Tregua sul grano: attesa per le decisioni al vertice Ue dopo l’apertura di Putin

Alla vigilia del summit di Bruxelles, Putin apre alla missione navale europea per scortare il grano ucraino nel Mar Nero. L’emergenza alimentare sarà uno dei primi punti all’ordine del giorno del vertice dei 27. Ne parleranno anche il presidente ucraino Zelensky e il presidente dell’Unione Africana Sall, che interverranno in video collegamento. Il presidente russo ha discusso della situazione in Ucraina con il presidente francese Macron e con il cancelliere tedesco Scholz.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Prende corpo l’ipotesi di una scorta navale armata ai convogli di grano verso i mercati tradizionali, così da riavviare la catena dei rifornimenti.  Alla vigilia  del vertice europeo del 30 e 31 maggio si discute di come rendere operativa la proposta fatta dall’Ue di permettere lo sblocco delle navi che trasportano grano dall’Ucraina attraverso il Mar Nero.  Putin ha fatto sapere ieri di essere disposto a collaborare.  Oggi, un’ultima riunione degli ambasciatori dei 27 farà il punto e non si può escludere, soprattutto dopo la telefonata tra Macron, Scholz e Putin, che qualcosa nelle conclusioni cambi segnando un punto per il fronte dei ‘dialoganti’ che include anche l’Italia. L’apertura del Cremlino sull’export di grano gioca a favore. L’emergenza alimentare sarà uno dei primi punti all’ordine del giorno del summit. Ne parleranno anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il presidente dell’Unione Africana Macky Sall, che interverranno in video collegamenti. I Paesi del Nordafrica e del Medio Oriente corrono un rischio di carenza alimentare  che nessuno, in Ue, vuole vedere concretizzarsi. Porterebbe una nuova ondata migratoria nel mar Mediterraneo. D’altro canto, anche la Cina sembra spinga per una soluzione dell’impasse sui rifornimenti del grano che ricade anche sugli approvvigionamenti cinesi.

Le ipotesi sulle rotte

L’Ue sta valutando diverse ipotesi, tutte di difficile percorribilità. Via terra la strada migliore per l’export di grano sarebbe la Bielorussia (i cui parametri del sistema ferroviario sono uguali a quelli ucraini) ma ciò vorrebbe dire cancellare alcune sanzioni per Minsk, e sul punto non c’è unanimità. L’altra strada è quella di una missione navale comunitaria per scortare il grano nel mar Nero. L’idea c’è ma, spiegano a Bruxelles, non c’è ancora nulla di veramente concreto. Il rischio di una missione di questo tipo è quello di finire in contatto non le navi russe. Il vantaggio sarebbe dare subito prestigio al progetto di difesa europea sulla quale Bruxelles spinge da mesi. In ogni caso servirebbe il placet della Turchia, che per la Convenzione di Montreaux del 1936, ha un ruolo di guardia  dei Dardanelli e del Bosforo in tempi di guerra.

Sullo sfondo la questione sanzioni

Gli sherpa che oggi sono riuniti sono chiamati anche ad un ultimo giro d’orizzonte sul dossier sanzioni e, soprattutto, sull’embargo al petrolio. Viktor Orban, in una telefonata con il premier britannico Boris Johnson, ha ribadito il suo “no a sanzioni che mettano a rischio la sicurezza energetica ungherese”. Escluso il sì di Budapest ad un embargo anche graduale, all’Ue non resta che accettare l’esenzione dalle misure restrittive del petrolio che arriva in Ue attraverso oleodotti, o perlomeno di quello che arriva in Ungheria. La prima ipotesi porta con sé il rischio che anche altri Paesi (vedi la Germania), approfittino dell’esenzione.  Si tratterebbe, in ogni caso, di un’esenzione temporanea alla quale affiancare finanziamenti per permettere a Budapest di adeguare le raffinerie e di accelerare sulle rinnovabili.

Telefonata Macron – Scholz – Putin

Una telefonata di 80 minuti ieri per fare il punto sul conflitto in Ucraina. Vladimir Putin, Emmanuel Macron e Olaf Scholz si confrontano sull’andamento della guerra.  Il leader del Cremlino ha confermato “la disponibilità di Mosca a continuare i colloqui di pace con Kiev” e si è detto pronto a cercare una soluzione per “sbloccare l’esportazione del grano, compreso quello che si trova nei porti del Mar Nero”. Allo stesso tempo però Putin è tornato ad avvertire l’occidente sull’invio di armi a Kiev. “Rischia di destabilizzare la situazione e di aggravare la crisi umanitaria”, ha detto. A tal proposito la Russia ha fatto sapere di aver testato il missile ipersonico ‘Zircon’ nel mare di Barents. Secondo quanto ha spiegato Mosca sarebbe stato lanciato da una fregata e avrebbe colpito “con successo” un bersaglio posto “a circa mille chilometri di distanza”. Se Putin ha mostrato i muscoli il presidente francese Macron e il cancelliere tedesco Scholz, dal canto loro, lo hanno nuovamente invitato al cessate il fuoco “immediato” e al “ritiro delle truppe”. Inoltre i leader di Francia e Germania hanno chiesto “negoziati seri e diretti” con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e la “liberazione” dei 2.500 combattenti dell’acciaieria Azovstal di Mariupol attualmente nelle mani di Mosca. Il Cremlino ha fatto sapere che i tre hanno deciso di “continuare a sentirsi”. Al momento però alle parole non seguono i fatti. Per quanto riguarda i militari di Azovstal la Russia – secondo quanto riporta il Guardian – avrebbe in mente “un tribunale militare internazionale” ispirato a Norimberga per processarli. E anche sul campo Mosca non ha nessuna intenzione di fermare l’avanzata, anzi.

Lyman e Sumy sotto attacco

Le forze armate russe hanno annunciato la conquista di Lyman, città strategica nell’Est mentre i combattimenti a Severodonetsk sono proseguiti praticamente strada per strada. “In Donbass la situazione è molto difficile”, ha ammesso Zelensky senza però perdere la fiducia. “Ricostruiremo tutto e non ci saranno alternative alle nostre bandiere ucraine”, ha precisato. Il leader di Kiev, inoltre è tornato sulla volontà di avere un incontro diretto con Vladimir Putin. “Non c’è nessuno altro con cui negoziare – ha dichiarato a un giornale olandese – ha costruito uno stato in cui nessuno decide nulla”. E che la guerra sarà ancora lunga lo ha ammesso pure il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. “Non sono ottimista sulla pace in poche settimane. Non è un percorso breve, ma una strada stretta, in salita e difficile, ma questo non ci deve fermare”, ha spiegato tornando a parlare della necessità di una escalation diplomatica e “l’Italia è uno dei Paesi che può innescarla”, ha concluso. E le truppe di Mosca hanno bombardato di nuovo questa mattina la regione di Sumy, nel nordest dell’Ucraina, vicino al confine con la Russia: lo ha reso noto il comando operativo ‘Nord’ dell’esercito di Kiev, secondo quanto riporta l’agenzia Unian.

Intanto sono circa 30.150 i soldati russi uccisi in Ucraina dall’inizio dell’invasione, secondo l’esercito di Kiev. Nel suo aggiornamento sulle perdite subite finora da Mosca, l’esercito ucraino indica che dopo 95 giorni di conflitto si registrano anche 207 caccia, 174 elicotteri e 504 droni abbattuti. Inoltre le forze di Kiev affermano di aver distrutto 1.338 carri armati russi, 631 pezzi di artiglieria, 3.270 veicoli blindati per il trasporto delle truppe, 116 missili da crociera

Nessuna certezza su Severodonetsk

“Il nostro esercito è in una posizione difensiva difficile. La città è costantemente bombardata”. E’ quanto ha detto Oleksandr Striuk, capo dell’amministrazione militare civile di Severodonetsk, citato dai media internazionali. Nella notte il leader ceceno Ramzan Kadyrov aveva affermato che “Severdonetsk è sotto il nostro completo controllo. La città è stata liberata”.

Notizie da Mosca

L’agenzia russa Tass fa sapere che in Russia il comitato investigativo “indagherà su nuovi attacchi al territorio russo” da parte dell’esercito ucraino. In particolare, secondo l’agenzia le indagini riguarderebbero due episodi, due  bombardamenti  attribuiti all’esercito di Kiev: sul villaggio di Gornal, nella regione di Kursk, e sul villaggio di confine di Zernovo, nella regione di Bryansk.  e 13 navi. Inoltre, secondo la Tass che cita il ministro della Difesa russo, le forze russe con missili ad alta precisione hanno distrutto un grande arsenale delle forze armate ucraine a Kryvyi Rih, città natale del presidente Volodymyr Zelensky.

Proteste contro la guerra a Belgrado

Una manifestazione contro l’intervento militare russo in Ucraina si è svolta nel pomeriggio di ieri nel centro di Belgrado, capitale della Serbia. Al raduno sulla Piazza della Repubblica hanno partecipato cittadini serbi ma anche russi, ucraini e bielorussi, che hanno denunciato le conseguenze catastrofiche di questo  conflitto che va avanti da oltre tre mesi.  Oltre a quelle serbe, i manifestanti sventolavano anche bandiere russe e ucraine, come pure vessilli delle regioni russofone di Donietsk e Lugansk, nel Donbass ucraino.Al termine del raduno, i dimostranti si sono recati in corteo all’ambasciata russa, ai cui responsabili hanno consegnato un loro documento di denuncia della guerra. Quella di oggi è stata una delle rare mobilitazioni popolari a Belgrado contro l’intervento militare russo in Ucraina. Nella capitale serba si sono infatti registrate nelle scorse settimane anche dimostrazioni a sostegno di Mosca e del presidente Vladimir Putin. La Serbia è il Paese principale alleato della Russia nei Balcani e, pur condannando la violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina, Belgrado si rifiuta di aderire alle sanzioni occidentali contro Mosca invocando gli interessi nazionali della Serbia.

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De Gasperi e una difesa comune europea della pace a 70 anni dal Trattato rinnegato

Per l’Ucraina non solo risposte sul piano militare: serve riscoprire le radici di quella prospettiva di pace che si è imposta in Europa dopo la seconda guerra mondiale grazie a De Gasperi, Monnet, Adenauer. Sorprendente l’attualità delle pagine dello statista italiano a sostegno del progetto di difesa comune europea, come spiegano Sergio Fabbrini, Stefano Ceccanti, Claudia Mancina

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Di fronte allo choc della guerra alle porte dell’Unione europea, tornano drammaticamente attuali le pagine di Alcide De Gasperi sulla necessità di un’unione delle forze difensive dei Paesi Ue. A 70 anni dalla firma – il 27 maggio del 1952 – del Trattato per la Difesa comune europea (CED) che però non è mai stato ratificato dopo la bocciatura nel 1954 da parte della Francia, si parla di un’occasione persa da rivalutare.

La visione di De Gasperi e Spinelli

Nel convegno organizzato giovedì scorso all’Istituto Luigi Sturzo si è parlato di “Sicurezza quale base di ogni comunità politica: l’Unione di difesa europea per un nuovo ordine internazionale”. Ne abbiamo parlato con  il politologo Sergio Fabbrini, direttore della School of Government dell’Università Luiss:

Fabbrini ricorda il grande contributo in termini di idealità offerto dallo statista italiano Alcide De Gasperi e dal politico e scrittore Altiero Spinelli, altro padre fondatore dell’Europa unita, per l’elaborazione dei 132 articoli che con diversi protocolli formavano lo sfortunato trattato Ced. Un testo che non offriva solo l’idea di un insieme di truppe ma che concepiva la sicurezza come base di ogni comunità politica e, dunque, quale garanzia della democrazia. Ma – sottolinea Fabbrini citando brani delle raccomandazioni dello statista italiano – il messaggio che emerge è chiarissimo: superare egoismi e interessi nazionali per il bene dei popoli.

Il contesto di 70 anni fa che torna attuale

Fondamentale ricordare il contesto dei primi anni cinquanta in cui emergevano gli equilibri della cosiddetta guerra fredda. Dopo il dramma dei conflitti mondiali era fortissima la spinta a difendere la pace, la cooperazione tra i popoli, sottolinea Fabbrini. Nel 1949 nascevano il Consiglio d’Europa e la Nato. Nel 1951, su iniziativa dei politici francesi Jean Monnet e Robert Schuman e del cancelliere tedesco Konrad Adenauer e del primo ministro italiano Alcide De Gasperi nasceva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Fabbrini chiarisce che la CECA era pensata come passo iniziale di un processo federale europeo e soprattutto mette in luce un punto importante: la CECA era concepita in parallelo con il Trattato CED che – dice – doveva essere la gamba politico militare della costruzione.

Sicurezza al di là degli Stati

In particolare è il capitolo 38 del CED che tradisce la caratteristica di un trattato che sarebbe stato il più avanzato. Assicurare infatti una sicurezza per i popoli europei con un meccanismo sovranazionale in grado di andare al di là del campo di azione militare degli Stati avrebbe significato, e significherebbe oggi, blindare la pace: difenderla in modo indubitabilmente più efficace da attacchi esterni ma anche dagli interessi stessi dei singoli governi o Stati. In particolare, l’attualità di questo principio emerge nell’intervista con il costituzionalista Stefano Ceccanti, professore ordinario di diritto pubblico comparato all’Università  “Sapienza”:

Ceccanti offre una riflessione a breve e a lungo termine. Suggerisce di agire su due livelli. Il primo – spiega – è quello delle scelte immediate: un Paese aggredito va sostenuto, dice. Ma c’è anche un altro piano di intervento possibile e doveroso: quello di lavorare per un multilateralismo che eviti altre situazioni simili. Parla di impegno ineludibile. Se l’ordine mondiale vacilla – commenta – e se il ruolo del Consiglio di Sicurezza viene ridimensionato in un contesto di necessità di riforma della stessa Organizzazione delle Nazioni Unite, diventa davvero importante investire in una difesa comune europea che – sottolinea – abbia anche un addentellato di federalismo politico. E in questo senso – ribadisce Ceccanti – il richiamo alla concezione del Trattato CED è attualissimo.

Alla base i valori

A sottolineare la dimensione culturale della sfida che si pone è l’accademica e filosofa Claudia Mancina:

Mancina parla di contrapposizione concettuale tra democrazie e autocrazie e sottolinea l’importanza di difendere e valorizzare quello che viene definito “universalismo”, raccomandando però che sia universalismo dei valori. Spiega che si tratta di un’impostazione che ha fondamento nel messaggio cristiano che ha nei suoi presupposti l’orizzonte del bene comune di tutta la famiglia umana. Ricorda che in Occidente si è assistito a una parabola attraverso l’Illuminismo o il liberalismo. Ovviamente – ricorda – non sono mancati attriti, incongruenze, ma il punto non è questo: è importante – afferma – riconoscere un cammino concettuale che ha conservato valori come la libertà, la democrazia. E poi mette in luce l’importanza di ricordare tutto questo perché si  deve riconoscere oggi più che mai che c’è chi sostiene un’impostazione di pensiero ostile all’universalismo così inteso. Il fondamento teorico che si contrappone all’universalismo così inteso – spiega Mancina – si nutre di termini come nazionalismi o imperialismi.

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La Giornata per l’Africa e i 20 anni dell’Unione Africana

Gravi problemi ancora affliggono il continente africano – aggravati dalla pandemia e dalle ripercussioni della guerra in Ucraina – ma, a 20 anni dalla nascita dell’Unione Africana, bisogna guardare anche ai significativi passi dell’integrazione e al dinamismo nuovo dei giovani oltre gli stereotipi, come spiegano l’africanista Aldo Pigoli e Otto Bitjoka, presidente dell’Unione delle Comunità africane in Italia (UCAI)

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Da 59 anni si celebra, il 25 maggio, la Giornata per l’Africa, da quando in quella data del 1963 nasceva l’Organizzazione dell’Unità Africana, con la firma dei leader di 30 dei 32 Stati indipendenti del continente. Poi nel 2002 è nata l’Unione Africana (UA) che oggi comprende i 55 Stati riconosciuti del continente.

20 anni di Unione Africana

L’Unione africana è un’organizzazione internazionale e un’area di libero scambio e ha sede ad Addis Abeba, in Etiopia. Per un bilancio dei suoi 20 anni dalla nascita, abbiamo intervistato Aldo Pigoli, docente di Storia dell’Africa Contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano:

Il professor Pigoli ricorda che l’UA conta 55 membri. Non ne fanno parte i territori posseduti dagli Stati europei. Il Marocco, che si era ritirato dall’Organizzazione dell’Unità africana il 12 novembre 1984 a seguito all’ammissione nell’Organizzazione dell’Unità Africana della Repubblica democratica araba del Sarawi, è stato riammesso il 30 gennaio 2017.

I successi di un’integrazione regionale e continentale

Senza dubbio – riconosce lo studioso- si tratta di una sfida notevole: integrare un territorio vastissimo e variegato. Proprio considerando questo – sottolinea – si può dire che sono stati molto significativi i passi in avanti fatti. E fa riferimento ai vari livelli di integrazione che si possono constatare sul piano regionale e sul piano continentale su temi come la sicurezza e il sociale. Gli obiettivi non sono certo raggiunti ma i risultati si vedono – afferma – se si considera che si è riusciti ad evitare alcuni conflitti e che alcuni standard sul piano sociale si vanno affermando. Anche per quanto riguarda la cooperazione politico istituzionale contro il terrorismo si può dire che si è messa in moto una macchina importante.

Il più grande accordo di libero scambio

Il 21 marzo 2018, a Kigali, capitale del Rwanda – sottolinea Pigoli –  44 stati membri dell’Unione africana (UA) hanno firmato l’accordo che ha istituito l’area di libero scambio continentale africana, che nell’acronimo inglese viene definita AfCFTA. È previsto che l’accordo sia implementato nel corso di 10-15 anni e che includa circa il 90 per cento di tutti i beni. È il più grande accordo di libero scambio al mondo in quanto a numero di parti contraenti. La riduzione dei costi commerciali per gli esportatori è di estrema importanza dal momento in cui le imprese africane che commerciano con altri Paesi della regione devono sottostare a tariffe in media più alte (circa il 6,1 per cento) rispetto a quelle del commercio extra-regionale. L’accordo  è congiunto a tre protocolli che regolano lo scambio dei beni e dei servizi ma anche la risoluzione delle dispute.

E’ indubbiamente un passo più che considerevole all’interno del processo d’integrazione africana, ribadisce Pigoli. La speranza – sottolinea – è che l’accordo dia il via a una nuova traiettoria di sviluppo. Se tutti gli stati membri UA implementano l’accordo, l’AfCFTA comprende un mercato di 1,2 miliardi di persone e di 2,5 trilioni di dollari. Questo mercato considerevole – spiega – offre opportunità enormi per la crescita del commercio intra-africano, che nel 2016 ammontava a circa il 20 per cento del commercio totale dell’Africa. In secondo luogo, l’AfCFTA mira a contrastare le barriere non tariffarie sul commercio intra-africano, con l’obiettivo di facilitare il commercio continentale delle imprese africane. Rappresenta anche – mette in luce lo storico – il progetto più importante nell’ambito dell’Agenda 2063 dell’UA, Agenda 2063: The Africa We Want, che stabilisce le aree prioritarie per lo sviluppo del continente nei prossimi cinquant’anni.

Un processo lungo con accelerazioni recenti

L’AfCFTA fa seguito a un altro enorme successo nel processo di integrazione africana, la zona di libero scambio tripartita (TFTA). La TFTA, lanciata nel giugno 2015, che ha connesso 26 Paesi da Cape Town al Cairo appartenenti a tre Regional Economic Communities (RECs), ovvero la Common Market for Eastern and Southern Africa (COMESA), l’East African Community (EAC) e la Southern African Development Community (SADC). La decisione di lanciare il TFTA – suggerisce Pigoli – dimostra il rinnovato consenso politico dei leader africani sull’importanza di un’integrazione profonda per il raggiungimento di obiettivi di crescita, sviluppo e riduzione della povertà.

L’Africa non più solo fonte di materie prime

L’AfCFTA – chiarisce Pigoli – potrebbe fornire uno slancio decisivo al processo di trasformazione strutturale del continente – ovvero alla sua industrializzazione. Il commercio intra-africano è già oggi più orientato alla manifattura rispetto al commercio verso il resto del mondo, che è ancora invece basato principalmente sull’esportazione di materie prime. È probabile che Paesi come il Sudafrica e il Kenya, dotati di basi manifatturiere ampie e migliori infrastrutture stradali, ferroviarie e portuali, riusciranno a trarre maggiori benefici da questo accordo rispetto a economie più piccole. Ma Pigoli invita a riflettere su realtà che vengono poco raccontate, come ad esempio il livello di know how tecnologico che ha permesso al Rwanda di presentare sul mercato il primo smartphone interamente prodotto nel Paese africano.

Una struttura ricalcata sull’Unione Europea

Pigoli prende l’Unione europea come termine di confronto per parlare della struttura istituzionale dell’Unione Africana, anche se – sottolinea – ci sono ovviamente molte specificità e distinzioni. Indubbiamente però è al processo di integrazione europea – dice – che si sono ispirati i popoli africani. C’è – ricorda – una Assemblea dell’Unione africana composta da capi di Stato e di governo che si riunisce una volta all’anno in sessione ordinaria e ogni volta che lo richiedano i due terzi degli Stati membri. C’è la Commissione dell’Unione africana, con sede ad Addis Abeba, che rappresenta il segretariato dell’Unione.  C’è il Consiglio esecutivo è composto dai ministri degli Esteri o dai loro delegati. Oltre ai vari comitati di rappresentanti o tecnici.

La ricchezza dell’antropologia africana oltre gli stereotipi

L’immagine dell’Africa come continente afflitto da povertà e conflitti persiste malgrado le sue grandi potenzialità politiche, economiche, culturali e scientifiche. E’ essenziale andare oltre i pregiudizi e cercare di scoprire e capire la ricchezza culturale dei popoli africani, come sottolinea Otto Bitjoka, presidente dell’Unione delle Comunità africane in Italia (UCAI) parlando del valore simbolico della giornata per l’Africa:

Uno sguardo sull’andamento dell’economia africana mostra – sostiene Bitjoka – che, rispetto ad altri Stati del mondo, in diversi Paesi africani si assiste a una crescita molto elevata. Bitjoka cita la Nigeria, il SudAfrica e l’Egitto ma anche i Paesi del Golfo di Guinea, in particolare la Costa d’Avorio. Nonostante permangano notevoli differenze tra i singoli Paesi, negli ultimi due decenni ad esempio l’Africa subsahariana nel suo complesso ha registrato tassi di crescita annua che arrivano al 6,5 per cento.

Il valore dell’unità

Bitjoka spiega che a livello simbolico è importantissimo che si celebri una Giornata che richiama e rilancia il valore dell’unità di un continente dove – sottolinea – si fanno guerre per procura, le cosiddette proxy war volute e alimentate da Paesi terzi. Bitjoka ricorda che persistono gravi problemi come la povertà diffusa, la disuguaglianza e l’esclusione sociale, che sono stati aggravati dalla pandemia da Covid-19 e poi dalla crisi alimentare legata alla guerra in Ucraina, ma a gran voce ribadisce che l’Africa non è tutta lì. Ricorda che si parla di 30 chilometri quadrati di territorio e di realtà diverse tra loro. Fa un esempio: nella capitale della Costa d’Avorio, Abidjan, sembra di stare in una città come Parigi.

Al di là delle logiche del Pil

Bitjoka invita a considerare l’eccezionale varietà di ecosistemi africani e il grandissimo capitale umano rappresentato dai giovani. E avverte: se si vuole parlare di sviluppo in Africa non si deve considerare quello che definisce il punto di vista privilegiato dell’Occidente e cioè la considerazione dei dati economici e del Prodotto Interno Lordo (Pil) di un Paese. Rivendica per gli africani una antropologia culturale diversa che considera altri aspetti prima di quelli prettamente economici. Bitjoka parla di popoli accomunati da un senso diverso di comunità, che mette l’accento – spiega – più sul destino della comunità e della persona che sugli scopi, che considera prioritari il senso della libertà nella comunità, il ruolo della donna piuttosto che l’arricchimento. Si tratta – ammette – di una ricchezza del subconscio collettivo che va rivalorizzata e riscoperta con un risveglio di Nuovo Umanesimo – dice – di cui si vedono alcuni segni importanti. Certamente – raccomanda – si dovrebbe riscoprire il più autentico spirito africano che prevede – racconta – un incontro sotto l’albero del baobab per dirimere le controversie. Le guerre – afferma – e la produzione delle armi non sono un fattore endemico in Africa.

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Ifad: c’è spazio di azione per salvare i Paesi più poveri dalla crisi

Di fronte alle conseguenze economiche sul piano mondiale della guerra in Ucraina, il Fondo delle Nazioni Unite lancia un’iniziativa concreta per proteggere i mezzi di sussistenza e i mercati più vulnerabili. Sono almeno 22 i Paesi più colpiti, a partire dalla Somalia. Lo spiega Federica Cerulli, esperta Ifad, denunciando un paradosso: più sono poveri e indebitati e più è difficile intervenire

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In uno scenario in cui la guerra in Ucraina sta facendo salire i prezzi di alimentari, carburante e fertilizzanti a livelli record mettendo a rischio la sicurezza alimentare in molti dei Paesi più poveri del mondo, il Fondo Internazionale delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Agricolo (IFAD) ha lanciato in questi giorni l’Iniziativa di risposta alla crisi (Crisis Response Initiative) per far sì che i piccoli agricoltori nei Paesi ad alto rischio possano produrre nei prossimi mesi cibo per nutrire le loro famiglie e comunità, riducendo al contempo le minacce verso i raccolti futuri. Ne abbiamo parlato con Federica Cerulli, esperta dell’Ifad per la mobilitazione delle risorse finanziarie:

Lo sconvolgimento dei mercati globali sta scuotendo i sistemi alimentari nel profondo, avverte Cerulli sostenendo che è particolarmente allarmante per i Paesi già colpiti dall’impatto del cambiamento climatico e da quello del COVID-19, dove un maggior numero di persone è alle prese con povertà e fame. La nuova iniziativa dell’IFAD – spiega – aiuterà a proteggere i mezzi di sussistenza e i mercati in modo che le persone più vulnerabili possano continuare a nutrire le loro famiglie e comunità.

Un’azione concreta e immediata

Il ruolo dell’IFAD è fondamentale per mitigare qualsiasi shock ai sistemi alimentari e, così facendo, proteggere il progresso dello sviluppo a lungo termine. Lo ricorda Cerulli affermando che la comunità internazionale deve essere pronta ad affrontare le conseguenze profonde e destabilizzanti di questo conflitto in Europa. L’iniziativa dell’Ifad è concreta: il Fondo Onu chiede agli Stati membri di contribuire alle ingenti risorse necessarie per coprire tutti i 22 Paesi elencati nell’Iniziativa come prioritari in base al bisogno. E – mette in luce  Cerulli –  in particolare per i primi tre, tra cui la Somalia, chiede un impegno immediato.

Le aree più colpite

Le ripercussioni della guerra – ricorda l’esperta – si fanno sentire in maniera più forte in alcune parti dell’Africa, del Vicino Oriente e dell’Asia centrale, ma anche altri Paesi e regioni vengono colpiti di giorno in giorno. Molti Paesi sono vulnerabili agli shock dei prezzi a causa della loro forte dipendenza dalle importazioni di cibo ed energia dalla Russia e dall’Ucraina. Altri Paesi  specialmente in Asia centrale  – chiarisce –  stanno sperimentando un deterioramento del commercio insieme ad una significativa riduzione dell’afflusso di rimesse. L’elenco completo comprende: Somalia, Afghanistan, Yemen, Mozambico, Haiti, Etiopia, Burundi, Eritrea, Madagascar, Repubblica Centrafricana, Malawi, Ciad, Niger, Mali, Uganda, Liberia, Guinea-Bissau, Gambia, Comore, Sri Lanka, Bhutan, Benin.

Risorse essenziali per l’agricoltura

Le popolazioni rurali vulnerabili sono colpite duramente dall’aumento dei prezzi dei fattori di produzione agricoli essenziali, soprattutto ora che inizia una nuova stagione di semina. I piccoli agricoltori – è il primo esempio di Cerulli – stanno lottando per pagare il carburante per i macchinari, i costi dei fertilizzanti e dei trasporti per raggiungere i mercati, e la maggior parte non ha la capacità di assorbire gli aumenti dei prezzi.

Cerulli spiega che, basandosi sulla recente esperienza dell’IFAD nella risposta al COVID-19, l’Iniziativa è orientata a garantire ai piccoli agricoltori l’accesso ai principali fattori produttivi agricoli, al carburante, ai fertilizzanti, ai finanziamenti per le necessità immediate e all’accesso ai mercati e alle informazioni relative al mercato. L’iniziativa contribuirà anche a ridurre le perdite post-raccolto investendo in infrastrutture su piccola scala.

Il caso Somalia

In Somalia, uno dei Paesi prioritari per la Crisis Response Initiative, i costi dell’elettricità e dei trasporti sono saliti alle stelle – denuncia Cerulli – da quando è iniziato il conflitto in Ucraina. I piccoli agricoltori che fanno affidamento sull’irrigazione alimentata da piccoli motori diesel ne sono stati colpiti. Questo shock aggrava le preoccupanti prospettive di carestia in un Paese già nel mezzo di una grave siccità. La maggior parte degli agricoltori locali non è in grado di comprare il carburante e di conseguenza ha subito delle perdite. Si sente l’effetto a spirale sul costo dei trasporti, del cibo e di tutti gli altri beni essenziali. Il punto è che la spirale dei prezzi del cibo e dell’energia potrebbe alla fine portare a disordini sociali e destabilizzare i Paesi, in particolare gli Stati fragili. È in gioco la stabilità a lungo termine.

Il paradosso del debito

Con la crisi del COVID-19, l’indebitamento è naturalmente aumentato in modo marcato in ogni regione del mondo, per le economie africane ha significato l’aumento dei timori circa la sostenibilità del debito o in alcuni casi ha segnato la resa in questo senso. C’è poi il caso della Somalia che risulta aver fallito l’obiettivo di rientrare nei parametri. E purtroppo – è il fattore che vuole denunciare Cerulli – nella crisi attuale tutto questo comporta un’impasse: non si possono assicurare fondi di aiuti a questi Paesi non in regola con il debito. L’Ifad che risulta essere uno degli enti  finanziari creditori e dunque non può erogare altri fondi o inserire Mogadiscio in alcuni programmi. Tutto quello che si può – spiega Cerulli – è lavorare con partner che assicurano aiuti sul territorio. L’Ifad è impegnata per assicurare in varie modalità che arrivi in ogni caso sostegno agli agricoltori in questo difficilissimo contesto, ma spiega che l’Ifad è impegnato intanto attivamente a sostenere la causa della cancellazione del debito.

L’Italia chiede un’alleanza globale per la sicurezza alimentare

Intanto, parlando a margine della riunione dei ministri del G7 in Germania, il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, ha affermato che l’Italia esprime grande preoccupazione per quello che sta avvenendo nel Mediterraneo rispetto per esempio alla crisi del grano”. E ha fatto sapere che come Italia e come ministero degli Esteri si sta organizzando un dialogo a livello ministeriale con tutti i Paesi del Mediterraneo insieme con la Fao, che vedrà “la prima iniziativa in Italia il prossimo mese”. Ha aggiunto: “Lavoreremo insieme con i Paesi del Mediterraneo per permettergli di diversificare le fonti di approvvigionamento dei beni di prima necessità in modo tale da scongiurare una crisi alimentare, che può portare a carestie e flussi migratori sempre più massicci”. Il titolare della Farnesina ha detto di salutare “con grande favore l’iniziativa tedesca, sotto la presidenza G7, di costituire un’alleanza globale per la sicurezza alimentare”. Di collegialità Di Maio ha parlato anche per dire che “non si può pensare di raggiungere un accordo di pace attraverso iniziative isolate, serve collegialità nel costruire un vero e proprio percorso negoziale”.

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9 maggio: per l’Europa è tempo di tornare a difendere la pace

Guerra, difesa comune, voce dei cittadini: la celebrazione della Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 quest’anno ha i toni drammatici della crisi ucraina e della difficile unità tra Paesi Ue. Servono i valori più autentici del progetto europeo e nessuna resa alla sola logica delle armi, come sottolineano Francesco Tufarelli e PierVirgilio Dastoli parlando di responsabilità e di iniziative concrete da non trascurare

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In un momento storico già segnato dalla pandemia, l’invasione russa dell’Ucraina conferma quanto fondamentali siano solidarietà, cooperazione e unità, valori propri del progetto europeo insieme con democrazia, diritti, pace. L’obiettivo  di licenziare alla vigilia della festa dell’Europa il sesto pacchetto di sanzioni contro il presidente russo Putin, per l’invasione dell’Ucraina e i continui bombardamenti, non è stato raggiunto. Anche la quarta riunione degli ambasciatori degli Stati Ue ieri mattina a Bruxelles è terminata senza accordo.

Pensare il futuro dell’Europa ricordando la visione della Dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio 1950 diventa urgente più che mai. Ne abbiamo parlato con Francesco Tufarelli, direttore dell’Ufficio coordinamento del Dipartimento per le Politiche Europee della Presidenza del Consiglio dei ministri:

Tanto si può fare e l’Europa deve fare per difendere la pace con gli strumenti a disposizione – sottolinea Tuffarelli – ma è innegabile che il nodo della difesa europea è tornato alla luce di fronte all’invasione dell’Ucraina iniziata il 24 febbraio scorso, dopo anni di conflitto ai confini est.

La difesa comune

La difesa europea – dice Tufarelli – è un progetto coerente con il Trattato Ced voluto da De Gasperi e Spinelli nel 1952-1954, siglato  esattamente  70 anni fa, il 27 maggio 1952  che poi – ricorda – purtroppo è caduto all’Assemblea nazionale francese anche per la concomitanza con la crisi indocinese. Secondo Tfarelli proprio ripensando all’origine del progetto, è importante una precisazione per allora e per oggi:  la difesa comune europea è vista come il secondo pilastro della Nato e non fuori dell’Alleanza Atlantica. Anche il presidente del Consiglio dei ministri Draghi – ricorda – ha ribadito in questo contesto nei giorni scorsi che “gli  investimenti nella difesa devono essere fatti nell’ottica di un miglioramento delle  capacità collettive  come Unione Europea e come Nato”.   E c’è poi un’altra precisazione da fare: De Gasperi e Spinelli lavorarono – spiega Tufarelli – per inserire  un articolo dedicato, il n. 38 del Trattato, che prevede che la prospettiva della difesa comune vada inserita in nuove istituzioni che comportino una maggiore unità politica e maggiori disponibilità di bilancio, dal momento che la nazionalizzazione di molte politiche produce inefficienze e ignora gli effetti asimmetrici delle crisi sui vari ambiti decisionali.

Il punto dunque – avverte Tufarelli – è che il progetto di difesa comune ha avuto una battuta d’arresto ma non si è mai davvero interrotto: a vari livelli il confronto tra Paesi, a livello dei debiti “consigli” – assicura – è proseguito. E Tufarelli fa anche un esempio molto concreto: la presidenza di turno di uno di questi consigli che porta avanti il dibattito preparando il terreno è oggi affidato alla Repubblica Ceca, un’ipotesi che anni fa sarebbe apparsa impensabile. Di fatto dunque è necessario di fronte ai fatti attuali riprendere – spiega – o rilanciare il progetto di difesa comune ma considerando che una piattaforma di dialogo non si è mai fermata e c’è un “tesoro” di lavoro svolto che non va dimenticato. Questo non significa – precisa – che sarebbe possibile domani arrivare a una difesa comune ma che esiste un bagaglio di lavoro dei tecnici da rivalutare.

Non silenziare la voce dei cittadini europei

Oggi 9 maggio, si conclude la Conferenza sul futuro dell’Europa (Cofoe) che per un anno ha significato migliaia di incontri e scambi a livello di tutte le rappresentanze di cittadini. L’elaborazione finale coincide quest’anno con la tragedia in Ucraina che si consuma dopo oltre due mesi di bombardamenti. E’ sconcertante pensare di ricordare la fine della Seconda Guerra mondiale, la vittoria sul nazismo, mentre il presidente russo Putin porta avanti scelte di aggressione e di guerra. Si presenta sempre più chiara l’alternativa tra multilateralismo e nazionalismi.

Non si deve  permettere agli eventi e all’angoscia che comportano di oscurare il frutto di una consultazione popolare dalla quale è emersa – insieme con la richiesta a gran voce di difendere la pace – una domanda di più Europa e non meno Europa, come sottolinea  Pier Virgilio Dastoli, presidente del Consiglio italiano del Movimento Europeo, che ha seguito tutto l’iter di un anno della Cofoe:

Prima di entrare nello specifico di alcuni temi, Dastoli sottolinea una richiesta emersa: istituire un eventuale meccanismo di feedback diretto da parte dei cittadini per monitorare i passi che si fanno sulle   questioni chiave. E’ una precisa novità. E poi Dastoli riferisce  che nonostante una partenza stentata e uno sviluppo in pieno periodo pandemico  la Conferenza sul Futuro dell’Europa   ha prodotto oltre 50 pagine di proposte suddivise in 49 paragrafi. Le diverse proposte– spiega – saranno acquisite attraverso la piattaforma predisposta dalla Commissione europea. Dastoli riconosce che si è trattato di un numero ovviamente esiguo di cittadini consultati, ma assicura che tanta gente si è sentita coinvolta e ha offerto pareri e proposte. Innanzitutto, sottolinea che innegabilmente emerge la richiesta di rafforzare l’impegno comune, di non abbandonare il sogno europeo. Si chiede di criticarlo – spiega – per migliorarlo, non certo per darlo per superato. Questo – sottolinea – è il dato essenziale. Un dato che di fronte alla guerra in Ucraina si è rafforzato.

L’importanza del capitolo energia

Volendo sottolineare alcuni punti chiave emersi nella sensibilità dei cittadini, Dastoli fa riferimento alla crescita sostenibile e all’innovazione. Non sono solo parole dei politici, anche la cittadinanza – precisa –  fa presente con vigore la necessità di affrontare le questioni della sostenibilità e dell’accessibilità  in termini economici  dell’energia. E la richiesta di  aumentare  la quota di energia proveniente da fonti sostenibili. Non è stato solo il panel dall’Italia a ribadirlo – racconta – ma lo hanno fatto con insistenza anche i panel   da Lituania, Germania, Paesi Bassi, Francia. Si chiede anche  di creare un quadro migliore per gli investimenti in ricerca e innovazione a favore di modelli aziendali più sostenibili e rispettosi della biodiversità, concentrandosi sulla tecnologia e l’innovazione intesi come motori della crescita. Ugualmente significativo – prosegue Dastoli – si è rivelato il contributo nel capitolo dedicato al rafforzamento della competitività dell’Unione completando e approfondendo ulteriormente il mercato unico, antico cavallo di battaglia del Governo italiano.  Che signfica anche – precisa – l’’esigenza di  ridurre la standardizzazione dei prodotti riconoscendo le peculiarità culturali e produttive locali e regionali, dunque  rispettando in pratica le tradizioni di produzione.

La priorità del lavoro

La bozza di conclusione della Cofoe – rileva Dastoli – non omette di occuparsi di politiche di occupazione integrate a livello di Unione europea. Ribadisce la necessità che le politiche attive del mercato del lavoro rimangano centrali e sempre più coordinate, lasciando agli Stati membri la facoltà di proseguire nei loro sforzi di riforma per creare condizioni favorevoli alla creazione di posti di lavoro di qualità. Sempre in tema di lavoro – prosegue – il documento finale recepisce integralmente le raccomandazioni dei panel dei cittadini italiani i quali hanno a gran voce chiesto di promuovere l’occupazione e la mobilità sociale, in vista di una piena possibilità di realizzazione personale e di auto determinazione. Molto articolato risulta il suggerimento sviluppato dall’Italia  in materia di parità di genere, in questo senso in linea con la strategia dell’unione 2025 si propone di continuare a misurare la parità di genere mediante un indice sull’uguaglianza di genere (atteggiamenti, divario retributivo, occupazione, leadership) monitorando la strategia annualmente ed essendo trasparenti nella pubblicazione dei risultati conseguiti, incoraggiando la condivisioni delle competenze e delle migliori pratiche non omettendo il possibile monitoraggio da parte dei cittadini.

Il bisogno di famiglia

Nella parte connessa alla transizione demografica, specifico oggetto di trattazione nel panel dei cittadini italiani, emerge la raccomandazione di migliorare la legislazione e la relativa attuazione per garantire il sostegno alle famiglie in tutti gli stati membri nello specifico per quanto riguarda il congedo parentale gli assegni di natalità e gli assegni familiari, l’individuazione degli strumenti rileva l’attenzione destinata all’argomento. Una raccomandazione ad hoc è poi destinata alla promozione dell’età pensionabile flessibile tenendo conto della situazione specifica degli anziani. Da notare che nel determinare l’età pensionabile si auspica di operare una differenziazione a secondo della professione tenendo conto dei lavori particolarmente impegnativi sul piano sia mentale che fisico.

Superare l’ipocrisia delle politiche fiscali

Viene sottoscritta – mette in luce Dastoli – la necessità, con alcune proposte formulate, armonizzare e coordinare le politiche fiscali nei Paesi dell’Unione. L’obiettivo che emerge è molto chiaro:   prevenire l’evasione e l’elusione fiscali, evitando la creazione di paradisi fiscali all’interno dell’Ue. E si chiede di aprire un dibattito particolare e serio sulla  delocalizzazione all’interno dell’Europa, che tanto ha a che fare con le diverse politiche fiscali.

Lavorare per il cessate il fuoco in Ucraina

Dastoli ricorda che non si può lasciar cadere nessuna possibilità di contribuire alla pacificazione. E’ un dovere dell’Europa – precisa – ed è quello che vogliono i cittadini. Non si deve parlare – raccomanda – solo delle mosse di guerra e delle armi inviate. Si devono sostenere iniziative  concrete. A questo proposito Dastoli ricorda la lettera che ha inviato in qualità di presidente del Movimento europeo in Italia   al Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antònio Guterres. Si tratta – chiarisce – del testo della petizione alle istituzioni europee in cui si sostiene la  richiesta di un immediato “cessate il fuoco” e si sollecita l’Assemblea generale dell’Onu a decidere di inviare in Ucraina delle forze internazionali di peacekeeping per garantire Il rispetto del “cessate il fuoco”.  Il presidente del Movimento europeo ha chiesto ad Antònio Guterres di sottomettere la petizione al presidente russo Vladimir Putin in occasione dell’incontro al Cremlino del 26 aprile. Sappiamo – ricorda – che non è stata accolta ma – aggiunge – non si deve smettere di lavorare in questa direzione.

La Dichiarazione Schuman

Il 9 maggio si ricorda la Dichiarazione rilasciata dall’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman il 9 maggio 1950, che proponeva la creazione di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio, i cui membri avrebbero messo in comune le produzioni di carbone e acciaio. La CECA – di cui poi sono stati fondatori Francia, Germania occidentale, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo –  è stata la prima della serie di istituzioni europee sovranazionali che hanno condotto a quella che si chiama dal 1992 Unione europea. Nel 1950, le nazioni europee cercavano ancora di risollevarsi dalle conseguenze devastanti della Seconda guerra mondiale, conclusasi cinque anni prima. Determinati ad impedire il ripetersi di un simile terribile conflitto, i governi europei giunsero alla conclusione che la fusione delle produzioni di carbone e acciaio avrebbe fatto sì che una guerra tra Francia e Germania, storicamente rivali, diventasse – per citare Robert Schuman – “non solo impensabile, ma materialmente impossibile”. Un’iniziativa che sul territorio dei Paesi membri Ue ha dato i frutti di 70 anni di pace e che deve far pensare oggi a quanto sia fondamentale mettere in campo tutta l’inventiva e la creatività per difendere la pace.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-05/europa-ucraina-guerra-schuman-difesa-comune-conferenza-futuro.html

“Vite digitali”: esperti e filosofi a confronto sui rischi etici della tecnologia avanzata

Innovazione sociale, sostenibilità, religione e spiritualità, guerra e armi, robotica, sanità, sviluppo economico, modelli educativi: nessun ambito è esente dalle conseguenze dell’IntelligenzaArtificiale. Se ne parla al Festival dell’Etica di Roma dal 6 all’8 maggio. Non è questione di morale, ma di senso dell’umano di fronte a prospettive come il cosiddetto “human enhancement” o ” potenziamento umano”, spiega il filosofo Sebastiano Maffettone

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Organizzato da Ethos, l’Osservatorio di etica pubblica della Luiss Business School, e da Fondazione Musica per Roma il festival “Vite digitali” – in programma dal 6 all’8 maggio all’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone a Roma –  si pone l’biettivo di discutere delle conseguenze sociali, politiche, morali della cosiddetta Intelligenza Artificiale. Tra i relatori della prima sessione, il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, l’arcivescovo Vincenzo Paglia.

Un panel di alto livello

Tanti e diversi per competenze i partecipanti alle varie tavole rotonde. Solo per citarne alcuni: da Derrik de Kherckhove, sociologo tra i massimi esperti mondiali di mass media, a Giuliano Amato, presidente della Corte Costituzionale; da Casper Klynge, vicepresidente Microsoft, a Mario Rasetti, professore emerito di Fisica teorica; da Paola Severino, già ministro della giustizia in Italia, a Pietro Labriola, designer e storico statunitense. Da Luigi Nicolais, accademico e politico già presidente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), a Guglielmo Tamburrini, ordinario di Logica e Filosofia della Scienza.

Scottanti le sfide

Il rapporto tra Etica e Intelligenza Artificiale viene declinato in riferimento a tante questioni fondamentali per l’uomo di oggi e per le società. Delle tante tematiche, ma anche  del peso che può avere la guerra in Ucraina sul dibattito, abbiamo parlato con il filosofo Sebastiano Maffettone, direttore di Ethos:

Maffettone innanzitutto sottolinea che quanto sta accadendo in Ucraina ha un peso sicuramente perché “pesa” nei cuori di tutti, anche di tutti i partecipanti. Il punto è comprendere che al di là del dramma, purtroppo vecchio dei conflitti, e mentre si consumano tragedie come quella dell’Ucraina e non solo, esistono sfide inquietanti. Ricorda che il contesto storico con i grandi cambiamenti digitali ci porta a parlare di post umano o transumano, identificando scenari in cui l’uomo in qualche modo – Maffettone fa l’esempio di microchip nel cervello ma anche di aspetti più sottili – delega facoltà alla tecnologia. Maffettone sgombera il campo dall’ipotesi che al festival si voglia parlare dal punto di vista della “morale”. Non si tratta di questo, spiega il filosofo. Si tratta piuttosto di comprendere le implicazioni di quello che si avverte sempre più come un fortissimo rischio: che la persona rinunci al senso critico nei confronti delle varie tecnologie. Significa essere fruitori passivi – afferma il filosofo – ma significa anche, ed è ben più grave, lasciare che la tecnologia pervada la persona e la sua vita tanto da diventare protagonista proprio in tema di scelte e di orizzonti possibili di scelta. Un esempio è quella che Maffettone definisce la Babele di messaggi estremisti e radicali che imperversa su internet e sui social, ma un altro esempio è anche la pervasività di algoritmi che finiscono per determinare scelte.

Tante le declinazioni possibili nella vita reale

Nella parole di Maffettone è chiaro come la questione si declini, e si debba declinare, in tanti ambiti: innovazione sociale, sostenibilità, religione e spiritualità, guerra e armi, robotica, sanità, sviluppo economico, nuovi modelli educativi, il cosiddetto human enhancement, che – spiega – indica proprio quella sorta di “rinforzo” delle potenzialità dell’uomo di cui si discute in relazione alla cosiddetta intelligenza artificiale. Per non parlare anche – aggiunge il filosofo – dell’ambito della creazione artistica. Le intelligenze artificiali (IA) acquisiscono sempre più capacità predittiva  e un ruolo di primo piano in molti settori della vita nell’era digitale – ribadisce -ponendoci di fronte a sempre nuove questioni etiche. Il dibattito su regole o principi è solo un aspetto. A questo proposito Maffettone argomenta di “umanismo”, spiegando che si tratta di un’espressione che, rispetto al termine umanesimo offre meglio l’idea di non potersi accomodare su una tradizione del passato, come quella gloriosa dell’Umanesimo tra XV e XVI secolo, ma di dover inventare una forma nuova di speculazione sulle cose umane e sulle sfide culturali che poggi su quel bagaglio ma che sia anche all’altezza degli sconvolgenti cambiamenti epocali che viviamo. Peraltro Maffettone fa una precisazione: umanismo è termine usato nel secolo scorso con un’accezione troppo legata al prototipo di uomo bianco etc. Va liberato – dice – da connotazioni improprie e limitanti e va inteso per ogni persona, uomo, donna, di qualunque colore di pelle o altro.  Ma – aggiunge – questo termine come altri possibili devono servire a ragionare della difesa di quanto di più propriamente umano c’è nella dimensione di vita.

Nei confronti della tecnologia né pregiudizi né sudditanza

Nessuna demonizzazione: Maffettone ribadisce che non ci sono pregiudizi nei confronti della tecnologia: oggi macchine basate su algoritmi riescono a fare diagnosi mediche con una percentuale di esattezza che in alcuni casi supera quella di un medico. Ma il punto è non rinunciare all’umano.  E fa un esempio concreto: internet ha aperto la via a piattaforme digitali che gestiscono il lavoro ma siamo arrivati al paradosso – ricorda – che in virtù di spersonalizzazioni tra datore di lavoro e impiegato, di parcellizzazione delle funzioni,  un guadagno venga spartito per due terzi alla piattaforma e per meno di un terzo al lavoratore, con la conseguenza di andare a accentuare le già gravi disuguaglianze sociali.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-05/intelligenza-artificiale-post-umano-algoritmi-digitale-guerra.html

Litio e guerra: come cambia la geopolitica dell’America Latina

La preziosa risorsa del litio e la questione delle migrazioni: due temi scottanti per l’America Latina e in particolare per il Messico, che con la guerra in Ucraina contribuiscono ad aprire nuovi dossier nei rapporti con l’Europa e con gli Stati Uniti, come spiega lo storico Paolo Valvo alla luce della cronaca di questi giorni

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Due viaggi in questa settimana aiutano a focalizzare le priorità, in questa fase storica, di Paesi chiave dell’America Latina e le dinamiche in atto nei rapporti con gli Stati Uniti e anche con l’Europa. Il primo è il viaggio dell’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Borrell, a Panama appena concluso. Il secondo è il viaggio che inizierà domani il presidente messicano Obrador in Guatemala, Salvador, Honduras e Cuba. Sullo sfondo c’è anche un viaggio “ideale”, cioè la rete di rapporti che Obrador sta tessendo con Bolivia, Argentina, Cile: in questo caso si tratta della nuova politica di nazionalizzazione del litio, materia prima preziosa per diversi utilizzi anche energetici, e non solo quello combinato per le batterie dei telefonini. Più di un filo rosso lega tutti questi viaggi, spiega Paolo Valvo, storico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore:

Nel viaggio di Borrell a Panama – spiega Valvo – dobbiamo leggere vari aspetti, tra cui la questione delle sanzioni a Mosca perché l’Europa ne ha fatto la sua scelta principale di fronte all’invasione dell’Ucraina, mentre nell’America del sud non c’è stata adesione. Ma c’è un’altra questione, avverte Valvo: quella del bisogno dell’Europa di ripensare i suoi approvvigionamenti di materie prime legate in particolare all’energia e all’hi-tech. Il bisogno di creare rapporti e commerci con altri grossi Paesi per sganciarsi dalla Russia. Certamente – ricorda lo storico – Borrell ha discusso dei rapporti bilaterali con il governo panamense e ha incontrato  i ministri degli Esteri centroamericani e dei Caraibi per analizzare l’impatto della guerra in Ucraina sulla regione.  “E’ il Primo Gruppo di lavoro Centro America-Caraibi più l’Unione Europea” – si legge nei comunicati panamensi –  e “il primo gruppo regionale al mondo dedicato all’analisi delle conseguenze del conflitto in Ucraina sotto tre assi: aumento dei prezzi del greggio e del carburante; aumento della filiera alimentare e di altri beni di prima necessità; cambiamenti nella distribuzione e nel consumo di energia che influenzeranno l’ambiente e il finanziamento dei progetti”. Durante la sua visita – sottolinea Valvo – Borrell ha tenuto inoltre incontri bilaterali a margine. Non è un segreto che l’Europa, considerando il dramma dell’invasione russa in ucraina, sta cercando altre fonti di approvvigionamenti energetici e di materie prime.

La questione litio

Valvo si sofferma sulla questione litio per ricordare che è considerato l’oro bianco del pianeta, la base dell’energia del futuro. Visto che il Messico ha scoperto di possedere la riserva più grande al mondo, un giacimento con 3,5 milioni di tonnellate, 40 volte la quantità che si è consumata nel 2021, – sottolinea lo storico esperto di America Latina – Obrador vuole preservarlo dagli appetiti delle multinazionali estere, che già si sono ben manifestati. Si tratta del giacimento scoperto tre anni fa, ma non ancora estratto e lavorato, che si trova nel cuore del deserto di Sonora. E ricorda che il Congresso del Messico il mese scorso ha approvato un disegno di legge per nazionalizzare il litio, rafforzando il controllo delle risorse minerarie strategiche, annunciando che saranno riesaminati tutti i contratti per sfruttare il metallo. E la Corte suprema messicana ha convalidato la legge sull’industria elettrica voluta dal presidente che mira a limitare la proprietà privata nel settore dell’energia.  Il presidente Andrés Manuel López Obrador ha annunciato dunque a febbraio scorso la nascita di un’impresa statale che sfrutterà il minerale – ricorda Valvo – e lo ha inserito nel suo piano di riforma elettrica come risorsa naturale strategica del Paese.

Il braccio teso a Bolivia, Argentina, Cile

Proprio ieri Obrador ha dichiarato – riferisce Valvo – che il Messico sta lavorando con i governi di Argentina, Bolivia e Cile per creare una speciale cooperazione sul litio, in tema di sviluppo,  esplorazione,  elaborazione,  nuove tecnologie. Valvo sottolinea che i tre Paesi dell’America del Sud da soli producono il 60 per cento di tutto il litio disponibile attualmente al mondo. Il punto – focalizza Valvo – è  che il Messico come gli altri Paesi coinvolti hanno seri limiti di know how e di infrastrutture per lo sfruttamento. Da qui le prospettive di cooperazione tra Paesi dell’area ma anche di commercializzazione con Paesi sviluppati di altre aree geografiche. In particolare,  Valvo riferisce della decisione del messico di organizzare una grande conferenza regionale sul tema entro il 2022.

Lo sguardo all’America Centrale e ai Caraibi

Il presidente messicano Andrés Manuel Lopez Obrador  fra il 5 e l’8 maggio visiterà tre nazioni centroamericane e poi Cuba, avrà  colloqui   con i rispettivi capi di Stato sui principali problemi regionali e internazionali. E’ immaginabile – sottolinea il professor Valvo – che si discuta anche delle strategie  possibili di fronte al conflitto in Ucraina, che investe non solo Mosca e Kiev ma in prima battuta le potenze occidentali, tutti i Paesi dell’Onu o Paesi tradizionalmente schierati con Mosca. Obrador ha precisato che incontrerà i presidenti di Guatemala (Alejandro Giammattei), El Salvador (Nayib Bukele), Honduras (Xiomara Castro) e Cuba (Miguel D¡az-Canel). Sono diverse le questioni che potranno emergere – afferma Valvo – oltre a quella sempre aperta delle migrazioni.

Anche ucraini tra Messico e Stati Uniti

Almeno 20.000 persone di nazionalità ucraina si trovano attualmente ai valici tra Messico e Stati Uniti e almeno  500 persone provenienti dall’Ucraina, tra cui 100 bambini,  si trovano alla periferia di Città del Messico in un campo profughi in attesa di avere il via libera verso gli Stati Uniti. Washington, dopo l’attacco russo del 24 febbraio scorso, a fine marzo  ha annunciato che avrebbe accettato fino a 100.000 rifugiati ucraini: centinaia di persone sono entrate in Messico ogni giorno come turisti a Città del Messico o Cancun e sono volate a Tijuana aspettando per essere ammesse negli Stati Uniti al valico di frontiera di San Diego. Ma il confine con gli Stati Uniti è chiuso e gli ucraini sono stati raccolti in un campo profughi ad hoc.

Valvo chiarisce la posizione del presidente messicano Obrador: ha dichiarato proprio in  questi giorni – ricorda – che il programma di sostegno economico del governo degli Stati Uniti per il CentroAmerica sta facendo progressi, ma che questi sono “troppo lenti”. Durante una delle  sue tradizionali giornaliere conferenze stampa, lunedì scorso  Obrador ha ricordato che  ai tempi del presidente Trump si parlava di 4 miliardi di dollari, ma che fino ad ora sono stati autorizzati solo 100 milioni di dollari.   E  il capo dello Stato messicano ha citato il capo della Casa Bianca Biden per ribadire che  è  d’accordo che si affrontino le cause delle migrazioni, ma che  ci devono essere programmi per i governi centroamericani, e più visti temporanei di lavoro. Secondo Obrador, negli Stati Uniti  serve manodopera, e quindi la cosa più logica è ordinare rapidamente i flussi migratori e concedere opportunità ai centroamericani con i visti temporanei.

Proprio ieri l’Istituto Nazionale delle Migrazioni (Inm) ha fatto sapere   che il  Messico ha  recuperato dall’inizio dell’anno 19 corpi di migranti, morti per annegamento, nel Rio Bravo, nella parte del fiume che forma il confine tra lo Stato di Coahuila e gli Stati Uniti, dove i migranti cercano di attraversare.

Tra nuovi e vecchi eventi l’umanità

Della grande umanità dei messicani, dello spirito straordinario di accoglienza verso chi ha bisogno, anche nel nuovo contesto degli arrivi di ucraini,  parla don Cosimo Pedagna, da decenni alla periferia di Città del Messico:

Don Cosimo racconta di sacchetti di cibo raccolti ogni giorno e di una generosità perfino rinnovata dopo la pandemia. Vive tra i più poveri e assicura che è proprio tra i più bisognosi che non ci sono problemi a trovare un piatto da offrire a chi ne ha ancora più bisogno. Don Cosimo racconta di non rendersi neanche conto di quanti ucraini ci siano nei campi perché non è cambiato nulla nella disponibilità ad accogliere del popolo messicano, che – assicura – c’era prima delle grandi carovane del 2018-2019, dopo i forti flussi, in tempo di coronavirus e in tempo di riapertura dai lockdown. Sottolinea che a cambiare è stata forse la gioia: dopo la pandemia si averte – assicura – uno slancio più festoso. Del piano politico don Cosimo non parla se non per auspicare che si consolidino i recenti  interventi di welfare, a partire dal salario minimo, annunciato e portato avanti dalla presidenza Obrador.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-05/messico-migrazioni-guerra-energia-litio-oro-bianco-caraibi.html

Tanti pellegrini in Terra Santa: nel cuore la preghiera di pace

Pandemia, guerra in Ucraina, nuove tensioni tra israeliani e palestinesi non fermano i pellegrini in Terra Santa. Si possono raggiungere i luoghi di Gesù evitando i disordini, come spiega don Andrea Simone, guida dell’Opera Romana Pellegrinaggi, che, con il rettore della grotta di Nazareth frate Bruno Varriano, invita tutti ad unirsi in preghiera per la pace in questo tempo speciale del mese mariano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Terra Santa torna ad essere crocevia di fedeli e turisti, dopo due anni di pandemia e mentre la guerra in Ucraina scuote l’Europa e il mondo. L’anelito di pace si accompagna alla preoccupazione, ma non offusca la gioia di essere pellegrini sulle orme di Cristo, come ci racconta Simone Illiano che fa parte del gruppo che si trova in Terra Santa, guidato da don Andrea Simone, dell’Opera Romana Pellegrinaggi (Orp).  “L’aeroporto di Tev Aviv-Ben-Gurion diviene nuovamente il crocevia di culture ed accenti fra i più disparati – ci scrive mentre il gruppo visita località israeliane e palestinesi –   ebrei ortodossi e cristiani cattolici (o “latini”, come si preferisce chiamarli per distinguerli dai fratelli ortodossi con i quali condividono tanto le narrazioni della tradizione quanto i luoghi di culto principali), musulmani, copti e protestanti tornano nei luoghi della Fede”. “Dagli affollati Suq di Gerusalemme ai meno noti sentieri della Galilea, che attraversando il deserto conducono alla Giudea,  tutti i luoghi cardine dei sentimenti religiosi che in queste terre affondano le radici storiche, tornano a popolarsi di persone da ogni parte del mondo”.

Diffondere il messaggio di Cristo con il pellegrinaggio

Simone Illiano ci racconta che “le autorità israeliane non si sono fatte trovare impreparate davanti alla nuova e auspicata ondata di turismo che ha investito il Paese dall’inizio del nuovo anno: all’esito negativo del tampone eseguito nelle 72 ore precedenti al volo in partenza dal Paese di origine, per entrare in Israele è necessario sottoporsi ad un ulteriore test rapido il cui risultato determinerà un’eventuale quarantena presso la struttura ospitante”. Da parte sua, l’Opera Romana Pellegrinaggi non ha mai smesso di lavorare per pianificare la ripresa a pieno ritmo della  sua  missione: assolvere alla sua funzione pastorale di diffondere il messaggio di Cristo attraverso lo strumento del pellegrinaggio.

La gioia del ritorno a grandi numeri

“I teologi parlano di Teologia della Salvezza, qui si scopre la geografia della salvezza”, spiega don Andrea Simone, che ha partecipato al pellegrinaggio a luglio 2021 del gruppo di sacerdoti e giornalisti che ha dato il via alla ripresa dei viaggi dopo i lockdown. In quel caso i luoghi erano certamente fruibili in una dimensione speciale di silenzioso raccoglimento ma risultavano anche insoliti per la mancanza di fedeli che rappresentano sempre le pietre vive della chiesa. Don Andrea oggi  si dice entusiasta per il ritorno dei pellegrini. Un ritorno incoraggiato, in questo video realizzato da Simone Illiano, da frate Bruno Varriano, rettore della Grotta di Nazareth:

L’invito a visitare la Terra Santa dal parte del rettore della Grotta di Nazareth

La vicinanza di Papa Francesco alla Custodia  

Simone Illiano ci racconta che ha avvertito l’eco delle parole che Papa Francesco rivolse ai  frati della Custodia di Terra Santa  in occasione della sua visita a maggio 2014: “Se in Terra Santa è ancora possibile una presenza cristiana – sottolineò il Papa – è grazie a voi”. Illiano ricorda che nessuno avrebbe potuto immaginare che gli anni successivi avrebbero svuotato i luoghi di culto, costringendo i pellegrini a rinunciare ad uno dei viaggi più edificanti per la spiritualità. Nessuno avrebbe potuto immaginare quanto gli eventi pandemici, insistendo su un Paese già scosso da scontri geopolitici non irrilevanti, avrebbero minato le piccole realtà economiche locali. E afferma che in questo contesto si avverte più che mai l’importanza della Custodia. Sottolinea che il  turismo, per l’economia locale, è di fondamentale importanza. Il turismo cristiano, in particolar modo, è l’unica fonte di sostentamento delle poche comunità cristiane che abitano questi luoghi e che inevitabilmente risentono delle asperità fra lo Stato di Israele e i Territori palestinesi. Per poi ricordare l’importanza dell’impegno dei frati. A Betlemme, ad esempio, “non hanno mai smesso di organizzare corsi professionalizzanti di artigianato per i ragazzi del luogo perché la vendita di oggettistica religiosa aiuta le comunità locali”.

Pregare per la pace in Terra Santa e con la Terra Santa

L’esperienza di fede è  vissuta in modo particolare da questi  pellegrini, che rientreranno in Italia mercoledì 4 maggio, anche per i disordini e gli episodi di violenza che tra Israele e territori palestinesi hanno finora provocato in poche settimane la morte di almeno 15 israeliani e 27 palestinesi. C’era un certo timore a partire, spiegano, ma sono significative le rassicurazioni dell’Orp che monitora e modifica il tragitto delle visite in tempo reale a seconda delle notizie di cronaca, come nel caso della visita alla Spianata delle Moschee, chiusa dalle autorità per prevenire l’esasperazione delle tensioni.

Più che mai significativo l’appello a tutti i credenti ad unirsi in preghiera nella comunione profonda con la Terra Santa, che rilancia don Andrea Simone, in questo video realizzato da Simone Illiano, in cui ricorda la particolare opportunità del tempo mariano di maggio:

Il mese mariano visto dalla Terra Santa

In particolare, don Andrea Simone invita ad unirsi alla Preghiera eucaristica che si svolge ogni giovedì a Nazareth alle 20.30, ora locale, alle 19.30 italiane

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2022-05/terra-santa-pellegrinaggio-opera-romana-pace-guerra-israele.html

Forte tensione in Sri Lanka a tre anni dagli attacchi di Pasqua

Un Paese in preda ad una grave crisi economica e in piena contestazione ricorda gli attacchi in varie città del 21 aprile 2019. Non c’è chiarezza sulle responsabilità ma è evidente il legame con gruppi di matrice internazionale, come sottolineano l’arcivescovo di Colombo, cardinale Ranjith, e l’esperta di relazioni internazionali Silvia Menegazzi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

E’ alta la tensione in Sri Lanka. Ieri una persona è rimasta uccisa e altre 14 sono state ferite, di cui tre in maniera grave, dalla polizia che ha sparato vari colpi di arma da fuoco durante una protesta antigovernativa nella città di Rambukkana, circa 80 chilometri a nord-est della capitale Colombo. La polizia ha dichiarato di essere stata obbligata a intervenire per disperdere i manifestanti in risposta al lancio di sassi e altri oggetti e per impedire che dessero fuoco a un’autocisterna che conteneva 30mila litri di carburante. La scelta di sparare è stata fortemente criticata dalla rappresentante delle Nazioni Unite in Sri Lanka e dalla Commissione per i diritti umani del Paese, che ha aperto un’indagine su quanto successo. Le proteste a Rambukkana fanno parte di una serie di manifestazioni in corso nel Paese da settimane contro la gravissima crisi economica. Il 1 aprile il presidente Gotabaya Rajapaksa ha dichiarato lo stato di emergenza.

La strage nel 2019

Nello Sri Lanka, tra manifestazioni per il carovita e arresti,  si ricorda oggi la drammatica giornata del  21 aprile 2019, quando un attacco coordinato di sei attentatori suicidi colpì tre chiese e tre hotel in diverse città, uccidendo oltre 250 persone e ferendone molte altre. Accadeva durante le celebrazioni della Pasqua. La Zion Church di Batticaloa è una delle chiese prese di mira e lì 31 persone, tra cui 14 bambini, hanno perso la vita. A tre anni da questi avvenimenti, denuncia l’onlus Open doors (Porte aperte) da oltre 60 anni impegnata nell’assistenza ai cristiani che soffrono a causa della loro fede, la situazione della comunità cristiana in Sri Lanka continua ad essere critica.  La persecuzione è aggravata dalla crisi economica senza precedenti che il Paese sta affrontando.

L’appello dell’arcivescovo di Colombo

L’arcivescovo di Colombo, cardinale Albert Malcolm Ranjith Patabendige Don, spiega – in un’intervista alla fondazione Aiuto alla chiesa che soffre –  che l’impressione da subito è stata che l’organizzazione dell’attacco non poteva essere frutto di un gruppo locale, isolato: si è pensato subito a un’organizzazione strutturata. “A volte in questa lotta –  dichiara  il cardinale – mi sento un po’ come l’impotente Mosè quando ha cercato di condurre il suo popolo fuori dall’Egitto e attraverso il mare”. E l’arcivescovo spiega che c’è poca fiducia nelle commissioni di indagine locali, c’è necessità di organismi internazionali.  In qualche modo – sottolinea – rendere giustizia al popolo srilankese non significa vendicarsi, ma scoprire chi è veramente responsabile e perché. E ricorda: “Non c’era nessuna provocazione, le vittime non hanno mai fatto del male a nessuno”.

Responsabilità molteplici

Dopo tre anni e un impegno economico di 2,5 milioni di dollari, il governo dello Sri Lanka ha pubblicato il suo rapporto in 88 volumi sugli attentati della domenica di Pasqua del 2019. L’indagine ha portato a 23.000 accuse contro 25 persone. Tuttavia, la Chiesa cattolica non è convinta che giustizia sia stata fatta per i 269 morti e 500 feriti. L’arcivescovo di Colombo chiarisce: Il rapporto in sé è molto buono, ma devono essere attuate le raccomandazioni che emergono proprio dal rapporto. Ricorda che dall’India continuano a sostenere che le autorità dello Sri Lanka erano state avvertite su quanto si stava preparando. E che anche su questo ci vorrebbe chiarezza. Ricorda che la Commissione di indagine ha fatto sapere che saranno necessarie ulteriori indagini per capire se alcuni individui abbiano avuto un interesse a seminare caos, paura e incertezza nel Paese ignorando le fonti di intelligence. Cita il rapporto della Commissione presidenziale che contiene prove che il governo indiano ha avvertito i  servizi di intelligence quattro volte. Eppure emergerebbe – sottolinea – che il governo dello Sri Lanka non ha informato né il pubblico, né la Chiesa. Sembra abbiano fatto circolare una lettera privata tra di loro, chiedendo agli alti funzionari e ad altri leader di stare attenti e di evitare di parlarne in pubblico. Pertanto, “erano consapevoli della preparazione dell’attacco e sapevano che alcune persone sarebbero state ferite e uccise, ma non volevano impedirlo”. Aggiunge: i servizi di intelligence e la polizia dello Sri Lanka erano a conoscenza delle attività violente di un uomo di nome Zahran Hashim, leader del gruppo islamico National Thowheed Jamath (NTJ), perché prima dell’attacco era stato scoperto un campo di addestramento per estremisti islamici con esplosivi; quindi lo sapevano indipendentemente dagli avvertimenti dell’India.

Il rischio dello scontro interreligioso

Il cardinale denuncia “un tentativo di mettere i cristiani contro i musulmani per spingerli alla violenza” che – dice – “avrebbe potuto provocare un enorme disastro per il Paese”.  L’intera comunità cattolica dello Sri Lanka – dichiara l’arcivescovo di Colombo – vorrebbe conoscere la verità su questi attacchi, perché il danno da essa subito è stato molto, molto importante, con la morte di 269 persone, la maggior parte delle quali cattoliche, per non parlare del tentativo di erigere le comunità religiose l’una contro l’altra, che era l’obiettivo nascosto dietro questi attacchi. Il rischio dopo gli attacchi è stato superato – spiega l’arcivescovo – perché “le comunità religiose dello Sri Lanka hanno reagito in modo straordinario: alcune persone che  hanno aiutato in quella situazione, che hanno aiutato le famiglie cristiane, erano musulmani. “Hanno dato soldi e hanno pianto con le famiglie delle vittime”. Dunque l’appello:  “dobbiamo identificare molto chiaramente chi c’è dietro questo tentativo ed evitare di cadere nella trappola della violenza interreligiosa”. L’arcivescovo raccomanda di pregare, “poiché il Signore è più potente di chiunque altro e può darci giustizia attraverso la preghiera.” “Sono importanti la preghiera – dice – e lo spirito di solidarietà e comprensione, perché in questi attacchi sono stati uccisi non solo srilankesi, ma anche diversi americani ed europei. Tra le vittime, 47 provenivano da 14 Paesi e 82 erano bambini. “Il sangue di tutte queste persone grida al cielo per avere giustizia”.

Terrorismo transnazionale e povertà

Per capire il legame tra gli efferati attacchi di tre anni fa e il forte malcontento di oggi, abbiamo intervistato Silvia Menegazzi, docente di relazioni internazionali alla Luiss ed esperta in particolare di scenari asiatici:

La professoressa mette in luce innanzitutto l’inasprirsi della crisi economica.  In particolare, negli ultimi giorni le proteste hanno riguardato – spiega – un ulteriore aumento dei costi del carburante e quello di beni essenziali come la farina. A Rambukkana alcuni mezzi hanno bloccato per alcune ore l’autostrada che collega Colombo alla città di Kandy, nell’entroterra, mentre un altro gruppo di persone occupava un tratto della ferrovia della zona. Ma da settimane si manifesta contro il carovita, chiedendo le dimissioni del governo guidato dal presidente Gotabaya Rajapaksa e quelle del primo ministro Mahinda Rajapaksa, suo fratello. E – aggiunge – anche tra  cittadini e autorità locali è aspro il confronto: ci sono  forti disordini anche in piccoli centri in seguito ai continui tagli di corrente, all’aumento del prezzo del gas e alla carenza di cibo. L’attacco – ricorda la professoressa Menegazzi – è stato rivendicato dall’autoproclamato Stato Islamico, per essere poi imputato al gruppo estremista locale National Thowheed Jamath. Il punto – focalizza Menegatti – è capire come a livello internazionale si muovano forze terroristiche che sfruttano i vari contesti sociali. Il primo elemento purtroppo drammaticamente a loro favore – ricorda – è la povertà che alimenta disperazione e mobilitazioni. L’altro elemento – sottolinea – è la debolezza o l’inaffidabilità a livello politico istituzionale, che generano disordine, instabilità. Si crea così un contesto tristemente favorevole alle organizzazioni terroristiche. E Menegazzi avverte: certamente il fatto che non ci siano stati altri fatti di sangue come quello indefinibile di tre anni fa non significa che non ci siano attacchi a livello locale. Ricorda la persecuzione in atto contro i cristiani e lancia un appello: i media dovrebbero occuparsi di tante situazioni anche quando non ci sono numeri eclatanti, quando non c’è un attentato su larga scala. Lo Sri Lanka – raccomanda – non è un Paese da dimenticare, isolato che fa storia per sé. Ma è un Paese significativo e strategico a sud dell’India – afferma –  molto più correlato con il resto del mondo di quanto si immagini.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-04/sri-lanka-attentati-chiese-colombo-arcivescovo-chiese.html

Le ripercussioni in Sierra Leone della guerra in Ucraina

Il conflitto tra Mosca e Kiev non è così distante dall’Africa: in Sierra Leone schizzano i prezzi di beni di prima necessità, come il riso, per via delle difficoltà di approvvigionamento sui mercati internazionali. Nuove preoccupazioni si aggiungono ai problemi del Paese africano mentre si registra una forte partecipazione alle celebrazioni, come racconta il missionario fratel Riccardo Racca

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Tra mille difficoltà economiche, anche in relazione alla guerra in Ucraina, la Sierra Leone ha vissuto i giorni di Pasqua con rinnovato slancio dopo le restrizioni per pandemia che hanno caratterizzato lo stesso periodo del 2021. Consistente il rialzo dei prezzi a partire da quello dei prodotti alimentari per via delle ripercussioni sui mercati delle conseguenze della guerra. Come in altri Paesi africani, non aiuta la dipendenza dall’estero di un Paese che sarebbe ricco di risorse naturali, e tra i giovani – a 20 anni dalla fine del conflitto – è forte la speranza di costruire un nuovo tessuto sociale, come sottolinea fratel Riccardo Racca raggiunto nella missione dei Salesiani:

Fratel Riccardo racconta di aver vissuto in questi giorni la sua seconda Pasqua nel Paese ma di sentirla come se fosse quasi la prima: la pandemia lo scorso anno ha imposto forti restrizioni a tutte le celebrazioni, mentre quest’anno si è tornati alla gioia di riti condivisi e incontri.

Le ripercussioni della guerra sui bene di prima necessità

Come in molti Paesi africani – ricorda fratel Riccardo – sono tantissimi i giovani e significative le risorse naturali in Sierra Leone ma manca ancora un vero sviluppo locale. La dipendenza dall’estero  è rilevante e – sottolinea – sono drammatiche le ripercussioni della guerra in Ucraina in termini di carenza di prodotti e di prezzi rialzati. Un esempio fra tutti, il riso: se ne produce nel Paese ma non tanto quanto viene consumato e dunque viene importato. E in questo periodo proprio un prodotto alimentare basilare come il riso costa molto di più. Non è solo un esempio anche il carburante e altri prodotti, sottolinea.

L’attesa della Risurrezione

Fratel Riccardo racconta di aver parlato con molte persone in questi giorni di celebrazioni e di aver percepito forte il desiderio di pace sopra ogni cosa. In tanti esprimono grandi disagi e paure per l’incertezza economica e il rischio di tensioni sociali ma – afferma il missionario laico – lo sguardo va oltre l’orizzonte nazionale e la preghiera si fa più che mai una preghiera di pace. In particolare, racconta di essere rimasto felicemente colpito da un giovane padre di famiglia che gli ha comunicato i propri timori affermando di essere consapevole di non poter fare niente se non “coltivare” la pace nel proprio cuore e in famiglia. E fratel Riccardo commenta che quest’uomo ha espresso in realtà, con grande semplicità, tutto quello che ognuno di noi può fare, oltre al fatto di rivolgersi a Dio perché possa illuminare i pensieri dei potenti.

20 anni di difficile ricostruzione dopo il conflitto civile

La Sierra Leone ha ottenuto l’indipendenza il 27 aprile del 1961, dopo aver passato più di 170 anni sotto il regime coloniale britannico. La fine del colonialismo, però, non ha portato alla cessazione dei disordini e delle tensioni interne. Anzi, ha segnato l’emergere di nuove problematicità legate all’affermazione di uno Stato in grado di esercitare il proprio potere, assicurare il benessere dei cittadini insieme a un’adeguata offerta dei principali servizi, amministrare la giustizia e mantenere l’ordine interno.

A 10 anni dall’indipendenza è stata proclamata la Repubblica, con capitale Freetown. Malgrado ciò, presto la Sierra Leone si è ritrovata a vivere un decennio drammatico e sanguinario a causa della guerra civile.  Il conflitto – caratterizzato dallo scontro tra il governo, da una parte, e i ribelli del Fronte Unito Rivoluzionario (RUF), dall’altra – ha avuto inizio nel 1991 e si è protratto fino al 2002.  Da allora è stato straordinario l’impegno dei salesiani   per curare le ferite della guerra, in particolare tra gli ex bambino soldato.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-04/ucraina-guerra-prodotti-alimentari-sierra-leone-mercati-pasqua.html