Medio Oriente: vecchie questioni e nuove tensioni

Domenica di preoccupazione a Gerusalemme per i disordini tra alcuni israeliani e palestinesi nella Città Vecchia, in particolare sulla Spianata delle Moschee o Monte del Tempio, in occasione della Marcia delle bandiere che Israele celebra dal 1967. Mentre si valutano le ripercussioni della guerra in Ucraina, torna ad essere auspicabile una forma di garanzia internazionale per la gestione di luoghi considerati santi, afferma l’esperto di relazioni internazionali Massimo De Leonardis

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Molto allarme e alcuni incidenti ieri a Gerusalemme, in particolare sulla Spianata delle Moschee che gli israeliani chiamano Monte del Tempio. L’occasione è stata la “Marcia delle bandiere” che Israele celebra per ricordare la riunificazione della città sotto sovranità israeliana avvenuta con la Guerra dei Sei Giorni del 1967. La manifestazione è passata per il quartiere arabo della Città Vecchia per arrivare poi al Muro del Pianto. Già prima dell’avvio c’erano stati incidenti con i palestinesi nei pressi della Porta di Damasco.

Nella Città Vecchia

Secondo la stampa israeliana, circa 25.000 persone hanno preso parte all’evento a Gerusalemme, nella Città Vecchia, con gruppi  che hanno intonato slogan offensivi. Il ministro degli Esteri Yair Lapid ha condannato questa violenza da parte di militanti dell’estrema destra israeliana. Secondo la Croce Rossa palestinese, circa 40 palestinesi sono rimasti feriti nei disordini che hanno avuto luogo nella Città Vecchia.

In Cisgiordania

Dopo nuovi scontri tra le forze di polizia e palestinesi sulla Spianata delle Moschee si sono registrati disordini anche in Cisgiordania, nell’area di Nablus, dove alcuni palestinesi hanno bruciato pneumatici e bandiere israeliane, le forze dell’ordine israeliane hanno sparato gas lacrimogeni. Nelle stesse ore la presidenza palestinese ha ribadito che “Gerusalemme est, con i suoi luoghi santi islamici e cristiani, resterà l’eterna capitale dello Stato di Palestina”. “Non è possibile ottenere sicurezza e stabilità nella regione – ha affermato il portavoce del presidente Mahmūd Abbās noto come Abu Mazen, – fintanto che Israele continua ad ingaggiare una guerra contro il nostro popolo, contro la sua terra ed i suoi luoghi santi, comportandosi come uno Stato al di sopra delle leggi”.

Dalla Giordania

Proteste per gli episodi di violenza verificatisi ieri nella Spianata delle Moschee sono giunte dal ministero degli Esteri giordano. “Le incursioni degli estremisti ed il loro comportamento provocatorio, condotte sotto la copertura della polizia israeliana – ha affermato il ministero – rappresentano una violazione dello status legale storico e del diritto internazionale”. Israele, ribadisce il ministero degli Esteri giordano, deve rispettare la santità di quel luogo di preghiera.

Questioni vecchie e nuove

La guerra in Ucraina, con il suo innegabile peso, mette in qualche modo in ombra altre questioni come quella israelo-palestinese che invece non andrebbe trascurata, come sottolinea Massimo De Leonardis, direttore del Dipartimento di Scienze Politiche all’Università Cattolica:

De Leonardis parla innanzitutto di questioni che da decenni si portano avanti, facendo riferimento alla questione dello status di Gerusalemme che proprio come ieri si è visto – ricorda il docente – resta occasione di grandi tensioni. De Leonardis cita evoluzioni degli ultimi anni che – dice – hanno segnato la marginalizzazione  della componente palestinese. Ricorda la normalizzazione di rapporti tra alcuni Stati arabi e Israele e la decisione del presidente statunitense Trump, non rivista poi da Biden, di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

Sulla guerra in Ucraina l’attenzione di tutti

A parte la vicenda dei blocchi al commercio di grano ucraino o russo che rischiano di dare vita a una crisi alimentare senza precedenti in alcuni Paesi dell’Africa e anche in alcune aree mediorientali, De Leonardis si sofferma su un altro aspetto delle correlazioni tra questione israelo-palestinese e guerra in Ucraina chiarendo però che non si tratta di correlazioni dirette. Spiega che pesa indubbiamente il fatto che i grandi “attori” internazionali siano impegnati altrove e sottolinea che questo significa che resta molto più spazio per le iniziative in loco. Questo potrebbe significare il riacuirsi di tensioni.

Il professore ricorda che circa 20 anni fa la cosiddetta passeggiata di Sharon sulla Spianata delle Moschee o Monte del Tempio, provocò gravi disordini e spiega che ieri ha compiuto un gesto analogo un deputato della destra, non noto come Sharon ma che a livello locale è stato notato, non senza provocare tensioni.

Lo status di Gerusalemme

De Leonardis si sofferma sulla complessità della questione dello status di Gerusalemme per sottolineare quanta saggezza ci fosse nel suggerimento che – ricorda – la Santa Sede dava già nei primi anni venti del secolo scorso di pensare ad una forma di internazionalizzazione.  Oggi – spiega – arrivare a una internazionalizzazione risulta impossibile ma forse – dice – si potrebbe arrivare a una forma di garanzia di regole che governino la gestione dei luoghi santi.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-05/medio-oriente-israele-palestinesi-gerusalemme-status-tensioni.html

Il pensiero del Papa al Rosario per la pace alla fine di maggio

Dopo il Regina Coeli, il Papa ha ricordato a a tutti la recita del Rosario prevista il 31 maggio. Francesco guiderà la preghiera mariana a Santa Maria Maggiore in video collegamento con alcuni Santuari del mondo, tra cui quello della Madre di Dio in Ucraina, la Cattedrale di Nostra Signora della Salvezza in Iraq e la Cattedrale Nostra Signora della Pace in Siria

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dopo la recita del Regina Caeli, Papa Francesco ha invitato tutti a unirsi in preghiera martedì prossimo, 31 maggio, alle 18:00 quando  davanti alla statua di Maria Regina Pacis nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma guiderà la recita del Rosario.  Il Papa  ha detto:

Dopodomani, ultimo giorno del mese di maggio, festa liturgica della Visitazione di Maria Santissima, alle ore 18, nella Basilica di Santa Maria Maggiore pregheremo il Rosario per la pace, in collegamento con numerosi Santuari di tanti Paesi. Invito i fedeli, le famiglie e le comunità ad unirsi a questa invocazione, per ottenere da Dio, con l’intercessione della Regina della Pace, il dono che il mondo attende.

Come segno di vicinanza a chi è più coinvolto nelle dinamiche dei tragici eventi dell’ucraina sono stati invitati a recitare le decine del Rosario: una famiglia ucraina, persone legate a vittime di guerra e un gruppo di cappellani militari con i rispettivi corpi.

Il collegamento via streaming

Questi santuari pregheranno il rosario in contemporanea al Santo Padre e saranno collegati via streaming alla diretta di Roma. Saranno in collegamento con il Papa: Santuario della Madre di Dio (Zarvanytsia) in Ucraina; Cattedrale di Sayidat al-Najat (Nostra Signora della Salvezza) in Iraq; Cattedrale Nostra Signora della Pace in Siria; Cattedrale di Maria Regina d’Arabia in Bahrein. Insieme a questi, i Santuari internazionali: Shrine of Our Lady of Peace and Good Voyage; International Shrine of Jesus Saviour and Mother Mary; Santuario di Jasna Góra; Santuario Internazionale dei Martiri Coreani; Santa Casa di Loreto; Beata Vergine del Santo Rosario; International Shrine Our Lady of Knock; Beata Vergine del Rosario; Madonna Regina della Pace; Nostra Signora di Guadalupe; Nostra Signora di Lourdes. Tutti i fedeli in ogni parte del mondo sono invitati a sostenere Papa Francesco nella preghiera alla Regina della Pace. La preghiera verrà trasmessa in diretta sui canali ufficiali della Santa Sede, saranno collegati tutti i network cattolici del mondo e sarà fruibile per le persone sorde e ipoudenti attraverso la traduzione nella lingua dei segni italiana LIS.

Maria Regina Pacis

La statua di Maria Regina Pacis si trova nella navata sinistra della Basilica di Santa Maria Maggiore: fu voluta da Benedetto XV, realizzata dallo scultore Guido Galli, all’epoca vicedirettore dei Musei Vaticani, per chiedere alla Vergine la fine della Prima Guerra Mondiale nel 1918. La Madonna è rappresentata con il braccio sinistro alzato come segno per ordinare la fine della guerra, mentre con il destro tiene il Bambin Gesù, pronto a far cadere il ramoscello di ulivo simboleggiante la pace. Sul basamento sono scolpiti alcuni fiori, a simboleggiare il rifiorire della vita con il ritorno della pace. È tradizione che i fedeli depongano ai piedi della Vergine dei piccoli biglietti scritti a mano con le intenzioni di preghiera. Il Papa deporrà ai piedi della statua una corona di fiori prima di rivolgere la sua preghiera alla Madonna e lasciare la sua intenzione particolare. A sostenere la preghiera del Papa saranno presenti, oltre alle famiglie della comunità ucraina,  ragazzi e ragazze che hanno ricevuto la prima Comunione e la Cresima nelle scorse settimane, Scout, rappresentanti della Gioventù ardente mariana (Gam), membri del corpo della Gendarmeria Vaticana e delle Guardia Svizzera Pontificia e le tre parrocchie di Roma intitolate alla Vergine Maria Regina della Pace, insieme con i membri della Curia romana.

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Donne di Kabul di nuovo in piazza, in lotta per i più elementari diritti

L’obiettivo è tutelare l’accesso all’istruzione femminile: in molte hanno manifestato nella capitale afghana, ma il corteo è stato presto disciolto

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Alcune decine di donne hanno sfidato oggi il regime dei talebani in Afghanistan, inscenando una protesta a Kabul per chiedere “pane, lavoro e libertà” e chiedendo il diritto all’istruzione femminile. Lo constatano fonti giornalistiche sul posto. “L’istruzione è un mio diritto. Riaprite le scuole”, hanno scandito le manifestanti, molte con il volto coperto, come imposto dalle recenti disposizioni dei fondamentalisti tornati al potere lo scorso agosto. Le manifestanti hanno marciato per alcune centinaia di metri prima di disperdersi. Miliziani talebani in abiti civili hanno sequestrato loro i telefonini per impedire di riprendere la protesta.

Il 7 maggio l’ennesima restrizione

Da sabato 7 maggio i talebani hanno imposto una nuova restrittiva legge sul codice di abbigliamento femminile. Il ministero talebano per la Prevenzione del vizio e la promozione della virtù ha imposto il burqa in tutti i luoghi pubblici anche all’aperto. In molte sono scese in strada in questo mese per protestare. Si tratta di un salto indietro di oltre 20 anni, a quel primo regime che, dal 1996 al 2001, aveva segregato la presenza femminile a servizio degli uomini. Ma secondo il leader supremo dei talebani Hibatullah Akhundzada coprirsi integralmente il volto sarebbe, ancora nel 2022, “tradizionale e rispettoso”.

Da mesi un’escalation di diritti negati

Le donne afghane vedono rinnegato qualunque diritto in una discesa che si fa sempre più repentina verso un passato patriarcale e tradizionalista dove il loro unico scopo di vita è l’assistenza agli uomini e la procreazione. Hanno lottato per decenni per affermare la propria esistenza, le loro libertà, e adesso molte sembrano pronte a tutto per difenderle. Da mesi infatti si impegnano in proteste contro il ritorno dei Talebani al potere, contro le repressive leggi che impongono loro di non lavorare, di non fare sport, di  non guidare, di non viaggiare o studiare.

La presa di posizione del G7

Giovedì 12 maggio durante la riunione dei ministri degli Esteri del Gruppo dei Sette (G7), i rappresentanti di Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti hanno dichiarato che le recenti leggi repressive imposte dai Talebani ai diritti delle donne e delle ragazze in Afghanistan stanno isolando il Paese. “Con queste misure, i Talebani si stanno ulteriormente isolando dalla comunità internazionale“, hanno dichiarato i ministri degli Esteri e il capo della politica estera dell’Unione Europea, Josep Borrell. In una dichiarazione congiunta, pubblicata dalla Francia, hanno invitato i funzionari islamici a prendere provvedimenti urgenti per eliminare le restrizioni nei confronti di donne e ragazze e rispettare i loro diritti umani.

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Tregua sul grano: attesa per le decisioni al vertice Ue dopo l’apertura di Putin

Alla vigilia del summit di Bruxelles, Putin apre alla missione navale europea per scortare il grano ucraino nel Mar Nero. L’emergenza alimentare sarà uno dei primi punti all’ordine del giorno del vertice dei 27. Ne parleranno anche il presidente ucraino Zelensky e il presidente dell’Unione Africana Sall, che interverranno in video collegamento. Il presidente russo ha discusso della situazione in Ucraina con il presidente francese Macron e con il cancelliere tedesco Scholz.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Prende corpo l’ipotesi di una scorta navale armata ai convogli di grano verso i mercati tradizionali, così da riavviare la catena dei rifornimenti.  Alla vigilia  del vertice europeo del 30 e 31 maggio si discute di come rendere operativa la proposta fatta dall’Ue di permettere lo sblocco delle navi che trasportano grano dall’Ucraina attraverso il Mar Nero.  Putin ha fatto sapere ieri di essere disposto a collaborare.  Oggi, un’ultima riunione degli ambasciatori dei 27 farà il punto e non si può escludere, soprattutto dopo la telefonata tra Macron, Scholz e Putin, che qualcosa nelle conclusioni cambi segnando un punto per il fronte dei ‘dialoganti’ che include anche l’Italia. L’apertura del Cremlino sull’export di grano gioca a favore. L’emergenza alimentare sarà uno dei primi punti all’ordine del giorno del summit. Ne parleranno anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il presidente dell’Unione Africana Macky Sall, che interverranno in video collegamenti. I Paesi del Nordafrica e del Medio Oriente corrono un rischio di carenza alimentare  che nessuno, in Ue, vuole vedere concretizzarsi. Porterebbe una nuova ondata migratoria nel mar Mediterraneo. D’altro canto, anche la Cina sembra spinga per una soluzione dell’impasse sui rifornimenti del grano che ricade anche sugli approvvigionamenti cinesi.

Le ipotesi sulle rotte

L’Ue sta valutando diverse ipotesi, tutte di difficile percorribilità. Via terra la strada migliore per l’export di grano sarebbe la Bielorussia (i cui parametri del sistema ferroviario sono uguali a quelli ucraini) ma ciò vorrebbe dire cancellare alcune sanzioni per Minsk, e sul punto non c’è unanimità. L’altra strada è quella di una missione navale comunitaria per scortare il grano nel mar Nero. L’idea c’è ma, spiegano a Bruxelles, non c’è ancora nulla di veramente concreto. Il rischio di una missione di questo tipo è quello di finire in contatto non le navi russe. Il vantaggio sarebbe dare subito prestigio al progetto di difesa europea sulla quale Bruxelles spinge da mesi. In ogni caso servirebbe il placet della Turchia, che per la Convenzione di Montreaux del 1936, ha un ruolo di guardia  dei Dardanelli e del Bosforo in tempi di guerra.

Sullo sfondo la questione sanzioni

Gli sherpa che oggi sono riuniti sono chiamati anche ad un ultimo giro d’orizzonte sul dossier sanzioni e, soprattutto, sull’embargo al petrolio. Viktor Orban, in una telefonata con il premier britannico Boris Johnson, ha ribadito il suo “no a sanzioni che mettano a rischio la sicurezza energetica ungherese”. Escluso il sì di Budapest ad un embargo anche graduale, all’Ue non resta che accettare l’esenzione dalle misure restrittive del petrolio che arriva in Ue attraverso oleodotti, o perlomeno di quello che arriva in Ungheria. La prima ipotesi porta con sé il rischio che anche altri Paesi (vedi la Germania), approfittino dell’esenzione.  Si tratterebbe, in ogni caso, di un’esenzione temporanea alla quale affiancare finanziamenti per permettere a Budapest di adeguare le raffinerie e di accelerare sulle rinnovabili.

Telefonata Macron – Scholz – Putin

Una telefonata di 80 minuti ieri per fare il punto sul conflitto in Ucraina. Vladimir Putin, Emmanuel Macron e Olaf Scholz si confrontano sull’andamento della guerra.  Il leader del Cremlino ha confermato “la disponibilità di Mosca a continuare i colloqui di pace con Kiev” e si è detto pronto a cercare una soluzione per “sbloccare l’esportazione del grano, compreso quello che si trova nei porti del Mar Nero”. Allo stesso tempo però Putin è tornato ad avvertire l’occidente sull’invio di armi a Kiev. “Rischia di destabilizzare la situazione e di aggravare la crisi umanitaria”, ha detto. A tal proposito la Russia ha fatto sapere di aver testato il missile ipersonico ‘Zircon’ nel mare di Barents. Secondo quanto ha spiegato Mosca sarebbe stato lanciato da una fregata e avrebbe colpito “con successo” un bersaglio posto “a circa mille chilometri di distanza”. Se Putin ha mostrato i muscoli il presidente francese Macron e il cancelliere tedesco Scholz, dal canto loro, lo hanno nuovamente invitato al cessate il fuoco “immediato” e al “ritiro delle truppe”. Inoltre i leader di Francia e Germania hanno chiesto “negoziati seri e diretti” con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e la “liberazione” dei 2.500 combattenti dell’acciaieria Azovstal di Mariupol attualmente nelle mani di Mosca. Il Cremlino ha fatto sapere che i tre hanno deciso di “continuare a sentirsi”. Al momento però alle parole non seguono i fatti. Per quanto riguarda i militari di Azovstal la Russia – secondo quanto riporta il Guardian – avrebbe in mente “un tribunale militare internazionale” ispirato a Norimberga per processarli. E anche sul campo Mosca non ha nessuna intenzione di fermare l’avanzata, anzi.

Lyman e Sumy sotto attacco

Le forze armate russe hanno annunciato la conquista di Lyman, città strategica nell’Est mentre i combattimenti a Severodonetsk sono proseguiti praticamente strada per strada. “In Donbass la situazione è molto difficile”, ha ammesso Zelensky senza però perdere la fiducia. “Ricostruiremo tutto e non ci saranno alternative alle nostre bandiere ucraine”, ha precisato. Il leader di Kiev, inoltre è tornato sulla volontà di avere un incontro diretto con Vladimir Putin. “Non c’è nessuno altro con cui negoziare – ha dichiarato a un giornale olandese – ha costruito uno stato in cui nessuno decide nulla”. E che la guerra sarà ancora lunga lo ha ammesso pure il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. “Non sono ottimista sulla pace in poche settimane. Non è un percorso breve, ma una strada stretta, in salita e difficile, ma questo non ci deve fermare”, ha spiegato tornando a parlare della necessità di una escalation diplomatica e “l’Italia è uno dei Paesi che può innescarla”, ha concluso. E le truppe di Mosca hanno bombardato di nuovo questa mattina la regione di Sumy, nel nordest dell’Ucraina, vicino al confine con la Russia: lo ha reso noto il comando operativo ‘Nord’ dell’esercito di Kiev, secondo quanto riporta l’agenzia Unian.

Intanto sono circa 30.150 i soldati russi uccisi in Ucraina dall’inizio dell’invasione, secondo l’esercito di Kiev. Nel suo aggiornamento sulle perdite subite finora da Mosca, l’esercito ucraino indica che dopo 95 giorni di conflitto si registrano anche 207 caccia, 174 elicotteri e 504 droni abbattuti. Inoltre le forze di Kiev affermano di aver distrutto 1.338 carri armati russi, 631 pezzi di artiglieria, 3.270 veicoli blindati per il trasporto delle truppe, 116 missili da crociera

Nessuna certezza su Severodonetsk

“Il nostro esercito è in una posizione difensiva difficile. La città è costantemente bombardata”. E’ quanto ha detto Oleksandr Striuk, capo dell’amministrazione militare civile di Severodonetsk, citato dai media internazionali. Nella notte il leader ceceno Ramzan Kadyrov aveva affermato che “Severdonetsk è sotto il nostro completo controllo. La città è stata liberata”.

Notizie da Mosca

L’agenzia russa Tass fa sapere che in Russia il comitato investigativo “indagherà su nuovi attacchi al territorio russo” da parte dell’esercito ucraino. In particolare, secondo l’agenzia le indagini riguarderebbero due episodi, due  bombardamenti  attribuiti all’esercito di Kiev: sul villaggio di Gornal, nella regione di Kursk, e sul villaggio di confine di Zernovo, nella regione di Bryansk.  e 13 navi. Inoltre, secondo la Tass che cita il ministro della Difesa russo, le forze russe con missili ad alta precisione hanno distrutto un grande arsenale delle forze armate ucraine a Kryvyi Rih, città natale del presidente Volodymyr Zelensky.

Proteste contro la guerra a Belgrado

Una manifestazione contro l’intervento militare russo in Ucraina si è svolta nel pomeriggio di ieri nel centro di Belgrado, capitale della Serbia. Al raduno sulla Piazza della Repubblica hanno partecipato cittadini serbi ma anche russi, ucraini e bielorussi, che hanno denunciato le conseguenze catastrofiche di questo  conflitto che va avanti da oltre tre mesi.  Oltre a quelle serbe, i manifestanti sventolavano anche bandiere russe e ucraine, come pure vessilli delle regioni russofone di Donietsk e Lugansk, nel Donbass ucraino.Al termine del raduno, i dimostranti si sono recati in corteo all’ambasciata russa, ai cui responsabili hanno consegnato un loro documento di denuncia della guerra. Quella di oggi è stata una delle rare mobilitazioni popolari a Belgrado contro l’intervento militare russo in Ucraina. Nella capitale serba si sono infatti registrate nelle scorse settimane anche dimostrazioni a sostegno di Mosca e del presidente Vladimir Putin. La Serbia è il Paese principale alleato della Russia nei Balcani e, pur condannando la violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina, Belgrado si rifiuta di aderire alle sanzioni occidentali contro Mosca invocando gli interessi nazionali della Serbia.

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De Gasperi e una difesa comune europea della pace a 70 anni dal Trattato rinnegato

Per l’Ucraina non solo risposte sul piano militare: serve riscoprire le radici di quella prospettiva di pace che si è imposta in Europa dopo la seconda guerra mondiale grazie a De Gasperi, Monnet, Adenauer. Sorprendente l’attualità delle pagine dello statista italiano a sostegno del progetto di difesa comune europea, come spiegano Sergio Fabbrini, Stefano Ceccanti, Claudia Mancina

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Di fronte allo choc della guerra alle porte dell’Unione europea, tornano drammaticamente attuali le pagine di Alcide De Gasperi sulla necessità di un’unione delle forze difensive dei Paesi Ue. A 70 anni dalla firma – il 27 maggio del 1952 – del Trattato per la Difesa comune europea (CED) che però non è mai stato ratificato dopo la bocciatura nel 1954 da parte della Francia, si parla di un’occasione persa da rivalutare.

La visione di De Gasperi e Spinelli

Nel convegno organizzato giovedì scorso all’Istituto Luigi Sturzo si è parlato di “Sicurezza quale base di ogni comunità politica: l’Unione di difesa europea per un nuovo ordine internazionale”. Ne abbiamo parlato con  il politologo Sergio Fabbrini, direttore della School of Government dell’Università Luiss:

Fabbrini ricorda il grande contributo in termini di idealità offerto dallo statista italiano Alcide De Gasperi e dal politico e scrittore Altiero Spinelli, altro padre fondatore dell’Europa unita, per l’elaborazione dei 132 articoli che con diversi protocolli formavano lo sfortunato trattato Ced. Un testo che non offriva solo l’idea di un insieme di truppe ma che concepiva la sicurezza come base di ogni comunità politica e, dunque, quale garanzia della democrazia. Ma – sottolinea Fabbrini citando brani delle raccomandazioni dello statista italiano – il messaggio che emerge è chiarissimo: superare egoismi e interessi nazionali per il bene dei popoli.

Il contesto di 70 anni fa che torna attuale

Fondamentale ricordare il contesto dei primi anni cinquanta in cui emergevano gli equilibri della cosiddetta guerra fredda. Dopo il dramma dei conflitti mondiali era fortissima la spinta a difendere la pace, la cooperazione tra i popoli, sottolinea Fabbrini. Nel 1949 nascevano il Consiglio d’Europa e la Nato. Nel 1951, su iniziativa dei politici francesi Jean Monnet e Robert Schuman e del cancelliere tedesco Konrad Adenauer e del primo ministro italiano Alcide De Gasperi nasceva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Fabbrini chiarisce che la CECA era pensata come passo iniziale di un processo federale europeo e soprattutto mette in luce un punto importante: la CECA era concepita in parallelo con il Trattato CED che – dice – doveva essere la gamba politico militare della costruzione.

Sicurezza al di là degli Stati

In particolare è il capitolo 38 del CED che tradisce la caratteristica di un trattato che sarebbe stato il più avanzato. Assicurare infatti una sicurezza per i popoli europei con un meccanismo sovranazionale in grado di andare al di là del campo di azione militare degli Stati avrebbe significato, e significherebbe oggi, blindare la pace: difenderla in modo indubitabilmente più efficace da attacchi esterni ma anche dagli interessi stessi dei singoli governi o Stati. In particolare, l’attualità di questo principio emerge nell’intervista con il costituzionalista Stefano Ceccanti, professore ordinario di diritto pubblico comparato all’Università  “Sapienza”:

Ceccanti offre una riflessione a breve e a lungo termine. Suggerisce di agire su due livelli. Il primo – spiega – è quello delle scelte immediate: un Paese aggredito va sostenuto, dice. Ma c’è anche un altro piano di intervento possibile e doveroso: quello di lavorare per un multilateralismo che eviti altre situazioni simili. Parla di impegno ineludibile. Se l’ordine mondiale vacilla – commenta – e se il ruolo del Consiglio di Sicurezza viene ridimensionato in un contesto di necessità di riforma della stessa Organizzazione delle Nazioni Unite, diventa davvero importante investire in una difesa comune europea che – sottolinea – abbia anche un addentellato di federalismo politico. E in questo senso – ribadisce Ceccanti – il richiamo alla concezione del Trattato CED è attualissimo.

Alla base i valori

A sottolineare la dimensione culturale della sfida che si pone è l’accademica e filosofa Claudia Mancina:

Mancina parla di contrapposizione concettuale tra democrazie e autocrazie e sottolinea l’importanza di difendere e valorizzare quello che viene definito “universalismo”, raccomandando però che sia universalismo dei valori. Spiega che si tratta di un’impostazione che ha fondamento nel messaggio cristiano che ha nei suoi presupposti l’orizzonte del bene comune di tutta la famiglia umana. Ricorda che in Occidente si è assistito a una parabola attraverso l’Illuminismo o il liberalismo. Ovviamente – ricorda – non sono mancati attriti, incongruenze, ma il punto non è questo: è importante – afferma – riconoscere un cammino concettuale che ha conservato valori come la libertà, la democrazia. E poi mette in luce l’importanza di ricordare tutto questo perché si  deve riconoscere oggi più che mai che c’è chi sostiene un’impostazione di pensiero ostile all’universalismo così inteso. Il fondamento teorico che si contrappone all’universalismo così inteso – spiega Mancina – si nutre di termini come nazionalismi o imperialismi.

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La Giornata per l’Africa e i 20 anni dell’Unione Africana

Gravi problemi ancora affliggono il continente africano – aggravati dalla pandemia e dalle ripercussioni della guerra in Ucraina – ma, a 20 anni dalla nascita dell’Unione Africana, bisogna guardare anche ai significativi passi dell’integrazione e al dinamismo nuovo dei giovani oltre gli stereotipi, come spiegano l’africanista Aldo Pigoli e Otto Bitjoka, presidente dell’Unione delle Comunità africane in Italia (UCAI)

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Da 59 anni si celebra, il 25 maggio, la Giornata per l’Africa, da quando in quella data del 1963 nasceva l’Organizzazione dell’Unità Africana, con la firma dei leader di 30 dei 32 Stati indipendenti del continente. Poi nel 2002 è nata l’Unione Africana (UA) che oggi comprende i 55 Stati riconosciuti del continente.

20 anni di Unione Africana

L’Unione africana è un’organizzazione internazionale e un’area di libero scambio e ha sede ad Addis Abeba, in Etiopia. Per un bilancio dei suoi 20 anni dalla nascita, abbiamo intervistato Aldo Pigoli, docente di Storia dell’Africa Contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano:

Il professor Pigoli ricorda che l’UA conta 55 membri. Non ne fanno parte i territori posseduti dagli Stati europei. Il Marocco, che si era ritirato dall’Organizzazione dell’Unità africana il 12 novembre 1984 a seguito all’ammissione nell’Organizzazione dell’Unità Africana della Repubblica democratica araba del Sarawi, è stato riammesso il 30 gennaio 2017.

I successi di un’integrazione regionale e continentale

Senza dubbio – riconosce lo studioso- si tratta di una sfida notevole: integrare un territorio vastissimo e variegato. Proprio considerando questo – sottolinea – si può dire che sono stati molto significativi i passi in avanti fatti. E fa riferimento ai vari livelli di integrazione che si possono constatare sul piano regionale e sul piano continentale su temi come la sicurezza e il sociale. Gli obiettivi non sono certo raggiunti ma i risultati si vedono – afferma – se si considera che si è riusciti ad evitare alcuni conflitti e che alcuni standard sul piano sociale si vanno affermando. Anche per quanto riguarda la cooperazione politico istituzionale contro il terrorismo si può dire che si è messa in moto una macchina importante.

Il più grande accordo di libero scambio

Il 21 marzo 2018, a Kigali, capitale del Rwanda – sottolinea Pigoli –  44 stati membri dell’Unione africana (UA) hanno firmato l’accordo che ha istituito l’area di libero scambio continentale africana, che nell’acronimo inglese viene definita AfCFTA. È previsto che l’accordo sia implementato nel corso di 10-15 anni e che includa circa il 90 per cento di tutti i beni. È il più grande accordo di libero scambio al mondo in quanto a numero di parti contraenti. La riduzione dei costi commerciali per gli esportatori è di estrema importanza dal momento in cui le imprese africane che commerciano con altri Paesi della regione devono sottostare a tariffe in media più alte (circa il 6,1 per cento) rispetto a quelle del commercio extra-regionale. L’accordo  è congiunto a tre protocolli che regolano lo scambio dei beni e dei servizi ma anche la risoluzione delle dispute.

E’ indubbiamente un passo più che considerevole all’interno del processo d’integrazione africana, ribadisce Pigoli. La speranza – sottolinea – è che l’accordo dia il via a una nuova traiettoria di sviluppo. Se tutti gli stati membri UA implementano l’accordo, l’AfCFTA comprende un mercato di 1,2 miliardi di persone e di 2,5 trilioni di dollari. Questo mercato considerevole – spiega – offre opportunità enormi per la crescita del commercio intra-africano, che nel 2016 ammontava a circa il 20 per cento del commercio totale dell’Africa. In secondo luogo, l’AfCFTA mira a contrastare le barriere non tariffarie sul commercio intra-africano, con l’obiettivo di facilitare il commercio continentale delle imprese africane. Rappresenta anche – mette in luce lo storico – il progetto più importante nell’ambito dell’Agenda 2063 dell’UA, Agenda 2063: The Africa We Want, che stabilisce le aree prioritarie per lo sviluppo del continente nei prossimi cinquant’anni.

Un processo lungo con accelerazioni recenti

L’AfCFTA fa seguito a un altro enorme successo nel processo di integrazione africana, la zona di libero scambio tripartita (TFTA). La TFTA, lanciata nel giugno 2015, che ha connesso 26 Paesi da Cape Town al Cairo appartenenti a tre Regional Economic Communities (RECs), ovvero la Common Market for Eastern and Southern Africa (COMESA), l’East African Community (EAC) e la Southern African Development Community (SADC). La decisione di lanciare il TFTA – suggerisce Pigoli – dimostra il rinnovato consenso politico dei leader africani sull’importanza di un’integrazione profonda per il raggiungimento di obiettivi di crescita, sviluppo e riduzione della povertà.

L’Africa non più solo fonte di materie prime

L’AfCFTA – chiarisce Pigoli – potrebbe fornire uno slancio decisivo al processo di trasformazione strutturale del continente – ovvero alla sua industrializzazione. Il commercio intra-africano è già oggi più orientato alla manifattura rispetto al commercio verso il resto del mondo, che è ancora invece basato principalmente sull’esportazione di materie prime. È probabile che Paesi come il Sudafrica e il Kenya, dotati di basi manifatturiere ampie e migliori infrastrutture stradali, ferroviarie e portuali, riusciranno a trarre maggiori benefici da questo accordo rispetto a economie più piccole. Ma Pigoli invita a riflettere su realtà che vengono poco raccontate, come ad esempio il livello di know how tecnologico che ha permesso al Rwanda di presentare sul mercato il primo smartphone interamente prodotto nel Paese africano.

Una struttura ricalcata sull’Unione Europea

Pigoli prende l’Unione europea come termine di confronto per parlare della struttura istituzionale dell’Unione Africana, anche se – sottolinea – ci sono ovviamente molte specificità e distinzioni. Indubbiamente però è al processo di integrazione europea – dice – che si sono ispirati i popoli africani. C’è – ricorda – una Assemblea dell’Unione africana composta da capi di Stato e di governo che si riunisce una volta all’anno in sessione ordinaria e ogni volta che lo richiedano i due terzi degli Stati membri. C’è la Commissione dell’Unione africana, con sede ad Addis Abeba, che rappresenta il segretariato dell’Unione.  C’è il Consiglio esecutivo è composto dai ministri degli Esteri o dai loro delegati. Oltre ai vari comitati di rappresentanti o tecnici.

La ricchezza dell’antropologia africana oltre gli stereotipi

L’immagine dell’Africa come continente afflitto da povertà e conflitti persiste malgrado le sue grandi potenzialità politiche, economiche, culturali e scientifiche. E’ essenziale andare oltre i pregiudizi e cercare di scoprire e capire la ricchezza culturale dei popoli africani, come sottolinea Otto Bitjoka, presidente dell’Unione delle Comunità africane in Italia (UCAI) parlando del valore simbolico della giornata per l’Africa:

Uno sguardo sull’andamento dell’economia africana mostra – sostiene Bitjoka – che, rispetto ad altri Stati del mondo, in diversi Paesi africani si assiste a una crescita molto elevata. Bitjoka cita la Nigeria, il SudAfrica e l’Egitto ma anche i Paesi del Golfo di Guinea, in particolare la Costa d’Avorio. Nonostante permangano notevoli differenze tra i singoli Paesi, negli ultimi due decenni ad esempio l’Africa subsahariana nel suo complesso ha registrato tassi di crescita annua che arrivano al 6,5 per cento.

Il valore dell’unità

Bitjoka spiega che a livello simbolico è importantissimo che si celebri una Giornata che richiama e rilancia il valore dell’unità di un continente dove – sottolinea – si fanno guerre per procura, le cosiddette proxy war volute e alimentate da Paesi terzi. Bitjoka ricorda che persistono gravi problemi come la povertà diffusa, la disuguaglianza e l’esclusione sociale, che sono stati aggravati dalla pandemia da Covid-19 e poi dalla crisi alimentare legata alla guerra in Ucraina, ma a gran voce ribadisce che l’Africa non è tutta lì. Ricorda che si parla di 30 chilometri quadrati di territorio e di realtà diverse tra loro. Fa un esempio: nella capitale della Costa d’Avorio, Abidjan, sembra di stare in una città come Parigi.

Al di là delle logiche del Pil

Bitjoka invita a considerare l’eccezionale varietà di ecosistemi africani e il grandissimo capitale umano rappresentato dai giovani. E avverte: se si vuole parlare di sviluppo in Africa non si deve considerare quello che definisce il punto di vista privilegiato dell’Occidente e cioè la considerazione dei dati economici e del Prodotto Interno Lordo (Pil) di un Paese. Rivendica per gli africani una antropologia culturale diversa che considera altri aspetti prima di quelli prettamente economici. Bitjoka parla di popoli accomunati da un senso diverso di comunità, che mette l’accento – spiega – più sul destino della comunità e della persona che sugli scopi, che considera prioritari il senso della libertà nella comunità, il ruolo della donna piuttosto che l’arricchimento. Si tratta – ammette – di una ricchezza del subconscio collettivo che va rivalorizzata e riscoperta con un risveglio di Nuovo Umanesimo – dice – di cui si vedono alcuni segni importanti. Certamente – raccomanda – si dovrebbe riscoprire il più autentico spirito africano che prevede – racconta – un incontro sotto l’albero del baobab per dirimere le controversie. Le guerre – afferma – e la produzione delle armi non sono un fattore endemico in Africa.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-05/unione-africana-libero-mercato-economia-integrazione-cultura.html

Sostenibilità e femminile: ribaltare le logiche del potere

Pensare Green insieme: una prospettiva femminile sul cambiamento climatico e la sostenibilità

Tra le relatrici

per raccontare il punto di vista femminile sulle più urgenti questioni ambientali. Qui sintetizziamo affermando che serve una visione nuova diversa dalle logiche di potere che hanno imperato finora. Dal momento che il potere finora è stato maschile, un nuovo patto sociale – ad esempio di governance globale su acqua e salute – potrebbe avere una connotazione alternativa e dunque, perché no, “femminile”. Non servono tanto più donne mascolinizzate al potere ma serve più “femminile” nella gestione della cosa pubblica, a livello locale, nazionale, sovranazionale.

presso Auxilium, Scienze dell’Educazione

 

 

 

 

da sinistra: la teologa suor Linda Pocher; suor Alessandra Smerilli, Segretaria del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale; la moderatrice Nina Fabrizio giornalista Ansa; Dalit Wolf Golan,  direttrice dello sviluppo regionale dell’Associazione EcoPeace Middle East che riunisce ambientalisti israeliani, palestinesi e giordani

Thinking green: una prospettiva femminile che ribalti le logiche di potere

“Pensare green insieme – una prospettiva femminile sul cambiamento climatico e la sostenibilità” 

Fausta Speranza tra le relatrici

Tra i relatori del Simposio

promosso presso la Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”,  il 17 maggio  2022 per iniziativa dell’Ambasciata di Israele presso la Santa Sede

da sinistra suor suor Linda Pocher che insegna teologia fondamentale all’Auxilium; suor Alessandra Smerilli, segretario del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale; la moderatrice Nina Fabrizio, giornalista Ansa; la dottoressa Dalit Wolf Golan, vicedirettrice di Eco Peace Middle East, organizzazione che riunisce ambientalisti israeliani, palestinesi e giordani; la sottoscritta  Fausta Speranza

Un’occasione di riflessione,

ricerca,  dialogo per promuovere attività di cooperazione per  proteggere la  ‘casa comune’: il deterioramento ambientale globale ci chiama a rivedere le nostre politiche, a ripensare all’economia e allo sviluppo sociale in termini di sostenibilità. In questo senso la sottoscritta ha auspicato – considerato il tema del Simposio – un ribaltamento delle politiche conosciute, segnate da sempre da equilibri di potere. Un sistema “maschile” nel senso che indubitabilmente il potere in Occidente è stato sempre in mano a uomini. Non significa che tutti gli uomini siano uomini di potere ma si parla di sistema. In questo senso, nel sistema c’è bisogno di “femminile” inteso come alternativa a quel sistema di potere descritto. Dunque, non tanto e non solo più donne, ma più femminile. Significa persone “femminili” nel senso spiegato. Non donne mascolinizzate nel senso di avvezze alle stesse impostazioni mentali di potenza. 

Ifad: c’è spazio di azione per salvare i Paesi più poveri dalla crisi

Di fronte alle conseguenze economiche sul piano mondiale della guerra in Ucraina, il Fondo delle Nazioni Unite lancia un’iniziativa concreta per proteggere i mezzi di sussistenza e i mercati più vulnerabili. Sono almeno 22 i Paesi più colpiti, a partire dalla Somalia. Lo spiega Federica Cerulli, esperta Ifad, denunciando un paradosso: più sono poveri e indebitati e più è difficile intervenire

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In uno scenario in cui la guerra in Ucraina sta facendo salire i prezzi di alimentari, carburante e fertilizzanti a livelli record mettendo a rischio la sicurezza alimentare in molti dei Paesi più poveri del mondo, il Fondo Internazionale delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Agricolo (IFAD) ha lanciato in questi giorni l’Iniziativa di risposta alla crisi (Crisis Response Initiative) per far sì che i piccoli agricoltori nei Paesi ad alto rischio possano produrre nei prossimi mesi cibo per nutrire le loro famiglie e comunità, riducendo al contempo le minacce verso i raccolti futuri. Ne abbiamo parlato con Federica Cerulli, esperta dell’Ifad per la mobilitazione delle risorse finanziarie:

Lo sconvolgimento dei mercati globali sta scuotendo i sistemi alimentari nel profondo, avverte Cerulli sostenendo che è particolarmente allarmante per i Paesi già colpiti dall’impatto del cambiamento climatico e da quello del COVID-19, dove un maggior numero di persone è alle prese con povertà e fame. La nuova iniziativa dell’IFAD – spiega – aiuterà a proteggere i mezzi di sussistenza e i mercati in modo che le persone più vulnerabili possano continuare a nutrire le loro famiglie e comunità.

Un’azione concreta e immediata

Il ruolo dell’IFAD è fondamentale per mitigare qualsiasi shock ai sistemi alimentari e, così facendo, proteggere il progresso dello sviluppo a lungo termine. Lo ricorda Cerulli affermando che la comunità internazionale deve essere pronta ad affrontare le conseguenze profonde e destabilizzanti di questo conflitto in Europa. L’iniziativa dell’Ifad è concreta: il Fondo Onu chiede agli Stati membri di contribuire alle ingenti risorse necessarie per coprire tutti i 22 Paesi elencati nell’Iniziativa come prioritari in base al bisogno. E – mette in luce  Cerulli –  in particolare per i primi tre, tra cui la Somalia, chiede un impegno immediato.

Le aree più colpite

Le ripercussioni della guerra – ricorda l’esperta – si fanno sentire in maniera più forte in alcune parti dell’Africa, del Vicino Oriente e dell’Asia centrale, ma anche altri Paesi e regioni vengono colpiti di giorno in giorno. Molti Paesi sono vulnerabili agli shock dei prezzi a causa della loro forte dipendenza dalle importazioni di cibo ed energia dalla Russia e dall’Ucraina. Altri Paesi  specialmente in Asia centrale  – chiarisce –  stanno sperimentando un deterioramento del commercio insieme ad una significativa riduzione dell’afflusso di rimesse. L’elenco completo comprende: Somalia, Afghanistan, Yemen, Mozambico, Haiti, Etiopia, Burundi, Eritrea, Madagascar, Repubblica Centrafricana, Malawi, Ciad, Niger, Mali, Uganda, Liberia, Guinea-Bissau, Gambia, Comore, Sri Lanka, Bhutan, Benin.

Risorse essenziali per l’agricoltura

Le popolazioni rurali vulnerabili sono colpite duramente dall’aumento dei prezzi dei fattori di produzione agricoli essenziali, soprattutto ora che inizia una nuova stagione di semina. I piccoli agricoltori – è il primo esempio di Cerulli – stanno lottando per pagare il carburante per i macchinari, i costi dei fertilizzanti e dei trasporti per raggiungere i mercati, e la maggior parte non ha la capacità di assorbire gli aumenti dei prezzi.

Cerulli spiega che, basandosi sulla recente esperienza dell’IFAD nella risposta al COVID-19, l’Iniziativa è orientata a garantire ai piccoli agricoltori l’accesso ai principali fattori produttivi agricoli, al carburante, ai fertilizzanti, ai finanziamenti per le necessità immediate e all’accesso ai mercati e alle informazioni relative al mercato. L’iniziativa contribuirà anche a ridurre le perdite post-raccolto investendo in infrastrutture su piccola scala.

Il caso Somalia

In Somalia, uno dei Paesi prioritari per la Crisis Response Initiative, i costi dell’elettricità e dei trasporti sono saliti alle stelle – denuncia Cerulli – da quando è iniziato il conflitto in Ucraina. I piccoli agricoltori che fanno affidamento sull’irrigazione alimentata da piccoli motori diesel ne sono stati colpiti. Questo shock aggrava le preoccupanti prospettive di carestia in un Paese già nel mezzo di una grave siccità. La maggior parte degli agricoltori locali non è in grado di comprare il carburante e di conseguenza ha subito delle perdite. Si sente l’effetto a spirale sul costo dei trasporti, del cibo e di tutti gli altri beni essenziali. Il punto è che la spirale dei prezzi del cibo e dell’energia potrebbe alla fine portare a disordini sociali e destabilizzare i Paesi, in particolare gli Stati fragili. È in gioco la stabilità a lungo termine.

Il paradosso del debito

Con la crisi del COVID-19, l’indebitamento è naturalmente aumentato in modo marcato in ogni regione del mondo, per le economie africane ha significato l’aumento dei timori circa la sostenibilità del debito o in alcuni casi ha segnato la resa in questo senso. C’è poi il caso della Somalia che risulta aver fallito l’obiettivo di rientrare nei parametri. E purtroppo – è il fattore che vuole denunciare Cerulli – nella crisi attuale tutto questo comporta un’impasse: non si possono assicurare fondi di aiuti a questi Paesi non in regola con il debito. L’Ifad che risulta essere uno degli enti  finanziari creditori e dunque non può erogare altri fondi o inserire Mogadiscio in alcuni programmi. Tutto quello che si può – spiega Cerulli – è lavorare con partner che assicurano aiuti sul territorio. L’Ifad è impegnata per assicurare in varie modalità che arrivi in ogni caso sostegno agli agricoltori in questo difficilissimo contesto, ma spiega che l’Ifad è impegnato intanto attivamente a sostenere la causa della cancellazione del debito.

L’Italia chiede un’alleanza globale per la sicurezza alimentare

Intanto, parlando a margine della riunione dei ministri del G7 in Germania, il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, ha affermato che l’Italia esprime grande preoccupazione per quello che sta avvenendo nel Mediterraneo rispetto per esempio alla crisi del grano”. E ha fatto sapere che come Italia e come ministero degli Esteri si sta organizzando un dialogo a livello ministeriale con tutti i Paesi del Mediterraneo insieme con la Fao, che vedrà “la prima iniziativa in Italia il prossimo mese”. Ha aggiunto: “Lavoreremo insieme con i Paesi del Mediterraneo per permettergli di diversificare le fonti di approvvigionamento dei beni di prima necessità in modo tale da scongiurare una crisi alimentare, che può portare a carestie e flussi migratori sempre più massicci”. Il titolare della Farnesina ha detto di salutare “con grande favore l’iniziativa tedesca, sotto la presidenza G7, di costituire un’alleanza globale per la sicurezza alimentare”. Di collegialità Di Maio ha parlato anche per dire che “non si può pensare di raggiungere un accordo di pace attraverso iniziative isolate, serve collegialità nel costruire un vero e proprio percorso negoziale”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-05/guerra-ucraina-crisi-alimentare-energia-agricoltori-ifad-debito.html

Acqua clima e migrazioni: dibattito con illustri relatori l’8 giugno a Roma

Acqua, clima e migrazioni,   l’8 giugno a Roma alla Casa dell’Aviatore, Ministero della Difesa – dalla Fondazione Terrone.

RELATORI

da sin. Daniela Esposito moderatore; Ing. Francesco Terrone, Presidente della Fondazione;   Prof. Gianfranco Lizza; Prof. Gianluigi Rossi; Prof. Franco Salvatori; Dott. Pierluigi Sassi Innovation manager; Fausta Speranza; Prof. Mario Taraborrelli

 

 

 

 

 

Tutto quanto attiene la vita – umana, animale, vegetale – affonda le radici nell’acqua e più precisamente nei mari: l’ecosistema acquatico infatti è ciò che consente la vita sulla terra. Le terre emerse corrispondono soltanto a un quarto dell’intera superficie del globo e gli oceani contengono il 97 per cento dell’acqua presente sulla  Terra. Inoltre, gli oceani, grazie all’attività del plancton, generano oltre il 50 per cento dell’ossigeno presente sul pianeta.

La buona salute dei mari riflette anche un ritorno importante in relazione all’abbattimento dei gas serra: circa il 30 per cento dell’anidride carbonica prodotta dall’uomo viene assorbito dagli oceani, così mitigando l’effetto negativo delle emissioni nell’atmosfera. Mantenere questo vitale sistema in efficienza è quindi fondamentale ed è indispensabile prendere una serie di misure come prevenire e ridurre in modo significativo ogni forma di inquinamento marino (compresa la pesca intensiva), ridurre al minimo gli effetti dell’acidificazione degli oceani e attuare politiche ambientali di grande impatto per preservare tutte le aree costiere e marine. Ridurre l’ineguaglianza all’interno di e fra le Nazioni Tale Obiettivo prevede di realizzare una crescita inclusiva che coinvolge le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile, quella economica, quella sociale e quella ambientale.

Per ridurre le disuguaglianze, è necessario porre particolare attenzione ai bisogni delle popolazioni svantaggiate. Il Convegno intende affrontare la questione delle migrazioni: rendere più sicure e regolari la migrazione e la mobilità delle persone, anche attraverso l’attuazione di politiche migratorie ben gestite, oltre che agli obiettivi dell’Agenda 2030 risponde al dovere di salvaguardia e responsabilità che ogni essere umano ha nei confronti dei propri simili. Infatti, oltre a motivi legati a situazioni di guerra o di varia emergenza sociale, molte popolazioni sono costrette a esodi importanti per sfuggire a condizioni ambientali estreme che non ne consentono più la sopravvivenza a causa degli importanti rivolgimenti climatici di cui siamo tutti testimoni. Tali importanti fenomeni migratori spesso hanno come “via di fuga” il mare, ed ecco che l’Acqua assume il ruolo di veicolo di salvezza, in special modo in alcune aree del pianeta. Diviene pertanto necessario individuare politiche migratorie e politiche ambientali che prendano in considerazione tutti i fattori causa di tali esodi, esodi che spesso si traducono in ulteriori diseguaglianze tra le diverse popolazioni. Promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico Le importanti conseguenze che stiamo vivendo a causa delle modificazioni del clima trovano la loro ragione in una serie di fattori, in primis le emissioni di gas a effetto serra derivanti dalle attività umane. Il cambiamento climatico è assolutamente imparziale, interessando tutti i Paesi di tutti i continenti ma avendo impatto diverso sulle diverse popolazioni. Le persone più povere, infatti, sono anche le più indifese: gli abitanti dei Paesi in via di sviluppo subiscono maggiormente le conseguenze dei devastanti fenomeni meteorologici quali alluvioni, esondazioni e uragani sui loro territori. Tali fenomeni vengono sempre più amplificati dall’aumento delle temperature: i dati sulle emissioni di CO2 indicano che, entro la fine di questo secolo, l’aumento della temperatura globale sarà di oltre 1,5°C rispetto al periodo che va dal 1850 al 1990; il livello globale medio dei mari, invece, è aumentato di ben 19 cm dal 1901 al 2010. Pertanto è fondamentale sensibilizzare innanzitutto la politica ma anche i semplici cittadini al contenimento delle emissioni di carbonio con comportamenti sostenibili.

Uno degli obiettivi fondamentali – dell’Agenda 2030 ma non solo – è migliorare l’istruzione e quindi la sensibilizzazione alla mitigazione del cambiamento climatico, in modo da ridurre l’impatto dell’effetto serra. Pertanto è fondamentale che sin dalla scuola primaria si cominci a insegnare una cultura per l’ambiente e dell’ambiente che altrimenti vedrà le future generazioni alle prese con problemi insormontabili.