La notizia dell’ANSA

Acqua: esce ‘Il senso della sete’, il Papa scrive all’autrice

Francesco, “trasformare il mondo perché sia abitabile per tutti”

(di Fausto Gasparroni)
(ANSA) – ROMA, 13 APR – “Coltivare e custodire il Creato è un’indicazione di Dio data non solo all’inizio della storia (cfr Gen 2.15), ma a ciascuno di noi, per far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un luogo abitabile per tutti”. E’ una lettera di papa Francesco ad aprire “Il senso della sete”, il nuovo libro della giornalista Fausta Speranza dedicato a “L’acqua tra geopolitica, diritti, arte e spiritualità”, edito da Infinito. E in questa lettera all’autrice, sottolineando come l’elaborato si ispiri “alle tematiche della casa comune e della fratellanza”, “quanto mai attuali”, il Pontefice auspica “che esso possa favorire il rispetto e la custodia del Creato”.

Quanto poi sia cruciale il tema dell’acqua, in tutti i suoi aspetti, da quello geopolitico ed economico, a quello del suo essere un indispensabile bene pubblico, fruibile da tutti, fino ai risvolti etici, culturali, artistici e spirituali, lo dimostra anche la serie di nomi di prestigio che, oltre al Papa, firmano gli interventi introduttivi del volume: l’ambientalista Vandana Shiva, il diplomatico Pasquale Ferrara, l’ex ministro ed ex presidente del Cnr Francesco Profumo, l’economista Leonardo Becchetti.

“Secondo le stime del Water Grabbing Observatory, nel 2030 il 47 per cento della popolazione mondiale vivrà in zone a elevato stress idrico, che significa elevatissimo stress sociale”, scrive l’autrice. “L’oro blu” è “in grado di scatenare carestie e guerre e l’acqua potabile, in particolare, rappresenta il primo diritto da tutelare in tema di salute”.

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 28 luglio 2010, ha incluso l’accesso ai servizi igienico-sanitari e all’acqua potabile tra i diritti umani universali e fondamentali. Ma “le risorse idriche non sono distribuite in modo equo e questo diritto è più ‘fluido’ che mai”. Intanto – e anche questo fa parte dell’attuale modernità “liquida”, “è accaduto un fatto tanto potenzialmente dirompente quanto impensabile: l’acqua quotata in Borsa”. E se ne parla in un capitolo ‘ad hoc’.

Ancora: il profondo legame tra la più essenziale delle risorse e il cambiamento climatico è stato il tema dell’edizione 2020 della Giornata mondiale dell’acqua. Con la pandemia, “il messaggio è deflagrato: si deve ripartire dall’ambiente costruito per contrastare l’arrivo di ondate di calore anomale, piogge torrenziali, siccità e aridità, uragani e cicloni”.

Ma si deve anche garantire “una gestione idrica più sicura e sostenibile e tutelare il diritto alla salute in un modo nuovo”. E l’analisi del volume è serrata su come sia “inaccettabile il numero di coloro che nel mondo vivono senza poter accedere all’acqua potabile”, mentre “nessuno può negare che far mancare l’acqua a esseri umani possa rappresentare un crimine contro l’umanità”.

Ma Fausta Speranza è anche alla ricerca di risposte e soluzioni, vuole contribuire a un dibattito “comprensivo e propositivo”. E per farlo non manca di attingere, nell’ultima parte della sua trattazione, a “quel bacino di spiritualità e sensibilità artistica che davvero può dare forza per una vera rivoluzione ecologica”: una rivoluzione che, come insegna lo stesso papa Francesco, “non può cambiare solo lo stato di salute dell’aria, dell’acqua, della terra, ma deve modificare la relazione dell’essere umano con il contesto ambientale e con l’altro”.
(ANSA).

Su L’Osservatore romano la recensione di Gabriele Nicolò

In un libro di Fausta Speranza l’acqua tra geopolitica, diritti, arte e spiritualità

Il Gange e l’ultimo soldo

13/4/2021 – «Nulla è più duro di una pietra e nulla è più molle dell’acqua, eppure la molle acqua scava la dura pietra», sentenziava Ovidio. Nel pensiero del poeta romano si specchia, in modo esemplare, la forza — paziente e sorprendente — di un bene e di una risorsa dalle cui potenzialità derivano dinamiche ed implicazioni che risultano decisive al fine di salvaguardare l’equilibrio e la salute della Terra. Sarebbe di conseguenza gravissimo, nonché imperdonabile, non valorizzare adeguatamente tali potenzialità. Alla luce di questa consapevolezza acquista un rilievo pregnante il libro della giornalista Fausta Speranza Il senso della sete. L’acqua tra geopolitica, diritti, arte e spiritualità (Formigine, Infinito Edizioni, 2021, pagine 255, euro 17), perché richiama, con rigore critico, l’impellente esigenza di tutelare il legame fondamentale tra l’acqua e il diritto alla salute, ovvero una tra le questioni sociali e geopolitiche di maggiore urgenza inerenti alla più essenziale delle risorse.

Il libro si fregia della lettera di Papa Francesco all’autrice, in cui si elogia il suo lavoro, «frutto della sua operosità quotidiana e di una diligente raccolta di tematiche quanto mai attuali». In tale senso il Santo Padre auspica che tale lavoro «possa favorire il rispetto e la custodia del Creato». Perché coltivare e custodire il Creato, sottolinea Papa Francesco, è «un’indicazione di Dio, data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi, per far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un luogo abitabile per tutti».

Diversi punti di vista, contenuti nelle prefazioni, introduzioni e postfazione (l’ecologista Vandana Shiva, l’ambasciatore Pasquale Ferrara, l’accademico Francesco Profumo, i professori Leonardo Becchetti e Stefano Ceccanti) arricchiscono il volume: valutazioni che fanno da prezioso contorno all’illuminante studio di Fausta Speranza, uno studio che spicca quale prezioso punto di riferimento in merito ad una tematica così articolata e sfaccettata.

In un’epoca segnata dai disastri ambientali e dal consumo eccessivo e scriteriato delle risorse del pianeta, l’acqua assurge ad emblema di quell’equilibrio naturale che gli esseri umani non possono continuare ad alterare senza annientare, così facendo, sé stessi. Indicativo è il richiamo all’Himalaya il quale è il Terzo Polo che fornisce acqua a metà dell’umanità. In virtù di ciò, assumono una dimensione cupa e allarmante “i disastri himalayani”. Spinti dall’avidità e dalla corruzione siamo diventati ignoranti della cultura del sacro e della fragilità ecologica dell’Himalaya. Ecco allora che i disastri himalayani rappresentano una conseguenza dell’ignoranza e dell’avidità, l’avidità di estrarre l’ultima goccia di petrolio e di gas dal sottosuolo, l’ultimo chilowatt di energia dall’ultimo fiume, compreso il Gange e i suoi affluenti, l’ultimo soldo, l’ultima rupia della natura e dei lavoratori.

L’acqua riveste un nevralgico ruolo strategico nello scacchiere internazionale. Si pensi alla crisi del lago Ciad, ovvero uno dei “serbatoi” d’acqua più importanti dell’Africa, da cui attingono tutti i territori circostanti appartenenti a quattro diversi Stati: Ciad, Camerun, Nigeria e Niger. L’area di questo bacino si è ridotta di circa il novanta per cento rispetto agli anni Settanta del secolo scorso. L’emergenza del lago Ciad è un intreccio di crisi diverse. Il cambiamento climatico ha aumentato la vulnerabilità ambientale di una regione già fragile, portando ad una forte siccità e a conseguenze negative sull’agricoltura e sulla sicurezza alimentare. Al contempo si registrano un sensibile aumento demografico e la caduta del petrolio al barile, che ha fatto aumentare l’inflazione e il costo dei beni di prima necessità. A ciò si aggiungano fenomeni di estesa corruzione, che prospera quando si riducono le opportunità economiche “legali”, e quando si allargano le fasce di miseria. La popolazione è allora esposta alle “scorciatoie” della criminalità transnazionale e si creano nuove tensioni migratorie.

Non c’è dubbio che l’acqua sia al cuore della questione ambientale la quale, a sua volta, è inserita in un’era dominata dalla tecnologia. In questa temperie si affermano meccanismi e dinamiche dell’intelligenza artificiale, i processi lavorativi sono sempre più automatizzati, le persone sono sempre più in simbiosi con gli strumenti digitali. Tutto questo avviene mentre si consuma il pianeta fino a minacciare la sicurezza idrica. A questo punto scatta un amaro paradosso. Si raggiungono impensate conquiste, ma non sappiamo come risolvere questioni fondamentali in cui sono messe in gioco l’esistenza e la dignità dell’essere umano. È dunque necessario che venga ripensato l’intero sistema di relazioni tra esseri umani, tecnologia e ambiente. E puntualmente, in merito, Fausta Speranza accosta il messaggio dell’Enciclica Laudato sì alla disamina dei disastri ambientali, alla prospettiva di una tecnologia green, come pure al patrimonio umanistico, religioso e artistico.

Non è certo un caso che tra le sei dimensioni principali della sfida ambientale identificate a livello globale si trovi quella dell’impronta d’acqua e che il goal 6 degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite sia relativo alla disponibilità d’acqua pulita e di servizi sanitari. Tra i traguardi che, da questo punto di vista, ci si propone figurano l’implementazione di una gestione delle risorse idriche integrata, la tutela ed il risanamento degli ecosistemi legati all’acqua, l’espansione del supporto per le attività legate all’acqua e agli impianti igienici nei Paesi in via di sviluppo. Alcune buone pratiche, intanto, stanno indicando la vita. In Nuova Zelanda, per esempio, il Parlamento ha approvato una legge che rende il fiume Whanganui (il terzo fiume del Paese) un soggetto giuridico.

Questa iniziativa pone bene in rilievo che l’acqua, a conferma delle sue molteplici potenzialità, assume anche una dimensione costituzionalistica. Essa, cioè, diventa una res funzionale al godimento dei diritti fondamentali, primo fra tutti quello della vita e della salute. L’indissolubile legame con i diritti fondamentali rende l’acqua un bene comune, cioè un bene la cui utilizzazione economica non può andare ad incidere il nucleo essenziale dei diritti umani.

La riflessione di Fausta Speranza sull’acqua ha un potente respiro sinottico, perché traccia un interessantissimo itinerario di tale bene attraverso le diverse religioni, dal cristianesimo e all’ebraismo, dall’islam e al buddismo. Un itinerario che, nel suo agile dispiegarsi, non può non caricarsi di un solido spessore culturale, in cui trova espressione un denso nucleo di usi e tradizioni. L’autrice puntualmente ricorda come l’acqua sia una “protagonista” nelle opere di Shakespeare. Basti pensare a La tempesta, o all’Ofelia dell’Amleto, che sparisce inghiottita dalle acque. C’è poi un’altra celebre storia d’acqua, il mito di Narciso, un personaggio implicitamente presente nei primi Sonetti. Nel sonetto di Shakespeare, allo specchio d’acqua, che nel mito ovidiano resta complice muto di un amore fallace, si sostituisce l’io del poeta in diretta allocuzione con il giovane innamorato. L’interlocutore dell’io poetico tende a non uscire dalla sterile corrispondenza di sé stesso, ma l’invito a guardarsi nello specchio — sottolinea Fausta Speranza — va nella direzione esattamente opposta a quella dell’auto-contemplazione distruttiva di Narciso. Serve piuttosto da incentivo a salvare «quella che viene pensata come l’Immagine perfetta».

di Gabriele Nicolò

da L’Osservatore Romano del 13 aprile 2021

 

Pio XII e l’idea di mondo occidentale

Va ristudiato il contributo che gli anni del Pontificato che ha attraversato la seconda guerra mondiale hanno offerto per l’elaborazione di un approccio peculiare alla realtà sociopolitica internazionale e al concetto di democrazia. Per questo è nato il progetto Occidentes che coinvolge quattro Università, come raccontano gli storici don Roberto Regoli della Gregoriana e Paolo Valvo della Cattolica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Non è facile parlare oggi di Occidente senza cadere in formule stereotipate, semplicistiche, retoriche e ideologiche. Ci si accorge che per poterlo fare serve una storicizzazione del concetto di Occidente. Tutto riporta al dramma del secolo scorso: il conflitto mondiale e poi il mondo diviso dalla cortina di ferro che ha portato a una divisione tra un’Europa dell’Ovest sotto l’ombrello di protezione statunitense, nel cui contesto ha preso il via il processo d’integrazione europea, e un’Europa dell’Est egemonizzata dall’Unione Sovietica.

La Chiesa che ha resistito a un pensiero omologante

Negli anni del pontificato di Pio XII, dal 1939 al 1958, si distingue, tra visioni omologanti, quella della Chiesa cattolica che, nelle sue varie articolazioni, assicura una significativa pluralità di approcci, in Europa come nelle Americhe, contribuendo a mantenere viva la dialettica tra idee e modelli differenti di “Occidente”. Ne abbiamo parlato con don Roberto Regoli, direttore del Dipartimento di Storia della Chiesa dell’Università Gregoriana:

Lo storico ci spiega che l’idea di Occidente, non diversamente dall’idea di Europa (che della prima ha parzialmente condiviso la traiettoria), è stata oggetto fin dall’antichità delle più diverse interpretazioni, che hanno tentato di definirne estensione e limiti tanto sul piano territoriale quanto su quello culturale, in un crescendo di complessità soprattutto a partire dalla scoperta del Nuovo Mondo americano. Se all’inizio del XX secolo il ricorso sempre più frequente al concetto di “Occidente” è stato funzionale a legittimare l’ideale passaggio di testimone dall’Europa agli Stati Uniti come guida morale di quello che per comodità si può chiamare “mondo occidentale”, all’indomani della seconda guerra mondiale i processi di interconnessione economica, politica, culturale e sociale che hanno attraversato quello stesso mondo hanno contribuito a plasmare un’idea di Occidente come entità organica, animata dai medesimi valori di fondo (come la forma democratica dello Stato e un modello di sviluppo economico di tipo capitalistico), alimentando un immaginario che è andato rafforzandosi nei decenni della Guerra Fredda. Negli stessi anni va citata la nascita dello Stato d’Israele, sottolineando che nel 1948 ridefinisce una volta di più i confini territoriali dell’Occidente, creando un avamposto di grande valore simbolico in una delle sorgenti storiche e ideali della cultura europea, Gerusalemme. Un evento non senza tensioni con le comunità cristiane presenti da millenni nel Medio Oriente che aiuta a capire come l’Occidente non sia un concetto territoriale.

La peculiarità del mondo cattolico

Don Regoli ricorda l’insistenza su un’idea di democrazia sostanziale e di partecipazione che a partire dal pontificato di Pio XII ha cominciato a caratterizzare la riflessione e l’azione del mondo cattolico, citando le diverse esperienze di “democrazie cristiane”. In particolare spiega che si può parlare di una visione di tipo personalista da cui è derivata, in seguito, anche l’apertura alla dimensione della libertà religiosa e dei diritti dell’uomo in sede conciliare. Da un altro punto di vista, aggiunge, si può sottolineare l’atteggiamento critico nei confronti del sistema capitalistico, che ancora durante il pontificato pacelliano – in continuità con l’elaborazione dottrinale dei pontificati precedenti – ha portato a coltivare in alcuni casi, specialmente in America Latina, il disegno di una “terza via” tra capitalismo e collettivismo, destinato a lasciare spazio a tentativi più realistici di umanizzare l’economia di mercato. Peraltro, nell’emisfero occidentale il rapporto con il mondo statunitense, in particolare con le ambizioni globalizzanti e la radice protestantica della sua cultura liberale, viene vissuto dalla Santa Sede, che con gli Stati Uniti condivide l’impegno contro la diffusione del comunismo, non senza momenti di tensione dialettica in quanto entrambi rivendicano il ruolo di interprete autentico delle istanze della civilizzazione occidentale.

Le sovrapposizioni che non aiutano

Don Regoli ci spiega che l’impossibilità di una piena identificazione tra Occidente cristiano e Occidente capitalistico risalta con ancora maggior evidenza in America Latina, dove l’influenza culturale, politica e anche religiosa degli Stati Uniti stimola – come reazione da parte di settori rilevanti del cattolicesimo locale – la ricerca di nessi ideali con altri modelli di civiltà occidentale, diversi da quello statunitense: in proposito vanno sottolineati i richiami esercitati dal franchismo e dall’Estado Novo salazarista rispettivamente sull’America ispanica e sul Brasile. Per altro verso, nel subcontinente prende corpo negli anni di Pio XII anche un ideale “neo-bolivariano” di integrazione continentale, che trova nei prodromi del processo d’integrazione europea un importante termine di paragone. Anche la risposta di Pio XII alle complesse sfide pastorali e sociali della regione, sottolinea don Regoli, sembra unire alla collaborazione tra le Chiese locali e il cattolicesimo statunitense un approccio teso a valorizzare la specificità del subcontinente: di questo approccio sono espressione la nascita del Consejo Episcopal Latinoamericano (CELAM), la cui Conferenza Generale si riunisce per la prima volta a Rio de Janeiro nel 1955, e la fondazione della Commissione per l’America Latina (1958). A questo proposito don Regoli ricorda che la collaborazione più volte invocata nei pontificati precedenti tornerà di attualità sullo sfondo dell’Alliance for Progress lanciata nel 1961 da John F. Kennedy.

La singolarità dei regimi autoritari in Spagna e Portogallo

In un contesto largamente dominato dalla dinamica bipolare, un significativo elemento di continuità con l’assetto prebellico è rappresentato dai regimi autoritari di Spagna e Portogallo, come ricorda, affrontando altri punti nodali, l’altro storico impegnato in prima linea nel progetto Occidentes, Paolo Valvo, ricercatore di Storia Contemporanea all’Università Cattolica di Milano:

Valvo ricorda che nelle intenzioni i regimi in Spagna e in Portogallo continuano a incarnare quell’ideale di “Stato corporativo cattolico” su cui negli anni Trenta hanno riflettuto non pochi cattolici occidentali, inclusi quelli che dopo il 1945 sono diventati protagonisti della ricostruzione democratica nei rispettivi Paesi.  Valvo spiega che in questo contesto si ragiona soprattutto in termini di idealità, senza però tralasciare di fare i conti con i risvolti repressivi di tali regimi e con l’attitudine mostrata in proposito dal mondo cattolico di riferimento.  Valvo sottolinea che si tratta di una molteplicità di aspetti da considerare e che proprio per questo è utile che ci sia lo scambio e il contributo tra diversi studiosi, non solo di diversi atenei e Paesi ma anche di diverse displipline. Un comune obiettivo di ricerca storica, infatti, riunisce le competenze scientifiche di quattro atenei: Università Cattolica del Sacro Cuore, Pontificia Università Gregoriana, Universidad de Navarra, Universidade Católica Portuguesa. A questo proposito Valvo sottolinea che il progetto si avvale di un ampio spettro di prospettive metodologiche – dalla global history alla storia economica e sociale, dalla storia delle relazioni internazionali alla storia del pensiero – e si sofferma sull’importanza di una sinergia tra i rispettivi sforzi di ricerca, spiegando che c’è apertura fin da ora anche al contributo futuro di altri studiosi. E’ evidente come il fatto che il lavoro dei singoli ricercatori sia inserito in un orizzonte internazionale rappresenti un valore aggiunto. Valvo spiega che i risultati dello studio e della collaborazione tra atenei diversi e Paesi diversi saranno comunicati in via preferenziale attraverso seminari di approfondimento periodici, anche a distanza, e attraverso pubblicazioni scientifiche (monografie, articoli in rivista e volumi collettanei), privilegiando dove possibile l’open access. Per ogni ambito tematico è prevista inoltre l’organizzazione di un convegno internazionale che potrà svolgersi presso una delle Università partecipanti.

L’apertura degli archivi vaticani che rende possibili le ricerche

Valvo ricorda che il 2 marzo 2020 l’Archivio vaticano ha messo a disposizione degli studiosi le carte del periodo di Pio XII, offrendo così un’occasione preziosa per quanti intendano approfondire criticamente le idee di “Occidente” e di “civiltà” che il cattolicesimo occidentale – europeo, nordamericano e latinoamericano – ha consapevolmente o inconsapevolmente veicolato lungo il pontificato di Papa Pacelli, nei più diversi ambiti. Il punto è che diventa preziosa la possibilità di fare rete tra istituzioni accademiche riconosciute nel panorama internazionale che, nel quadro di una collaborazione stabile e nel rispetto della più ampia libertà di ricerca scientifica, possano condividere e integrare le rispettive competenze per aprire itinerari di studio originali e interdisciplinari.

da Vatican NEWS del 13 aprile 2021

 

Resta viva la lezione di fede e di amore di padre Giorgio Abram

E’ intenso, in quanti lo hanno conosciuto il ricordo di padre Giorgio Abram, medico missionario in Ghana per 45 anni, vittima del Covid-19. La sua competenza e la sua straordinaria umanità emergono in un’intervista realizzata nel 2014 che riproponiamo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A un mese dalla morte in Ghana, padre Giorgio Abram, simbolo della lotta alla lebbra e del dialogo interreligioso vissuto nei fatti, viene ricordato in questi giorni con momenti di preghiera nel Paese africano dove ha vissuto per oltre 45 anni e in Italia, in particolare a Trento, nella comunità della parrocchia di Cristo Re, alla quale era molto legato per motivi familiari. Frate francescano conventuale, missionario, ma anche medico, è stato portato via dal Covid-19 il 6 marzo scorso all’età di 77 anni. Due mesi fa era venuto in Italia per salutare il fratello, padre Giuliano, anche lui conventuale e anche lui vittima della pandemia. Tornato in Ghana, ha contratto il coronavirus ed è stato assistito in un ospedale militare italiano, ma non ha superato l’ennesima crisi.

Grande competenza sul piano sanitario e straordinaria disponibilità umana

Laureato in medicina, ha dedicato tutta la sua vita alla lotta contro la lebbra e ad altre patologie della pelle, in particolare alla malattia definita “ulcera del Buruli”, che colpisce soprattutto i bambini. Nel 1977 ha fondato la Ialo, organizzazione internazionale per il coordinamento del lavoro di lotta contro la lebbra, impegnata prima in Ghana, poi nei Paesi limitrofi e anche in Vietnam. La competenza del missionario è stata riconosciuta a livello internazionale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Nel 2014, abbiamo incontrato il religioso a Tagoradi, il centro da lui avviato nella provincia occidentale del Ghana per la cura della lebbra e non solo. Riproponiamo l’intervista  realizzata allora con padre Giorgio Abram, nell’ambito del reportage televisivo intitolato “Il Ghana tra vecchie e nuove schiavitù” andato in onda su Tv 2000, ricordando la sua affabilità discreta, il suo entusiasmo di fede,  tutto l’amore che la popolazione del luogo esprimeva nei suoi confronti:

Padre Abram ci ha parlato del suo impegno in tema di lebbra, un morbo che grazie proprio anche allo studio e al suo impegno non fa più paura nello Stato africano. Padre Abram ci ha spiegato nell’intervista che,  quando Ialo veniva istituita nel 1977, si registravano 50 mila casi all’anno e che la mortalità era molto alta, per poi sottolineare che si è passati ai poco più di ottocento casi censiti negli ultimi anni e peraltro guariti. Ha raccontato qualcosa del suo impegno a scoprire terapie efficaci, a ristrutturare centri di riabilitazione, ad avviare corsi per medici e infermieri per la cura del morbo e a fondare due ospedali. Le sue sono parole di profondo amore per il prossimo, sono la testimonianza di un impegno missionario vissuto curando persone di altre fedi o convinzioni religiose di cui ha raccontato curiosità e fragilità. E poi c’è la gioia espressa per l’arrivo di Papa Francesco, per la scelta preferenziale nei confronti delle periferie del mondo, al centro della scelta di vita esemplare del missionario padre Giorgio, che lascia frutti importanti in Ghana e nella Chiesa.

In un libro alcuni racconti

Nel 2015 padre Abram ha dato alle stampe il libro “Quattro gatti senza storia” con sottotitolo “Riflessioni semiserie di un missionario” (Edizioni Messaggero, Padova): 54 racconti brevi dai quali emergeva tutta la sua carica di umanità, con tratti di acuta ironia, e la profonda fede che hanno contraddistinto una vita donata senza mezze misure ai più poveri.

da Vatican NEWS del 12 aprile 2021

 

 

Sette anni fa in Siria l’eccidio di padre Frans van der Lugt

E’ vivo il ricordo del gesuita olandese, padre Frans van der Lugt, massacrato in Siria il 7 aprile del 2014. Aveva 75 anni e da oltre 50 viveva nel Paese del Vicino Oriente che in quel momento, oltre alla guerra scoppiata nel 2011, soffriva l’efferata violenza dei miliziani del sedicente Stato islamico. Le parole del Papa nei giorni dell’uccisione

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Rapito, picchiato e ucciso davanti alla residenza della Compagnia di Gesù della città siriana di Homs. Padre Frans van der Lugt viveva in Siria dal 1966. Psicoterapeuta di formazione, uomo e religioso del dialogo, aveva avviato il progetto Al Ard (“la terra”), un centro di spiritualità per ragazzi con handicap mentali.

Resta vivo l’impegno del gesuita

Oggi quattro confratelli vivono nella casa in cui padre Frans è stato assassinato il 7 aprile 2014 e dove è sepolto. Strade ed edifici intorno alla comunità sono stati in questi anni seriamente danneggiati, ma i gesuiti hanno organizzato vari incontri e corsi seguiti da decine di giovani e di adulti. E molte persone vanno a pregare sulla  tomba di padre Frans conosciuto e apprezzato da cristiani e da musulmani.

L’appello del Papa

In Siria, il religioso olandese aveva vissuto in un monastero nella città vecchia di Homs, denunciando spesso la mancanza di medicinali, viveri e aiuti per la comunità sotto assedio e chiedendo con urgenza un accordo per intervenire in favore dei civili malati, stremati, affamati. All’udienza generale del 9 aprile 2014, Papa Francesco lo ricordava con queste parole:

“Ad Homs, in Siria, è stato assassinato il Rev.do P. Frans van der Lugt, un mio confratello gesuita olandese di 75 anni, arrivato in Siria circa 50 anni fa, che ha sempre fatto del bene a tutti, con gratuità e amore, e perciò era amato e stimato da cristiani e musulmani. La sua brutale uccisione mi ha riempito di profondo dolore e mi ha fatto pensare ancora a tanta gente che soffre e muore in quel martoriato Paese, la mia amata Siria, già da troppo tempo preda di un sanguinoso conflitto, che continua a mietere morte e distruzione. Penso anche alle numerose persone rapite, cristiani e musulmani, siriani e di altri Paesi, tra le quali ci sono Vescovi e Sacerdoti”.

Dopo il ricordo, l’appello:

“Di cuore vi invito tutti ad unirvi alla mia preghiera per la pace in Siria e nella regione, e lancio un accorato appello ai responsabili siriani e alla comunità internazionale: per favore, tacciano le armi, si metta fine alla violenza! Non più guerra! Non più distruzione! Si rispetti il diritto umanitario, si abbia cura della popolazione bisognosa di assistenza umanitaria e si giunga alla desiderata pace attraverso il dialogo e la riconciliazione. Alla nostra Madre Maria, Regina della pace, chiediamole che ci dia questo dono per la Siria”.

Il dramma di anni di atrocità dell’Is tra Siria e Iraq

Sarebbe lungo l’elenco di persone che sono rimaste vittime della brutalità dei miliziani del sedicente Stato islamico (Is),  negli anni in cui erano risusciti ad ottenere il controllo di un vasto territorio tra la Siria e l’Iraq. Nell’ambito della guerra scoppiata in Siria dieci anni fa, il cosiddetto Califfato si colloca tra il 2014 e il 2018 circa, quando ne è stata decretata la sconfitta. Restano sacche di miliziani, ma i territori sono stati tutti riconquistati.  In quegli anni, mentre in Europa imperversavano anche gli atti di terrorismo rivendicati da uomini affiliati all’Is, la violenza non ha risparmiato nessuno e spesso è stata tragicamente e disumanamente esibita – ci sono stati per esempio 18 militari dell’esercito siriano e stranieri trucidati davanti alle telecamere – ma in particolare i terroristi dell’Is si sono accaniti contro le minoranze.

Persecuzioni contro i cristiani

Nel 2014 un’intera diocesi cristiana nella Piana di Ninive è stata sradicata dai miliziani dell’Is. In una notte di agosto, l’arcivescovo, 34 sacerdoti, 50 suore e più di 45 mila fedeli sono stati costretti a lasciare tutto per rifugiarsi in Kurdistan. In questi anni sono stati migliaia i cristiani fuggiti dalle zone di guerra, particolarmente dalle province di Aleppo, Homs, Daraa e Hassakeh. Nell’impossibilità di ricordare tutte le vittime, citiamo l’arcivescovo greco ortodosso di Aleppo, Boulos Yazigi e quello siro ortodosso, Mar Gregorios Yohanna Ibrahim, che sono stati rapiti nell’aprile 2013 nell’area compresa tra Aleppo e il confine con la Turchia e mai più rintracciati. I due presuli erano partiti con l’intento di andare a trattare la liberazione di due sacerdoti, l’armeno cattolico Michael Kayyal e il greco-ortodosso Maher Mahfouz, rapiti in precedenza da gruppi jihadisti. Nei mesi e negli anni successivi, intorno al caso sono state fatte filtrare a più riprese indiscrezioni e annunci su una loro prossima liberazione, che poi si sono sempre rivelati infondati.

Contro gli yazidi

Sempre su territorio iracheno sotto il controllo dell’Is, il 3 agosto del 2014 cominciavano le prime azioni di massacro della minoranza yazida. Interi villaggi nell’area attorno alla cittadina di Sinjar sono stati distrutti, uomini e donne anziane nella maggior parte dei casi sono state uccise sul posto, mentre bambine e ragazze venivano rapite per essere usate come schiave del sesso nei centri roccaforte dei miliziani.  Si calcola che sono scomparse almeno 500 persone di quella che è una comunità storicamente molto antica, ma non numerosa. Si tratta in tutto di 150 mila yazidi dislocati in due aree dell’Iraq: la prima è proprio quella dei monti del Jebel Sinjar, al confine con la Siria, la seconda comprende i distretti di Badinan o Shaykhān e Dohuk, nel nord-ovest del Paese.

Anche oggi non mancano episodi di violenza

Secondo quanto ha reso noto ieri l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria,  miliziani legati al sedicente Stato islamico hanno rapito in questi giorni 19 persone – otto poliziotti e undici civili – in provincia di Hama. In risposta, l’aviazione russa ha intensificato nelle ultime 72 ore gli attacchi aerei nella Siria centrale e orientale contro postazioni di ribelli. I raid aerei russi si sono concentrati da sabato scorso a ieri nelle regioni di Hama e Dayr az Zor, nell’area della Badiya, la zona stepposa e desertica a ovest dell’Eufrate e dove si concentra la presenza dell’Isis in Siria.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2021-04/gesuita-siria-uccisione-papa-francesco-dialogo-pace.html

Dal 6 aprile 1994 in Rwanda i cento giorni del dramma

A 27 anni dal genocidio, il Paese nel cuore dell’Africa orientale ha ricostruito il tessuto sociale con atti di perdono particolarissimi. Intanto, si combatte il negazionismo e restano forti le tensioni etniche nei territori vicini, come spiega l’africanista Anna Bono

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La sera del 6 aprile 1994 un razzo proveniente da una delle tante colline di Kigali colpì l’aereo in cui viaggiavano Juvénal Habyarimana e Cyprien Ntaryamira, rispettivamente i presidenti di Ruanda e Burundi, entrambi di etnia hutu. Probabilmente non si saprà mai l’identità del responsabile di tale attacco. Un’ipotesi attribuisce agli estremisti hutu, contrari ai negoziati di pace con le forze ribelli tutsi e ostili agli accordi di power sharing firmati ad Arusha, le responsabilità dell’abbattimento dell’aereo su cui viaggiavano i due capi di Stato. Opposta a questa, la ricostruzione secondo cui il missile terra-aria che colpì l’aereo di Habyarimana fu lanciato dai ribelli tutsi delle forze  FPR, Front Patriotique Rwandais, agli ordini di Paul Kagame. Di certo c’è che l’abbattimento del velivolo è stata la scintilla che ha fatto scoppiare l’ultimo genocidio del ventesimo secolo.

L’accorato appello di Giovanni Paolo II

Al Regina Coeli del 10 aprile 1994, Giovanni Paolo II lanciava un rinnovato accorato appello perché cessasse la spirale di morte e di violenza che insanguinava il Rwanda. Queste le parole del Papa riconosciuto Santo:

“Le tragiche notizie che giungono dal Rwanda suscitano nell’animo di tutti noi una grande sofferenza. Un nuovo indicibile dramma: l’assassinio dei Capi di Stato di Rwanda e Burundi e del seguito; il Capo del Governo Rwandese e la sua famiglia e del seguito; il Capo del Governo Rwandese e la sua famiglia trucidati; sacerdoti, religiosi e religiose uccisi. Ovunque odio, vendette, sangue fraterno versato. In nome di Cristo, vi supplico, deponete le armi, non rendete vano il prezzo della Redenzione, aprite il cuore all’imperativo di pace del Risorto! Rivolgo il mio appello a tutti i responsabili, anche della Comunità Internazionale, perché non desistano dal cercare ogni via che possa porre argine a tanta distruzione e morte.”

100 giorni di violenze inaudite

Almeno 900.000 morti tra tutsi e hutu. Molti di questi sono stati massacrati a colpi di machete, spranghe e coltelli. Dell’etnia tutsi, la più colpita, sopravvissero in 300.000. La mattanza è durata cento giorni. Le milizie paramilitari interahamwe e impuzamugambi, esponenti dell’esercito nazionale, amministratori locali e semplici cittadini di etnia hutu, accompagnati dalla feroce propaganda di Radio Milles Collines che invitava a sterminare quelli che definiva gli “scarafaggi”, hanno ucciso sistematicamente membri delle comunità tutsi e altri delle comunità hutu considerati moderati massacrandoli a colpi di machete e armi da fuoco.

Le “mancanze che hanno deturpato il volto della Chiesa”

Il 20 marzo 2017, incontrando in Vaticano Paul Kagame, Papa Francesco ha  espresso “l’implorazione di perdono a Dio per i peccati e le mancanze della Chiesa e dei suoi membri” negli anni Novanta, mancanze che “hanno deturpato il volto della Chiesa”. Così si legge nel bollettino della Sala Stampa vaticana di quel giorno: “Durante i cordiali colloqui sono state ricordate le buone relazioni esistenti tra la Santa Sede e il Rwanda. Si è apprezzato il notevole cammino di ripresa per la stabilizzazione sociale, politica ed economica del Paese. È stata rilevata la collaborazione tra lo Stato e la Chiesa locale nell’opera di riconciliazione nazionale e di consolidamento della pace a beneficio dell’intera Nazione. In tale contesto il Papa ha manifestato il profondo dolore suo, della Santa Sede e della Chiesa per il genocidio contro i Tutsi, ha espresso solidarietà alle vittime e a quanti continuano a soffrire le conseguenze di quei tragici avvenimenti e, in linea con il gesto compiuto da San Giovanni Paolo II durante il Grande Giubileo del 2000, ha rinnovato l’implorazione di perdono a Dio per i peccati e le mancanze della Chiesa e dei suoi membri, tra i quali sacerdoti, religiosi e religiose che hanno ceduto all’odio e alla violenza, tradendo la propria missione evangelica. Il Papa ha altresì auspicato che tale umile riconoscimento delle mancanze commesse in quella circostanza, le quali, purtroppo, hanno deturpato il volto della Chiesa, contribuisca, anche alla luce del recente Anno Santo della Misericordia e del Comunicato pubblicato dall’Episcopato rwandese in occasione della sua chiusura, a ‘purificare la memoria’ e a promuovere con speranza e rinnovata fiducia un futuro di pace, testimoniando che è concretamente possibile vivere e lavorare insieme quando si pone al centro la dignità della persona umana e il bene comune.”

Il ruolo delle forze di pace

All’inizio degli scontri sono stati uccisi anche dieci caschi blu belga. Nonostante i segnali di allarme lanciati dal generale canadese, Roméo Dallaire, a capo della missione UNAMIR (UN Assistance Mission for Rwanda), il mandato delle Nazioni Unite non è stato rafforzato. L’uccisione del contingente di militari belgi e del primo ministro Agathe Uwilingiyimana a opera di miliziani hutu ha rappresentato un evento traumatico per l’organizzazione internazionale, che decise il ridimensionamento del numero di caschi blu presenti nel Paese, da 2.500 a 270. La violenza si è fermata solo a metà luglio quando i soldati dell’attuale presidente, Paul Kagame, sono entrati nella spettrale capitale Kigali.

La lunga presidenza Kagame

Da quel momento Kagame, rieletto per tre mandati, ha guidato il Paese. Nel 2017 per potersi candidare al terzo mandato ha ottenuto un emendamento alla Costituzione e ha poi raccolto – caso unico al mondo – il 99 per cento dei consensi. Kagame continua ad essere accusato di autoritarismo rispetto alla popolazione e di brutalità nei confronti dei suoi oppositori, alcuni dei quali sono stati imprigionati o uccisi. Come ogni anno, il presidente Paul Kagame e sua moglie hanno commemorato tutte le vittime durante una cerimonia a Gisozi.

Il cammino sociale

Il Rwanda ha fatto molti progressi, in particolare legati al ruolo della donna, della salute, dell’insegnamento e dell’economia.  Il sistema sanitario e quello scolastico sono in gran parte gratuiti. Della ricostruzione del tessuto sociale abbiamo parlato con l’africanista Anna Bono:

L’esperta Anna Bono sottolinea che a livello sociale molto è stato fatto per promuovere pace sociale anche con il sussidio di vari organismi internazionali che hanno organizzato perfino incontri a livello personale tra carnefici e familiari delle vittime. E questo è accaduto mentre il Paese ha conosciuto anni di crescita economica. Bono ricorda che anche in Rwanda non mancano le difficoltà per la pandemia e le ripercussioni economiche, ma che in generale è anche il Paese considerato dagli investitori stranieri come lo Stato con il più basso livello di corruzione in Africa.

Il rischio negazionismo

La professoressa Bono sottolinea che le immagini di centinaia di cadaveri abbandonati per la strada, gettati nei corsi d’acqua o bruciati nelle chiese rimangono impresse nella memoria dei sopravvissuti e di chi ha seguito gli sviluppi dello sterminio, anche perché sono state pochissime le famiglie che non hanno avuto vittime o che non sono state coinvolte in fatti di sangue.  Ma spiega che, di fronte alla nascita di correnti di negazionismo, il parlamento ruandese ha emanato leggi che criminalizzano qualunque forma di revisione storica che neghi l’accaduto. Bono sottolinea che il negazionismo potrebbe essere il primo passo per riaccendere tensioni etniche che – avverte – hanno radici antiche sul territorio africano e che il colonialismo in alcuni casi, ad esempio con l’ufficializzazione delle divisioni etniche tra hutu, tutsi, ha accentuato. Bono ricorda che oltre due milioni di profughi di etnia hutu si sono riversati, al momento delle violenze, nella vicina Repubblica Democratica del Congo e restano ancora oggi al centro di tensioni che preoccupano la comunità internazionale.

Gli archivi

Il 26 marzo scorso una commissione di storici voluta dal governo francese ha concluso che la Francia ha avuto pesanti responsabilità, come ha sottolineato anche Vincento Duclert, uno degli autori del rapporto. Non sono mai state riscontrate responsabilità dirette sui massacri ma si parla di sostegno al regime dittatoriale dell’allora presidente Juvénal Habyarimana.  Dunque, il 7 aprile, riconosciuta dall’Onu come Giornata Mondiale della Memoria in onore delle vittime del genocidio in Rwanda, Parigi, per la prima volta quest’anno, ha aperto al grande pubblico importanti archivi relativi alla situazione in Rwanda. Una sorta di memoriale con numerosi documenti, in particolare telegrammi e note confidenziali. Parigi è stata accusata di aver garantito copertura politica al regime di Habyarimana, di aver addestrato e armato l’esercito rwandese e le milizie hutu, di aver dato appoggio al Gouvernement Intérimaire Rwandais (GIR) costituito in seguito alla morte del presidente e considerato pienamente responsabile del genocidio. L’accusa, inoltre, è di aver supportato le Forces Armées Rwandaises di fronte all’avanzata dei ribelli dell’FPR, nonché di aver offerto protezione agli autori materiali dei massacri, attraverso la costituzione di una ‘zona sicura’ al confine con lo Zaire di Mobutu. Si tratta di tutte accuse respinte da Parigi che però hanno compromesso le relazioni tra la Francia e il governo ruandese di Paul Kagame, ex leader dell’FPR. Solo recentemente, Parigi e Kigali hanno intrapreso un processo di riavvicinamento.  E proprio in questi giorni Kagame ha espresso parole di apprezzamento per i passi in avanti voluti dal presidente Macron.

 

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-04/rwanda-genocidio-hutu-tutsi-societa-riconciliazione-anniversario.html

Pasqua di speranza e difficoltà in Libano

Il giorno di Pasqua è stato preceduto, nel Paese dei cedri, da manifestazioni di protesta a Beirut e a Sidone. Il vicario generale del Patriarca, padre Hanna, sottolinea come i giovani, che sentono la vicinanza di Papa Francesco, rappresentino la speranza del Libano. E il rettore del Santuario di Harissa racconta del milione di persone che dall’estero, ogni giorno, seguono on line il rosario serale

Fausta Speranza – Città del Vaticano
Riprendono le proteste popolari contro la corruzione e il malgoverno in Libano. I media di Beirut hanno riferito, nei giorni scorsi, di un sit-in  di fronte alla sede del ministero dell’economia nel centro della capitale e di un altro organizzato a Sidone, a sud di Beirut, di fronte alla sede dell’ospedale pubblico per protestare contro la carenza dei servizi medici di base nel contesto della pandemia.

E’ crisi da oltre un anno

Nel Libano, stretto da più di un anno e mezzo nella morsa della peggiore crisi economica e politica degli ultimi 30 anni, la lira locale ha perso il 90 per cento del suo valore. Non sembra proprio siano all’orizzonte prospettive di vedere formato, in tempi brevi, l’atteso nuovo governo.

I giovani conservano l’incoraggiamento di Papa Francesco

Delle problematiche del Paese e del ruolo dei giovani abbiamo parlato con monsignor Hanna Alwan, vicario del Patriarca dei Maroniti, cardinale Bechara Boutros  Raï:

La preghiera si rinnova

“Tra tante difficoltà la gente prega di più”, ci ha detto padre Khalil Alwan, rettore del santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa:

Padre Alwan ricorda che i libanesi soffrono di una crisi economica e sociale che da tempo non dà tregua alla maggior parte della popolazione e che è stata aggravata dalla pandemia. Poi sottolinea che tante persone e tanti giovani continuano ad unirsi al rosario on line che tutte le sere alle 19.15, ora locale, e alle 18.15 ora italiana, viene recitato e trasmesso sui social. L’esperienza è dura e il momento è davvero drammatico, ma, proprio per questo, si è intensificata la preghiera e in tanti si uniscono, dice il rettore. Si sente di vivere da tempo un periodo intenso di passione e, dunque, si attende davvero la Risurrezione del Signore, perchè – aggiunge – si riaccenda la speranza umana per una rinascita del Paese. Padre Alwan spiega che viene sentito molto l’appuntamento di preghiera serale che da ottobre 2019 è stato condiviso sui social. Sempre più persone si uniscono a questo appuntamento e almeno un milione di fedeli si collegano ogni giorno dall’estero. Molti altri si sono aggiunti per le celebrazioni del Triduo pasquale. La preghiera in Libano è più viva che mai.

 

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-04/pasqua-beirut-libano.html

La gioia del Risorto nella seconda Messa di Pasqua in pandemia

Con il rito del Resurrexit e l’aspersione è iniziata la Messa della Domenica di Pasqua presieduta dal Papa nella Basilica di San Pietro. Una solenne celebrazione dove la mancanza dell’Omelia ha accentuato i significati di ritualità e gesti. Al termine, il pensiero di Papa Francesco al nuovo arciprete di San Pietro e al cardinale Comastri. E un ringraziamento a tutti coloro che hanno contribuito allo svolgimento dei riti del Triduo pasquale

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’annuncio della sconfitta della morte torna pieno e potente nella vita di ognuno e nella celebrazione presieduta da Papa Francesco all’Altare della Cattedra, nella Basilica di San Pietro. Intensa la partecipazione spirituale dei presenti limitati nei numeri perché anche quest’anno, come l’anno scorso, le celebrazioni hanno subito le limitazioni imposte dalla pandemia da Covid-19. A concelebrare sono stati 24 cardinali e quattro vescovi. Hanno potuto prendere parte alla celebrazione circa 150 persone. Il Papa si è fermato sotto i gradini del presbiterio per il Rito del Resurrexit. Due i diaconi ai lati dell’Icona del Salvatore, mentre un altro diacono ha cantato l’Annunzio pasquale mentre Francesco incensava l’Icona. Il cardinale Re e il cardinale Sandri sono andati all’altare per la preghiera eucaristica: si sono collocati ai lati dell’altare e non a fianco del Santo Padre.

La certezza pasquale

Questa è la Domenica in cui la promessa diventa certezza: “Cristo è risorto, è davvero risorto”. Lo riferisce il Vangelo, che in questa festività, che rappresenta il momento più importante dell’anno liturgico, viene proclamato in latino e in greco. Come per altre celebrazioni, le letture in spagnolo e in inglese hanno contribuito ad esprimere il senso dell’universalità della Chiesa.

Le parole del Papa a conclusione

Prima della processione a conclusione della celebrazione, Papa Francesco ha rivolto il suo pensiero di “benvenuto” al cardinale Mauro Gambetti, ricordandolo come fra’ Mauro Gambetti, e un pensiero di ringraziamento al cardinale Comastri che – ha ricordato Francesco – è stato arciprete della Basilica di San Pietro per 16 anni. A febbraio accogliendo le dimissioni del cardinale Comastri per raggiunti limiti di età, Papa Francesco  ha nominato nell’incarico di arciprete della Basilica di San Pietro e di presidente della Fabbrica di San Pietro proprio il cardinale Mauro Gambetti, che è stato custode del Sacro Convento di Assisi e che è anche vicario generale di Sua Santità per la Città del Vaticano e per le ville pontificie di Castel Gandolfo. Il Papa ha detto:

“Vorrei dare il benvenuto al nuovo arciprete il Cardinale fra Mauro Gambetti, Grazie per la sua disponibilità, fratello! Gli auguro il meglio nel servizio di questa chiesa così importante per tutti i cristiani. E vorrei ringraziare anche il Cardinale Angelo Comastri che dopo 16 anni di arciprete e alla soglia dei 78 anni, lascia l’incarico. Grazie tante Cardinale Comastri, grazie per la sua pastorale, per la sua spiritualità, per le sue prediche, per la sua misericordia. Il Signore retribuisca tutto il suo lavoro.”

E ha poi rivolto il pensiero a chi offre il suo contributo alle celebrazioni:

“E vorrei ringraziare tutti voi che avete lavorato perché le celebrazioni di questa Settimana Santa fossero degne, belle, tutti, tutti! Ringrazio tutti coloro che lavorano qui in San Pietro, il coro, i ministranti, i lettori, i diaconi… Tutti! Grazie tante.”

Al termine della celebrazione, i concelebranti hanno preso parte alla processione con  Papa Francesco.

Ogni domenica, con il Credo, rinnoviamo la professione di fede nella Risurrezione di Cristo. A partire da questo grande mistero tutto si comprende nella Chiesa e ogni celebrazione eucaristica lo rende attuale. Esiste poi un tempo liturgico in cui questa realtà centrale della fede cristiana viene proposta ai fedeli in modo più intenso: è il tempo pasquale. Ogni anno, nel “Santissimo Triduo del Cristo crocifisso, morto e risorto”, come lo chiama sant’Agostino, la Chiesa ripercorre  le tappe conclusive della vita terrena di Gesù: la sua condanna a morte, la salita al Calvario portando la croce, il suo sacrificio per la nostra salvezza, la sua deposizione nel sepolcro. Il “terzo giorno”, poi, la Chiesa rivive la sua Risurrezione: è la Pasqua, passaggio di Gesù dalla morte alla vita, in cui si compiono in pienezza le antiche profezie. Tutta la liturgia del tempo pasquale canta la certezza e la gioia della Risurrezione del Cristo.

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-04/pasqua-papa-francesco-risurrezione-messa-resurrexit-san-pietro.html