoro, e lo Stato membro in cui ha luogo la prestazione lavorativa. Dello Stato in cui ha luogo la prestazione, tuttavia, si possono applicare solamente i contratti collettivi aventi efficacia erga omnes, sia nell’intero territorio nazionale dello Stato membro ospitante che all’intero settore cui la prestazione è riferibile (in particolare sia pubblico che privato). La contrattazione decentrata territoriale o aziendale viene esclusa perché per un prestatore di servizi transnazionale avrebbe reso troppo onerosa e complessa la determinazione del salario minimo dei lavoratori, ovvero reso legittime clausole sociali locali e anticoncorrenziali che, per operare nel territorio, avrebbero obbligato i soggetti stranieri a concedere condizioni di lavoro più favorevoli di quelle cui sono tenute le imprese nazionali.

Le prime esperienze a inizio secolo scorso

Introdotte per la prima volta in Nuova Zelanda (1894), Australia (1896) e Regno Unito (1909), le leggi sul salario minimo sono state poi introdotte, in molti altri Paesi del mondo, oltre che d’Europa, tra cui negli Stati Uniti nel 1938.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-09/unione-europea-lavoro-salario-minimo-commissione.html

Cronaca di disumanità in attesa del piano Ue sui migranti

Tre bengalesi irregolari scaraventati dal furgone dei passeur: è accaduto nel Nord Italia e ricorda che la questione migrazioni va perfino oltre le drammatiche emergenze del Mediterraneo. La prossima settimana è atteso l’annunciato piano della Commissione europea che deve riscrivere le politiche comuni superando il trattato di Dublino. Si parla di frontiere forti e di corridoi umanitari: ne discutiamo con il giurista esperto di Ue Giampaolo Rossi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A rischio della vita, tre persone migranti sono state spinte fuori da un furgone in corsa questa mattina a Villa Vicentina, in borgo Sandrigo,  in Friuli-Venezia Giulia. Poco dopo altre nove persone sono state rintracciate sui binari proprio nella città della Bassa friulana. Una persona rischia di perdere un occhio, un’altra ha subito lo schiacciamento di un piede, il terzo di una gamba. Solo ieri, una settantina di migranti irregolari sono stati rintracciati sul Carso triestino, dopo essere entrati clandestinamente in territorio italiano attraverso la cosiddetta rotta balcanica.

Servono nuove politiche

Dunque, mentre si parla delle indagini della Guardia costiera italiana in corso sulla Sea-Watch 4, la nave della ong Sea-Watch nel Mediterraneo si evidenzia l’urgenza di nuove politiche in tema di migrazioni. Nel suo discorso mercoledì sullo stato dell’Unione, Ursula Von der Leyen, presidente della commissione europea ha ribadito che il trattato di Dublino viene abolito in attesa di nuove regolamentazioni. C’è attesa per il piano che la Commissione stessa ha annunciato che presenterà la prossima settimana. Delle priorità e dei possibili margini di azione abbiamo parlato con il giurista Giampaolo Rossi, esperto di diritto dell’Ue

La concreta assistenza ai Paesi di origine

Il professor Rossi ricorda che le politiche migratorie non rientrano strettamente nelle competenze degli organismi Ue, ma sottolinea subito che la sfida è proprio quella di far intervenire la visione comune, portata avanti negli ultimissimi tempi dalle istituzioni comuni, per far fare un salto di qualità alle politiche su questo tema. Secondo Rossi, ci sono delle priorità che ormai sono evidenti a tutti e che Ursula Von der Leyen ha espresso in modo appropriato e chiaro. Si tratta – sottolinea – di assicurare concreta e concertata assistenza ai Paesi di origine perché davvero si vada incontro ai bisogni della gente dell’Africa o del Medio Oriente che affronta anche il rischio della morte pur di cercare di salvarsi dalla fame. Rossi sottolinea che l’eccessiva diseguaglianza non è sostenibile. E a questo proposito ricorda che, al di là di proclami sull’aiutare i migranti nel loro Paese, nei fatti, i fondi per la cooperazione allo sviluppo negli ultimi anni sono diminuiti piuttosto che aumentare.

Non frontiere ma gestione dei flussi

Nello stesso tempo, afferma che è opportuna la rassicurazione della presidente della Commissione europea di “frontiere forti”. Il punto non è avere frontiere porose, che invece vanno evitate per evitare tragedie e sfruttamento e anche per la sicurezza dei territori. Piuttosto, l’obiettivo è gestire i flussi, con corriodi umanitari e iniziative legali. Se si riesce a creare benessere nei Paesi di origine – ribadisce  Rossi – il flusso diminuisce e si potranno ampliare ed assicurare canali legali. In Italia, grazie all’iniziativa delle chiese evangeliche, della Comunità di Sant’Egidio, della Conferenza Episcopale Italiana, già da anni sono stati organizzati viaggi in aereo di gruppi di migranti, gestendo poi la loro accoglienza in diversi comuni del territorio italiano. Si è trattato soprattutto di siriani in fuga dalla guerra. Qualcosa di simile è stato messo in moto anche in altri Paesi europei.

Fare un salto di qualità è possibile 

Giampaolo Rossi spiega che il momento per l’Ue è davero decisivo perché su questo e su altri temi può fare quel salto di qualità in termini di solidarietà che abbiamo visto effettivamente in atto in tema di crisi sanitaria e economica in una dimensione senza precedenti. La pandemia, infatti,  ha colpito indistintamente tutti i Paesi e con il Recovery Fund abbiamo visto in atto una logica nuova da parte delle istituzioni europee: quella di un aiuto diretto ai cittadini. In precedenza, l’aiuto e il sostegno a cittadini e imprese era sempre demandato ai governi nazionali. Rossi invita a rifilettere sul fatto che tutto ciò, insieme con i riferimenti della Von der Leyen a politiche comuni sull’ambiente e sul digitale, può spingere politici e popoli ad accettare che, proprio in virtù di una concreta vera solidarietà, si possa cedere  qualcosa di più dei poteri nazionali al piano sovranazionale.

Siamo in un momento decisivo

Rossi sottolinea  anche l’urgenza di farlo pensando a questioni come quella della digitalizzazione dove al momento si muovono colossi statunitensi o cinesi. E’ impensabile che l’Ue deroghi a uno di questi un tale ambito che ha molto a che fare con i dati più  sensibili e con la sicurezza, ma è impensabile anche che  ogni Paese membro Ue gestica la cosa da solo. Su più fronti, dunque, deve rafforzarsi l’impegno per politiche comuni che possono essere accettate dai cittadini proprio se si conferma la logica nuova della solidarietà e del bene comune e non degli interessi di alcuni all’interno di una nazione. Per tutti questi motivi, Rossi parla di “momento decisivo per l’Ue”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-09/unione-europea-migranti-politiche-furgone-bengalesi.html

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