Vicinanza a Dio, agli altri vescovi, ai sacerdoti e al gregge: la chiede il Papa all’ordinazione episcopale di monsignor Guido Marini e di monsignor Andrés Gabriel Ferrada Moreira. Francesco, nella celebrazione in San Pietro, parla di “alta responsabilità ecclesiale” sottolineando che “al vescovo compete più il servire che il dominare”
Fausta Speranza – Città del Vaticano
“Chi è il più grande tra voi, diventi come il più piccolo. E chi governa, come colui che serve”. Questo è l’insegnamento di Gesù, come ricorda Papa Francesco alla celebrazione di questa mattina nella Basilica di San Pietro dell’ordinazione episcopale di monsignor Guido Marini, nominato vescovo di Tortona, e di monsignor Andrés Gabriel Ferrada Moreira, dal 1 ottobre Segretario della Congregazione per il Clero. In loro, nuovi vescovi è “presente lo stesso Signore nostro Gesù Cristo, sommo sacerdote in eterno”, spiega Francesco nell’omelia: “Cristo, che continua a predicare il Vangelo di salvezza e a santificare i credenti” e nella “paternità del vescovo accresce di nuove membra il suo corpo, che è la Chiesa”. “È Cristo che nella sapienza e prudenza del vescovo guida il popolo di Dio nel pellegrinaggio terreno fino alla felicità eterna”.
L’alta responsabilità del servizio
Francesco parla di “alta responsabilità ecclesiale” alla quale vengono chiamati i nuovi vescovi, ricordando che “Gesù Cristo inviato dal Padre a redimere gli uomini mandò a sua volta nel mondo i dodici apostoli, perché pieni della potenza dello Spirito Santo annunziassero il Vangelo a tutti i popoli e riunendoli sotto un unico pastore, li santificassero e li guidassero alla salvezza”. L’invito è a riflettere:
Siete stati scelti fra gli uomini e per gli uomini, siete stati costituiti – non per voi, per gli altri – nelle cose che riguardano Dio. “Episcopato” infatti è il nome di un servizio – non è vero episcopato senza servizio -, non di un onore, come volevano i discepoli, uno alla destra, uno alla sinistra, poiché al vescovo compete più il servire che il dominare, secondo il comandamento del Maestro: “Chi è il più grande tra voi, diventi come il più piccolo. E chi governa, come colui che serve”. Servire. E con questo servizio voi custodirete la vostra vocazione e sarete autentici pastori nel servire, non negli onori, nella potestà, nella potenza… No, servire, sempre servire.
Annuncio e studio
Guardando poi al ruolo dei nuovi vescovi nella comunità dei credenti Francesco rimarca le priorità a cominciare dall’annuncio della Parola “in ogni occasione: opportuna e non opportuna. “Ammonite, rimproverate, esortate con magnanimità e dottrina”. E poi l’invito: “Continuate a studiare”. Francesco indica una via precisa: “Mediante l’orazione e l’offerta del sacrificio per il vostro popolo, attingete dalla pienezza della santità di Cristo la multiforme ricchezza della divina grazia”.
Il valore della vicinanza “traccia di Dio”
“Voi sarete i custodi della fede, del servizio, della carità nella Chiesa”, dice il Papa agli ordinandi e sottolinea che per questo bisogna essere capaci di vicinanza. “Pensate – afferma – che la vicinanza è la traccia più tipica di Dio”. E cita il Deuteronomio: “Quale popolo ha i suoi dei così vicini come tu hai me?”. Dunque invita a cogliere i tanti livelli della vicinanza richiesta. Innanzitutto chiede “una vicinanza che è compassione e tenerezza” spiegando: “Il vescovo è un uomo vicino a Dio nella preghiera”. Ricorda la raccomandazione di Pietro: “La preghiera e l’annuncio della Parola”.
Il primo compito del vescovo è pregare e non come un pappagallo, no! Pregare con il cuore, pregare. “Non ho tempo”. No! Togli tutte le altre cose ma pregare, è il primo compito del vescovo. Vicinanza a Dio nella preghiera.
Poi la seconda vicinanza raccomandata da Francesco è quella agli altri vescovi. Ricorda che a volte si sente dire: “No, quelli sono di quel partito, io sono di questo partito…” e ammonisce:
Siate vescovi, ci saranno discussioni fra voi, ma come fratelli ma vicino. Mai sparlare dei fratelli vescovi, mai. Vicinanza ai vescovi. Seconda vicinanza, al corpo episcopale.
Terzo livello di vicinanza, quella ai sacerdoti: “Per favore, non dimenticatevi che i sacerdoti sono i prossimi più prossimi di voi”, dice, rammaricandosi di quando i vescovi hanno l’agenda piena e rimandano un incontro con un sacerdote:
Se tu vieni a sapere che ti ha chiamato un sacerdote, chiamalo lo stesso giorno o il giorno dopo. Lui con questo, saprà che ha un padre. Vicinanza ai sacerdoti, e se non vengono va a trovarli: vicino.
E “quarta vicinanza, vicinanza al santo popolo fedele di Dio”. Il Papa ricorda le parole di Paolo a Timoteo: “Ricordati di tua mamma, tua nonna…”, per poi aggiungere: “Non dimenticare che sei stato tolto dal gregge, non da una élite che ha studiato, ha tanti titoli e tocca essere vescovo. No: dal gregge.” Quindi l’invocazione finale:
Che il Signore vi faccia crescere su questa strada della vicinanza, così imiterete meglio il Signore perché Lui è stato sempre vicino e sta sempre vicino a noi e con la sua vicinanza che è una vicinanza compassionevole e tenera ci porta avanti. E che la Madonna vi custodisca.
Il saluto e il grazie dei nuovi vescovi
Prendendo la parola al termine della celebrazione monsignor Guido Marini manifesta a nome anche di monsignor Ferrada Moreira il “grazie” personale innanzitutto al Papa per la fiducia e i tanti segni di amore espressi nel tempo. “Grazie” una parola breve, dice, ma colma di sentimenti, pensieri e desideri. Siamo piccolissimi, ma scelti, amati e inviati”. Quindi il ringraziamento a tutta la comunità per le preghiere e l’affetto manifestati, un pensiero speciale e commosso alle famiglie di origine.
Monsignor Guido Marini è stato nominato vescovo di Tortona e farà il suo ingresso nella diocesi tortonese domenica 7 novembre, prendendo possesso della cattedra di san Marziano come successore di monsignor Vittorio Francesco Viola, nominato nel maggio scorso segretario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Monsignor Marini era stato nominato il 1° ottobre del 2007 da Papa Benedetto XVI Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie e Prelato d’Onore di Sua Santità, poi confermato in questo incarico nel 2013 da Papa Francesco. E’ nato a Genova il 31 gennaio 1965 ed è stato ordinato sacerdote il 4 febbraio 1989 dal cardinale Giovanni Canestri di cui è stato anche segretario.
Monsignor Andrés Gabriel Ferrada Moreira è stato nominato dal 1 ottobre segretario della Congregazione per il Clero e gli è stata assegnata la Sede titolare Arcivescovile di Tiburnia. E’ nato a Santiago de Chile il 10 giugno 1969. È stato ordinato sacerdote per l’arcidiocesi metropolitana di Santiago del Cile il 3 luglio 1999. Ha conseguito il Dottorato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana nel 2006. Ha svolto diversi incarichi pastorali in diocesi, tra cui quello di direttore degli studi e prefetto di teologia del Seminario Pontificio Mayor de los Santos Ángeles Custodios, a Santiago del Cile. Dal 2018 fino al 1 ottobre scorso è stato officiale della Congregazione per il Clero.
A presentare durante la celebrazione gli eletti è stato il cardinale Marc Armand Ouellet, Prefetto della Congregazione per i vescovi e presidente della Pontificia commissione per l’America Latina.
Cresce l’attesa per la riapertura ai fedeli, superate le misure anti-covid, della chiesa che conserva il quadro originale di Nostra Signora che scioglie i nodi. Siamo andati ad Augsburg, in Germania, dove il custode ogni giorno porta le email con le preghiere che arrivano da tutto il mondo. Con noi don Gunter Grimma e Martin Ziegelmayr dell’Associazione Virgen Maria Knotenlöserin
Fausta Speranza – Città del Vaticano
Nella piccola chiesa di San Peter Perlach, che nella cittadina tedesca di Augsburg conserva il quadro originale dedicato a Nostra Signora che scioglie i nodi, non si può accedere da mesi e mesi per via delle misure contro la pandemia. Si celebra una sola Messa la domenica, ma oltre al sacerdote possono partecipare solo altre due o tre persone per volta. In ogni caso, la devozione alla Vergine che scioglie i nodi è più viva che mai: sono incessanti le richieste di notizie sulla riapertura e soprattutto si moltiplicano i messaggi inviati con le intenzioni di preghiera ispirate dalla particolarissima immagine.
L’associazione di cittadini Virgen Maria Knotenlöserin
Ad occuparsi della chiesa che custodisce il quadro della Madonna che scioglie i nodi è l’associazione di cittadini Virgen Maria Knotenlöserin. Da 32 anni la presiede Martin Ziegelmayr, che ci ha guidato eccezionalmente ad una visita:
L’amministratore Ziegelmayr sottolinea il noto legame con Papa Francesco, ricordando che da giovane Jorge Mario Bergoglio, durante i suoi studi di teologia in Germania, vide l’immagine di questo quadro, rimanendone profondamente colpito. Tornato in patria, ne ha diffuso il culto che da Buenos Aires ha raggiunto poi l’intera Argentina e tutta l’America del sud. In particolare nel 1996 è stata realizzata una copia in Argentina che ha destato grande curiosità. E Ziegelmayr aggiunge che dall’inizio di questo Pontificato si avverte un moltiplicarsi dell’attenzione a questa devozione in tutto il mondo. Un fenomeno – assicura – che non si è fermato neanche in tempo di misure restrittive da coronavirus. Se sono diminuiti gli accessi di persone fisiche, si sono centuplicati i messaggi.
La storia del dipinto
Ziegelmayr ricorda che Virgen Maria Knotenlöserin è un dipinto a olio su tela realizzato intorno al 1700 dal pittore tedesco Johann georg Melchior Schmidtner. Il dipinto, in stile veneziano con influenza barocca, di centimetri 182 x 110, fu realizzato dall’artista nella chiesa di St. Peter am Perlach su commissione di Hieronymus Ambrosius Langenmantel, un nobile prelato e canonico dottore. La tradizione racconta che il nonno del canonico committente aveva attraversato una crisi coniugale e era riuscito a superarla pregando la Vergine Maria.
Una devozione sempre più ravvivata
Di fronte al quadro originale e unico della Madonna che scioglie i nodi ci ha accompagnato anche don Gunter Grimma del clero della città bavarese:
Don Gunter racconta che a parte il periodo di pandemia normalmente è straordinario l’afflusso alla piccola chiesa per accostarsi al quadro della Madonna che scioglie i nodi. Si contano anche 500 persone nell’arco di un giorno – afferma – e si tratta di pellegrini dalla Germania e dalle più varie parti del mondo.
La rappresentazione
Poi don Gunter spiega che viene rappresentata Maria al centro, con a destra un angelo che le porge un filo pieno di nodi intrecciati e a sinistra un altro angelo che raccoglie il filo libero dai nodi che Maria ha sciolto. C’è la luna (secondo la visione riportata al capitolo 12 dell’Apocalisse) ai piedi della Vergine che calpesta un serpente (rappresentazione del diavolo, secondo la profezia di Genesi 3,15). In basso al centro sembra sia rappresentata la scena biblica di Tobia. Le figure sono molto piccole ma sembra di poter individuare il giovane israelita in viaggio per raggiungere colei che diventerà la propria sposa. E’ guidato dall’arcangelo Raffaele e accompagnato dal proprio cane, simbolo della fedeltà di Dio. Sul capo, Maria ha una corona di dodici stelle. A destra si vede un angelo che porge a Maria un nastro con nodi di tutti i tipi. All’altro lato, il sinistro, tra la luce della misericordia e della salvezza divina, un altro angelo riceve un nastro che scivola liscio tra le sue mani: significa che la preghiera del fedele è stata ascoltata e che il nodo è stato sciolto per intercessione di Maria.: questo spiegherebbe la presenza sulla tela del riferimento biblico a Tobia.
In occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione il 16 ottobre e in vista del summit finale del G20 a fine mese, Azione contro la fame presenta il manifesto firmato da decine di volti noti del giornalismo, della cultura, dello sport. Ci sarebbe cibo per tutti se non ci fossero guerre, diseguaglianze, cambiamenti climatici, ricorda il direttore generale dell’organizzazione umanitaria Simone Garroni
Fausta Speranza – Città del Vaticano
Si intitola “Mai più Fame”, il manifesto voluto dall’organizzazione umanitaria Azione contro la fame e presentato ieri, in vista della Giornata mondiale dell’Alimentazione, il 16 ottobre, e dei prossimi appuntamenti internazionali, a cominciare dal summit finale del G20, il 30-31 ottobre, sotto la presidenza italiana. Molti i personaggi del mondo dello spettacolo, della cultura, del giornalismo e del cinema che lo hanno sottoscritto.
Evitare la strage per fame nel mondo si può: i leader mondiali devono dimostrare la volontà politica di contrastare le cause strutturali, sottolinea il direttore generale di Azione contro la fame, Simone Garroni:
Il manifesto – sottolinea Garroni – parte dall’assunto che è inaccettabile che ci siano 811 milioni di persone che soffrono la fame e oltre 2 milioni di bambini che muoiono ogni anno a causa della malnutrizione.Dobbiamo ricordarci – raccomanda – che il pianeta è in grado di produrre cibo a sufficienza per tutti, cure contro la malnutrizione infantile da tempo disponibili, efficaci e a basso costo, progetti di cooperazione in grado di realizzare l’autosufficienza delle comunità vulnerabili. Il punto è – ribadisce – che siamo la prima generazione della storia che può eliminare la fame. Eppure, negli ultimi cinque anni, la fame è tornata a crescere affermandosi, in Italia e nel mondo, come piaga contemporanea: è inaccettabile! La fame è creata dall’uomo e i nostri leader devono avere più coraggio e dimostrare la volontà politica di combatterne le ragioni di base: conflitti, diseguaglianze e cambiamenti climatici.
L’obiettivo per tutti
Il manifesto-appello, ha un duplice obiettivo: mobilitare la società civile sulla piaga contemporanea dell’insicurezza alimentare e spingere i leader nazionali ed internazionali, a partire dal prossimo G20 a guida italiana, ad interventi concreti e coraggiosi che vadano ad intaccare le cause strutturali della fame. Garroni ricorda che una persona affamata non è una persona libera e che la fame tradisce gli intenti della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, per la quale “tutti gli essere umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti”. Ad accompagnare il manifesto c’è un filmato in collaborazione con il regista, sceneggiatore e produttore cinematografico Armando Trivellini, che alterna testimonianze dal campo con alcuni celebri discorsi tenuti da Martin Luther King, Ghandi e Greta Thunberg.
Alcuni dati
Se pensiamo all’obiettivo ‘zero hunger’ tracciato dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile – prosegue Simone Garroni – capiamo che ci vuole evidentemente un cambio di passo. L’ultimo Rapporto sull’insicurezza alimentare mondiale diffuso dalla FAO (SOFI 2021, The State of Food Security and Nutrition), testimonia che, nell’ultimo anno, sono aumentate di 161 milioni le persone che soffrono la fame. Il Global report on Food Crisis 2021 evidenzia il drammatico ruolo delle guerre: sei persone su 10 tra quelle che soffrono la fame vivono in aree di conflitto. E fa riferimento agli effetti dei cambiamenti climatici: per 15 milioni di persone che vivono di agricoltura e allevamento rappresentano il primo fattore di insicurezza alimentare. E poi denuncia le diseguaglianze economiche, sociali e di genere che rendono i più deboli particolarmente vulnerabili agli shock e alle crisi economiche: sono responsabili del 26 per cento delle situazioni di insicurezza alimentare globale.
I compiti della politica
Garroni spiega che con “Mai più Fame”, Azione contro la Fame – che nel 2020 ha aiutato oltre 25 milioni di persone in quasi 50 Paesi del mondo – intende ribadire che per liberare il mondo da questa piaga è necessario il massimo coinvolgimento della politica al fine di: riconoscere la lotta alla fame e alla malnutrizione come priorità nazionale ed internazionale di ogni governo; fermare l’utilizzo della fame come arma di guerra; contrastare le disuguaglianze e promuovere il ruolo delle donne; fermare il cambiamento climatico e trasformare i sistemi alimentari per renderli più equi e sostenibili. “La fame – afferma Garroni – è un problema complesso e richiede un intervento multisettoriale e a vari livelli, con il coinvolgimento di cittadini, imprese ed istituzioni. Ma è una questione fondamentale di civiltà e di diritti, oggi più centrale che mai, e noi non ci arrenderemo fino a che non verrà garantito ad ogni persona, oggi e domani, in Italia e nel mondo, il diritto al cibo, all’acqua e ai mezzi necessari per garantire la salute e il benessere proprio e della propria famiglia”.
L’opportunità del G20
Il gruppo dei 20 Paesi che rientrano tra le principali economie del mondo – rappresentano più del 80 per cento del PIL mondiale, il 75 per cento del commercio globale e il 60 per cento della popolazione del pianeta – si ritrovano nel summit di fine ottobre ancora sotto la presidenza italiana intorno al tema “Persone, Pianeta, Prosperità”. Un’importante occasione per rilanciare la centralità dell’accesso al cibo e alla sana alimentazione. L’Italia, ospite delle sedi di FAO, WFP e IFAD, che ha recentemente ospitato i prevertici del Food System Summit e della COP26, è chiamata, secondo Azione contro la fame, ad avere la vocazione ad un ruolo chiave nella lotta alla fame nel mondo. Il Manifesto, insieme con un video realizzato da studenti, grazie all’iniziativa nelle scuole di Azione contro la fame, viene presentato al presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi. Emergono raccomandazioni precise: prevedere per il 2022 un fondo di solidarietà alimentare e sostegno alle famiglie in Italia adeguato ai bisogni delle fasce deboli della popolazione; impegnarsi in un ambizioso piano di sostegno finanziario al prossimo Nutrition For Growth summit di Tokyo a dicembre 2021 e aumentare progressivamente l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo per la cooperazione internazionale fino a raggiungere lo 0,7 per cento del PIL entro il 2030; adoperarsi per la piena implementazione della “Risoluzione 2417” che sanziona l’uso della fame come arma di guerra; dare nuovo impulso agli Accordi di Parigi del 2015 per contenere il surriscaldamento globale entro +1,5°C; promuovere lo sviluppo prioritario dell’agroecologia come strumento per assicurare sicurezza alimentare alle popolazioni più vulnerabili.
Tra gli scenari più urgenti
In particolare, con la campagna “Mai più fame”, nei prossimi cinque anni Azione contro la fame punta a raccogliere fondi per finanziare quattro progetti che agiscono anch’essi sulle cause strutturali della fame: nella secca regione del Sahel, per guidare gli allevatori verso i pascoli migliori grazie alle immagini satellitari; in Libano, per sostenere le popolazioni vittime del conflitto della vicina Siria; in India, realizzando orti giardino che migliorino il reddito, la sicurezza alimentare e il ruolo sociale delle donne; in Italia, dove con un sostegno alla spesa, un’educazione alimentare per una dieta sana e un’attività di formazione personale e professionale Azione contro la Fame consentirà alle famiglie vulnerabili della periferia milanese di passare dall’emergenza all’autonomia.
L’aspirazione alla fraternità espressa in una chiesa molto antica che sceglie uno stile al passo dei tempi: accade ad Augsburg, in Germania, dove la parrocchia di St. Moritz, che risale al 1020, è stata appena restituita al culto dopo il restauro. Nella cura dell’antico c’è il messaggio della chiesa proiettata al futuro dettato dalla enciclica Fratelli tutti, come spiega il parroco don Helmut Hang
Fausta Speranza– Città del Vaticano
In Germania le celebrazioni del millennio della chiesa di St. Moritz ad Augsburg sono cadute nel 2020 in piena pandemia. La parrocchia dunque torna pienamente al culto dei fedeli solo ora, dopo un impegnativo restauro. Completata nel 1020 è stata per secoli un punto di riferimento importante nella cittadina bavarese fondata con il nome di Augusta dai romani. Oltre a cambiamenti e incendi nei secoli, ha subito devastanti bombardamenti durante la seconda guerra mondiale. In occasione del prezioso millenario anniversario, è stata dunque oggetto di particolari cure.
Un impegnativo restauro
A seguire i lavori è stato lo studio dell’architetto britannico John Pawson, noto per lo stile minimalista. Il risultato sonopareti bianche in una struttura altissima e allungata, con solo alcune preziosità, statue o stele, della struttura precedente incastonate nei muri. Si è voluto ‘risintonizzare’ l’architettura esistente attraverso prospettive estetiche, funzionali e liturgiche, mantenendo l’atmosfera sacra sempre al centro del progetto. La costruzione è stata riportata alle sue componenti essenziali. I reperti importanti sono stati puliti e trasferiti, stabilendo campi visivi chiari e diretti e dando ampio spazio alla luce naturale. Ma si avverte anche il piacevole effetto di materiali e metodi di illuminazione moderni.
Il segno dell’accoglienza e il richiamo alla Fratelli tutti
Una grande statua è stata voluta dietro l’altare: è Cristo rappresentato in movimento. Tutto lo spazio volutamente recuperato è per avere al centro di tutto Cristo che viene ad incontrare ognuno a braccia aperte, spiega, don Helmut Hang, alla guida della millenaria chiesa.
Ascolta l’intervista integrale a don Helmut Hang in lingua inglese:
L’obiettivo del restyling – afferma il parroco di St. Moritz con entusiasmo – è restituire lo spirito dei tempi della costruzione antica suggerendo che Cristo è per il futuro. E nel futuro delle nostre vite – sottolinea don Helmut – deve trovare spazio l’aspirazione mondiale alla fraternità e all’amicizia sociale, contenuta nell’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco, pubblicata a ottobre dell’anno scorso. Chi si avvicina – sottolinea il parroco – deve sentire che come Cristo, c’è una comunità pronta ad accogliere a braccia aperte. La sfida vera – afferma il parroco di St. Moritz – è ristrutturare non solo i muri ma le comunità. Don Helmut ricorda la ferita gravissima e il dolore profondo per gli scandali legati agli abusi per sottolineare che dobbiamo ripartire dalle fondamenta, dalla consapevolezza della presenza di Dio e del fatto che siamo tutti fratelli perché figli di un unico Creatore, bisognosi di prendere coscienza che in un mondo globalizzato e interconnesso ci si può salvare solo insieme. E questo – aggiunge don Helmut – è quanto dobbiamo sentire nel cuore quando nelle chiese entrano credenti o magari non credenti che cercano risposte o silenzi, perché avvertono – dice – quel bisogno di Dio riposto nel cuore di ognuno. O anche quando si incontrano fedeli di altre confessioni religiose. Don Helmut ricorda ancora che Papa Francesco sottolinea che un mondo più giusto si raggiunge promuovendo la pace, che non è soltanto assenza di guerra, ma una vera e propria opera “artigianale” che coinvolge tutti. E che può iniziare – dice il parroco – con il riscoprire Cristo che ci viene incontro a braccia aperte.
Il canadese David Card e gli statunitensi Joshua D. Angrist e Guido W. Imbens sono i vincitori del Premio Nobel per l’economia 2021. Hanno fornito nuove informazioni sul mercato del lavoro e hanno studiato i difficili margini di analisi sulle relazioni causa-effetto che si possono avere in una disciplina sociale e non naturale come quella economica, spiega lo studioso Paolo Guerrieri
Fausta Speranza – Città del Vaticano
Il Premio Nobel per l’economia 2021 è stato assegnato oggi al canadese David Card, e agli statunitensi Joshua D. Angrist e Guido W. Imbens. I vincitori – spiega l’accademia – “hanno fornito nuove informazioni sul mercato del lavoro e hanno mostrato quali conclusioni su causa ed effetto si possono trarre dagli esperimenti naturali. Il loro approccio si è diffuso in altri campi e ha rivoluzionato la ricerca empirica”. Card, “ha analizzato gli effetti sul mercato del lavoro di salari minimi, immigrazione e istruzione”. Joshua D. Angrist e Guido W. Imbens hanno offerto “contributi metodologici all’analisi delle relazioni causali”.
L’economista Paolo Guerrieri, docente in diversi atenei internazionali, spiega come si tratti di studi di tipo empirico:
Guerrieri sottolinea che si tratta di un Nobel assegnato non in base a canoni di studio per così dire “astratti” ma piuttosto empirici, che si avvicinano ai principi di esperimenti naturali. David Card – spiega – ha analizzato gli effetti sul mercato del lavoro di salari minimi, immigrazione e istruzione. I suoi studi dei primi anni “90 hanno sfidato le nozioni convenzionali, portando a nuove analisi e ulteriori intuizioni. I risultati hanno mostrato, tra l’altro, che l’aumento del salario minimo non porta necessariamente a un minor numero di posti di lavoro. Oppure sono stati analizzati ad esempio i redditi delle persone nate in un Paese e quelli delle persone immigrate in precedenza. Guerrieri mette in guardia da facile determinismo tra causa ed effetto: in economia – sottolinea – non è possibile fare le verifiche in laboratorio e le contro verifiche, che è possibile fare nelle scienze naturali. Ma è importante – aggiunge – spingersi sul terreno delle ipotesi e degli studi anche con questo tipo di approccio. Ed è quanto hanno fatto i tre studiosi che – afferma Guerrieri – hanno lavorato a volte insieme anche se in particolare gli studi premiati sono studi sostanzialmente paralleli. Dunque si capisce secondo Guerrieri la motivazione: “Molte delle grandi domande nelle scienze sociali riguardano causa ed effetto”, ha spiegato la Royal Swedish Academy of Sciences aggiungendo che “i vincitori di quest’anno hanno dimostrato che è possibile rispondere a queste e ad altre domande simili utilizzando esperimenti naturali. La chiave secondo gli esaminatori, “sta nell’usare situazioni in cui eventi casuali o cambiamenti politici hanno come risultato che ci siano gruppi di persone trattati in modo diverso, in un modo che assomiglia ai trial clinici in medicina”. Sullo sfondo di questo Premio – commenta Guerrieri – rimangono le sfide globali sul lavoro. Resta tanto da fare e ci vuole molta volontà politica per contrastare il fenomeno della disoccupazione che colpisce anche se in modo diverso la maggior parte delle aree del mondo. Questo Premio Nobel in fondo ricorda – afferma Guerrieri – che servono attenzione e studi fattuali. Certamente torna evidente – aggiunge l’economista – il primato delle università statunitensi quando si tratta di verificare da dove provengono gli studi più avanzati in tema di economia.
La libertà di espressione contribuisce alla costruzione di società di pace: è il messaggio che emerge dalla scelta di assegnare a due reporter il Premio Nobel per la Pace 2021. Il buon giornalismo può aiutare a comprendere le ragioni dell’altro e ad essere meno ostili, sottolinea l’editorialista Giampiero Gramaglia
Fausta Speranza – Città del Vaticano
Il Premio Nobel per la Pace è andato a Maria Ressa e Dmitry Muratov, entrambi impegnati nella tutela della libertà di espressione. Ressa, filippina, co-fondatrice di Rappler, sito di giornalismo investigativo, “usa la libertà di espressione per esporre l’abuso di potere, l’uso della violenza e il crescente autoritarismo”. Secondo la commissione di Oslo, Ressa si è dimostrata una “paladina senza paura della libertà di espressione”. Il russo Muratov, direttore di Novaya Gazeta è stato nel 1993 proprio tra i fondatori della testata “il cui giornalismo basato sui fatti e l’integrità professionale ne hanno fatto una fonte importante di informazione su aspetti censurabili della società russa, raramente menzionati su altri media”. “Da quando è stato aperto, sei dei suoi giornalisti sono stati uccisi”, ha ricordato la Commissione. Muratov è il terzo russo a ricevere il Nobel per la Pace dopo Andrey Sakharov e Mikhail Gorbaciov.
Del significato della scelta di assegnare il Nobel per la Pace a reporter, parla a Vatican News Giampiero Gramaglia. Secondo il consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali, già direttore dell’Ansa, la libertà di informazione contribuisce alla pace perché migliora la consapevolezza delle popolazioni su quanto accade, e aiuta a valutare e affrontare i problemi in modo più consapevole e non in base a pulsioni o a istinti.
La libertà di espressione – sottolinea Gramaglia che prima di diventare direttore dell’Ansa è stato per anni corrispondente dell’agenzia di stampa da Bruxelles, Parigi e Washington – è una precondizione per cercare di avere buona informazione, che significa anche contribuire a una migliore comprensione della realtà. In concreto, solo con una buona informazione si possono mettere le persone in grado di capire le ragioni degli altri, che significa essere anche meno ostili. In questo senso il buon giornalismo contribuisce alla pace. E’ difficile – sottolinea Gramaglia – comprendere l’altro quando si resta intrappolati nel proprio mondo, nelle proprie condizioni.
Un riconoscimento che fa riflettere tutti
Gramaglia mette in luce inoltre un aspetto in particolare: al di là dei nomi dei giornalisti e del valore che va riconosciuto al loro lavoro, questo Premio Nobel ha una doppia valenza. Secondo l’editorialista, da un lato è un riconoscimento che ribadisce l’importanza dell’impegno di quanti difendono la libera informazione in contesti dove la democrazia è incompiuta, ma dall’altro ricorda anche che bisogna valorizzare e difendere il lavoro del corretto reporter anche in contesti di democrazia acquisita dove c’è sempre il rischio che essa sia compromessa nei valori. A proposito del fenomeno delle fake news, Gramaglia spiega che si deve parlare non tanto di evoluzione politica quanto di evoluzione dell’industra dell’informazione. Il problema di fondo è quello di una percezione, che sembra diffusa, della notizia come di un prodotto senza valore, per il quale non si debba spendere. E invece non può essere uguale un’informazione passata al vaglio da professionisti competenti e una proposta sui social da improvvisati divulgatori. Certamente la libertà di espressione è da tutelare, ma è cosa diversa difendere la differenza tra notizie verificate e notizie non verificate. Gramaglia ricorda che non esiste un contesto esente da rischi o un’età dell’oro del giornalismo da rimpiangere perché – sottolinea – sempre c’è stato e sempre ci sarà il rischio di avere giornalisti assoggettati al potere. L’importante è difendere il principio che il giornalismo sia come un “cane da guardia” di qualunque potere o meccanismo di potere, un campanello di allarme per qualunque, sempre possibile, deviazione di un rapporto corretto e equilibrato. L’obiettivo – torna a sottolineare ribadendo il significato del premio – è quello di avere persone, comunità, società bene informate e dunque per questo meno prevenute e meno ostili all’altro.
Formare e seguire i giovani in Sierra Leone a quasi venti anni dalla conclusione del conflitto civile: è l’obiettivo oggi dei salesiani, presenti da tempo nel piccolo Paese dell’Africa occidentale. Fratel Riccardo Racca parla delle conseguenze su una generazione e su tutta la società delle violenze e del fenomeno dei bambini soldato e denuncia la piaga ancora viva della prostituzione minorile
Fausta Speranza – Città del Vaticano
Il dramma dei bambini soldato, la guerra dei diamanti, ebola: sono i drammatici temi per i quali, per alcuni anni, si è parlato di Sierra Leone, piccolo Paese nell’Africa occidentale che in passato è stato anche terra di tratta di esseri umani. Nonostante le ingenti somme ricevute dalla comunità internazionale, rimane uno dei Paesi più poveri del mondo.
Il decennio di guerra civile
Nel 1991 è scoppiato il conflitto fra i ribelli del Fronte Unito Rivoluzionario, sostenuti dalle forze speciali del NPFL e le forze governative comandate da Joseph Saidu Momoh. Dopo undici anni di scontri, che hanno causato oltre 50 000 vittime, nel 2002 hanno prevalso le forze governative.
L’impegno dei salesiani
Da 20 anni sono presenti i salesiani e da 10 mesi alla piccola comunità nel distretto di Bo, nella provincia del sud, il più popoloso dopo quello della capitale Freetown, si è aggiunto fratel Riccardo Racca:
Non ci sono più casi di bambino soldato, assicura fratel Riccardo spiegando però che purtroppo è lunga l’onda delle conseguenze in termini di traumi di fenomeni così drammatici. Sono colpiti in primis i giovani ma anche tutto il tessuto sociale. Spiega che i salesiani sono arrivati in Sierra Leone proprio per affrontare questo fenomeno che si lega a tutte le atrocità di una guerra civile che – afferma – non si può dire sia stata frutto della volontà del popolo. La cosiddetta guerra dei diamanti infatti è al centro di interessi e dinamiche ben più ampie.
Le emergenze oggi
C’è l’assistenza spirituale nelle carceri, ma anche il tentativo di prestare aiuto per le cure mediche spesso precarie soprattutto nei villaggi, dice fratel Riccardo parlando poi anche di un dramma ancora tutto attuale: quello della prostituzione minorile che tragicamente riguarda – assicura – fasce di età davvero basse. E c’è poi lo specifico del suo impegno: cercare di formare giovani al lavoro, insegnando loro un mestiere, assicurando una formazione in grado di renderli propositivi, pronti. Fratel Riccardo, che è arrivato in Sierra Leone dopo anni in Ghana e in Nigeria, ricorda che il Paese è piccolo e che gli abitanti sono otto milioni di persone: dovrebbero bastare le risorse naturali e inoltre in questa fase post conflitto sono arrivati e arrivano molti aiuti dall’esterno, ma c’è tanto bisogno – spiega – di riconciliazione e di riorganizzare il tessuto sociale. Ci sono tanti giovani nelle carceri da seguire. La prigione di Pademba, a Freetown, è stata costruita nel 1937 per ospitare 300 prigionieri. Da allora non è cambiato nulla nelle strutture, tranne il fatto che è arrivata ad ospitare 2.000 detenuti stipati in celle non igieniche. I salesiani sono l’unica istituzione che lavora con i detenuti, anche attualmente, quando la paura per Covid-19 ha portato a rivolte, con episodi di disordini costati la vita ad alcuni detenuti, incendi. E poi ci sono da seguire i tanti giovani e giovanissimi che devono imparare un mestiere quando escono dalle carceri o semplicemente perché le famiglie non se ne possono occupare.
Il riconoscimento un anno fa
Nel 2020 la Rete di Azione per la Gioventù e i Bambini (AYCN), un’organizzazione per la difesa dei diritti dei giovani e dei bambini, ha assegnato all’opera salesiana “Don Bosco Fambul” il riconoscimento come migliore organizzazione umanitaria della Sierra Leone. Gli interventi di “Don Bosco Fambul” per sviluppare e cambiare la vita dei giovani in Sierra Leone sono esemplari, specialmente per le vittime di violenza sessuale, tratta, abbandono e altre forme di violenza domestica.
La commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite denuncia, nel suo primo rapporto dopo un anno di lavoro, gravi violazioni dei diritti umani dal 2016 ad oggi da parte di attori libici e stranieri, statali e non statali. Le vittime: persone intercettate al largo delle coste libiche o nelle carceri
Fausta Speranza – Città del Vaticano
Probabili crimini di guerra e crimini contro l’umanità sono stati commessi in Libia: è quanto emerge dal primo documento pubblicato oggi a Ginevra dalla Commissione di inchiesta indipendente voluta a giugno 2020 dal Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite (Unhcr). “Vi sono fondati motivi per ritenere che in Libia siano stati commessi crimini di guerra e che le violenze perpetrate nelle carceri e contro i migranti possono costituire crimini contro l’umanità”, si legge nel comunicato odierno.
Violazioni del diritto internazionale
“Le nostre indagini hanno stabilito che tutte le parti in conflitto, compresi Stati terzi, combattenti stranieri e mercenari, hanno violato il diritto internazionale umanitario”, afferma Mohamed Auajjar, presidente della missione conoscitiva. “Alcune hanno anche commesso crimini di guerra”, ha aggiunto. La Commissione ha quindi identificato individui e gruppi – sia libici che attori stranieri – che potrebbero essere responsabili delle violazioni, degli abusi e dei crimini commessi nel Paese nordafricano dal 2016 ed ha elaborato un elenco “confidenziale” che rimarrà tale fino a quando non si “presenterà la necessità della sua pubblicazione o condivisione con altri meccanismi pertinenti”, ha spiegato l’Onu.
Abusi “organizzati” in mare e nelle carceri
La Commissione di Fact Finding stabilita dal Consiglio Onu sui Diritti umani aveva il mandato di documentare presunte violazioni e abusi dall’inizio del 2016. La missione tra l’altro ha esaminato la situazione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Sono vittime di “abusi in mare, nei centri di detenzione e per mano dei trafficanti”, denuncia Chaloka Beyani, membro della Commissione, che parla di “violazioni su vasta scala commesse da attori statali e non statali, con un alto livello di organizzazione, il che suggerisce crimini contro l’umanità”.
L’appello al Governo
Alla denuncia si unisce nel rapporto anche un appello. Con il recente insediamento del Governo di unità nazionale, infatti, la Libia è entrata in una fase di dialogo nazionale e di unificazione delle istituzioni statali. Il rapporto dunque contiene anche un’esortazione alla politica ad intensificare gli sforzi per chiedere conto ai responsabili delle violazioni. Intanto continua il flusso di chi cerca di lasciare la Libia per ricostruirsi un futuro. Circa 500 persone sono state fatte sbarcare in una raffineria di Azzawiya, dopo essere state intercettate in mare questa mattina dalla Guardia costiera libica su un’imbarcazione di legno. È quanto riferisce su Twitter l’Agenzia dell’Onu per i Rifugiati (Unhcr) in Libia, precisando che “del gruppo fanno parte persone provenienti da Somalia, Sudan, Bangladesh, Siria” cui si è già fornita assistenza.
Dalle Nazioni Unite arriva l’appello a non dimenticare quanto accade in Libia a migranti e profughi, mentre arriva la notizia di nuovi morti in mare. In Italia, nel giorno in cui si ricorda la strage del 3 ottobre 2013, sbarcano centinaia di persone in poche ore
Fausta Speranza – Città del Vaticano
Almeno due migranti sono morti e 40 risultano dispersi al largo delle coste libiche dopo il naufragio di due imbarcazioni. Secondo quanto riferito dall’Unhcr, 91 persone erano a bordo di una delle due imbarcazioni, 89 delle quali sono state salvate e portate sulla costa. Altre 40 persone partite a bordo di un altro gommone risultano disperse, ha aggiunto l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, senza fornire ulteriori dettagli. In precedenza Alarm Phone aveva denunciato che “una barca con 70 persone a bordo è dispersa da 4 giorni”. Dopo la partenza da Khoms, in Libia, ha contattato l’organizzazione “molte volte”. “Abbiamo perso i contatti quando erano in Sar maltese, 11 miglia dalle acque italiane. Non c’e’ conferma del loro soccorso o arrivo. Le autorità tacciono”, ha proseguito.
La preoccupazione dell’Onu per il campo di Gargaresh in Libia
L’Onu è estremamente preoccupata per le notizie di uccisioni e uso eccessivo della forza contro migranti e richiedenti asilo a Gargaresh, oggetto di un raid da parte delle forze di polizia del governo libico che ha portato all’arresto di almeno 4000 persone. “Un migrante è stato ucciso e almeno altri 15 feriti, 6 in modo grave, quando le autorità di sicurezza libiche hanno compiuto raid contro case e rifugi temporanei di fortuna a Gargaresh, una zona di Tripoli densamente popolata da migranti e richiedenti asilo”, scrive in una nota l’assistente del segretario generale residente dell’Onu e coordinatore umanitario per la Libia, Georgette Gagnon. “Pur rispettando pienamente la sovranità dello Stato e sostenendo il suo dovere di mantenere la legge e l’ordine e di proteggere la sicurezza della loro popolazione, l’ONU invita le autorità statali a rispettare in ogni momento i diritti umani e la dignità di tutte le persone, compresi i migranti e richiedenti asilo”, si legge ancora. Secondo i rapporti di funzionari della Direzione per la lotta alla migrazione illegale, almeno 4.000 persone, tra cui donne e bambini, sono state arrestate durante l’operazione di sicurezza. Migranti disarmati sono stati molestati nelle loro case, picchiati e fucilati. Le Nazioni Unite hanno ricevuto segnalazioni di un giovane migrante ucciso da colpi di arma da fuoco. Altri cinque migranti hanno riportato ferite da arma da fuoco; due di loro sono in gravi condizioni in terapia intensiva. Ha inoltre ricevuto segnalazioni secondo cui le comunicazioni erano state interrotte con individui incapaci di comunicare, accedere alle informazioni e chiedere assistenza. La maggior parte di queste persone arrestate sono ora detenute arbitrariamente, anche in strutture di detenzione gestite dalla Direzione per la lotta alla migrazione illegale, sotto il ministero dell’Interno”.
“Le Nazioni Unite ribadiscono che l’uso eccessivo e ingiustificato della forza letale da parte delle forze di sicurezza e di polizia durante le operazioni di contrasto costituisce una violazione del diritto nazionale e internazionale”. Chiediamo alle autorità libiche di indagare sui rapporti sull’uso letale ed eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza contro i migranti nelle operazioni di ieri”. Le Nazioni Unite hanno ripetutamente condannato le condizioni disumane nei centri di detenzione della Libia in cui migranti e rifugiati sono detenuti in strutture gravemente sovraffollate con limitazioni all’accesso all’assistenza umanitaria salvavita”. “In linea con le pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e le conclusioni di Berlino, ribadiamo il nostro appello alle autorità libiche affinché pongano fine e prevengano arresti e detenzioni arbitrarie e rilascino immediatamente le persone più vulnerabili, in particolare donne e bambini”. In questo contesto, sollecitiamo nuovamente il governo a consentire immediatamente la ripresa dell’evacuazione umanitaria volontaria operata dall’Oim e dell’UNHCR e dei voli di ritorno e delle partenze di migliaia di migranti e richiedenti asilo in Libia verso destinazioni al di fuori del paese”. “Le Nazioni Unite sono pienamente pronte a collaborare con il governo libico e le autorità competenti per rafforzare la governance della migrazione, garantendo nel contempo il pieno rispetto dei diritti umani internazionali, del diritto umanitario e dei rifugiati”.
Intanto si moltiplicano gli sbarchi a Lampedusa
Sono circa 400 i migranti arrivati fra stanotte e l’alba a Lampedusa con 14 barchini, alcuni dei quali sono riusciti ad approdare direttamente sulla terraferma. Quindici tunisini, fra cui una donna e 4 minori, sono stati bloccati dai finanzieri a molo Madonnina. Gli ultimi, in ordine di tempo, a sbarcare a molo Favarolo sono stati 82 provenienti da Bangladesh, Sudan ed Egitto. Il gruppo – partito due giorni fa da Zuwara, in Libia – è stato rintracciato e soccorso dalla motovedetta Cp 319 della Guardia costiera.
Otto anni fa la strage
Lampedusa ricorda oggi la tragedia del 3 ottobre 2013, il ribaltamento del barcone in cui persero la vita almeno 368 migranti. Le vittime della sciagura, diventata il simbolo del dramma dell’immigrazione, sono ricordate in occasione della messa domenicale e con un lancio di fiori in mare. In quella circostanza ci sarebbero stati almeno altri 20 dispersi e 155 superstiti, alcuni dei quali ogni anno, il 3 ottobre, tornano a Lampedusa per ricordare questa data.
La lezione di giornalismo a un anno dalla scomparsa. Fausta Speranza, giornalista inviata dei media vaticani esperta di politica internazionale, nel ricordare lo scrittore riminese, parte da una sua sentenza: “La comunicazione deve avere le stesse remore dell’agire”.
Nella Rassegna di varia Umanità che completa la Terza parte del fascicolo troviamo una rievocazione della lezione di una grande giornalista del servizio pubblico ad un anno dalla morte. Fausta Speranza, giornalista inviata dei media vaticani esperta di politica internazionale, e già collaboratrice dello scrittore riminese, nel suo pezzo “Ricordare Sergio Zavoli tra ubriacature social e sete di inchieste” parte da una sua sentenza: “La comunicazione deve avere le stesse remore dell’agire”. Per la Speranza “Non è solo una bella frase da ricordare, magari rievocando i tempi d’oro dell’inchiesta che fu, ma deve essere il principio con il quale analizzare, da cronisti che antepongono i fatti alle considerazioni, quanto accade oggi, a partire dal proliferare di notizie e dalla sparizione delle inchieste […] Nel caso di Zavoli, si andava oltre la cronaca raccontata correttamente che è già buon giornalismo. Si aggiungeva lo slancio di scavare, andare oltre la descrizione e la ricostruzione di un fatto, per indagare su di esso, ricercarne cause e spiegazioni, e spesso svelare ciò che è nascosto, portando alla luce aspetti e circostanze ignote ai più, o – peggio – che qualcuno vuole occultare”. Per Zavoli – chiarisce – “L’inchiesta deve rimbalzare”. “Ho sempre pensato – aggiunge la Speranza – che significasse che doveva essere come una palla lanciata non per andare a segno su un obiettivo predestinato ma per raggiungere spazi inattesi. Non si può concepire, come purtroppo spesso accade, che si raccolgano prove per una tesi precostituita. Non è questo – pensava Zavoli – il valore dell’inchiesta, che piuttosto deve servire a scavare e a scoprire quello che è ignoto anche a chi decide di andare a fondo e che poi deve fare i conti con la “verità” che gli si palesa. Non è una considerazione scontata. Ci vuole onestà intellettuale e dobbiamo riconoscere che non è merce che si trova facilmente di questi tempi”.
di Fausta Speranza
“La comunicazione deve avere le stesse remore dell’agire”
Una delle figure chiave del giornalismo italiano, Sergio Zavoli, scomparso il 4 agosto 2020, ne era convinto, e amava ripeterlo. Non è solo una bella frase da ricordare, magari rievocando i tempi d’oro dell’inchiesta che fu, ma deve essere il principio con il quale analizzare, da cronisti che antepongono i fatti alle considerazioni, quanto accade oggi, a partire dal proliferare di notizie e dalla sparizione delle inchieste. Tra i dati più rilevanti da considerare c’è un fenomeno tanto sottaciuto quanto grave: oggi la disinformazione è più pagata del corretto giornalismo. Sul web è spesso involontariamente finanziata anche dai maggiori inserzionisti pubblicitari perché prevalgono meccanismi di automazione. Significa sacrificare il senso critico di una cittadinanza alla dittatura dell’algoritmo. Da tutto ciò dobbiamo partire per ragionare sul valore dell’inchiesta ai tempi dei social, tra tagli alle redazioni giustificati dalle crisi economiche, dimenticanza delle fonti accertabili camuffata da post verità, superficialità spacciata per velocità.
Del giornalismo appassionato e accuratissimo di Zavoli restano produzioni da manuale, ma forse l’eredità più preziosa sta proprio nella tensione morale, alla quale, come tutti gli umani, non sarà stato sempre perfettamente all’altezza nei suoi 96 anni di vita, ma che senza dubbio lo ha chiaramente contraddistinto non abbandonandolo mai e permeando profondamente i suoi oltre settant’anni di attività da giornalista, politico, scrittore.
Stiamo parlando della tensione a rispettare valori come la verità, la libertà, la giustizia, il senso del bene comune.
Stiamo parlando di giornalismo serio e di qualità, il solo possibile nella convinzione che Alexis De Toqueville ha ben sintetizzato avvertendo che “la democrazia è il potere del popolo informato”. Altrimenti, è potere manipolabile e manipolato.
Nel caso di Zavoli, si andava oltre la cronaca raccontata correttamente che è già buon giornalismo. Si aggiungeva lo slancio di scavare, andare oltre la descrizione e la ricostruzione di un fatto, per indagare su di esso, ricercarne cause e spiegazioni, e spesso svelare ciò che è nascosto, portando alla luce aspetti e circostanze ignote ai più, o – peggio – che qualcuno vuole occultare. Zavoli, che è stato anche presidente Rai e, una volta senatore, è stato nominato presidente della Commissione di Vigilanza Rai, ha firmato reportage che hanno aperto orizzonti di comprensione su temi come il terrorismo, il fascismo, la democrazia, la malattia mentale, la scuola. “La notte della Repubblica” o “Nascita di una dittatura” sono solo i titoli più noti, fino a “Diario di un cronista”.
“L’inchiesta deve rimbalzare”
E’ essenziale in ogni caso il rispetto della verità. Si può argomentare per secoli sui criteri di valutazione: possiamo parlare di verità oggettiva, storica o contingente, eccetera eccetera. Al di là delle possibili elucubrazioni al proposito, c’è qualcosa di profondamente “pragmatico” che Zavoli insegnava a chi ha avuto, come chi scrive, il privilegio di lavorare con lui. Ed è racchiuso in una simpatica espressione che ripeteva con convinzione: “L’inchiesta deve rimbalzare”. Ho sempre pensato che significasse che doveva essere come una palla lanciata non per andare a segno su un obiettivo predestinato ma per raggiungere spazi inattesi. Non si può concepire, come purtroppo spesso accade, che si raccolgano prove per una tesi precostituita. Non è questo – pensava Zavoli – il valore dell’inchiesta, che piuttosto deve servire a scavare e a scoprire quello che è ignoto anche a chi decide di andare a fondo e che poi deve fare i conti con la “verità” che gli si palesa. Non è una considerazione scontata. Ci vuole onestà intellettuale e dobbiamo riconoscere che non è merce che si trova facilmente di questi tempi. Ma dobbiamo anche riconoscere che, al di là della “qualità” dei giornalisti, ci vogliono anche tempo e risorse che purtroppo le testate giornalistiche non sono più disposte a concedere, se non eccezionalmente.
Futuro dell’inchiesta, post-verità e social network
Ma se pensiamo allo stato di salute attuale e al futuro dell’inchiesta, non possiamo non parlare delle implicazioni della cosiddetta post verità. E’ un termine ormai entrato nel gergo del mondo occidentale e forse ancora di più nell’attitudine mentale. Il primo a chiarirci le idee è stato il filosofo polacco Zygmunt Bauman che ha parlato di “modernità liquida” in cui tutto – compresa la verità – è individualizzato, privatizzato, incerto, flessibile, vulnerabile.
Poi abbiamo riconosciuto il concetto di post verità, che individua in sostanza le tante situazioni in cui deliberatamente, facendo leva sulle emozioni, sulle personali credenze, sui pregiudizi cognitivi della psiche di ognuno, la realtà viene distorta e si stabilisce una sequenza parallela. Si crea una realtà fittizia ma il punto è che è proprio in base a questa “verità” fittizia che molti formano le loro opinioni, attraversano e rileggono le loro esperienze. E’ qualcosa che va ben oltre l’individualismo e il relativismo ed è ben evidente quanto facilmente si sposi con il mondo dei social network. E’ un meccanismo in base al quale quanto percepito è considerato vero perché sorretto anche solo dal desiderio e dai sentimenti o dalle sensazioni cui fa appello. Il problema vero è l’impatto che tutto ciò ha sui comportamenti degli individui e delle masse. E il quesito essenziale è come far sopravvivere la ricerca del vero oltre l’apparenza – l’inchiesta – in un momento storico in cui sensazioni e sensazionalismo diventano il sostegno della realtà.
Il bisogno di verità dopo la presa di Kabul…
A ben guardare tutto ciò non significa che sia morto il bisogno dell’uomo di verità o che la verità non abbia più un peso e un valore. Solo guardando all’emergenza Afghanistan, è evidente come i talebani la temano più di ogni altra cosa. Gli attacchi ai media hanno accompagnato di pari passo la conquista di nuovi territori. Dove hanno imposto la sharia, hanno anche subito trasformato le radio locali in organi di propaganda. E tra i primi oppositori giustiziati dagli jihadisti è stato assassinato a Kabul il direttore del Government Information Media Center, Dawa Khan Menapal, figura chiave per la comunicazione del governo, già uno dei portavoce del presidente Ashraf Ghani. Se la prendono con i giornalisti, li braccano, li minacciano, li ammazzano. Le uccisioni di giornalisti, di interpreti, i raid sulle radio locali, fanno parte di un’unica strategia. Non possono permettersi alcuna narrazione che sia diversa dalle loro bugie e dalle loro fake news. Possono imporsi soltanto con la brutalità e mettendo a tacere qualunque altra verità diversa dalla loro.
— e le manifestazioni di guerriglia urbana a casa nostra
Non ci sono soltanto gli scenari estremi. Ci sono anche prospettive molto inquietanti a casa nostra. Le recenti manifestazioni di protesta in molti Paesi occidentali sono il segnale di come la pandemia stia contribuendo a destabilizzare la relazione fra i cittadini e lo Stato. Le scene di guerriglia urbana provocate a Roma e in altre città d’Italia a fine agosto dai cosiddetti “no vax” e “no pass” sono state caratterizzate da due preoccupanti elementi: l’uso della violenza e la scelta dei giornalisti e degli scienziati come obiettivo da colpire.
La pandemia ha generato frustrazione, esclusione sociale e molte altre preoccupazioni, alimentando gli atteggiamenti antigovernativi e anti-sistema.
Lo sottoscrive uno studio dell’Istituto di ricerca sulla pace di Oslo pubblicato sulla rivista Psychological Science[1]. Il gruppo di analisti ha intervistato 6 mila adulti abitanti negli Stati Uniti, in Danimarca, Italia e Ungheria ed è emerso un impressionate legame tra il carico psicologico del Covid-19 e sentimenti e comportamenti altamente distruttivi, incluso l’uso della violenza per una causa politica. Non è invece emersa una relazione consistente tra il peso della pandemia e le motivazioni a impegnarsi in forme di attivismo pacifico. Per questo – raccomanda lo studio – quando finirà, i programmi di ripresa dovranno anche riparare le relazioni tra i cittadini e il sistema politico. Senza dimenticare le relazioni tra cittadini e giornalisti, bersaglio in realtà già da prima della pandemia della furia delegittimatrice dei populismi.
Verità fa rima con libertà
Non si può cercare la verità se non si è liberi. Ma anche per il concetto di libertà bisognerebbe intendersi. E’ ovvio che il giornalista deve poter avere un margine di movimento, non può essere ingabbiato da nessuno, nei tanti modi in cui può accadere che lo sia. Ma c’è un altro punto di vista decisivo. Tra i ricordi più vivi delle riunioni di redazione con Zavoli e di alcuni scambi personali, nella memoria di chi scrive c’è un pensiero preciso formulato a seguito di alcune considerazioni del giornalista che amava definirsi cronista. Per un intellettuale, la libertà fondamentale – sembrava suggerire Zavoli – non è solo quella di muoversi in qualunque spazio senza limitazioni o con meno limitazioni possibile, ma è quella di gestire la propria interiorità. Sono bisogni e desideri, ambizioni e aspettative, se non la cupidigia di gloria, di soldi, di potere, a limitare la libertà di movimento. I legacci non sono solo al di fuori, ma dentro di noi. Tante considerazioni e tanti ricordi si potrebbero aggiungere su questo tema. Personalmente ricordo scambi intensissimi di pensieri e di dubbi sulla fede. Non vorrei o saprei raccontarli. Ma c’è un verso dedicato a Dio che, senza restituire tutto lo spessore delle riflessioni di Zavoli e della sua esperienza umana e spirituale di cui nessuno peraltro potrebbe mai davvero dire se non balbettare, mi sembra esprimere il suo anelito di conoscenza, di verità, di libertà perfino nel rapporto con l’ultraterreno, almeno nella dimensione in cui riusciamo a pensarlo.
In relazione alla fede, resta il titolo del suo libro, Il socialista di Dio, pubblicato nel 1981 da Mondadori,[3] che ha spiegato che un tempo essere socialisti voleva dire essere atei, mentre Zavoli era di fede cattolica e di animo laico. Ha segnato una sorta di superamento di una barriera, da parte di un uomo che era profondamente figlio della tradizione politica romagnola che affondava le sue radici nella difesa dei deboli ma anche nelle violente lotte anticlericali contro lo Stato Pontificio. Ma in realtà bisogna riconoscere che le definizioni non possono essere efficaci di fronte a personalità che meritano questo appellativo. E infatti, più che di superamento, dovremmo parlare di sintesi che l’uomo, il comunicatore, il poeta, ha poi personalmente espresso, tante sintesi quanti sono stati i momenti e i passaggi più significativi della sua esistenza e delle sue convinzioni religiose e politiche. Per un intellettuale vero non c’è approdo: c’è solo la tensione di un continuo viaggiare verso, cercare, attraversare significati e definizioni.
Se la superficialità è spacciata per velocità
Si è detto per anni: la radio lancia la notizia, la Tv la fa vedere, il quotidiano la spiega. Non si è capito ancora cosa debbano fare il web e i social. Si può obiettare che siamo nell’era del medium totale, ma si deve riconoscere che la rete ha gestito l’informazione prima che il mondo del giornalismo gestisse davvero internet.
Di certo c’è che si è imposto un ritmo di snellezza della notizia, corredata da video e foto che rappresentano un’ipoteca sul sensazionalismo, carente troppo spesso di vere spiegazioni.
E quel che è peggio è che la rete e i social sono diventati fonti per i media tradizionali. L’effetto principale è di stordimento e di assuefazione a un fenomeno: l’offerta in termini numerici si è esponenzialmente moltiplicata, ma troppo spesso viene riproposta la stessa notizia che conserva spessissimo anche lo stesso errore di battitura.
Tutto ciò risponde e riconduce a un pensiero disarticolato e spezzettato che sta agli antipodi rispetto al concetto di approfondimento o di inchiesta. E chi vive la realtà di tante delle redazioni di oggi si rende conto che corrisponde alla velocità con cui si fanno le riorganizzazioni aziendali.
Accade che professionisti siano surclassati da persone meno competenti scelte per dirigere settori cruciali dell’informazione perché se ne sapessero abbastanza si renderebbero conto dello scempio che si compie. L’ignoranza, se si sposa con l’ambizione partorisce obbedienza, tanto apprezzata in tempi di tagli e di sensazionalismo.
Dunque, la superficialità è servita in salsa veloce, condita da ignoranza. La distanza dall’amore per lo studio e il rispetto della competenza che si respirava accanto a Sergio Zavoli, e che peraltro ovviamente conosce altre felici eccezioni, è abissale.
E accade che, mentre i media seri stanno vivendo grosse difficoltà a livello globale, l’industria della disinformazione sta vivendo un momento particolarmente florido.
Programmi strutturati di inserzioni pubblicitarie per 2,6 miliardi di dollari all’anno firmati da top brand del settore sembrerebbero una fetta come un’altra di mercato, se non fosse che il prodotto in questione da promuovere è la disinformazione.
A tanto ammonta, infatti, l’incasso per chi produce fake news, secondo la ricerca condotta grazie alla combinazione dei dati di NewsGuard e quelli di Comscore. Si tratta rispettivamente dell’organizzazione fatta di giornalisti che monitorano la disinformazione online e dell’azienda che misura pubblico, traffico e metriche pubblicitarie per decine di migliaia di siti. NewsGuard è un’estensione per browser Internet, creata da NewsGuard Technologies.
In sostanza, si tratta di un programma che contrassegna le notizie con un’icona di colore verde oppure rosso, che permette agli utenti di riconoscere le fake news.
ComScore è una società di ricerca via internet in grado di fornire servizi e dati per il marketing in diversi settori commerciali del web. Sostanzialmente tiene un monitoraggio costante di tutti i flussi che appaiono in internet per studiare il comportamento della “rete”. Sussulti di consapevolezza.
A chi pubblica falsità, dunque, arrivano miliardi di dollari che possiamo stimare per difetto perché si tratta solo di quelli che risultano. Le piattaforme digitali che controllano gran parte del mercato pubblicitario non rendono pubblici tali dati.
Spesso le pubblicità vengono inserite automaticamente tramite algoritmi dalle piattaforme pubblicitarie digitali. Gli strumenti offerti dalle aziende tradizionali di verifica delle inserzioni, create con lo scopo di proteggere i brand dall’inserire annunci su siti inappropriati, sono efficienti nell’uso dell’intelligenza artificiale per individuare e bloccare le pubblicità su siti pornografici, o che promuovono violenza e odio.
Queste aziende sono invece generalmente inefficaci nel riconoscimento della disinformazione, che spesso si presenta esattamente come vera e propria notizia e che non può essere identificata attraverso l’uso della sola intelligenza artificiale.
Quanto valore commerciale produce il mercato delle fake news ben indirizzate
Le falsità più supportate dalla pubblicità riguardano settori estremamente sensibili per il cittadino: salute, disinformazione elettorale, propaganda. Si tratta semplicemente di notizie false ma catturano l’attenzione proprio perché l’ambito interessa. Un esempio lampante arriva da quello che è accaduto in Germania nell’estate che ha preceduto il voto di ottobre 2021. Mentre il partito dei Verdi ha continuato ad essere il principale obiettivo della campagna di falsità, le alluvioni hanno introdotto nuove narrative di disinformazione elettorale su presunti illeciti compiuti durante i disastri, incluse affermazioni secondo cui le inondazioni sarebbero state interamente orchestrate per ragioni politiche.
Il sito web anonimo N23.tv, considerato inaffidabile da NewsGuard perché viola pesantemente standard giornalistici fondamentali, ha scritto precisamente che “evidenti anomalie suggeriscono fortemente che l’inondazione di intere località e regioni sia stata voluta e forse anche intenzionalmente forzata”. L’articolo ha raggiunto oltre 60 mila utenti su Facebook, secondo i dati di CrowdTangle, uno strumento di monitoraggio dei social media di proprietà di Facebook. Va ribadito che non sempre c’è consapevolezza da parte dei brand del fatto che la loro pubblicità raggiunge siti di questo tipo.
La cosiddetta pubblicità programmatica passa per un processo automatizzato che non offre informazioni chiare e complete ai brand su dove esattamente compaiano i loro annunci e di conseguenza su quale tipo di informazioni stiano finanziando.
Ma nessuno può girarsi dall’altra parte. Ridurre o eliminare le pubblicità che inavvertitamente supportano i siti di fake news toglierebbe loro una fonte di guadagno determinante. Ben l’1,68 per cento della spesa per la pubblicità programmatica nei 7.500 siti facenti parte del campione è andata a siti che pubblicano disinformazione.
Considerando i 155 miliardi di dollari della spesa mondiale della pubblicità programmatica, si arriva alla stima di spesa pubblicitaria mondiale annua su siti di disinformazione pari ai 2,6 miliardi di dollari sopra citati. Quest’ultima ricerca arriva dopo numerosi altri report sulla sconcertante iniezione di fondi con la quale gli inserzionisti supportano inavvertitamente la disinformazione attraverso la loro pubblicità. Le notizie sono false ma ben indirizzate.
Grazie all’analisi di NewsGuard e Comscore si comprende bene il motivo per cui così tanti siti che pubblicano bufale siano in grado di generare introiti e mantenere modelli aziendali di successo. I loro articoli tendono a generare interazioni significative online e gli articoli contenenti notizie false sono spesso anche promossi dagli algoritmi dei social media. L’elemento determinante è che sono studiati per massimizzare il livello di interazione e le entrate pubblicitarie e non l’accuratezza dell’informazione e la sicurezza di chi legge. In definitiva, oggi chi pubblica disinformazione può produrre notizie false a un costo molto ridotto, a prescindere dal fatto che si tratti di notizie semplicemente inaccurate oppure dannose, e può competere in termini di engagement e introiti con organizzazioni giornalistiche legittime che spendono milioni in giornalisti, editor, cosiddetti fact-checker per produrre contenuti accurati e di qualità. Inoltre, ogni dollaro speso in pubblicità che vada a siti di disinformazione contribuisce molto più alla produzione di notizie false di quanto un dollaro speso in pubblicità che vada a media legittimi contribuisca alla “produzione” di vero giornalismo.
L’intelligenza umana come forma di resistenza al “copia e incolla” e agli algoritmi
Serve l’intelligenza umana, ovvero giornalisti formati e competenti che non si affidino al “copia e incolla” e agli algoritmi. Sembrerebbe banale ripeterlo ma invece ci rendiamo conto che non è scontata una considerazione né per giovani laureati né per professionisti: se si trova un articolo sulle pagine di un motore di ricerca o di un social media non è detto che sia scritto da un giornalista legato a regole di deontologia professionale: potrebbe, ad esempio, far parte di una campagna politica. Sarebbe fondamentale capire chi finanzi quel sito – un’azienda privata, un governo straniero – e quale sia il suo orientamento editoriale. Ma difficilmente, nonostante la delicatezza e l’importanza dell’informazione, ci si sofferma o si hanno effettivamente gli strumenti per capire. Non si tratta di valutazioni di tipo ideologico sui contenuti, ma di analisi dei criteri che assicurano affidabilità a un prodotto giornalistico.
Alcuni esempi: si controlla se quel sito citi le fonti da cui attinge per le notizie o se pubblichi smentite in caso di errori. Sembrano dettagli ma, con altre considerazioni, fanno invece la differenza. Così come un’informazione corretta fa sempre la differenza per il cittadino.
Sono considerazioni che non valgono solo per l’ambito della pubblicità. E bene lo ha argomentato Michele Mezza su questa rivista nel suo testo intitolato “Lo spillover del giornalismo”, pubblicato nel fascicolo invernale 2021. Mezza invita a
“riprogrammare le intelligenze dell’informazione”, parlando della figura del social timing manager che “non deriva né da esperienze giornalistiche né da logiche editoriali, ma direttamente dalle pratiche di esecuzione degli stilemi algoritmici”, e che “tende a chiedersi solo come postare e non perché postare”.
E’ chiara, efficace, esaustiva la sua definizione:
“La redazione diventa così sempre più un hub, una stazione di smistamento, dove il momento magico è dato dalla coincidenza che si coglie fra attenzione e contenuto”[4].
Conclusione
C’è da chiedersi quanto spazio resterà per la corretta informazione. Non per lagnarsi della delusione per le “magnifiche sorti e progressive” che la tecnologia riserva, ma per cercare di recuperare la consapevolezza che era degli antichi: nella mitologia greca e romana Atena/Minerva era dea della guerra e delle arti intellettuali. Inventare divinità non era certo un problema all’epoca: la sovrapposizione era voluta e significativa. Nella ricchezza dell’immaginario dei Classici, i due orizzonti di vita hanno in comune il valore del campo di battaglia. Battaglie profondamente diverse, anzi di concezione opposta, ma battaglie.
L’impegno intellettuale è il contrario dell’arrendevolezza. Ricordiamo Sergio Zavoli per conservare la grinta di fare e farsi domande vere e in autentica libertà. E’ bello farlo con alcuni suoi versi, ricchi del suo indimenticabile garbo e della sua indomita intelligenza: